A11
403
Alain Jean Maurice Goussot
L’approccio transculturale
di Georges Devereux
Copyright © MMIX
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–2444-7
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: aprile 2009
Indice
Introduzione .................................................................................
7
Capitolo I
Il paradosso Georges Devereux: dall’etnopsichiatria alla
psicoterapia transculturale .....................................................
13
Capitolo II
Chi era Devereux? Un meticcio ..............................................
21
Capitolo III
L’approccio transculturale in etnopsichiatria e etnopsicoanalisi: l’approccio metodologico ..........................................
27
Capitolo IV
Complementarismo ed indeterminazione nella pratica
transculturale ..........................................................................
35
Capitolo V
I rischi dell’identità: le fonti della riflessione di Devereux ....
39
Capitolo VI
La teoria della riduzione unidimensionale dell’identità
etnico–culturale: l’identità etnica superinvestita ...................
53
Capitolo VII
Acculturazione, identità culturale e stress culturale ...............
59
5
6
Indice
Capitolo VIII
Disturbi psichici e disorientamento psicoculturale: per la
costruzione di una psicologia transculturale ...........................
69
Capitolo IX
Gli ostacoli psicoculturali nella comunicazione terapeutica: l’angoscia e il controtransfert ...........................................
81
Capitolo X
L’angoscia dell’incontro: il controtransfert nella relazione interculturale .......................................................................
91
Capitolo XI
Il caso Jimmy Picard: indiano delle pianure del Nord
America .................................................................................... 105
Capitolo XII
L’attualità dell’approccio transculturale di Devereux: la
relazione con gli immigrati ...................................................... 125
Capitolo XIII
Come applicare Devereux? Un esempio concreto: Il colloquio .......................................................................................
Quale scambio tra persone immigrate e operatori nei
servizi? ................................................................................
Lo spazio antropologico del servizio ..................................
L’habitus della persona immigrata ......................................
Il colloquio come dono .......................................................
All’ascolto della molteplicità ..............................................
La pratica transculturale e meticcia come pratica della
prossimità ............................................................................
147
147
149
152
155
157
160
Conclusioni ................................................................................... 163
Bibliografia ................................................................................... 167
Introduzione
Perché un libro su Georges Devereux, scritto da un non psichiatra?
E chi era questo pensatore di cui si parla in Italia e al quale diversi esperti o operatori terapeutici, e non solo, si riferiscono?
Prima di tutto, come si tenterà di spiegare in questo libro, per colmare quello che ci sembra un vuoto e per affrontare anche un paradosso italiano.
Con l’arrivo degli immigrati, diversi operatori sanitari e sociali si
pongono il problema del come reimpostare il loro lavoro tenendo conto del pluralismo culturale ormai esistente in Italia e dei mutamenti
antropologici intervenuti negli ultimi venti anni.
Nello sforzo di comprendere, non poteva non comparire il nome di
Georges Devereux, l’uomo che può essere considerato effettivamente il
vero fondatore di quella che viene chiamata etnopsichiatria e che lui
chiama prima psichiatria transculturale e successivamente psichiatria
metaculturale. Con questa ultima espressione voleva indicare che lo studio della sofferenza psichica e delle psicopatologie, in diversi contesti
culturali e con persone provenienti da una grande varietà di orizzonti culturali, portava ad individuare una “unità psichica dell’umanità”.
Questo sembrava contraddire il lavoro di tutta una vita, cioè lo studio attento del nesso tra cultura, personalità e sviluppo psicologico; in
realtà Devereux sottolineava che era importante comprendere il funzionamento psichico sia dal punto di vista delle sue forme e dei suoi
meccanismi che dal punto di vista dei contenuti, dei materiali prodotti:
per lui le forme sono simili ovunque mentre i contenuti cambiano da
un contesto culturale specifico ad un altro. La comprensione del com7
8
Introduzione
portamento umano e della sua configurazione psicologica dipende
dunque dall’unità di questi due aspetti che rappresentano l’integrazione della personalità, di ogni personalità in diversi luoghi, cioè il
nesso tra similitudine e differenza.
Inoltre le considerazioni di Devereux sull’identità, la sua costruzione
e la sua rappresentazione, sono di grande attualità per chi si occupa oggi
di immigrazione in quanto si corre spesso il rischio di una concezione
unidimensionale e statica dell’identità, di quello che lui chiamava
“l’iperinvestimento dell’identità”; cioè il rischio di vedere un lato solo
dell’identità che invece si configura come un sistema molteplice e complesso che permette, pure nei cambiamenti, la “connessione con sé” e
quindi di orientarsi con “nuove mappe mentali” senza abbandonare le
vecchie, attraverso un processo che egli ha chiamato “complementare”.
È la storia dei nostri migranti o degli indiani delle riserve del Nord
America che avrà così a cuore, i quali si trovano a dover reinterpretare
se stessi in un contesto nuovo adattandosi ed orientandosi creativamente in un modo tale che permetta loro, tuttavia, di non “perdersi”
cioè di non perdere se stessi e di mantenere la “connessione con sé”.
Nelle situazioni di “stress culturale”, o di traumatismo psico–
culturale, la connessione s’interrompe e i cambiamenti non producono
più senso ma solo confusione, disorientamento e dissonanza semantica
e cognitiva. Un processo di questo tipo, che Devereux osserva tra gli
indiani delle riserve ma anche tra alcuni immigrati negli Stati Uniti,
può portare a forti disturbi della personalità e a delle vere e proprie
psicopatologie.
Per affrontare queste situazioni Devereux era convinto che bisognasse combinare approccio sociologico e approccio psicologico, in
una prospettiva “complementaristica”, e che fosse anche necessario
non perdere di vista la dinamicità del vissuto della persona, la sua storia reale, dentro la quale vi sono gli elementi culturali di origine, ma
anche le contaminazioni avvenute attraverso un processo di acculturazione spesso brutale e poco rispettoso dell’identità dell’indiano come
dell’immigrato.
Sul piano del metodo Devereux propone di evitare una “etnicizzazione” della terapia poiché convinto che nei processi di sofferenza
mentale avviene addirittura una “deculturalizzazione dei tratti culturali”; certo il terapeuta deve conoscere il mondo etnicoculturale dal qua-
Introduzione
9
le proviene il paziente, ma deve evitare di sostituire al racconto del
paziente le proprie categorie di classificazione, comprese quelle culturali.
Devereux parla dell’importanza del controtransfert e dell’importanza per il terapeuta di sapere analizzare continuamente se stesso
durante il processo di cura; per lui questo è possibile solo nella misura
in cui il terapeuta riconosce in sé, come nel paziente, un essere capace
di produrre “Cultura”, che è la caratteristica di tutti gli esseri umani, in
tutti i luoghi e in tutti i tempi. Quindi, sapere riconoscere questo aspetto tipicamente umano dell’esistere vuol dire riconoscere nell’altro la
stessa umanità che si riconosce a se stessi.
Devereux ha legato etnologia — o meglio antropologia sociologia, storia e psicoanalisi, ha riletto Freud in modo originale alla luce
dei suoi lavori etnologici con gli indiani Mohave e degli insegnamenti
dei grandi etnologi francesi Lévy–Bruhl e Marcel Mauss, ha ripreso i
lavori dell’antropo–psicoanalista ungherese Gezà Roheim sulla natura
e la funzione della Cultura ed ha applicato queste teorie al suo lavoro
sul campo.
Tutta l’opera di Devereux è una riflessione sul tema dell’incontro
con l’altro come conoscenza del sé, cioè della scoperta che l’altro è
dentro di noi e che la conoscenza della sua diversità ci aiuta a conoscerci meglio. Inoltre non affronta solo il tema dell’incontro con
l’altro in contesti culturali diversi, ma anche in epoche diverse, infatti
divenne uno dei maggiori specialisti ed esperti di mitologia greca antica. In fondo l’incontro con i greci dell’antichità è stato, per lui, un altro modo di ragionare sul tema dell’alterità.
Devereux il meticcio, di origine ungherese, scolarizzato in rumeno,
proveniente da una famiglia di origine ebraica, vissuto tra Francia e
Stati Uniti, visitatore dell’Asia, grande conoscitore delle culture indiane del Nord America, non poteva che fare dell’opera di tutta la sua vita una riflessione sul tema dell’identità. In fondo tutto il suo lavoro ha
un carattere autobiografico. La stessa scrittura di Devereux, apparentemente complessa e intricata, è in realtà l’espressione di una struttura
linguistica meticcia; scriverà molto poco nella sua lingua madre, il
magiaro, lo farà soprattutto in francese e in inglese. La lettura dei suoi
testi è spesso complicata per il carattere transculturale dei codici linguistici che usava nella scrittura. Devereux vedeva nella similitudine
10
Introduzione
mentale tra gli esseri umani il punto fondamentale per un riconoscimento delle differenze.
Scrive nel suo libro Donna e Mito, dedicato alla figura della donna
nella mitologia greca:«Ho affermato, venticinque anni fa, che la buona
società è quella che sa approfittare del fatto che un individuo differisce dai suoi simili; è in tali società che fioriscono i geni»; quindi la
differenza come valore, in quanto ci rende in fondo simili agli altri.
Ci invita a ripensare la relazione con l’altro come paradigma della
relazione con noi stessi; afferma esplicitamente in De l’angoisse à la
méthode che la stessa esperienza etnologica acquisita sul campo è «un
mezzo per ridefinire la propria identità», la conoscenza di sé passa per
l’altro.
Ricorda una sua esperienza personale con l’antropologa Margaret
Mead:
All’inizio dell’anno 1957, Margaret Mead mi utilizzò come informatore sulla
cultura ungherese [Devereux era nato a Lugoj, città magiara attualmente in
Romania]. Fu un’esperienza memorabile, che aumentò ancora di più la mia
fede, già molto grande, nella validità di questi dati etnografici, poiché la sua
abilità ad interrogare l’informatore, me stesso, era allucinante. Quando
l’intervista passò dall’inchiesta sui fatti alla messa alla prova di alcune inferenze ad hoc della Mead, che potevo confermare quasi senza eccezione, cominciai a rendermi conto che aveva saputo ottenere un gran numero di aspetti
della cultura ungherese di cui prima non sospettavo l’esistenza. (De
l’angoisse à la méthode , p. 34)
Basta questo brano per rendersi conto dell’attualità di queste considerazioni rispetto a come dovrebbero essere formati e preparati oggi i
cosiddetti mediatori culturali di origine straniera; infatti per Devereux
«vi è tanto controtransfert nell’auto–etnografia quanto nell’autoanalisi». “Io e l’altro” sono il frutto di un processo relazionale che deve farci scoprire quello che ci rende contemporaneamente simile e diverso dall’altro, occorre raggiungere la consapevolezza che tutto dipende dal locus di chi osserva nella relazione, e che ogni sguardo non
può essere che parziale e deformante.
Devereux citava il caso di Montesquieu e delle sue Lettres persanes, dove il filosofo aveva voluto descrivere ed analizzare la società
francese, cioè il proprio mondo culturale, inventandosi la storia di un
viaggiatore persiano capitato a Parigi che inviava ad un suo conoscen-
Introduzione
11
te delle lettere dove descriveva il modo di vivere dei francesi. Fu un
fallimento perché Montesquieu non poteva avere lo sguardo di un persiano ed avere il distacco necessario verso la propria cultura.
Ognuno verso la propria cultura è affetto da “strabismo culturale”
mentre verso un’altra deve controllare le proprie proiezioni. Insomma
eguaglianza e diversità, similitudine e differenza sono parte integrante
di un unico processo psicologico e relazionale mediato dall’universo
socio–culturale.
Non tener conto di questa integrazione complessa ci fa correre un
doppio rischio:
1) smarcarsi dagli stranieri presuppone talvolta il credo che solo il
gruppo a cui si appartiene sia autenticamente umano o per lo
meno sia l’archetipo dell’umanità;
2) un’altra manovra di dissociazione consiste nell’esagerare le differenze e nel sottolineare in modo ossessivo ciò che è unico: per
esempio esagerando sistematicamente alcuni tratti e minimizzando l’importanza di un modello soggiacente, l’interdipendenza e la compensazione reciproca dei diversi tratti. La ricerca
di ciò che è unico e specifico induce praticamente alcuni analisti
del comportamento a negare l’unità psichica dell’umanità e ad
attribuire una psicologia “speciale” ad ogni gruppo etnico (cit.,
p. 45).
Devereux enuncia qui uno dei maggiori problemi che viviamo oggi: l’oscillazione quasi schizofrenica tra l’esaltazione della propria diversità e la svalutazione di quella dell’altro, cioè la riduzione unidimensionale e deformante di una realtà molto più complessa. In tutto il
suo lavoro tiene legato queste due dimensioni: similitudine e differenza. Per lui solo studiando le differenze e riconoscendole si riesce a
scoprire le similitudini; è quello che fece in tutto il suo lavoro di etnologo, antropologo e psicoanalista.
La conoscenza del suo pensiero e del suo lavoro in un paese come
l’Italia, che vive grandi mutamenti culturali ed antropologici, diventa
fondamentale per attrezzare gli operatori che si occupano di organizzare l’accoglienza degli immigrati non solo per comprendere meglio
chi arriva, ma anche per comprendersi meglio.
12
Introduzione
Devereux era un meticcio e la ricerca di tutta la sua esistenza fu
quella di comprendere i processi di acculturazione e il loro impatto
sulla psicologia e lo sviluppo complessivo sulla personalità. In fondo
cercava continuamente di comprendere se stesso attraverso gli altri, i
suoi “cari indiani” lo aiutarono in questa sua ricerca permanente. Speriamo che con la lettura di questo libro venga lo stesso desiderio a tutti
quelli che si occupano d’interculturalità.
Nota: i brani tratti da Essais de psichiatrie (d’ethnopsychiatrie) générale (1970), Ethnopsychiatrie des indiens Mohaves (1961) e De
l’angoisse à la méthode (1960) sono traduzioni dell’autore dal testo
francese.
Capitolo I
Il paradosso Georges Devereux:
dall’etnopsichiatria alla psicoterapia transculturale
Il nome di Devereux è noto soprattutto tra gli esperti di etnopsicoanalisi e etnopsichiatria a Parigi, a Bruxelles, ma anche in Italia.
A Parigi esiste un grosso Centro di etnopsichiatria che porta il suo
nome che si occupa di migranti, di varie nazionalità e di diverse origini culturali, con disturbi psichici.
Con l’arrivo degli immigrati da varie aree geo–culturali, numerosi operatori dei servizi territoriali, e in particolare dei servizi sanitari
e di salute mentale, si trovano a dover costruire dei dispositivi d’intervento con pazienti provenienti da mondi culturali altri. Affrontano cioè i temi che sono stati al centro della riflessione di Georges
Devereux:
– il rapporto fra cultura e psichismo (le rappresentazioni della persona, del corpo, delle “anime”, della mente nei mondi culturali
di provenienza dei migranti);
– il rapporto fra dinamiche socioculturali, psiche e psicopatologia;
– lo studio e il confronto delle diverse forme di sofferenza psichica nelle varie società e nei relativi modelli culturali di riferimento sul piano interpretativo (il significato delle diverse risposte alle cure, la dimensione sociale dell’efficacia terapeutica);
– lo studio del rapporto e delle tensioni fra conflitti sociali, religiosi, interpersonali e la sofferenza psichica nei migranti;
13
14
Capitolo I
– lo studio dei sistemi di cura nelle diverse società, delle teorie
sulle quali si fondano e delle tecniche terapeutiche che utilizzano;
– la difficoltà di pensare in termini di identità etnica unidimensionale nel caso dei migranti che sono casi di métissage;
– il tipo di rapporto che si crea tra il terapeuta europeo e il paziente non europeo nell’esperienza terapeutica;
– la creazione di un approccio transculturale in grado di cogliere
l’universale nell’aspetto specifico della sofferenza psichica.
Oggi sono molti a parlare di etnopsichiatria, etnopsicologia, etnopsicoanalisi, ma pochi hanno letto Devereux, pochi sanno chi fosse e
quale fu il suo pensiero nel campo della psichiatria e della psicoanalisi
transculturale. Le sue opere sono quasi sconosciute in Italia anche
perché le ultime traduzioni risalgono al 1975 e riguardano solo due lavori importanti: Saggi di etnopsichiatria generale e Saggi di etnopsicoanalisi complementarista. Ciò significa che molti dei suoi lavori
non sono mai stati tradotti e pubblicati in italiano, eppure sono molti a
parlare del suo approccio in campo terapeutico o a riferirsi alle sue teorie nel campo della salute mentale degli immigrati.
Nelle università italiane non si studiano le sue opere né il suo
pensiero e ancor meno si leggono i suoi testi. Eppure con la società
multiculturale in cui ormai viviamo, con i cambiamenti antropologici cui assistiamo, le idee di Devereux rappresentano ancora oggi un
passaggio obbligato per chi si occupa di salute mentale e migrazione, ma non solo, lo sono anche per chi si occupa d’intercultura e di
fenomeni transculturali (dai servizi sanitari ai servizi sociali e scolastici).
Ma il vero paradosso di Devereux è che ha iniziato il suo lavoro per
scoprire il nesso esistente tra la formazione culturale dello sviluppo psicologico e la o le patologie per arrivare alla conclusione, dopo anni passati tra i Sedang Moi del Sud Vietnam e gli indiani Mohave del Nord
America, che esiste una “unità psichica del genere umano” e che è proprio nelle situazioni di sofferenza mentale estrema che questo dato emerge con forza.
Scrive a questo proposito: «Un nevrotico e, a fortiori uno psicotico
Cheyenne o Maori, assomigliano a un nevrotico e psicotico americano
Il paradosso Georges Devereux
15
più di quanto uno Cheyenne o un Maori normale non assomigliano a
un americano normale».
Per Devereux l’unità psichica dell’umanità include tuttavia una estrema capacità di variazione; mentre “l’infrastruttura psichica” (le
forme del meccanismo psichico) è eguale per tutti, la “superstruttura
psichica” (i contenuti) è diversa. La prima è trasversale, è “metaculturale”, la seconda è “culturale specificatamente”; la prima è “idiosincratica”, la seconda “etnica”; la prima funziona nel medesimo modo
per tutti gli esseri umani, la seconda è condizionata dal contesto storico–culturale. Non a caso affermava che «l’unità psichica dell’umanità
è la pietra angolare della teoria psicoanalitica».
Allora ecco il paradosso: come spiegare il nesso tra l’interesse di
Devereux per l’etnologia, l’antropologia e il suo rapporto con la psicopatologia? E come spiegare che molti attuali etnopsichiatri rivendicano la sua eredità in nome di un approccio che tende, invece, a negare “l’unità psichica dell’umanità”? Solo una lettura completa, approfondita ed articolata della sua opera dimostrerà la complessità e la
grande attualità di questo apparente paradosso.
Non dimentichiamo che Devereux era egli stesso un meticcio, un
insieme di identità fuse e mescolate, un uomo che ha attraversato nello
spazio e nel tempo vari mondi culturali; attraverso varie discipline ha
tentato di comprendere il comportamento umano partendo dalla sofferenza psichica, dalle sue cause, dalle sue manifestazioni e dalle sue
espressioni patologiche. Egli non amava molto il termine etnopsichiatria anche se l’ha utilizzato in uno dei suoi lavori più importanti: Saggi
di etnopsichiatria generale e si ritrova anche nei suoi Saggi di etnopsicoanalisi complementaristica. Metteva in guardia contro l’ambiguità
e l’abuso di questo termine in un articolo intitolato Ethnopsychiatrie,
uscito nel numero 1 della «Revue Ethnopsychiatrica» del 1978: «L’etno–
psichiatria — necessariamente concepita come etnopsicoanalisi — è
una scienza pluridisciplinare e non interdisciplinare […] il suo problema di base è quello che sottende tutte le scienze dell’uomo: il rapporto di complementarietà tra la comprensione dell’individuo e quella
della società e della sua cultura».
Per Devereux si trattava di mettere in evidenza le crepe e i limiti sia
della psichiatria che dell’etnologia; ricordava come il termine etnopsichiatria contenga tre radici greche: etnos, psiche e iatreia. Quest’ulti-
16
Capitolo I
ma radice, che significa “trattamento per la guarigione”, implica le
nozioni di “malattia” e “salute”, presuppone cioè che il trattamento di
una malattia possa avere come risultato la salute. Secondo Devereux
«l’idea di trattamento implica, a sua volta, che la malattia sia un male,
la salute un bene e il trattamento della malattia un bene incondizionale». Tutto ciò porta al «problema focale di una teoria morale» con una
nozione di “valore”, anzi con una “gerarchia di valori”.
Quello che salta agli occhi quando si legge Devereux è che si colloca in una posizione critica sia nei confronti del sapere psichiatrico
che nei confronti del sapere etnografico; il suo metodo «esclude ogni
giudizio di valore aprioristico e permette di individuare con dei mezzi
identici, la patologia sia a livello individuale che socioculturale».
Quello che interessa Devereux è analizzare il materiale sublimato e
il processo di sublimazione, tenendo presente che la nozione di patologia presenta alcuni inconvenienti e rischi sul piano conoscitivo: «il
concetto base dell’etnopsichiatria — egli scrive — deve essere non
quello di patologia, ma quello di sublimazione. Orbene, il processo di
sublimazione è proprio solo dell’essere umano. Egli solo possiede la
capacità di sfruttare un materiale psichico arcaico — anzi nevrotico —
in modo creativo». Ricorda come lo studio di Freud su Leonardo da
Vinci cerchi soprattutto di distinguere le componenti arcaiche e nevrotiche di questo genio universale e della sua opera, cioè l’interesse è finalizzato più a spiegare l’uomo che i suoi quadri o le sue invenzioni.
Attraverso la sublimazione tutti gli uomini producono la “Cultura”
che si manifesta attraverso i contenuti delle culture particolari o “etniche”. La finalità della ricerca etnopsichiatrica consiste nell’esplorazione e nella comprensione della sublimazione, del tipo di creatività e
dell’ambiente socioculturale che la favorisce.
Quindi Devereux preferisce parlare di “psicoterapia metaculturale”
nel caso in cui il terapeuta e il paziente appartengano a due universi
culturali diversi. Il terapeuta non conosce la cultura del paziente ma
comprende, invece, perfettamente il concetto di “Cultura” e lo utilizza
nello stabilire la diagnosi e nel gestire la condotta del trattamento.
Uno dei temi che interessa Devereux è quello dell’identità, dei rischi
di una “identità etnica iper–investita” che si chiude nella “camicia di forza” di un'unica dimensione. Un tema di grande attualità oggi per chi lavora con i migranti, e non solo, perché può aiutare lo sviluppo della capacità
Il paradosso Georges Devereux
17
di cogliere l’aspetto molteplice, complesso e dinamico dell’identità nei
processi di acculturazione, dei contatti tra culture, della contaminazione e
“fecondazione” tra culture. Partendo anche dalla sua esperienza personale
e dalla sua formazione Devereux afferma che è «disfunzionale e anche
catastrofico, ridurre qualcun altro alla unidimensionalità» poiché ognuno
di noi possiede «un repertorio potenziale totale molto ricco».
Oggi si corre il rischio, sia dal punto di vista dell’etnopsichiatra che
da quello dell’immigrato con difficoltà psichiche dell’“impoverimento
dell’arroccamento identitario”, cioè di un processo che impoverisce
l’uomo e lo riduce solo ad alcuni segmenti.
Nel suo grande libro dedicato alla Psicoterapia di un indiano delle
pianure, Georges Devereux faceva notare che non bisogna confondere
il concetto di adattamento con quello di accettazione passiva.
Il primo significa reinterpretazione e riorientamento, cioè l’integrazione del “vecchio” con il “nuovo”, il secondo nega il “vecchio”.
Per questa ragione ebbe sempre un grande interesse per le teorie antropologiche sull’acculturazione, sui processi di reinterpretazione e di
adattamento.
Per affrontare queste problematiche si muoveva su tre direttrici metodologiche:
1) il principio di complementarietà tra aspetti sociologici e psicologici nel processo di comprensione dello sviluppo psicologico e
delle sue patologie;
2) il principio di indeterminatezza (mutuato dal fisico Heinsenberg)
per sottolineare che la verità scientifica ha sempre un margine
indeterminato (e quindi di non verità e d’errore);
3) la centralità della nozione di Condizione Umana come produttrice di “Cultura” attraverso il processo di sublimazione: tutti gli
uomini, tutti i popoli, al di là delle loro particolari condizioni etniche e storico–culturali, producono nel medesimo modo le mediazioni necessarie alla loro esistenza.
Devereux evidenziava diversi rischi per chi si occupa del rapporto
psiche, cultura e patologia:
1) il relativismo culturale che identifica adattamento con salute;
18
Capitolo I
2) il riduzionismo che tende a spiegare i disturbi del funzionamento
psichico con un unico fattore;
3) “l’irrazionalismo regressivo” che tende a fare appello a rituali o cure sciamaniche attribuendo a questi delle virtù terapeutiche;
4) “l’organicismo primario” che tende a ridurre tutto all’organismo
biologico e che quindi propone esclusivamente terapie farmacologiche.
In tutta la sua riflessione l’aspetto del dispositivo terapeutico aveva
una grande importanza.
Dai metodi di osservazione dell’etnologia e della psicoanalisi aveva
imparato la centralità del controtransfert del terapeuta nel rapporto con
il paziente; l’angoscia dell’incontro è materiale utile fornito da quest’ultimo per comprendere il disturbo e la sua possibile cura (sarà il
tema del suo grande libro Dall’angoscia al metodo nelle scienze del
comportamento).
Il paradosso epistemologico di Devereux, enunciato in modo chiaro
nel suo libro dedicato alla Etnopsichiatria degli indiani Mohave, può
essere descritto con i seguenti punti:
1) per lui, che condusse i suoi primi lavori di ricerca con gli indiani
sotto la direzione di Kroeber, il “relativismo culturale” rappresenta un «sintomo di nichilismo etico, di alienazione della realtà
e di estremo conformismo»;
2) egli dedica alla comprensione della cultura terapeutica Mohave
un’intera monografia dandoci il punto di vista di questi indiani
sulla malattia mentale;
3) afferma di avere capito meglio il lavoro dello psicoterapeuta e
anche se stesso attraverso lo studio della psichiatria Mohave;
4) considera che la sofferenza psichica permette di comprendere
meglio l’unità psichica dell’umanità in quanto l’uomo, prima di
essere un prodotto–produttore di una cultura particolare, etnica,
è prodotto–produttore della “Cultura” in sé (e questo in tutti i
luoghi e in tutti i tempi);
Il paradosso Georges Devereux
19
5) afferma che la comparazione tra culture diverse (Mohave, Sedang, europee, americane), in una prospettiva insieme sincronica
e diacronica (fa il confronto con la Grecia antica), ci fa scoprire i
meccanismi psichici produttori di “Cultura” (come fattore di sublimazione) che fanno degli uomini, in tutti i luoghi e in tutti i
tempi, degli esseri di “Cultura”;
6) sostiene che lo studio monografico di una cultura particolare su
un segmento specifico (per es. «la porzione di cultura Mohave
che riguarda i disturbi mentali come sono compresi dai Mohave») permette di evidenziare il nesso tra particolarità e universalità nei meccanismi psichici.
Devereux attribuiva una grande importanza al rigore intellettuale,
in questo era un figlio sia di Freud, nel quale si riconosceva pienamente, che di Voltaire, che ammirava per il suo spirito dissacrante. Ed effettivamente egli fu un “inclassificabile”, un pensatore scomodo perché non assimilabile a nessuna corrente precisa della psichiatria, della
psicoanalisi e dell’etnologia. Fu l’iniziatore di una concezione nuova
della “pratica transculturale” o, come finì per definirla egli stesso, di
una “pratica metaculturale”. La sua biografia personale, la sua traiettoria di migrante e meticcio ne fu l’esemplificazione più eclatante. Per
tutta la vita rimase un isolato, ma un isolato in grado di parlarci ancora
oggi e di stimolare chi lavora con i migranti e con le questioni attinenti all’interculturalità.