CASTELLO MANIACE
Il Castello di Federico II a Siracusa, poi detto Maniace, viene costruito fra il 1232 e 1240. I primi documenti sulla sua fondazione sono le lettere che Federico invia
il 17 novembre 1239 da Lodi a suoi sottoposti collegati alla costruzione del Castello, nelle quali l’imperatore si compiace per la diligenza con la quale Riccardo da
Lentini prepositus aedificiorum segue il castrum nostrum Syracusie e lo rassicura che la sua richiesta “pro munitione castroum nostrorum Syracusie et Lentiní quam
etiam pro Serracenis et servis nostris necessarium frumentum, ordeum, vinum, caseum, companagium, scarpas et indumenta” è stata girata al tesoriere di Messina, il
quale provvederà al più presto a fornirlo di tutto l’occorrente.
Si noti come l’imperatore usi i termini Serracenis e servis nostris, facendo riferimento agli operai presenti nel cantiere: i Saraceni, “tecnici specializzati” venivano
regolarmente stipendiati, mentre i servi no.
Nel 1240, quando i castra exempta rientrano sotto la giurisdizione imperiale, il Castello di Siracusa è annoverato fra questi. Si conoscono i nomi di due castellani
svevi di Siracusa: Riccardo Vetrani ed il fedelissimo Giovanni Piedilepre, al quale fa riferimento un diploma di Manfredi del 13 agosto l263.
Sotto gli Angioini il Castello diviene patrimonio regio, censito nel 1273 da una commissione di inchiesta che parla di un Castrum Siragusie. La guerra fra gli Angioini e gli Aragonesi per il dominio del Regno vede il Castello opposto a difesa della città.
Per quasi tutto il XV secolo il Castello è una prigione.
Nel 1448, dopo uno splendido banchetto tenuto nelle sale del Castello, il capitano Giovanni Ventimiglia, fa uccidere tutti i convitati, accusati di tradimento. Per
questo prode gesto ottiene dal re Alfonso di Castiglia in dono i due arieti bronzei che ornavano sino a quel giorno il prospetto del Castello.
Alla fine del XVI secolo, nel piano più generale di fortificazione della città, Castello Maniace diventa un punto nodale della cinta muraria, progettata dall’ingegnere
militare spagnolo Ferramolino.
Nel 1542 e nel 1693 ci furono due terremoti molto violenti, che danneggiaro il Castello.
Nella metà del XVII secolo ulteriori opere fortificate comprendono lavori nel Castello, di non nota entità.
Il 5 novembre 1704, una furibonda esplosione avvenuta nella polveriera sconvolge l’edificio. Brani di crociere e blocchi di calcare vengono lanciati nel raggio di
diversi chilometri.
Negli anni successivi si appresta la ricostruzione, che lascia intatte le parti rovinate dall’esplosione, mentre si creano tamponature per la realizzazione di magazzini.
In età napoleonica il Castello rivive con funzioni militari e viene munito di bocche da cannone.
Nel 1838, a salvaguardia dei moti che stavano scatenadosi in tutto il regno, i borbonici di Ferdinando vi innalzano una casamatta.
Il Castello viene consegnato al Regno di Savoia ed utilizzato fino alla seconda guerra mondiale come deposito di materiale militare.
In seguito alla smilitarizzazione dell’area si sono succeduti numerosi lavori di restauro (l’ultimo terminato nel 2010) che hanno riportato il castello agli antichi splendori, diventando oggi uno dei castelli siciliani, e non solo, più suggestivi dell’isola, un vero e proprio simbolo del potere e della genialità dell’imperatore Federico II.
1
DUOMO DI SIRACUSA
Il Duomo di Siracusa era destinato, fin dall’antichità, a ospitare un luogo di culto. Sorge sulla parte più elevata dell’isola di Ortigia ed incorpora il Tempio di Atena.
Esso fu innalzato in onore della dea dal tiranno Gelone, dopo la grande vittoria di Imera (480 a.C.) contro i Cartaginesi. Il tempio èdi ordine dorico. L’Athenaion era
esastilo (sei colonne in facciata) periptero (le colonne circondavano la cella su tutti e quattro i lati), con 14 colonne sui lati lunghi. Il frontone recava il gran de scudo
della dea in bronzo dorato. Aveva decorazioni in avorio, borchie d’oro sulla porta e una serie di tavole dipinte che raffiguravano un combattimento di cavalleria tra
Agatocle e i Cartaginesi e 27 ritratti dei tiranni della città.
Attualmente ne restano visibili, sul fianco sinistro del duomo, alcune colonne e lo stilobate sul quale esse poggiavano, in calcare locale, mentre altri resti (tegole in
marmo e gocciolatoi a forma di testa di leone) sono conservati nel Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi. All’interno dell’attuale Duomo sono altresì ben visibili
9 colonne del lato destro del periptero e le due antistanti la cella.
Il tempio era stato preceduto da un luogo di culto risalente all’VIII secolo a.C., con un altare portato alla luce negli scavi dell’inizio del XX secolo, e da un primo
tempio della metà del VI secolo a.C.
Nel VII secolo, all’epoca del vescovo Zosimo, il tempio di Atena fu inglobato in un edificio cristiano, dedicato alla Natività di Maria: in particolare, furono innalzati
muri a chiudere lo spazio tra le colonne del peristilio e aperte otto arcate nella cella centrale, per permettere il passaggio alle due navate laterali così ottenute. Le
imponenti colonne doriche sono ancora oggi visibili sul lato sinistro, sia all’esterno sia all’interno dell’edificio. Furono anche eliminati i muri che dividevano il vano
posteriore (“opistodomo”) dalla cella e questa dal pronao. L’orientamento dell’edificio fu inoltre rovesciato e l’attuale facciata del Duomo occupa il retro del tempio.
Forse trasformata in moschea durante la dominazione araba, la chiesa fu rimaneggiata in epoca normanna.
Il terremoto del 1693 causò vari danni, tra cui il crollo della facciata. Furono eliminate le absidi e il presbiterio fu occupato da un grande altare barocco, opera di
Giovanni Vermexio, che riutilizza come mensa d’altare un blocco di architrave dell’antico tempio
La facciata attuale, capolavoro dell’architetto palermitano Andrea Palma, è una delle migliori testimonianze barocche di Siracusa, fu realizzata fra il 1728 e il 1754.
Essa s’innalza su un’imponente scalinata ed ha la colonna come modulo compositivo. Il prospetto è a due piani, coronati da un frontone. Opera di Ignazio Marabitti
sono le due statue che affiancano la scalinata (San Pietro e San Paolo) e quelle che ornano il secondo ordine (San Marciano, Santa Lucia e, nell’edicola centrale, la
cosiddetta Vergine del Piliere). L’ingresso è preceduto da un atrio con un bel portale fiancheggiato da due colonne a torciglioni, lungo le cui spire si avvolgono rami
d’uva.
L’interno è a tre navate e a impianto basilicale. La navata centrale è coperta da un cinquecentesco soffitto ligneo a travature scoperte. Il pavimento, marmoreo e
policromo, fu voluto dal vescovo Bellomo e realizzato nel 1444. Il lato destro della navata laterale è delimitato dalle colonne del tempio, che oggi danno accesso alle
cappelle. Nella prima “Cappella del Battistero” è conservato un fonte battesimale, formato da un cratere greco in marmo sostenuto da sette leoncini in ferro battuto
del XII secolo. La “Cappella di Santa Lucia” presenta un bel paliotto argenteo del Settecento. Nella nicchia è conservata la splendida statua d’argento della santa,
opera di Pietro Rizzo (1599). L’ampia “Cappella del Crocefisso” accoglie una tavola con San Zosimo; all’altare della cappella è una croce in legno di stile bizantino. La
“cappella del Sacramento”, a pianta poligonale con affreschi del 1657 sulla volta, opera di Agostino Scillae con ciborio del 1752, opera di Luigi Vanvitelli.
Al di sotto la piazza del Duomo vi sono ipogei, che durante la guerra vennero usati come rifugi e tutt’ora agibili.
2
TEMPIO DI APOLLO
Esso è databile all’inizio del VI secolo a.C. ed è il tempio dorico più antico della Sicilia o quanto meno il primo corrispondente al modello che si andava affermando
in tutto il mondo ellenico di tempio periptero con colonne di pietra. Collocato sull’isola di Ortigia.
Il tempio subì diverse trasformazioni.
Il tempio misura allo stilobate 55,36 x 21.47 metri, con una disposizione di 6 x 17 colonne di proporzione piuttosto tozza. Rappresenta, nell’occidente greco, il momento di passaggio tra il tempio a struttura lignea e quello completamente lapideo, con fronte esastilo ed un colonnato continuo lungo il perimetro che circonda il
pronao e la cella divisa in tre navate con due colonnati interni,più snelli, posti a sostegno di una copertura a struttura lignea di difficile ricostruzione. Sul retro della
cella si trovava un vano chiuso (adyton) tipico dei templi siciliani.L’impresa di costruire un edificio con 42 colonne monolitiche, trasportate probabilmente via mare,
dovette sembrare eccezionale agli stessi costruttori, vista l’insolita presenza sull’ultimo gradino del lato Est di un’iscrizione dedicata ad Apollo in cui il committente
(o l’architetto), celebra l’impresa edificatoria, con un’enfasi che tradisce il carattere pioneristico della costruzione.I resti permetto di ricostruire l’aspetto originario
del tempio che appartiene al periodo protodorico e presenta incertezze costruttive e stilistiche come l’eccessiva vicinanza delle colonne poste sui lati, le variazioni
dell’intercolumnio, l’indifferenza alla corrispondenza tra triglifi e colonne ed aspetti arcaici come la forma planimetrica molto allungata. L’architrave risulta insolitamente alto, anche se alleggerito posteriormente formando una sezione a L. I capitelli sostengono grandissimi echini, enormemente dilatati, si direbbe, dal peso
dell’architrave.Non mancano aspetti assolutamente sperimentali come l’importanza dedicata al fronte orientale con doppio colonnato ed intercolumnio centrale più
ampio e più in generale la ricerca più di un’enfasi rappresentativa che di un’armonia proporzionale.
“Allo stato attuale si osservano ancora, fra le colonne dell’antico pronaos, due monconi di stipiti che facevano parte dell’ingresso del tempio cristiano. II riadattamento era
stato ottenuto con la parziale occlusione dell’intercolumnio, utilizzando il materiale apprestato dalla rovina stessa del tempio... il coronamento era dato da un semplice
architrave monolitico... il breve spazio fra gli stipiti e le colonne era ricolmato con muratura a pezzate ( L. Bernabò Brea)”.
Già in periodo bizantino la tendenza del piano stradale a rialzarsi non fece più corrispondere il piano della chiesa cristiana con quello del tempio pagano, e si dovette
procedere a una rozza sopraelevazione, utilizzando materiale proveniente dallo stesso tempio. Si provvede a munire di un altro gradino il crepidoma, rimasto troppo in basso. Sul fronte occidentale, al di fuori della riadattata parte del tempio, è, ancora leggibile, un fortissimo basamento (m 9,10 x 8) che, da alcuni attribuito a
base della torre campanaria, ci pare, con Giuseppe Agnello, essere stato più probabilmente un torrione della vicinissima cortina muraria, il cui materiale fu in parte
ricavato dalle pietre squadrate tolte al tempio classico in quelle parti rimaste non utilizzate dalla chiesa bizantina.
Gli arabi trovarono la chiesa, già tempio di Apollo, ancora più seppellita dall’innalzamento del piano stradale. Emergevano le colonne del peristilio e del pronaos,
rimaste al di fuori dalla chiesa. Gli islamici le dimezzarono, livellandole al piano stradale.La cella, emergente pur’essa, venne riadattata secondo molti studiosi a
moschea.
Con l’avvento dei normanni, al tempio venne ridata una destinazione, anche se non è certo che venne riutilizzato come chiesa. Si ipotizza che avvenne la trasformazione del tempio in moschea. Ciò che rimane delle opere normanne sono sia un arco, dalla caratteristica struttura ogiva1e, aperto nel settore più orientale del
superstite muro della cella, sia una leggera sopraelevazione, posta direttamente sopra le opere murarie greche ed ottenuta con l’apposizione di vari filari di piccoli
conci calcarei.
La chiesa ottenuta, orientata diversamente dalla greca verso sud-nord, era di proporzioni assai più ridotte rispetto all’originale.
Il Trecento ha lasciato ugualmente sulle poche strutture superstiti alcune tracce, consistenti in tre crocierine gotiche, di perfetta fattura che investono e soverchiano,
con arditissimo slancio, il portale normanno. L’ultimo atto della storia del tempio, prima della sua riscoperta, avvenne nel 1562, quando il viceré spagnolo decise la
realizzazione, nell’area già occupata dal Tempio di Apollo e resa più vasta dal grande interramento del porto, di una grande fortezza, simile a quelle in quel tempo
costruite in ogni parte della Sicilia. Fu proprio la costruzione di questo grande forte avvenuta nel 1562 a determinare la rovina completa di ciò che restava nel Tempio di Apollo. La costruzione della fortezza, investendo il lato occidentale e quasi tutto quello settentrionale del tempio, spianò, ogni antica fabbrica, arrestandosi
solo al muro della cella, che non era compresa nel piano della costruzione. Nel 1862, durante i lavori di demolizione del forte spagnolo, furono rinvenuti i resti
delle antiche fabbriche e si individuò l’ubicazione esatta del vecchio tempio; durante gli scavi del 1938-43, infine, venne rimesso in luce l’antico piano del tempio
e con esso tutti i suoi resti che, per essere stati sepolti dall’innalzamento del piano stradale già iniziatosi in periodo arabo, erano ancora discretamente conservati.
La topografia del luogo era profondamente mutata. Le opere spagnole avevano creato un vasto interramento dello specchio portuale che ne era rimasto discosto, e
nell’area risultata libera dalla demolizione della grande fortezza venne ricavato il largo XXV Luglio.
Gli scavi furono allora ben condotti e si cercò di rimettere in luce tutte le antiche fabbriche, procedendo anche alla demolizione di vecchi caseggiati ricadenti nella
zona interessata ai lavori.
3
ANTICO MERCATO
Il processo di espansione della città ottocentesca, che nella sua prima fase durò circa trent’anni, dal 1880 al 1910, con l’abbattimento delle mura e la riconversione di
parte del patrimonio edilizio religioso, vide la localizzazione del sistema dei servizi all’interno dell’isola e la realizzazione di insediamenti produttivi e commerciali.
Tra questi, la costruzione del mercato coperto, progettato dall’ing. Edoardo Troja, dipendente dell’ Ufficio tecnico comunale, che riprende la foggia del mercato di
Livorno, costruito nel 1890, caratterizzata da grandi arcate e finestre a persiane. I lavori, iniziati nel settembre 1899 dall’impresa di Gaetano Capodicasa, furono conclusi nel x900, discostandosi lievemente dal progetto originario. La fine dei lavori vide l’apertura di una struttura moderna ed elegante, con un cortile rettangolare,
36 finestre, 24 arcate del portico di ordine tuscanico. La base delle colonne, originariamente prevista in marmo, venne realizzata in graniglia di cemento rosato e
scaglie di marmo. La struttura, che sorgeva adiacente all’allora Piazza del Popolo (oggi piazza Pancali) ed al tempio di Apollo, ha ospitato fino ai primi anni settanta
le rivendite di pescivendoli, macellai, fruttivendoli e artigiani del legno e del ferro.
Nei primi anni ‘50 la struttura subì pesanti rifacimenti, probabilmente con lo scopo di adeguarne gli spazi di vendita, ed altri lavori furono eseguiti nel 1967, agli
inizi degli anni ‘70 e nel 1985. Quando il mercato venne spostato nell’area retrostante di Largo De Benedictis, la struttura venne utilizzata per tenervi spettacoli e
mostre di artigianato. Il sapiente restauro effettuato, iniziato sul finire del 1997, ad opera dell’Arch. Emanuele Fidone e dell’ Ing. Giuseppe Barcio, concluso nel 2000,
ha privilegiato il ripristino della struttura originaria., mantenendo la relazione del monumento d’epoca umbertina con l’area architettonica templare più antica della
città. Il progetto prevedeva un intervento di tipo conservativo (con il ripristino degli infissi, e dell’apparato murario, e il restauro della superficie lapidea, eseguito
lasciando inalterata la consunzione dei materiali operata dal tempo e sostituendo solo i conci che il degrado aveva reso instabili). Le opere di miglioramento statico
sono state eseguite con metodi tradizionali - si veda, ad esempio, il completo rifacimento delle coperture.
Altri particolari, come la scelta di preferire un intonaco in cocciopesto, il mantenimento delle capriate lignee, la lavorazione artigianale del ferro, richiamano
all’essenzialità ed alla semplicità.
Un altro aspetto progettuale riguarda la ristrutturazione del grande salone polivalente, sul lato est, con pannelli autoportanti, che riquadrano le colonne dall’interno
con alti tagli verticali posti in asse alle colonne, gli spazi dell’ala su via Trento sono stati ridisegnati con una struttura in acciaio ossidato e vetro che opera una
separazione funzionale senza alterare la fruibilità visiva dell’insieme. Il risultato è una struttura funzionale che fa convivere in modo armonioso antico e moderno
e che oggi ospita un polo dinamico di servizi per i turisti.
4
TEMPIO SERAPIDE- GINNASIO ROMANO
Con un ginnasio è stato erroneamente identificato un edifìcio di età romana il più importante di Acradina che sia ancora conservato. Vi si giunge da piazzale
Marconi, seguendo il primo tratto della via Elorina, che conserva ancor oggi il nome e il percorso dell’antichissima via che collegava Siracusa a Eloro. Gli scavi, mai
completati, furono realizzati tra il 1864 e il 1865.
Si vuole che questo monumento era stato eretto dai Romani sullo stesso luogo del cosiddetto ginnasio Timoleonteo.
Nel 1865 Schubring dava una prima descrizione dell’edificio, il cui ingresso principale doveva essere S.S.E. e a fianco di esso, sul lato N.N.E., esisteva un muro che
parallelo a quello dell’edificio racchiudeva una strada che, forse, si dirigeva da un lato verso il Foro Siracusano e dall’altro contornava la parte bassa della Neapolis.
Per la posizione esterna della strada e per la sua larghezza si supponeva che fosse la via Elorina, che univa Siracusa ed Eloro.
Oggi si entra nel monumento dall’angolo sud, che dava accesso a un quadriportico di circa 60x50 m. Il portico è notevolmente sopraelevato rispetto al piano del
cortile (1,80 m), e vi si accedeva tramite una scala. Esso è conservato in altezza solo sui lati nord ed est: l’ingresso principale doveva aprirsi su quest’ultimo lato, come
è dimostrato dalla scoperta, a una certa distanza, di un frontone di marmo. Dei lati S.O. e S.E. si conservano solo tracce delle fondazioni dei muri; meglio conservato
è il lato N.E. con scaletta scendente al piazzale. All’esterno del portico nord, tra questo e un grande muro di blocchi parallelo, correva una strada, larga 8,74 m: si
tratta certamente di un asse importante, nel quale si deve forse identificare la via Elorina. Le colonne di questo tratto del portico erano doriche, e di calcare: si tratta
certamente di un settore appartenente a una fase più antica rispetto al resto dell’edifìcio. Questo consiste essenzialmente di un piccolo tempio su podio di tipo italico
(17,5x17,5 m), al quale si accedeva da due scalette laterali (una delle quali è conservata) ed entro il quale è ricavato un ambiente coperto a volta, con un pozzo. Si
conservano molti elementi architettonici dell’alzato, che probabilmente era di ordine corinzio. La tecnica e lo stile di questi elementi architettonici permettono di
attribuire l’edifìcio alla metà del I sec. d. C. Alle spalle del tempio è una piccola cavea teatrale, del diametro di 18,90 m, in origine rivestita di marmo. Davanti al
tempio, sull’asse, è un basamento quadrato, forse dell’altare, e ancora più avanti un altro pozzo. Tutta l’area è attualmente invasa dalle acque, poiché il suo livello è
oggi al di sotto del livello del mare, cresciuto rispetto all’antichità. Anche l’orchestra è costantemente sotto il livello dell’acqua. Il palcoscenico, o pulpitum, a nicchie
frontali, aderiva alla fronte O. del tempio, la quale costituiva il progetto architettonico della scena.
Lungo il lato est si vedono ancora tre basamenti di statue, e altri ne dovevano esistere sotto i portici: sono state infatti rinvenute numerose statue di età romana, per
lo più di personaggi maschili togati, e un ritratto femminile di età tardoflavia, che costituisce un’ulteriore conferma della datazione dell’edifìcio nella sua ultima fase.
Tra i frammenti di iscrizioni rinvenuti nell’area, uno almeno appartiene a un magistrato romano (CLL, X 7128).
Le caratteristiche dell’edifìcio (la forma del tempio, simile all’Iseion di Pompei, la presenza di un teatro, la sopraelevazione dei portici, tipica dei culti misterici)
rendono probabile la sua identificazione con un santuario dei culti orientali, abbastanza importante e ufficiale, tuttavia; perché potessero esservi collocate statue di
cittadini romani di un certo livello e addirittura di magistrati. La scoperta, a breve distanza, di una iscrizione con dedica a Serapide, permette di riconoscere con
notevole probabilità il culto preciso cui apparteneva il complesso: sappiamo da Cicerone che il santuario di Serapide a Siracusa era in un luogo centrale e frequentatissimo (ciò che si addice a questo cosiddetto « ginnasio », a soli 200 m circa dal Foro) e che davanti al tempio, nel vestibolo che lo precedeva, erano state innalzate
statue di Verre, in seguito abbattute (Verrine, II 2, 160). Dunque che Serapeo era uso erigere statue di magistrati romani, il che conferma l’identificazione proposta.
L’inesistenza di un Serapeo in età repubblicana, testimoniata da fonti letterarie e iscrizioni, corrisponde bene con i resti della prima fase dell’edifìcio, che potrebbero
ancora appartenere agli anni finali del II sec. a. C.
L’area limitrofa al Ginnasio Romano si presenta per la maggior parte ancora interrata per cui è sotto vincolo archeologico.
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TERME o BAGNO DIANA
Le “terme bizantine”, ubicate in via dell’Arsenale, a ridosso dei resti dell’arsenale greco sono uno dei monumenti archeologici meno valorizzati.
Di quello che doveva essere un imponente edificio, resta ben poco; alcuni allineamenti di conci in pietra e soprattutto tracce dei focolari che scaldavano l’acqua
utilizzata per le abluzioni ed i bagni di vapore, nonché ridottissime porzioni di pavimentazione.
Databile al periodo successivo alla conquista bizantina della città; ottenuta dal generale Belisario nel dicembre 535, alcuni identificano l’edificio con le cosiddette
“terme di Diana” nelle quali fu ucciso l’Imperatore Costante II, che da Siracusa intendeva tentare la riconquista dell’italia ed il ricongiungimento di Impero d’Oriente ed Occidente.
I resti dell’edificio, ubicato nell’antico quartiere “Acradina” (oggi noto anche come Borgata S. Lucia) per innumerevoli secoli erano andati perduto, essendo parte
dell’area della città edificata in terraferma che era stata abbandonata dopo la conquista araba della città avvenuta il 21 maggio 878 d.C., in seguito alla quale il centro
abitato di Siracusa si ridusse alla sola isola di Ortigia (che comprendeva anche la zona dell’attuale Corso Umberto, all’epoca un tutt’uno con l’isola).
Solo al termine degli anni ’60, come altre vestigia dell’antichità; il sito riemerse durante gli scavi per la realizzazione di un edificio abitativo, nel quale finirono con
l’essere inglobate, parzialmente visibili tra una selva di pilastri. Simbolo della difficile coesistenza tra interessi storico-culturali ed interessi economici.
Il sito versa da sempre in stato di parziale abbandono, ed i resti delle sue strutture a malapena appaiono tra pilastri ed erbacce, simbolo primo tra i beni culturali
non fruibili e da valorizzare della città di Siracusa.
6
CHIESA DI SANTA LUCIA AL SEPOLCRO
I Siracusani, dopo la pace costantiniana, costruirono una chiesa dedicata alla martire. A seguito dei danni causati dai terremoti e dalla dominazione araba (878 1080) nulla è rimasto. L’attuale Basilica di Santa Lucia al sepolcro sorge sul luogo in cui il 13 dicembre del 304 S.Lucia subì il martirio. L’opera sostenuta da Gerardo
da Lentini nel 1100 risale al periodo della dominazione dei Normanni che, liberata Siracusa dal dominio saraceno durato due secoli, ricostruirono la Diocesi e
ripristinarono nel XI sec. l’uso della chiesa e del monastero con un lavoro di abbellimento che rispettasse la precedente struttura bizantina.
Di quel periodo restano il rosone della facciata (diametro di 3 metri circa eseguito nel 1303 per volontà di Federico II d’Aragona che dispose anche l’innalzamento
di un nuovo tempio), il portale (il cui arco rivela l’influsso dell’architettura araba), le tre absidi e i quattro grossi pilastri di sostegno alla cupola che si ritiene sia sta
eretta nel XII sec.
Secondo i siracusani la colonna posta a destra del presbiterio indica il luogo esatto della decapitazione subita da S. Lucia.
La torre campanaria staccata dal resto dell’edificio è di età catalana.
La parte sommitale con la cella delle campane fu ricostruita agli inizi del XVIII sec. perché rovinata con il terremoto del gennaio 1693.
Nel XIV sec., sotto il regno di Federico III d’Aragona, fu realizzato il tetto in legno le cui pitture riproducono fitte costellazioni di stelle a otto punte, che si alternano
a rosoncini con quattro petali, crocette, fiori. Si possono contare circa 250 stemmi degli Aragona di Spagna e Sicilia, l’antico blasone di Siracusa. Particolare unico
è il riferimento ad attività marinare della città con diverse navi dipinte.
Nel 1618 il Senato assegnò la chiesa di S. Lucia ai Frati Riformati di S. Francesco, i quali furono i promotori di una generale ristrutturazione della chiesa stessa.
Un notevole intervento di rifacimento dell’interno della Basilica si ebbe tra la fine del XV sec. e la prima metà del XVII con radicali innovazioni barocche del 1626
ad opera dell’architetto Giovanni Vermexio. A lui sono attribuiti i lavori di sostituzione delle colonne originarie con gli attuali pilastri e le cantorie tuttora visibili
ai lati del transetto.
Nel 1693 il terremoto creò parecchi danni, che portarono ad interventi di ricostruzione, con l’aggiunta verso la piazza e sul prospetto, del portico (1723/1734) di
Pompeo Picherali, costruito per accogliere i numerosi pellegrini.
L’interno mostra i rifacimenti di età aragonese, ai quali va ascritto il soffitto ligneo a travature dipinte (XIV secolo), restaurato nel 1940, e i rifacimenti operati nei
primi decenni del Seicento, a partire dal 1626, quando alle colonne si sostituiscono i pilastri e furono aggiunte le cantorie stilisticamente attribuibili a Giovanni
Vermexio. I restauri attuati in età moderna hanno poi liberato il tempio da molte sovrastrutture del XVIII e XIX secolo, riconducendolo al primitivo nitore.
Posta presso il pilastro destro del presbiterio, vi è la colonna del martirio della Santa, un motivo che si ripete anche nella decorazione della chiesa.
Nel 1608, reduce da Malta, sostò a Siracusa Michelangelo Merisi detto il Caravaggio cui fu commissionato un grande quadro raffigurante il Seppellimento di Santa
Lucia. Posto dietro l’altare oggi se ne trova una copia. L’originale è custodito al museo di Palazzo Bellomo a Siracusa.
Dell’antico convento, che doveva essere accanto alla chiesa, restano pochissime tracce visibili, essendo stato distrutto dopo la soppressione degli Ordini religiosi
decretata dallo Stato Italiano nel secolo scorso.
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catacombe di santa lucia
La catacomba di Santa Lucia si configura come il più antico documento della presenza della Chiesa a Siracusa e in Sicilia, testimoniando la vitalità della comunità
cristiana già dalla prima metà del III secolo. L’area funeraria, sottostante l’attuale piazza S. Lucia, è costituita da un cimitero di comunità e da alcuni ipogei di diritto
privato, ascrivibili cronologicamente ai secoli III, IV e V. La genesi e lo sviluppo del complesso funerario possono essere seguiti attraverso l’analisi delle quattro
regioni (A, B, C, D), tre delle quali risultano a tutt’oggi collegate da gallerie, in buona parte modificate dall’U.N.P.A. (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) durante l’ultimo conflitto mondiale.All’interno del cimitero i settori riservati a sepolture privilegiate, o in connessione con il loculo di S. Lucia, vengono trasformati in
loci sancti, poli devozionali per un periodo straordinariamente lungo, dotati di un ciclo di affreschi che vanno dall’età bizantina all’età normanna. Nell’isolamento
documentario, cui è costretta la Sicilia e Siracusa rispetto ad altri centri del mondo cristiano antico, il culto di S. Lucia è uno dei pochi ad essere supportato da una
solida costruzione agiografica. L’archeologia attesta la continuità del culto della Santa nel cimitero sotterraneo e nella basilica superiore.
Risale al II secolo d.C. ed è la più antica. E’ divisa in varie regioni con la presenza di loculi, cubicola e zone con sepolture privilegiate, trasformate in età bizantina
in oratori aperti al culto. Situata sotto la Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro attualmente non è visitabile.
Simile ai modelli romani si configura l’articolazione del cimitero in più regioni, nate e dall’accorpamento di ipogei di diritto privato e dal reimpiego di preesistenze
di natura cultuale (il «Sacello Pagano» della regione C, di età ellenistica), lo schema delle gallerie con loculi impilati alle pareti nelle regioni A e B, considerate tradizionalmente le più antiche (metà del III sec.), e l’organizzazione spaziale dei cubicoli, disposti regolarmente lungo le gallerie principali della regione C, generalmente
attribuita al periodo postcostantiniano
Ai modelli romani rimandano anche le dinamiche di trasformazione di alcuni luoghi del cimitero. La catacomba di S. Lucia, infatti, rappresenta uno dei pochi casi
attestati a Siracusa in cui tre settori (regioni A, C e D), riservati a sepolture importanti, vengono trasformati in aree di culto nel periodo successivo all’utilizzazione
funeraria. Si tratta de:
1) l’oratorio della regione A, il cosiddetto Trogloditico, trasformato in cisterna nel XV secolo, con la volta decorata da un affresco raffigurante i Quaranta Martiri di
Sebaste e databile alla prima metà dell’VIII sec., l’unico settore oggi visitabile della catacomba;
2) l’oratorio ricavato nella regione C con affreschi palinsesti, rimasto aperto al culto almeno fino alla metà del XIII sec.;
3) ambiente della regione D.
Tra i tanti fattori di alterazione della struttura originaria del cimitero, tre possono essere ritenuti i principali: 1) la creazione della basilica soprastante e della chiesa
del sepolcro di S. Lucia (XVII sec.), che hanno investito con tagli ed interventi demolitivi le regioni B, C e D della catacomba;
2) la realizzazione del sottopassaggio basilica-chiesa sepolcro (XVII sec.), che intercettò alcune diramazioni del livello superiore della regione A e interruppe la sua
connessione con l’oratorio della regione C;
3) l’erezione del portico della basilica (XVIII sec.), che ha demolito alcune parti della regione C, trasformata in oratorio in età bizantina.
Le difficili condizioni statiche del complesso ipogeo hanno limitato la fruizione della catacomba, unicamente alla regione A che, per le caratteristiche strutturali
(gallerie alte e strette e loculi impilati alle pareti), si configura indubbiamente come un prodotto dell’età precostantiniana.
La regione A è costituita dalla rotonda A, dalle gallerie A e F, raccordate da una scala, e dall’oratorio H, destinato a perdere l’identità originaria in seguito alla creazione di una grande cisterna nel XV secolo. Stessa sorte, qualche secolo dopo, sarebbe toccata al troncone meridionale della galleria F che, con tutta probabilità,
originariamente proseguiva fino al sepolcro della santa, inglobato nella chiesa del Seicento.
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CATACOMBE DI VIGNA CASSIA
Vi si accede tramite un Antiquario, nel quale sono esposti i materiali scoperti neglis cavi recenti.
Il complesso catacombale di Vigna Cassia, comprende un cimitero di comunità e cinque ipogei di diritto privato risalenti ai secoli III, IV e V. La catacomba si
articola in tre regioni: S. Maria di Gesù, cimitero Maggiore e Marcia. Il cimitero di S. Maria di Gesù, risalente già al II-III secolo, presenta loculi scavati nelle pareti
del precedente acquedotto; anche il cimitero Maggiore nasce nello stesso periodo e la conferma della datazione di queste regioni della catacomba proviene dal
ritrovamento di monete della metà del III secolo, coniate sotto Galieno e Claudio II il Gotico.
Il cimitero di Marcia è quello più recente, difatti la sua genesi si colloca nel IV secolo, dunque in un periodo posteriore alla pace con la Chiesa sancita con l’editto
di Milano del 313. La cronologia più recente di Marcia è testimoniata da uno sviluppo topografico meno confuso, che ricorda da vicino la pianificazione regolare
della Catacomba di S. Giovanni.
La convivenza tra comunità cristiana e pagana è più accentuata negli ipogei (utilizzati da singole famiglie o corporazioni) soprastanti il cimitero di comunità. Sono
le iscrizioni a testimoniare efficacemente tale pluralismo ideologico. Un cimitero di comunità non esclude l’esistenza di spazi privati (cubicola), che sono quasi
fisiologici e che, nel caso in esame, sono rappresentati da piccole rotonde ricavate da un reimpiego, non particolarmente curato, di cisterne disattivate del precedente
impianto di approvvigionamento idrico della città.
Le pitture dell’ipogeo II ci restituiscono le immagini di un ciclo figurativo a soggetto interamente cristiano. Salvezza e risurrezione dell’anima sono i concetti espressi
dalle scene che decorano due degli arcosoli: due momenti della trilogia di Giona, Daniele nella fossa dei leoni, un ritratto di defunto fra oranti, la resurrezione di
Lazzaro e dei pavoni inseriti nei giardini fioriti dell’habitat paradisiaco.
Le indagini promosse nel 2004 hanno portato alla luce una storia di crolli, frane e ostruzioni, alterazioni della struttura originaria. Dal confronto dei dati dimensionali del complesso ipogeo con quelli delle opere in superficie gli esperti sono riusciti a dare l’esatta ubicazione spaziale della catacomba anche rispetto al livello
marino. I rilievi geomorfologici hanno evidenziato una “vallecola” nello strato calcarenitico, con asse parallelo alla piazza, colmata dal terreno di riporto eterogeneo.
Questo portò a presupporre che l’area doveva essere una valle ricavata da calcareniti su cui si aprivano, a diversi livelli, degli accessi per il sottosuolo.
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CATACOMBE DI SAN GIOVANNI
A nord-ovest di Vigna Cassia, presso la chiesa in rovina di S. Giovanni Evangelista, si possono visitare le importanti catacombe di S. Giovanni. Si tratta di un,.
complesso tardo, realizzato dopo la pace costantiniana, secondo un progetto omogeneo. Ciò spiega l’aspetto regolare e la monumentalità dell’insieme, che si organizza intorno a un asse principale orientato da nord-est a sud-ovest, ricavato anch’esso da un acquedotto di età classica. Su di esso confluiscono numerose gallerie
perpendicolari, tutte caratterizzate dai grandi arcosoli polisomi. Periodicamente lo spazio si dilata in ambienti più ampi, quadrangolari o circolari. Particolarmente
caratteristiche le grandi rotonde coperte a cupola, con lucernaio centrale: prescindendo da una anonima, esse recano i nomi di Éusebio, delle Sette Vergini, di Antiochia e di Adelfìa. Quest’ultima è così denominata dal grande sarcofago di IV secolo con scene dell’Antico e del Nuovo Testamento che ne proviene. Al di sopra
del medaglione con il ritratto dei due coniugi è incisa l’iscrizione con il nome di Adelfìa e del comes Balerius, nel quale si è voluto identificare un governatore di
Sicilia intorno al 330, l’Aradio Valerio Proculo Populonio. Si conferma così il carattere eccezionale della catacomba, destinata evidentemente a ospitare i defunti
della classe dirigente siracusana del IV secolo.
Si deve a Paolo Orsi la serie di indagini sistematiche, condotte negli anni 1893-1909, che hanno dato la veste attuale alla catacomba. La dedica a S.Giovanni Evangelista è legata all’intitolazione al santo della basilica soprastante in età normanna. A differenza dei cimiteri di Vigna Cassia e S. Lucia la catacomba di S. Giovanni
nasce per servire una comunità che non doveva più nascondere la fede cristiana, nel clima successivo alla Pace della Chiesa, ed è lo stesso monumento a fornircene
la prova con la grandiosità della sua architettura. I tipi di sepoltura sono canonici: loculi (cavità rettangolari con il lato lungo a vista, la cui chiusura si effettuava
mediante tegole, lastre di marmo, mattoni); un tipo di sepoltura, più ricercata rispetto al loculo, è l’arcosolio, un arca scavata nel vivo della roccia, chiusa orizzontalmente da una tabula detta mensa; sopra la sormontava una nicchia quadrilunga o, come nel caso nostro, arcuata. L’arcosolio conteneva di solito due corpi, ma
poteva avere una capacità doppia e nella forma particolare, che costituisce una prerogativa di Siracusa, anche una ventina di posti. Presente nei cimiteri sotterranei
è anche la forma, il sepolcro scavato nel pavimento, proprio delle necropoli all’aperto.
Una sepoltura privilegiata è sicuramente quella collocata all’inizio della seconda galleria settentrionale, come ci suggerisce la lastra di copertura del sepolcro con i
trefori, indizio di un rito antico, che precede l’avvento del cristianesimo e che si protrae nel tempo fino ad arrivare ai nostri giorni: il rito del refrigerìum, letteralmente il rinfresco. Nell’anniversario della morte, dies natalis dell’anima alla vita eterna, i vivi si consolano versando vino, latte, miele e altro al loro caro attraverso
i fori ricavati nella lastra di copertura.
Continuiamo a percorrere la stessa galleria e svoltiamo a destra per immetterci nella camera trapezoidale si distinguono sulle pareti tracce di una pittura povera che,
priva di scene figurate. Da questa camera a sinistra si accede ad un vero e proprio pantheon sotterraneo tramite una monumentale scala d’accesso, sulle cui pareti si
distinguono le tracce di una serie di colonne sormontate da capitelli. All’interno della rotonda, chiamata Antiochia , per il sarcofago costruito che emerge dall’anello
di tombe scavate nella roccia. Nel cimitero della comunità è evidente che all’origine si configura come un cimitero comunitario di sepolture, arcosolio a deposizione
multipla, per poi snaturarsi al fine di creare spazi privati per l’aristocrazia locale o di passaggio e per i rappresentanti della Chiesa (creazione delle rotonde).
Alla fine della terza galleria Nord, a sinistra, rientriamo nel decumanus maximus vi è una decorazione pittorica di un arcosolio isolato e riservato ad un’unica
sepoltura. In questa sede ci si limita a leggere solo le immagini della parete superiore (prima metà del V sec.): è riprodotta una scena canonica in cui la defunta,
posta al centro, è accolta dagli apostoli Pietro e Paolo sullo sfondo del giardino paradisiaco per iniziare la vita ultraterrena. Su tutto domina il Cristo, presente nel
cristogramma affiancato in questo caso dalle due lettere apocalittiche (alpha e omega) che stanno a indicare che Cristo è il principio e la fine di tutte le cose. Nella
regione meridionale del cimitero, la prima rotonda prende il nome di Marina da un iscrizione graffita e datata nel primo venticinquennio del V sec. Nella breve
galleria meridionale, senza sbocco, si distingue il presunto arcosolio del vescovo Siracosio, nella quale si dice che i defunti acquistarono volutamente il sepolcro
vicino a quello del vescovo Siracosio. Dalla rotonda di Marina una galleria conduce alla seconda rotonda, detta di Adelfia, e al nicchione che accolse la sepoltura di
una donna di rango senatoriale in uno dei pochi sarcofagi a doppio registro conosciuti in tutto il mondo cristiano. Da qui raggiungiamo la rotonda dei sarcofagi ,
caratterizzata dalla presenza di casse di sarcofagi scavati nella roccia e altri costruiti, simili ad altri già notati in diversi settori della catacomba. Ciò che sorprende è
naturalmente la concentrazione di queste sepolture monumentali al punto da far pensare che esse potessero appartenere ad una comunità religiosa. .
Infine vi è il cubicolo di Eusebio, che ha una struttura diversa dagli altri spazi privati della regione meridionale della catacomba, ma sembra ricavato comunque
dall’allargamento di una cisterna preesistente.
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ANFITEATRO ROMANO
L’Anfiteatro romano di Siracusa è una delle realizzazioni edilizie più rappresentative della prima età imperiale romana.
Risalente all’età imperiale (III - IV secolo d.C.) l’anfiteatro romano è uno dei massimi edifici del genere esistente. Fu riportato alla luce nell 1839 dal Duca di Serradifalco.
Di forma ellittica, i diametri esterni misurano m. 140 x 119; fu parzialmente scavato nella roccia del Temenite. Le spoliazioni spagnole del XVI secolo hanno completamente distrutto la parte in alzato
Due ingressi immettevano nell’arena (m.70x40); il principale, di Nord, era collegato con un ampio piazzale destinato ad accogliere i cocchi degli spettatori, mentre
quello secondario, di Sud, è attualmente in uso per la visita al monumento. Nel giardino che precede sono stati sistemati degli imponenti sarcofagi provenienti dalle
necropoli di Siracusa e di Megara Hyblaea.
L’arena era dotata, al centro, di un ampio vano rettangolare, originariamente coperto, collegato attraverso un passaggio sotterraneo con l’estremità meridionale del
monumento, sull’asse del corridoio di ingresso: si tratta di opere sotterranee necessarie per i macchinari utilizzati durante gli spettacoli (m.15,50x8,70 profondità
m.2,50). Intorno all’arena la cavea è distinta da un alto podio, dietro il quale corre un corridoio coperto con varchi per l’accesso all’arena dei gladiatori e delle belve,chiamato “crypta” (alto m.1,60). Al di sopra sono ricavati i primi gradini, riservati a personaggi di rango. Le iscrizioni incise sui blocchi del parapetto.
Altri due ambulacri correvano a livelli più alti e delle scale servivano agli spettatori per raggiungere l’ordine del posto. Chiudeva la costruzione un portico.
Sopra il prospetto del corridoio che cingeva l’arena vi sono ancora i blocchi in marmo dei proprietari dei posti.
Al centro dell’arena vi è un ampio ambiente rettangolare, collegato da un canale scavato lungo l’asse Sud, entrambi coperti, funzionali alle opere necessarie per
l’allestimento e lo svolgimento degli spettacoli.
il suo orientamento diverge da quello degli edifici della Neapolis e del teatro e segue probabilmente quello dell’impianto urbanistico realizzato in età tardoclassica
e noto dalla strada scoperta nell’area del santuario demetriaco di piazza della Vittoria in Acradina. All’anfiteatro giungeva l’asse viario che dal quartiere di Acradina
raggiungeva la Neapolis. È in gran parte scavato nella roccia e per la costruzione della parte nord orientale si è sfruttato il pendio della balza rocciosa la medesima
nella quale, a breve distanza, erano state ricavate la cavea del teatro greco e le grandi latomie dette del Paradiso, di S. Venera e del’Intagliatella. Quasi nulla resta
invece della parte superiore, costruita.
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ARA IERONE
L’altare, o ara, di Ierone (o Hierone, o Gerone) II, fu costruito dal “tiranno” di Siracusa Ierone II (circa 308-216 a.C.) nel terzo secolo avanti Cristo. Probabilmente
dedicato a Zeus Eleuterio (“liberatore”).
Si tratta del più grande altare dell’antichità greca giunto fino a noi: è infatti lungo poco più di uno stàdion (corrispondente a 192 metri circa) e largo 23.
In origine era circondato da portici; in epoca romana nel cortile fu piantato anche un giardino alberato.
Su questo altare era possibile celebrare cerimonie religiose grandiose, con il sacrificio di fino a 450 tori in una sola giornata. Un modo per propiziarsi gli dèi, ma
anche per ricordare ad amici e nemici che Siracusa aveva risorse e sudditi in abbondanza.
All’interno del monumento gli animali da sacrificare accedevano attraverso due rampe contrapposte, a nord e a sud della costruzione, mentre al suo centro vi era un
altro rialzo dove ardevano i fuochi per la combustione sacrificale. Nella rampa di nord, quella più vicina alla ringhiera di viale Paradiso, sono ancora visibili i piedi
di uno dei telamoni che adornavano gli ingressi. L’ampia piazza antistante era cinta da un grande portico, con 14 colonne nei lati corti e 64 nei lati lunghi; questo
era interrotto da un propileo. Al centro del quale vi era una grande vasca con un basamento destinato a sostenere, forse, una statua.
Un canale di drenaggio costruito in blocchi si distacca dalla vasca, attraversando il portico. Numerose cavità sulla superfìcie del piazzale erano probabilmente destinate a ospitare alberi: l’area era dunque occupata da un giardino. Il portico, che sostituisce una più antica strada incassata nella roccia (nella quale erano ricavate
numerose nicchie votive), fu aggiunto all’altare in un secondo tempo (forse in età augustea).
Purtroppo di questo enorme struttura è rimasta soltanto la base, intagliata nella viva roccia che affiora al suolo per risparmiare lo scavo delle fondamenta. Tutto il
resto (cioè i muri in massi squadrati, le colonne, le rampe d’accesso, le statue) è stato demolito dagli spagnoli, che nel XVI secolo saccheggiarono gli antichi monumenti greci e romani per ricavarne pietre da costruzione per le fortificazioni di Ortigia.
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TEATRO GRECO
Il Teatro Greco rappresenta il maggiore esempio dell’architettura teatrale dell’occidente greco. Ha la particolarità di essere quasi interamente scavato nella roccia.
Oltre che per le rappresentazioni, così com’era costume per gli antichi greci, il teatro veniva usato per le assemblee popolari.
Venne costruito nella prima fase del V secolo a.C. sulle pendici del colle Temenite.
È stato ipotizzato (Polacco) che in epoca arcaica il teatro non avesse ancora la forma a semicerchio, che diventerà canonica alla fine del IV secolo a.C. e nel corso
del III a.C., ma potesse essere costituito da gradinate rettilinee, disposte a trapezio
Subì intervento di ristrutturazione nel III sec. a.C. dopo il 238 e certamente prima della morte di Ierone II il 215 a.C., nella forma che oggi vediamo, Ierone II. La sua
costruzione era stata progettata tenendo conto sia della forma naturale del colle Temenite, che della possibilità di sfruttare al massimo l’acustica. Tipica caratteristica
dei teatri greci è anche la valorizzazione della visione panoramica, offrendo la visione dell’arco del porto e dell’isola di Ortigia.
In epoca romana, la cavea venne modificata in forma semicircolare, tipica dei teatri romani, anziché a ferro di cavallo, come d’uso per i teatri greci e furono realizzati
i corridoi che permettevano l’accesso all’edificio scenico (parodoi). La stessa scena venne ricostruita in forme monumentali con nicchia rettangolare al centro e
due nicchie a pianta semicircolare sui lati, nelle quali si aprivano le porte sceniche. Fu inoltre scavata una nuova fossa per il sipario, con la sua camera di manovra.
Nell’orchestra venne interrato l’antico euripo, sostituito da un nuovo canale, molto più stretto e a ridosso dei gradini della cavea, ampliando il diametro da 16 m a
21,40 m.
Dopo essere stato adattato in epoca imperiale ai giochi circensi, il teatro cadde in abbandono.
Nel XVI secolo, così come gli altri monumenti classici, fu depredato dalle maestranze spagnole di Carlo V che usarono la buona pietra già tagliata per erigere le
fortificazioni di Ortigia. Altri guasti vennero dai mulini che erano stati impiantati nella cavea.
Gli scavi, iniziati alla fine del Settecento e protrattisi per tutto il secolo successivo sono stati completati solo nella metà del Novecento.
Pur nella diversità, anche sostanziale, di opinioni degli studiosi sulla genesi del monumento, è generalmente accettato che la forma attuale risalirebbe all’opera di
ristrutturazione degli anni 238 – 215 a.C. sotto il regno di Ierone II.
Il teatro si compone di tre parti ( origine ellenistica): koilon (o càvea), orchestra e scena.
Koilon: ha forma semicircolare e con il diametro di oltre 138 metri; i 67 ordini di gradini sono divisi in nove settori (cunei) da otto scalette di servizio. Un lungo
corridoio attraversa la cavea nel senso della larghezza: è il diàzoma nella cui faccia superiore vi erano incisi i nomi delle divinità o dei regnanti a cui era dedicato
il cuneo. Ancor oggi si leggono i nomi della regina Filistide, di Nereide (rispettivamente la moglie e la nuora di Ierone II). La parte superiore della cavea è priva di
blocchi lì originariamente collocati a causa dell’assenza del banco roccioso e successivamente asportati nel XVI secolo sotto il regno di Carlo V.
Orchestra: è lo spazio semicircolare ai piedi della càvea dove danzavano i cori. Il piano dell’orchestra è delimitato da solchi che circoscrivono uno spazio trapezoidale; nel loro complesso essi sono stati interpretati tanto come canali di scolo delle acque (eurìpi) tanto come le tracce dell’antico teatro che in origine aveva
quell’aspetto.
Scena: è la vasta spianata dove sorgeva l’edificio scenico, delimitata ai lati da due imponenti piloni. Essa si presenta più volte scavata sia perché vi trovavano alloggiamento gli elementi verticali dell’edificio scenico greco sia perché nel corso dei secoli è stata più volte manomessa per essere adattata alle diverse esigenze di
allestimento sceniche, non ultimi i ludi gladiatori.
La parte superiore del teatro era cinta da un ampio portico coperto. La parete rocciosa sovrastante, così come anche altre parti del Colle, è interamente costellata
di incavi quadrangolari (naiskoi) destinati ad accogliere i quadretti (pinakes) con immagini votive di divinità o di defunti eroizzati (in qualche modo paragonabili
ai nostri Santi). In essa, al centro e in asse con il teatro si apre un’ampia grotta dalla quale scaturisce dell’acqua proveniente dall’acquedotto greco. In questa grotta ninfeo è possibile riconoscere il Mouseion, ossia la sede della corporazione degli artisti.
Dal lato occidentale della terrazza si accede alla strada superiore d’accesso al teatro (nella quale sono profondamente segnate le carraie); lungo le sue pareti sono
stati scavati ipogei funerari bizantini e dai quali trae il nome di “Via dei Sepolcri”.
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LATOMIE
Le Latomie (litos=pietra e temnos=taglio), antiche cave di pietra da cui i Greci estraevano il materiale necessario alla costruzione di templi, strade e opere di difesa
(moderni calcoli stimano che furono estratti 4.700.000 mc di pietra), costituiscono sicuramente a Siracusa una delle massime attrazioni del suo patrimonio archeologico.
Il complesso delle latomie siracusane, 12 in tutto, si estende per circa 1.5 km, secondo una linea curva che segue, grosso modo, il bordo della terrazza calcarea
che domina la pianura costiera verso Ortigia, da Ovest, partendo dalle immediate vicinanze del Teatro Greco, verso Est fino al mare, nei pressi del Convento dei
Cappuccini.
Le latomie, inoltre, si prestavano a contenere prigionieri, condannati a scavare massi tra gli stenti e le intemperie. In particolare gli storici ricordano dei Cartaginesi,
catturati da Gelone nel 480 a.c. ad Imera, e dei 7.000 Ataniesi, scampati al massacro nel 413 a.c. all’Asinaro. Quest’uso di prigione è ricordato anche da Cicerone che
le definisce come luogo sicuro contro ogni tentativo di evasione. Oltre che da prigione, esse sono anche servite come abitazione da parte dei ceti più umili della città
e come sede di corporazioni funerarie, testimoniate dalla presenza di molti quadretti votivi dedicati a morti eroizzati. Rappresentavano inoltre un efficace apparato
difensivo di Siracusa per la zona della Neapolis.
Originariamente le latomie erano meno ampie di come ci appaiono ora; i crolli delle volte e di alcuni pilastri, provocati dai numerosi terremoti che hanno interessato la zona di Siracusa in ogni tempo, hanno ampliato gli spazi permettendo al sole di trasformare questi luoghi tetri e tristemente noti, in rigogliosi giardini. Delle
12 latomie individuate, le più note sono, partendo dalle immediate vicinanze del Teatro Greco, quella del Paradiso, dell’Intagliatella e di Santa Venera.
Nella Latomia di Dionisio o “Latomia del Paradiso”, nome idilliaco per i suoi ospiti, si trova l’«Orecchio di Dionisio», un’ altissima, profonda e tortuosa grotta
artificiale destinata a diventare prigione e che, per la sua caratteristica risonanza, permetteva secondo la leggenda al tiranno Dionisio di ascoltare i lamenti dei
prigionieri. Fu i origine per lo più coperta e sotterranea. All’interno della latomia, ancora coperta, vi è la Grotta dei Cordari che, per secoli, grazie alla propria lunghezza e alla presenza dell’acqua, ha ospitato l’arte dei fabbricanti di corde, i cordari appunto. La volta è sostenuta ancora da piloni lasciati dai cavatori di pietre, e
si vedono enormi blocchi ben squadrati pendere dal soffitto come colossali stalattiti.e sue pareti sono stati scavati ipogei funerari bizantini e dai quali trae il nome
di “Via dei Sepolcri”.
Ad una certa distanza verso Est, al di fuori del complesso monumentale della Neapolis, seguono le latomie dette Broggi e del Casale, che sono ancora di proprietà
privata e non aperte al pubblico. Chiude l’arco la latomia “più grandiosa e sorprendente” detta dei Cappuccini. Quasi tutte le altre sono sparite sotto i palazzi della
città moderna.
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CASTELLO EURIALO
Il Castello Eurialo rappresenta il culmine della fortificazione della città di Siracusa il cui nome pare alluda a quello greco di Euryelo (testa di chiodo).
Voluto da Dionisio I, tiranno di Siracusa, sorge sul punto più alto (120 m s.l.m.) della terrazza del quartiere Epipoli a circa 7 km da Siracusa, in direzione della
frazione di Belvedere. L’edificazione di questa imponente opera militare risale fu costruita tra il 402 e il 397 a.C. con lo scopo di proteggere la città da eventuali
operazioni militari di assedio o attacco, poichè durante l’attacco ateniese del 415/413 a.C. l’Epipoli si rivelò il punto debole di Siracusa.
L’entrata del Castello è protetta da tre fossati. Il primo fossato, quello più lontano e con una lunghezza di 6 metri e una profondità di 4, non è mai stato completato. Il
fossato misurava una distanza rispetto ai primi bastioni del castello di 182 metri. La presenza di questo primo fossato ad una determinata distanza aveva un preciso
fine strategico, non far avvicinare oltre a un certo limite le eventuali balliste nemiche e garantire una sicura gettata per le balliste del castello che poste sulle torri del
mastio, erano capaci di colpire ad una maggiore distanza.
Il secondo fossato a 86 m dal primo era lungo circa 50 m con uno spessore di 20 e una profondità di 7. Era ben nascosto nel paesaggio e non si vedeva neanche a
pochi metri. Al riparo del fossato “B” sorgeva una terrazza su cui era posizionata una batteria di catapulte (il cui meccanismo era stato perfezionato dagli ingegneri
siracusani: lo stesso grande matematico Archimede aveva creato nuove macchine militari durante l’assedio romano del 212 a.C.) che potevano bombardare dall’alto
gli assalitori.
La lunghezza del terzo fossato era di 80 metri con uno spessore massimo di circa 15 e una profondità di 9. Fra i due fossati si conservano ancora vaghe tracce di
massicce fortificazioni interamente crollate nel secondo; l’area era quasi del tutto inaccessibile.
Vicino del terzo fossato si elevava il corpo principale del castello, il ‘mastio’, che ha forma trapezoidale, che era difeso da cinque grandi torri (“pentapylon”: ne
rimangono le fondamenta) e protetto da un possente muro munito di una stretta porta che avrebbe permesso l’ingresso solo ad un singolo soldato per volta, mentre
dai muri gli arcieri avrebbero continuato la carneficina dei nemici addossati sulla porta.
Una serie di tre piloni in spessi blocchi calcarei sostenevano un ponte levatoio che avrebbe permesso l’accesso alle fortificazioni antecedenti il secondo fossato dal
livello superiore. I resti di questo ponte levatoio sono ancora visibili.
Nel fondo del terzo fossato è visibile un’altra idea strategica di notevole efficacia: le gallerie. Una fitta rete di galleria scavate nella roccia permetteva ai soldati di
spostarsi con grande rapidità da una parte all’altra senza essere visti né bersagliati dai nemici. Altri cunicoli conducevano alla sommità del castello dentro il mastio
dove avevano sede le camerate dei soldati e i magazzini con le cisterne.
L’area del mastio era divisa in due zone: una centrale di forma rettangolare irregolare e una trapezoidale culminante con una torre la quale ricongiungeva il castello
alle mura dionigiane. L’area trapezoidale oltre a contenere le camerate, probabilmente di origine bizantina, dava accesso ai magazzini e alle cisterne quadrate tutt’ora
visibili, inoltre da qui si raggiungeva la porta a tenaglia dall’esterno.
La porta a tenaglia, un passaggio obbligato per chi proveniva dalle zone più interne quali Akrai o Casmene era un punto estremamente delicato dove il nemico
se vi fosse penetrato non solo avrebbe preso il castello ma anche l’intera città, in questo modo ad oggi è possibile giustificare l’impianto massiccio di difesa che fu
adottato per proteggere la porta stessa. In quel punto le mura assumevano la forma di una tenaglia dove ai due estremi erano collocate due torri maestose le quali
probabilmente supportavano balliste ed arcieri, una terza torre ancora più grande era posta poco più a nord.
Dopo la conquista romana della città nel 212 a.C. ad opera del Console Marcello, il grande complesso militare dell’Eurialo fu modificato fino all’età bizantina quando ne venne ricostruita una parte usando del materiale di spoglio proveniente da altre parti dirute.
Il castello è sito come punto di cerniera tra le due ali di mura che cingevano la città per una lunghezza totale di 27 km. Secondo le fonti antiche Archimede aveva
difeso sino all’ultimo la città grazie all’istallazione dei suoi leggendari macchinari.
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MURA DIONIGIANE
Le mura dionigiane o mura di Dionisio, sono una cinta muraria fatta costruire dal tiranno Dionisio I di Siracusa tra il 402 a.C. e il 397 a.C.
Le mura cingevano completamente l’antica città di Siracusa per un perimetro di ben 27 km e si riunivano nel punto più alto della città, in corrispondenza del Castello Eurialo. Esse sono costruite con rocce calcaree estratte dalle vicine cave di pietra e sovrapposte alle precedenti.
Alla base il loro spessore era variabile tra i 3,3 m e i 5,35 m, e alte diversi metri. 14 erano il numero di torri conosciute di cui la più grande misurava 8,5 x 8,5 m.
Per la sua costruzione furono impiegati 70.000 schiavi e 6.000 buoi divisi in squadre di 200, con un ritmo di riempimento di 300 tonnellate al giorno di blocchi.
La fortificazione è costruita con pietrame lavico, a cortine del tipo a doppio paramento di blocchi lavici, squadrati e messi in opera a secco con riempimento interno
di pietrame minuto, ed è intervallata da torri quadrangolari.
« Avendo visto che durante la guerra con Atene la città era stata bloccata da un muro che andava da mare a mare, temeva, in casi analoghi, di venir tagliato fuori
da ogni comunicazione con il territorio circostante: vedeva bene, infatti, che la località chiamata Epipole dominava la città di Siracusa. Rivoltosi ai suoi architetti,
in base al loro consiglio decise di fortificare le Epipole con un muro, ancora oggi conservato nella zona intorno all’Exapylon (le “ sei porte “). Questo luogo, rivolto a
Settentrione, interamente roccioso e a picco, è inaccessibile dall’esterno. Desiderando che le mura fossero costruite con rapidità, fece venire i contadini dalla campagna,
tra i quali scelse gli uomini migliori, in numero di 60.000, e li distribuì lungo il settore di muro da costruire. Per ogni stadio designò un architetto e per ogni pietre
un mastro muratore, a ciascuno dei quali assegnò 200 operai. 6.000 gioghi di buoi erano impiegati nel luogo designato. L’attività di tanti uomini, che si applicavano
con zelo al loro compito, presentava uno spettacolo straordinario. E Dionigi, per stimolare l’entusiasmo di questa moltitudine, prometteva grandi premi a coloro che
avessero: terminato per primi, specialmente agli architetti, poi anche ai mastri muratori, infine agli operai. Egli stesso, con i suoi amici, assisteva ai lavori per intere
giornate, ispezionando ogni luogo e facendo sostituire quelli che erano stanchi. In breve, rinunciando alla dignità del suo ufficio, si riduceva a un rango privato, e assoggettandosi ai lavori più pesanti, sopportava la stessa fatica degli altri: ne nacque di conseguenza una grande emulazione, e alcuni aggiungevano .anche parte della
notte alla giornata lavorativa. Tale era l’entusiasmo di quella massa di lavoratori. Di conseguenza, il muro fu terminato, al di là di ogni speranza, in 20 giorni: esso
era lungo 30 stadi, e di altezza proporzionata, e così robusto da esser considerato imprendibile. Vi erano alte torri a intervalli frequenti, costruite con blocchi lunghi 4
piedi, accuratamente giuntati » (Diodoro, XIV 18, 2-7)
Questi lavori riguardano evidentemente solo la parte nord delle Epipole, il lato cioè più sguarnito, e che era più urgente fortificare: la lunghezza di questo muro,
30 stadi, corrisponde a circa 5528 m. Si tratta di una indicazione notevolmente precisa, poiché la lunghezza delle mura dionigiane nel settore nord, tra il mare e
il Castello Eurialo, è di circa 5580 m. Una conferma della descrizione antica si ricava anche dalla tecnica di costruzione del muro, che è assolutamente omogenea
nel settore nord (segno evidente di unità di esecuzione), mentre presenta differenze notevoli negli altri settori, che sembrano realizzati in tempi più lunghi, e con
maestranze diverse.
I lavori dovettero proseguire negli anni successivi nei settori sud ed est, e furono terminati probabilmente, intorno al 585, poiché Diodoro ne parla in corrispondenza di quell’anno, affermando che la cinta era ormai conclusa, e che era la più ampia esistente in una città greca (XV 15, 5). Le misure ci sono fornite da Strabone (VI
2, 4), per il quale tutta la cerchia di mura misurava 180 stadi, cioè, in stadi attici, poco meno di 52 km. Anche se si tratta ancora una volta di una cifra arrotondata,
essa corrisponde con buona approssimazione alla realtà (circa 51 km). Che il settore meridionale non fosse del tutto terminato nel 596 risulta chiaramente da un
episodio di quell’anno, quando Imilcione occupò il quartiere esterno dell’Acradina (più o meno corrispondente alla zona del Fusco), e saccheggiò il santuario di
Demetra e Kore.
Presenta almeno due fasi databili, in via preliminare, nel corso del IV e, forse, nei primi decenni del III secolo a.C.
Le prime indagini sono degli inizi del Novecento quando Paolo Orsi libera dal pietrame di risulta e dalla vegetazione oltre 100 metri della cortina muraria orientale
e isola l’imponente torrione addossato alla chiesa di San Francesco, appartenente al braccio settentrionale. La recente attività di tutela e ricerca ha portato all’acquisizione al demanio regionale di un’area che include il primo tratto della fortificazione
Attualmente la cinta muraria è parzialmente leggibile, in prossimità del castello Eurialo essa risulta ben evidente, mentre in altre parti non restano che sparuti frammenti. Questo patrimonio architettonico risulta finora non valorizzato per la sua naturale predisposizione turistica, tuttavia nell’ultimo Piano Regolatore Generale
della città è prevista la costruzione di un “parco delle mura dionigiane”, un immenso parco ad anello atto a proteggere e consentire una fruizione delle mura stesse.
Tuttavia la sua istituzione necessita ancora di adeguata progettazione e di finanziamenti.
Lungo il percorso di visita una piccola sala espone alcuni fra i materiali più significativi rinvenuti durante la campagna di scavo (foto 3 – sala espositiva). Di particolare interesse un accumulo di vasellame in frammenti, malcotto e difettoso, interpretabile come lo scarico di una fornace e databile al III secolo a.C., e delle
deposizioni votive, piccole offerte rituali di vasi, monete e alimenti, disposte su più livelli e databili complessivamente in età ieroniana (270-216 a.C).
L’area è dotata di una sala didattica ed un’area per la simulazione dello scavo archeologico, prevalentemente destinate gli studenti, ai quali sono indirizzate specifiche proposte didattiche ed interventi di tipo laboratoriale.
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