27° incontro - 15 aprile 1999 Continua il nono capitolo Abbiamo concluso il nostro ultimo incontro leggendo un passo in cui Steiner dice, tra l’altro: “Non esamino razionalmente se la mia azione sia buona o cattiva: la compio perché l’amo”. Sarà bene dunque sottolineare che dire “perché l’amo” è cosa ben diversa dal dire “perché mi piace” o “perché la desidero”. Non si dimentichi, infatti, che l’amore non è un dono di natura, ma una conquista dello spirito: ovvero, la conquista stessa della verità, della bellezza e della bontà o, in una parola, dell’Io. Hanno perciò torto quei difensori delle norme generali che - come dice Steiner – obiettano quanto segue: “Se ciascuno ha il diritto di vivere a suo modo e di fare ciò che gli piace, non c’è più differenza fra buona azione e delitto; qualsiasi birbanteria che sia in me ha uguale titolo ad estrinsecarsi che l’intenzione di servire al miglioramento universale. Per me, come uomo morale, non deve valere di norma la circostanza che io abbia preso in considerazione un’azione seguendo un’idea, ma l’esame per vedere se essa è buona o cattiva. Soltanto nel primo caso la compirò” (pp.136-137). Vedete l’equivoco? Si parla appunto di ciò che “piace” e non di ciò che si “ama”, e ci si preoccupa di appurare se l’idea sia “buona” o “cattiva”, e non se sia davvero un’“idea”: vale a dire, un’espressione o una manifestazione dell’Io. Ci si preoccupa, in altre parole, di valutare se l’idea sia “buona” o “cattiva”, ma non se sia “buono” o “cattivo” il soggetto. Abbiamo già detto che l’idea - per Steiner – è un “recipiente d’amore”. Ebbene, preoccuparsi di giudicare se l’idea sia “buona” o “cattiva” sarebbe come preoccuparsi della qualità di un recipiente e non di quella del liquido che vi si riversa. Eppure, nella vita di tutti i giorni, non credo ci sia qualcuno che, ammirato della preziosità del bicchiere, tralasci di controllare se il liquido che contiene e che sta magari per bere, sia un nettare oppure un veleno. Questa, comunque, è un’ulteriore conferma del fatto che il soggetto viene abitualmente considerato solo sul piano psicologico (sul piano dell’ego): dagli uni per dargli voce; dagli altri invece per zittirlo. Ascoltate, al riguardo, quanto scrive De Ruggiero: “Le tesi libertarie ed autoritarie sono opposte in tutto fuor che in questo, che rappresentano ugualmente una mutilazione dello spirito umano, le une negando quei valori universali che sorpassano il mero egoismo, le altre degradando questi stessi valori a mezzi di esterna coercizione, e quindi soffocando la personalità e la dignità umana. Quelle creano degli anarchi, queste dei servi”. “Chi vuol conoscere la natura del volere umano, - prosegue Steiner - deve distinguere tra la via che conduce il volere fino a un determinato grado della sua evoluzione, e la peculiare forma che il volere assume quando si avvicina a questa meta. Sulla via verso questa meta le norme hanno legittimamente la loro parte” (p.137). Ricorderete che, parlando dell’Essere originario, abbiamo parlato di una realtà in cui la forma (il pensare) e la forza (il volere) sono ancora unite. Ebbene, se consultaste un qualsiasi testo di storia della morale vi imbattereste, a un certo punto, nella cosiddetta “grande divisione” tra l’essere e il dover-essere. Il discorso dell’essere - spiega ad esempio Fonnesu - è “descrittivo, assertivo, indicativo, dichiarativo”, mentre quello del dovere è “prescrittivo, normativo, precettivo, direttivo”. La funzione del primo è infatti di descrivere o rappresentare, mentre quella del secondo è di guidare la condotta. Il che vuol dire che il discorso dell’essere riguarda la forma (il rappresentare), mentre quello del dover-essere riguarda la forza (il volere). La “grande divisione” tra l’essere e il doveressere coincide dunque con quella tra il pensare e il volere. Ciò significa allora che l’Essere vivente originario, in quanto sintesi o unità (a-priori) dell’essere (pensare) e del dover-essere (volere), è cosa diversa da quell’essere “derivato” cui si contrappone il doveressere. Schematizzando, abbiamo infatti: Essere vivente originario essere / forma / pensare dover-essere / forza / volere Un tale stato di cose impone dunque una considerazione che gli studiosi della morale per lo più non fanno. Essi - come abbiamo appena appreso da Fonnesu – si limitano infatti a collegare l’essere col rappresentare (col discorso “teoretico”) e il dover-essere col volere (col discorso “pratico”). Ma il rappresentare - vorremmo chiedere - è da collegare con l’essere, o non piuttosto col non-essere? In questo sta l’equivoco che mina alla radice tali studi. Prendiamo ad esempio Kant: quale valore assegna al rappresentare (al pensare)? Un valore meramente “formale” (che lo induce per conseguenza a sancire la supremazia della ragion pratica su quella teoretica). A suo modo di vedere, il pensiero altro non può fare, infatti, che organizzare e sistemare, a mezzo di “categorie”, i dati forniti dall’esperienza. E questo sarebbe l’Essere? Ma vogliamo scherzare? Questo non solo non è l’Essere, ma è anzi il non-essere (dell’intelletto, se non addirittura della “pedanteria”). Ciò sta dunque a significare che, quando si parla dell’essere, si parla del pensiero riflesso e non di quello vivente, e che, quando si oppone l’essere al dover-essere, si oppone alla forza del secondo la mera forma (o il non-essere) del primo. Da questo punto di vista, potremmo perciò dire che l’uomo, quando si trova di fronte alla forza della natura, si trova di fronte a un “doveressere”. So bene che questa espressione può essere giudicata scorretta, se non perfino “scandalosa”, poiché è d’obbligo, parlando del “dover-essere”, riferirsi alla sfera morale e non a quella naturale. Ma se non ci si lascia intimidire da questo e si riflette, presto ci si accorge che la natura, più che un “essere”, è un “dover-essere”. In effetti, un minerale, una pianta o un animale non possono essere che quello che sono, e devono perciò essere quello che sono. Nella sfera della natura, il dover-essere è sinonimo di necessità. I minerali, i vegetali e gli animali sono infatti nell’Essere, ma, proprio perché sono nell’Essere, questo è per loro un dover-essere. Solo l’uomo, essendo “uscito” col proprio pensiero dall’Essere (ed essendo “entrato” per ciò stesso nel non-essere), può sperimentare il non-essere come libertà (come libertà “da”). Qual è allora il problema? Il problema è che l’uomo, benché si sia servito per un lungo tratto del suo cammino del dover-essere morale per fronteggiare e contrastare il dover-essere naturale (che avrebbe preso altrimenti il sopravvento sul suo non-essere), deve imparare adesso a trasformare il non-essere (del pensiero morto) nell’essere (del pensiero vivente) e il dover-essere (della volontà naturale) nel voler-essere (della volontà spirituale). Ove si riesca a effettuare una simile trasformazione, si scopre, però, che l’essere vivente (il pensiero vivente) è l’essere del volere così come il voleressere è il volere dell’essere: si scopre, cioè, che l’essere vivente (del pensiero) e il voleressere (della volontà) sono soltanto due aspetti dell’unica realtà dell’Io. Dal punto di vista culturale abbiamo quindi, schematizzando: Essere dover-essere (morale) cultura Antico Testamento dover-essere (naturale) natura Paganesimo In principio, - come abbiamo detto – l’Essere è sintesi di forma e di forza; poi si scinde nell’essere e nel dover-essere. Ma l’essere - secondo quanto abbiamo appena visto - è in realtà un non-essere (un essere “caduto”). In quanto tale, può svincolarsi, nell’uomo (nella testa), dal dover-essere della natura (in cui è attiva ancora la forza dell’Essere originario), ma non ancora contrastarlo o sottometterlo. Per far questo, si deve infatti far forte del dover-essere della cultura (ossia, della legge morale). Ecco perché la legge educa il volere umano: lo educa perché, senza la sua forza prescrittiva (e senza il timore delle sanzioni conseguenti alla sua trasgressione), verrebbe del tutto soggiogato dalla natura. E non già “innocentemente”, com’è per i minerali, i vegetali e gli animali che sono nella natura, bensì “peccaminosamente”, in quanto, essendosi ormai l’uomo emancipato dalla natura, può unicamente regredirvi. “Alla natura - dice per l’appunto Steiner, ne La realtà dei mondi superiori - è consentito di essere natura solo fuori dell’uomo; entro l’uomo, ciò che è natura si trasforma in qualcosa di contrapposto alla natura (…) Fuori di noi la natura è neutrale nei confronti del bene e del male; dentro di noi essa è distruttiva, è malvagia, porta al male anche sul piano del corpo”. Fateci caso, quando ci capita di avere notizia di qualche fatto particolarmente efferato (e ciò capita purtroppo di frequente), non siamo spesso portati a definirlo “bestiale”? Ma quella del “bestiale” non è, a ben vedere, né una categoria “umana” né una categoria “animale” (né tantomeno “vegetale” o “minerale”). E a quale sfera compete allora? Appunto a quella della natura nell’uomo che - come abbiamo appena udito dire da Steiner - è un “qualcosa di contrapposto alla natura”, di “distruttivo” e di “malvagio”. “L’impulso cieco che spinge al delitto - dice dunque Steiner, riferendosi sempre all’obiezione dei “difensori delle norme morali generali” - non nasce dall’intuizione e non appartiene a ciò che è individuale nell’uomo, bensì a quanto in lui vi è di più generale, e da cui l’uomo si trae fuori col lavoro del suo elemento individuale. L’individuale in me non è il mio organismo coi suoi impulsi e i suoi sentimenti, ma il mondo unitario delle idee che risplende in questo organismo” (p.137). Prima di continuare nella lettura, vorrei comunque proporvi un altro schema: uno di quelli di cui ci siamo serviti nel corso dello studio della parte noetica, ma riadattato qui in chiave etica. io o ego - pensare - forma - etica soggettiva Io non-io o non-ego - volere - forza - etica oggettiva Nella parte superiore, abbiamo dunque l’io (abituale) o l’ego, vale a dire la coscienza rappresentativa dell’Io che, dell’Io (centrale) ci dà la forma (ideale), ma non la forza (reale). In quella inferiore, abbiamo invece il non-io o non-ego. Notiamo ancora una volta che è dall’Io che nasce il non-io: ovvero, quella forza o realtà dell’Io di cui siamo normalmente incoscienti. Orbene, nella parte superiore abbiamo il fondamento di tutta l’etica soggettiva: ossia, di quella dell’anima o - per dirla col De Ruggiero - degli “anarchi”; in quella inferiore abbiamo invece il fondamento dell’etica oggettiva: vale a dire, il fondamento sia dell’etica che vorrebbe reggersi sul corpo (sulla legge naturale) sia di quella che vorrebbe reggersi sullo spirito (sulla legge morale). In un caso e nell’altro, abbiamo perciò qui il fondamento - per dirla ancora col De Ruggiero - dell’etica degli “schiavi”. Laddove è l’io (abituale) o l’ego, abbiamo dunque una morale soggettiva che ha il torto, in quanto appunto “soggettiva” e quindi “psicologica”, di non essere davvero “spirituale”, e quindi “morale”, mentre, laddove è il non-io o il non-ego, abbiamo una morale oggettiva che ha il torto di riporre il proprio fondamento all’esterno del soggetto: in un caso nella sfera della materia, nell’altro nella sfera trascendente dello spirito. Ne consegue, pertanto, che la prima (quella soggettiva), volendo essere umana, non riesce a essere propriamente un’etica, e che la seconda (quella oggettiva), volendo essere un’etica, non riesce a essere propriamente umana (in quanto – direbbe Croce – sottomette “la vita dello spirito all’incubo di un fantasma”). Nella sua versione materialistica, soggetto di quest’ultima è ad esempio il cervello: “complessa formazione – recita questo testo di medicina - capace di elaborare i segnali che riceve, di memorizzare informazioni, di prendere decisioni, e che pertanto costituisce l’organo di controllo del comportamento”. Come vedete, sarebbe appunto il cervello, e non il soggetto, ad avere la responsabilità di “prendere decisioni”. Nella sua versione spiritualistica, soggetto dell’etica è invece un’entità trascendente che, essendo separata dall’uomo da un invalicabile abisso (“Fino a quando – dice il Salmo – mi nasconderai il tuo volto?”), può comunicargli la propria volontà solo per mezzo della legge. Come vedete, abbiamo dunque, da una parte, un’etica dell’ego e, dall’altra, un’etica del non-ego: che cosa manca allora? È ovvio: un’etica dell’Io. Difatti, come afferrando e sperimentando il pensare si afferra e sperimenta una realtà che si trova al di là del soggetto e dell’oggetto, così afferrando e sperimentando il volere (nel pensare) si afferra e sperimenta una realtà che si trova al di là dell’etica soggettiva e di quella oggettiva. Sono queste, infatti, etiche del “pensato” e non del “pensare”. Notiamo di nuovo, perciò, che, cominciando a vivere (a essere) nel movimento del pensare, si comincia a vivere (a essere) all’interno di una forza che, se amorevolmente e pazientemente sviluppata, può condurci all’Io e, attraverso l’Io, al Logos. Steiner, in una conferenza sul tema Filosofia e antroposofia, afferma appunto: “Il pensiero puro è il creatore dell’Io”. Vedete questo libro? S’intitola Per una filosofia della libertà e il suo autore è il celebre John Stuart Mill. Ebbene, Mill parla qui della libertà come se questa riguardasse solo le relazioni tra gli individui. Ma la libertà, così intesa, rappresenta un problema “giuridico” e non un problema “morale”. Un conto è infatti la libertà dell’individuo in rapporto agli altri e al “potere”, un altro la libertà dell’individuo in rapporto a sé stesso. In altre parole, una cosa è la libertà dell’individuo, altra la libertà nell’individuo; ed è da quest’ultima, a ben vedere, che dipendono, essenzialmente, tanto quella di cui si gode rispetto agli altri quanto quella di cui si gode rispetto al “potere”. “Non c’è nulla fuori dell’uomo - si dice appunto in Marco - che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo (…) Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo”. La libertà nell’individuo viene però presa di rado in considerazione. Perché? Perché manca una vera scienza dell’uomo. Abbiamo appena visto che - secondo il Vangelo - “sono le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”. Ma queste da dove “escono”? Dal corpo fisico, dal corpo eterico, dal corpo astrale o dall’Io? Cioè a dire, dalla nostra parte minerale, da quella vegetale, da quella animale o da quella propriamente umana? E se la soluzione del problema morale stesse proprio nel fatto di far “uscire” da sé ciò che è umano, anziché ciò che è animale, vegetale o minerale? In effetti, ove si realizzasse che ovunque l’uomo fa del male lo fa perché non è “Uomo”, apparirebbe allora chiaro che l’uomo, per diventare “buono”, dovrebbe in primo luogo diventare “Uomo”, e non soltanto osservare regole e precetti. “Un’azione viene sentita come libera - dice Steiner - in quanto la sua causa provenga dalla parte ideale del mio essere individuale; ogni altra parte di un’azione, che venga eseguita sia per forza di natura, sia per costrizione di una norma morale, viene sentita come non libera. Libero è l’uomo quando in ogni momento della sua vita è in grado di ubbidire a se stesso (…) L’azione secondo libertà non esclude ma include le leggi morali: sta solo più in alto rispetto a quell’azione che è dettata unicamente da tali leggi” (p.138). Vedete, Steiner avrebbe potuto anche dire: “Un’azione viene sentita come libera quando provenga dall’Io”. Se non lo ha detto, è perché ha voluto ribadire il fatto che l’Io, per sentire libera l’azione che compie, deve prima porne liberamente la causa in forma d’idea. Se l’idea è posta, l’azione sarà infatti libera, se è imposta, sarà invece non libera. In definitiva, la lezione de La filosofia della libertà è ch’è solo da un libero pensare che può scaturire un libero volere. Ricorderete che, sin dall’inizio del nostro studio, ho cercato di mettere in luce il fatto che tanto i sostenitori del libero arbitrio quanto i deterministi si fermano al corpo astrale (alla psiché) e non arrivano a considerare l’Io. Ricorderete inoltre che il corpo astrale è detto anche “corpo causale” (soprattutto dai teosofi) in quanto è il “corpo” dei concetti o delle idee: di quei concetti o di quelle idee, cioè, che altro non sono che “leggi”. In natura, ad esempio, la “specie” è appunto “idea”, ma anche inderogabile “legge esistenziale” di tutti gli esseri che comprende. La forma di un cristallo, di un fiore o di un animale è la sua legge o il suo destino. Nell’uomo, legge è il corpo fisico (la costituzione), legge è il corpo eterico (il temperamento) e legge è il corpo astrale (il carattere). Solo l’Io non è legge, bensì libertà. E come l’Io, stando “più in alto” del corpo astrale, del corpo eterico e di quello fisico, li “include” e non li “esclude”, così “l’azione secondo libertà”, stando “più in alto” dell’azione dettata dalle leggi morali, la “include” e non l’“esclude”. “Ma come è possibile una convivenza fra gli uomini - potrebbe osservare qualcuno - se ciascuno si sforza soltanto di far valere la sua individualità?”. “Ecco un’altra obiezione risponde Steiner - del moralismo mal compreso. Esso crede che una comunità di uomini sia possibile solo quando essi siano tutti riuniti da un ordine morale collettivo stabilito. Questo moralismo non capisce l’unicità del mondo delle idee. Non capisce che il mondo delle idee attivo in me non è diverso da quello attivo nel mio simile” (p.139). Come abbiamo distinto, in precedenza, tra quel che si “ama” e quel che “piace”, così dobbiamo ora distinguere tra “individualità” (spirituale) e “soggettività” (psichica). Ove ciascuno si sforzasse di far valere soltanto la propria “soggettività”, la convivenza fra gli uomini sarebbe effettivamente impossibile. È comprensibile, quindi, che qualcuno cerchi allora di favorire tale convivenza imponendo a tutti di osservare delle norme che stiano al di sopra della sfera della soggettività. Tali norme, tuttavia, stanno al di sopra, ma all’esterno della sfera soggettiva, mentre l’Io sta al di sopra, ma all’interno della stessa. Vedete, chi fa sua l’etica soggettiva è in qualche modo “presago” dell’immanenza dell’Io e si ribella pertanto all’idea di dover mortificare l’anima (l’ego) in nome dello spirito (del non-ego), mentre chi fa sua l’etica oggettiva è in qualche modo “presago” della trascendenza dell’Io e si ribella pertanto all’idea di dover mortificare lo spirito (il non-ego) in nome dell’anima (dell’ego). Come si vede, tanto i primi che i secondi, non sanno concepire la trascendenza nell’immanenza e l’immanenza nella trascendenza (vale a dire, l’Io nell’ego e l’ego nell’Io). Ma non sanno farlo, perché non sanno distinguere la forza (l’essere) dell’Io dalla sua forma (dal suo esistere). In proposito, ho fatto altre volte l’esempio del girino e della rana. La rana è immanente al girino come forza (come essenza), ma gli è trascendente come forma (come esistenza). E come non è lecito ridurre la forma (l’esistenza) della rana (dell’Io) a quella del girino (dell’ego), così pure non è lecito separare la forza (l’essenza) del girino (dell’ego) da quella della rana (dell’Io), cominciando magari, con la scusa di favorire lo sviluppo della seconda, a mortificare o schiacciare il primo. Va comunque detto che, per poter liberamente ricercare e raggiungere l’Io (ossia, l’archetipo dell’ego), occorre prendere le mosse dall’etica soggettiva (autonoma). L’etica oggettiva (quella che mira a “un ordine morale collettivo stabilito”) non solo infatti non ammette, come l’altra, “l’unicità del mondo delle idee”, ma tende pure, al contrario dell’altra, ad agire in modo autoritario, e quindi ad avversare anche “la molteplicità del mondo delle opinioni”. Lungo il cammino che conduce alla vera e piena libertà, l’etica soggettiva costituisce dunque un ostacolo, ma quella oggettiva ne costituisce uno ancora maggiore. Vedete, non capire “l’unicità del mondo delle idee”, significa non capire che la sfera del pensiero (dei concetti o delle idee) già unifica gli esseri umani, e che se questi non riescono ancora a vivere fraternamente è perché non riescono ancora a portarsi con la propria coscienza a tale livello. “Non importa affatto – scrive appunto Steiner, ne Le opere scientifiche di Goethe – che i singoli concetti e giudizi dei quali il nostro sapere si compone, siano d’accordo; l’importante è che alla fine essi ci conducano a navigare al seguito dell’idea. Ivi devono, per ultimo, incontrarsi tutti gli uomini, se un pensare energico li conduca al di là del punto di vista particolare”. Inutile dire che una unificazione di tal genere va intesa quale musicale armonia: ovvero, quale armonia del volere di tutte quelle note che dicono: “Io” (“l’unità originaria dei molti “Io” - scrive infatti Scaligero - è la sorgente metafisica che nel mondo si attua come amore”). In questa luce, il passaggio dall’etica dell’ego (soggettiva) a quella dell’Io potrebbe essere anche paragonato al passaggio dalla “monodia” alla “polifonia”. “La differenza fra me e il mio simile - continua Steiner - non consiste per nulla nel fatto che noi viviamo in due mondi spirituali completamente diversi, ma nel fatto che, da un comune mondo d’idee, egli riceve intuizioni diverse dalle mie. Egli vuole esplicare le sue intuizioni, io le mie. Se entrambi veramente attingiamo dall’idea, senza seguire alcun impulso esterno (fisico o spirituale), possiamo allora incontrarci unicamente negli stessi sforzi, nelle stesse intenzioni. Un malinteso morale, un urto, è escluso fra uomini moralmente liberi. Solo l’uomo moralmente non libero, che segue l’impulso naturale o il comandamento del dovere, respinge il suo prossimo, quando questi non segue lo stesso istinto o lo stesso comandamento. Vivere nell’amore per l’azione e lasciar vivere nella comprensione della volontà altrui è la massima fondamentale degli uomini liberi” (p.139). Ricordate quando, parlando del percetto e del concetto, abbiamo detto che sono entrambi “mondo”? Ebbene, come da un “comune mondo” di animali, colui che vive in Africa ricava la conoscenza dei cammelli, mentre colui che vive in Australia ricava quella dei canguri, così da un “comune mondo d’idee”, il mio vicino ricava le sue intuizioni e io le mie. E come due pescatori, pur avendo tratto da un comune mondo marino due pesci diversi, s’incontrano nella comune passione della pésca, così due uomini liberi, pur avendo tratto da un “comune mondo d’idee” due intuizioni diverse, s’incontrano “negli stessi sforzi e nelle stesse intenzioni”. Tale “comune mondo” non è però quello delle rappresentazioni né quello delle immagini percettive, bensì quello dei concetti. “La differenza fra me e il mio simile” consiste dunque nel fatto che entrambi, in funzione delle nostre diverse nature (ossia, delle nostre diverse costituzioni, dei nostri diversi temperamenti e dei nostri diversi caratteri), sperimentiamo diversamente (soggettivamente) tale mondo dei concetti. Pensate ad esempio alle lingue. Noi italiani, diciamo “sedia”, gli inglesi dicono “chair”, i francesi “chaise” e i tedeschi “stuhl”, ma quando mai ci s’intenderebbe se tutti questi termini non si riferissero che a uno stesso concetto? “Un malinteso morale, un urto - dice Steiner - è escluso fra uomini moralmente liberi”. Perché? Perché è come se dicessi: “Non pretendo che tu faccia questo, ma sono sicuro che lo faresti se fossi libero; quindi me lo aspetto, perché mi aspetto che tu sia libero”. “Il libero - dice per l’appunto Steiner - non pretende dal suo simile una concordanza, ma se l’attende perché essa è insita nella natura umana” (p.140). Ne consegue che chi non riesce a fare una certa cosa, o a comportarsi in un certo modo, deve essere aiutato a rendersi libero e, rendendosi libero, a essere più capace d’amore. Ecco perché non si deve pretendere nulla, ma ci si può aspettare tutto. È questa la responsabilità che abbiamo nei confronti di noi stessi, degli altri e del mondo. “La misura dell’essere dell’uomo - scrive in proposito Scaligero - è la capacità di amare: la capacità di donarsi”. “Con ciò - dice ancora Steiner - non si è inteso accennare alle necessità imposte da questo o da quell’ordinamento esteriore, ma alla mentalità, alla disposizione d’animo, per cui l’uomo nell’esperienza che egli fa di se stesso in mezzo ai suoi simili da lui stimati, si adegua più di ogni altro alla dignità umana” (p.140). Non si tratta dunque di fare materialmente questo o quello, ma di fare appunto questo o quello con la “mentalità”, la “disposizione d’animo” o lo “spirito” giusto. Ove si sia infatti animati da uno stesso spirito (dall’Io), pur facendo uno la cosa A, un altro la cosa B, e un altro ancora la cosa C, mai si colliderà poiché l’unicità, l’uguaglianza o la medesimezza dell’impulso originario esclude la possibilità di un conflitto. Soltanto in questo possono davvero radicarsi la tolleranza e la fratellanza. Sentiamo dire, talvolta: “Non sono d’accordo con te, perché io parto da un altro principio”. Bene, c’è chi parte da un principio e chi da un altro. Ma da dove partono questi principi? Qual è, ossia, il loro Principio? Vedete, i principi non sono che delle forme diversamente determinate che, in quanto tali, possono essere anche in contrasto tra loro. L’unità ch’è pertanto impossibile al loro livello, è però possibile al livello del Principio che tutte le determina e pone. Ecco il punto d’incontro. Com’è vero, del resto, che siamo tutti figli di Dio, così è vero che tutte queste forme (queste idee) sono figlie dell’Io. La vera difficoltà sta piuttosto nel fatto che tale Principio, pur essendo all’origine di tutte le forme, in sé non ha forma, ed esige perciò di essere sperimentato così come vengono sperimentati (un’“ottava sotto”) i concetti e le idee. È solo così, di fatto, che può essere positivamente pensata e realizzata l’uguaglianza. Come c’insegna purtroppo la storia, allorchè si tenta di dare a quest’ultima una forma (politica, giuridica o economica che sia) non si ottiene infatti l’“uguaglianza”, bensì l’“uniformità” o il “conformismo”(o – come si usa dire oggi – l’”omologazione”). Dice ancora Steiner: “Molti a questo punto osserveranno: “Il concetto dell’uomo libero che tu tracci è una chimera, non si realizza in nessun luogo; noi però abbiamo da fare con uomini reali, e nella loro moralità c’è da sperare soltanto se essi ubbidiscono a un comandamento, se concepiscono la loro missione morale come un dovere, e non seguono liberamente le loro inclinazioni e il loro amore”. Non ne dubito affatto. Soltanto un cieco lo potrebbe. Ma allora, se questa dovesse essere l’estrema nostra concezione in proposito, bando ad ogni finzione di moralità! Dite allora semplicemente: “La natura umana deve essere costretta alle sue azioni, finché non è libera”” (p.140). Dobbiamo riconoscere che una “finzione” del genere non la si può di certo rimproverare all’ebraismo. “Sarebbe stato meglio - dichiara il Talmud (secondo quanto riferisce Bertola) - che l’uomo non fosse mai stato creato”. Infatti, spiega sempre Bertola: “Secondo i rabbini giudei, l’uomo abbandonato a quello che noi diciamo essere il suo stato naturale, non compirebbe affatto azioni buone, ma soltanto saccheggi e rovine”. Dal momento che “la natura umana è naturalmente portata al male” – conclude - s’impone quindi “la necessità di regolare ogni istante della vita dell’uomo con una serie di prescrizioni a carattere legale”. Riparleremo di questo allorché esamineremo (nel tredicesimo capitolo) l’“ottimismo” e il “pessimismo”. Per ora, torniamo invece a noi e ascoltiamo quanto dice ancora Steiner: “ Non si affermi però che un simile uomo possa con diritto chiamare sua un’azione a cui è spinto da una forza estranea. Ma dal mezzo di quest’ordine forzato si elevano gli spiriti liberi, che trovano sé stessi entro gli impacci del costume, dell’imposizione legale, della pratica religiosa, e così via. Liberi sono in quanto seguono solo sé stessi, non liberi in quanto si sottomettono. Chi di noi può dire di essere in tutte le sue azioni veramente libero? Ma in ciascuno di noi alberga un’entità più profonda nella quale si esprime l’uomo libero. La nostra vita si compone di azioni libere e non libere. Ma non possiamo pensare fino in fondo il concetto dell’uomo, senza arrivare allo spirito libero come all’espressione più pura della natura umana. Noi siamo veri uomini solo in quanto siamo liberi” (pp.140141). Teniamo dunque presente che lo spirito libero non è cosa fatta, ma cosa da farsi o, per meglio dire, non è tanto un’idea quanto piuttosto un ideale. Dice infatti Steiner: ““Questo è un ideale”, diranno molti. Senza dubbio, ma un ideale che nella nostra entità si fa strada come elemento reale verso la superficie. Non è un ideale pensato o sognato, ma un ideale che ha vita e che si annunzia chiaramente, pur nella forma più imperfetta” (p.141).