TEORIA E PRATICA
a cura di
M. Ragazzi
DEL RESTAURO
PREREQUISITI
• Conoscenza dei casi più importanti di restauro, sia in campo pittorico (il Cenacolo di
Leonardo, la Cappella Sistina, la Leggenda della vera Croce di Piero della Francesca,
molti dipinti di Giovanni Bellini, del Bronzino, di Raffaello, ecc.), sia in campo architettonico (le maggiori basiliche e chiese di Roma, i monumenti di aree italiane terremotate, ecc.).
• Consapevolezza della presenza e dell’entità del patrimonio artistico del passato, integrato nell’attuale sistema territoriale e urbano d’Italia.
OBIETTIVI
• Conoscenza del concetto di restauro e delle varie modalità di intervento, recupero e ripristino delle opere d’arte.
• Conoscenza del lessico specifico.
• Acquisizione di una sensibilità ai problemi della conservazione e della salvaguardia dei
Beni Culturali e Ambientali.
Collegamenti pluridisciplinari: Chimica, Educazione alla Convivenza civile ed Educazione ambientale, Storia, Scienze Naturali.
Il concetto di restauro
Data l’inevitabilità del loro deterioramento, per cause intrinseche ed esterne, è
fondamentale proteggere le opere d’arte e,
in caso di necessità, sottoporle ad interventi di restauro. Il restauro consiste in una
serie di procedimenti volti a reintegrare, riportandole ad un buono stato di funzionalità, le parti compromesse di un edificio,
monumento, o qualsiasi manufatto di valore artistico o storico.
Gli interventi di salvaguardia richiedono
grandi mezzi economici e organizzativi. In
Italia il compito di attuare la politica del restauro è affidato al Ministero dei Beni Culturali, che assegna ogni anno finanziamenti in base alle esigenze della salvaguardia,
alle urgenze degli interventi e all’importanza dei monumenti e delle opere d’arte. Sono poi le Sovrintendenze Regionali a gestire gli aspetti legati alla programmazione ed
alla realizzazione delle fasi tecniche, utilizzando sempre più spesso il contributo di
gruppi finanziari ed imprenditoriali privati.
La moderna idea di restauro
Figg. 1 e 2
Giovanni Bellini,
Madonna dei
Cherubini Rossi.
Tavola, 77x60 cm.
Particolare prima e dopo
la pulitura ed il restauro.
1
TEORIA
Fino alla metà del Novecento, erano soprattutto gli artisti a occuparsi del restauro
delle opere d’arte. Tale prassi restava pertanto sospesa tra la sfera artistica e quella
artigianale.
Oggi la figura del restauratore è oggetto
di una profonda riflessione. In essa conver-
E PRATICA DEL RESTAURO
gono molteplici competenze, che implicano preparazione culturale, conoscenza delle tecniche artistiche, delle prassi di intervento e di conservazione, nel giusto equilibrio tra manualità e rigore scientifico.
Il principio fondamentale sul quale si basa il concetto moderno di restauro è quello
della conservazione, per la quale Cesare
Brandi ha coniato negli anni ‘60 la definizione di “restauro preventivo”. Essa è attuata mediante mezzi tecnici sofisticati, spesso
basati su procedimenti computerizzati.
La tecnica è oggi considerata una componente essenziale nel restauro: dopo avere eseguito le indagini preliminari, si decide se intervenire con un metodo di “reintegrazione integrale” o con interventi differenziati, per rispondere a problemi diversi
incontrati in una stessa opera.
Si è ormai eliminata, invece, la metodica
della ricostruzione stilistica delle opere,
ovvero il loro rifacimento, volto a farle apparire come “probabilmente” erano.
Le opere vengono così ripulite e consolidate, ed eventualmente ricomposte, quasi
sempre in modo che si possano individuare i segni del restauratore. Quest’ultima
modalità di intervento ebbe inizio intorno
alla metà del ‘700, quando in occasione
del restauro del dipinto San Michele debella Satana di Raffaello (Parigi, Museo del
Louvre), il restauratore francese Robert Picault evitò di intervenire con la tecnica originale, ovvero con ridipinture.
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Figg. 3 e 4
Piero della Francesca,
Leggenda della vera Croce.
Il trasporto del Sacro Legno.
Affresco, 356x190 cm.
Arezzo, Basilica di
San Francesco.
Particolare prima e dopo
la pulitura ed il restauro.
Filosofie e metodi di intervento:
una questione aperta
Negli ultimi decenni, in concomitanza
con interventi di restauro su opere di grande rilievo, soprattutto in Italia, si è intensificato il dibattito sugli aspetti critico-filologici della disciplina.
Gli interventi di restauro degli affreschi
di Michelangelo sulla volta della Cappella
Sistina a Roma, sul Cenacolo di Leonardo
nell’ex-refettorio in Santa Maria delle Grazie a Milano, sulla statua bronzea del Perseo di Benvenuto Cellini, sul ciclo della
Leggenda della vera Croce di Piero della
Francesca nella Basilica di San Francesco
ad Arezzo, sugli affreschi di Giotto nella
Cappella degli Scrovegni a Padova, non sono che i casi recenti più clamorosi.
È ormai acquisita l’idea che un restauro
debba essere un passaggio inevitabile dell’esistenza dell’opera d’arte, senza però
proporsi come sua nuova chiave interpretativa.
Ogni tecnica di intervento deve pertanto
poter essere messa in discussione in avvenire e, al limite, ogni intervento manuale
deve poter essere rimosso senza che siano
arrecati ulteriori danni all’opera.
Non di rado, nell’ultimo decennio, gli interventi di restauro su opere pittoriche hanno
restituito colori accesi, a volte al punto da
modificare l’assetto cromatico noto a tutti.
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Molti critici d’arte fanno notare che i
solventi utilizzati per rimuovere le ridipinture impoveriscono la pittura originale,
privandola ad esempio della vernice che
spesso gli artisti stendevano a lavoro ultimato per esaltare alcuni toni cromatici o,
al contrario, per uniformare l’insieme. Ancor prima del Rinascimento, poi, interventi periodici di ridipintura erano considerati una normale pratica di manutenzione.
Resta il sospetto che l’accentuazione
dei colori nelle opere pittoriche incontri il
gusto corrente, ormai influenzato dai
mass media: stampa, televisione e videocomputer propongono infatti toni cromatici tanto appaganti quanto più timbrici e
piatti.
Probabilmente il restauro della volta della Cappella Sistina di Michelangelo è
quello che ha suscitato le reazioni più
contrastanti.
In quindici anni, dal 1975 al 1990, sono
stati analizzati tutti i possibili fattori di alterazione degli affreschi, al fine di individuare le prassi di intervento più adeguate.
La volontà di restituire all’opera l’aspetto che “probabilmente” Michelangelo le
aveva dato, ha imposto l’eliminazione di
tutte le aggiunte successive. Ogni fase di
intervento è stata gestita con l’ausilio dei
mezzi computerizzati, e si ritiene siano
state rimosse con cura tutte le cause del
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
2
Fig. 5
Giotto,
Ritratto di Dante sulla
parete con il Paradiso
nella Cappella del
Podestà, ante 1337.
Firenze, Palazzo del Bargello.
Particolare dopo
la pulitura ed il restauro.
3
TEORIA
degrado (dalle ridipinture ai residui del fumo delle candele, ecc.); tuttavia sono rimasti dubbi circa l’effettiva corrispondenza tra quella attuale e la stesura pittorica
originale. È quasi certo infatti che il processo naturale di deterioramento del colore abbia causato la perdita degli autentici
valori cromatici.
È possibile, poi, che siano stati asportati
i ritocchi realizzati “a secco” dal pittore,
per quanto presenti in numero limitato.
In verità, il restauro ci ha consegnato
un’opera dai colori pastello intensi, persino sgargianti: ben altro rispetto ai toni cupi, quasi monocromatici, che hanno portato per secoli ad associare la figura artistica
di Michelangelo con una pittura senz’altro
più scultorea e austera.
Questioni diverse sono emerse con il restauro del Cenacolo di Leonardo, avviato
nel 1978 e concluso nel maggio 1999.
Com’è noto, l’opera era deteriorata già
nel Cinquecento, se Giorgio Vasari vi scorse solo una “macchia abbagliata”. Si aggiunga il grave episodio del bombardamento durante la Seconda Guerra Mondiale, che ha distrutto la sala del refettorio,
lasciando fortuitamente intatta l’opera leonardesca.
Un restauro realizzato tra il 1951 e il
1954 si era limitato a ripulire il Cenacolo
dalle polveri dell’esplosione. Restava la
difficile questione delle ridipinture, appor-
E PRATICA DEL RESTAURO
tate nel corso dei secoli, realizzate con
l’aggiunta di resine, cere, solventi, colle,
stucchi, vernici, oli.
Il risultato consisteva in uno spesso velo
di polvere, fissato dall’umidità di condensa della parete posta sul lato nord; vistosi
sollevamenti sul margine superiore erano
poi dovuti all’eccessiva presenza di collanti, applicati per far rilucere l’opera.
Il restauro, di tipo conservativo, ha eliminato alcune vistose licenze di intervento: sono stati recuperati il manto e la veste
di Simone, ma soprattutto la giacitura originaria della testa, che Leonardo aveva voluto di tre quarti e che noi conoscevamo di
profilo; di tutti i commensali sono cambiati i tratti somatici, mettendone in luce la
componente espressiva.
La reintegrazione delle lacune pittoriche, eseguita ad acquerello sulle parti originali ancora recuperabili, ha consentito
pertanto di avvicinare lo spettatore alla
qualità originaria dell’opera.
Il restauro degli affreschi di Giotto nella
Cappella degli Scrovegni a Padova, concluso nel 2002, ha inaugurato un approccio ancor più complesso: l’intervento (che
ha impiegato in media 40 addetti al giorno), è stato infatti realizzato attraverso l’analisi comparata dei dati sui dipinti, sull’edificio e sullo stesso ambiente.
Al risanamento dell’edificio hanno fatto
seguito interventi di adeguamento ambientale (schermatura delle vetrate, controllo della qualità microclimatica, dell’inquinamento, della polverosità e dell’umidità dell’aria, ecc.), quindi l’installazione
del Corpo Tecnologico Attrezzato, vero e
proprio filtro tra interno ed esterno.
Entro un contenitore così attentamente
monitorato, sono stati quindi realizzati gli
interventi conservativi, di restauro e di
reintegrazione delle lacune, con colori ad
acqua. I lavori, volti in primo luogo a fermare il processo di polverizzazione del
colore, hanno anche consentito di fare
emergere particolari impensati, come le
lacrime delle madri nella Strage degli innocenti.
Il cantiere è stato concepito anche come
spazio didattico, offrendosi al pubblico
come esperienza irripetibile.
L’esperienza di Padova, già applicata anche nel Refettorio di Santa Maria delle
Grazie a Milano, ha sviluppato un percorso sperimentale che si ritiene possa diventare in futuro prassi acquisita per tutti gli
interventi analoghi. La qualità delle strumentazione e la scientificità dei procedimenti utilizzati, poi, consentirà forse una
riduzione delle critiche che inevitabilmente accompagnano qualsiasi interferenza
con il materiale storico.
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A.
Sopra Fig. 6
Imponente colonizzazione
biologica da parte della
vegetazione tropicale nell’area archeologica
di Angkor (Cambogia).
Sopra a destra Fig. 7
Colonizzazione di funghi
microscopici e licheni sulle
mura delle “Città morte”
nei pressi di Aleppo (Siria).
QUESTIONI DI PRATICA OPERATIVA
Nella pratica, l’intervento di restauro
consiste in una serie di operazioni, dalle
più elementari alle più sofisticate, volte “a
restituire all’oggetto, nei limiti del possibile, la relativa leggibilità e, ove occorra, l’uso” (dalla Carta del Restauro del 1987).
Di volta in volta, gli interventi possono
essere diversi a seconda della tipologia del
manufatto, dei materiali che lo costituiscono e dell’entità del degrado.
Ogni restauro deve comunque sottostare
a norme e convenzioni sancite da appositi
organismi, nazionali e internazionali, e riconosciute dai principali istituti di restauro. In particolare, per ogni operazione è richiesta la reversibilità, al fine di garantire
la possibilità di intervenire nuovamente
sull’opera, a distanza di tempo, nel caso in
cui l’intervento e la natura dei materiali impiegati si rivelassero non idonei, o in relazione a nuove acquisizioni scientifiche e
alla messa in commercio di nuovi e più
adeguati materiali. A volte, come nel caso
del consolidamento, al requisito della reversibilità, impossibile da ottenere nella
pratica, si sostituisce quello della compatibilità e della durabilità dei materiali impiegati, in modo da escludere, in futuro, la necessità di rimuoverli.
Le fasi dell’intervento di restauro
Alcune fasi e operazioni sono comuni alla quasi totalità degli interventi di restauro;
altre operazioni sono più specificamente
connesse ai singoli casi.
• INDAGINI DIAGNOSTICHE SUL MANUFATTO E
SULL’AMBIENTE
Indagini mirate ad acquisire le informa© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS
zioni storiche e i dati, tecnici e scientifici, necessari a guidare l’intervento di restauro e a garantire la conservazione nel
tempo.
• PULITURA DEL MANUFATTO
Una serie di operazioni eseguite allo scopo di rimuovere dalla superficie del manufatto le vernici alterate a causa dell’invecchiamento e le eventuali sostanze
estranee presenti. Queste possono essere
di svariata provenienza: depositi dovuti a
incuria e a inquinanti atmosferici, organismi responsabili di attacco biologico,
deiezioni animali, scritte vandaliche,
precedenti restauri.
La pulitura può essere eseguita con mezzi meccanici (bisturi, scalpelli, sabbiatrici e microsabbiatrici), chimici (soluzioni
acquose, detergenti chimici e solventi organici), biochimici (metodi enzimatici),
fisici (strumentazione laser).
• CONSOLIDAMENTO
DEI MATERIALI E DELLA
STRUTTURA DEL MANUFATTO
Il consolidamento dei materiali si ottiene
per impregnazione con opportune sostanze allo stato fluido, minerali o sintetiche, che, una volta solidificate, ripristinano la tessitura coesiva della materia.
Per consolidare la struttura sono necessari interventi in grado di ridarle solidità e
stabilità. Varie e diverse sono le operazioni possibili a seconda della tipologia
del manufatto: riadesione di pellicole pittoriche sollevate, rifoderatura delle tele,
stuccatura di lacune, inserimento di perni e sostegni in opere scultore, operazioni di consolidamento statico nei beni architettonici, ecc.
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
4
Sopra Fig. 8
Un esempio dell’azione
biodeteriogena della specie
umana è la decapitazione
dei Buddha di Angkor ad
opera dei Khmer rossi
(Cambogia).
Sopra a destra Fig. 9
Effetti devastanti provocati
da sedici anni di guerra
a Beirut (Libano).
• MONITORAGGIO DELL’INTERVENTO DI RESTAURO
Nel corso del restauro può essere necessario effettuare alcune indagini per verificare l’efficacia delle varie operazioni; ad
esempio per accertare se la pulitura ha
rimosso completamente i depositi, o se il
consolidante ha impregnato omogeneamente e sufficientemente la materia.
• APPLICAZIONE
DI EVENTUALI PROTETTIVI
SUPERFICIALI
Sia sulle superfici dipinte, sia sui monumenti esposti all’aperto può essere opportuno applicare apposite vernici, protettive, impermeabili e antiscritta, allo
scopo di proteggerli dagli agenti ambientali e dagli atti vandalici.
• EVENTUALE
CONDIZIONAMENTO
DEI PARAMETRI AMBIENTALI
Spesso i fenomeni di degrado sono innescati o accentuati da condizioni ambientali non idonee: un eccesso di umidità
può, ad esempio, favorire l’attacco di muffe e batteri; gli inquinanti atmosferici possono alterare il colore dei pigmenti; troppi visitatori innalzano i livelli di anidride
carbonica nell’aria. Risulta, perciò, necessario attuare tutte le strategie utili al condizionamento degli ambienti, con il controllo dei parametri termoigrometrici e degli inquinanti. Un sofisticato sistema di
“condizionamento” anche dei visitatori è
il “Corpo Tecnologico Attrezzato” annesso
alla Cappella degli Scrovegni a Padova.
Fattori di degrado dei beni artistici e
culturali
Molteplici sono i fattori che concorrono
al degrado del patrimonio storico e artistico, sia che si tratti di opere conservate in
5
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
appositi ambienti protetti (musei, gallerie,
chiese), sia di opere esposte all’aperto. Organismi viventi e microrganismi, inquinanti chimici, fattori climatici e microclimatici
sono in grado di comprometterne la conservazione.
IL BIODETERIORAMENTO DEI BENI CULTURALI
Si intende con biodeterioramento quella
forma di danneggiamento irreversibile che
avviene ad opera di organismi, siano essi
di origine animale, vegetale o microbica.
Questo si verifica e manifesta in modi diversi: gli organismi insediati sul bene possono nutrirsi a spese dei materiali che lo
costituiscono, come fanno i tarli del legno
e le muffe che attaccano i leganti pittorici;
possono produrre sostanze corrosive per
pietre e metalli o provocare la formazione
di macchie indelebili; possono innestare
effetti meccanici tramite i loro apparati radicali o, ancora, limitarsi a compromettere
la leggibilità dell’opera crescendovi sopra,
come nel caso della vegetazione ruderale.
Tra i biodeteriogeni animali, la specie
umana merita di essere citata come una
delle principali cause di danneggiamento:
se la flora infestante ha un ruolo determinante nella distruzione di talune aree archeologiche, vandali, ladri, profanatori e
guerre hanno esercitato e continuano ad
esercitare effetti persino più devastanti; se
gli atti vandalici compromettono la conservazione dei beni culturali, è in occasione
delle guerre che gli uomini praticano sui
medesimi una vera e propria azione distruttiva. Come non ricordare la recente distruzione dei buddha di Bamyan, ad opera
della guerra iconoclasta dei Taliban in Afghanistan, o le immagini del museo archeologico di Baghdad, devastato dai saccheggi nel corso dell’ultima guerra.
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Fig. 10
Esempio di degrado
del marmo che si manifesta
con disgregazione,
polverizzazione e croste
nere sulle colonne della
Torre di Pisa.
Inquinamento e beni culturali
È opinione diffusa, e confermata da dati
scientifici, che l’inquinamento atmosferico
costituisca uno dei principali fattori di degrado dei beni culturali. Questo agisce tanto sulle opere esposte alle atmosfere inquinate delle città, quanto su quelle conservate
all’interno di musei e chiese, dove gli inquinanti sono introdotti con l’apertura di porte
e finestre e con l’afflusso dei visitatori.
Le sostanze inquinanti possono agire per
semplice deposizione sui beni, con formazione di patine e croste, o per interazione
chimica con i materiali: alcuni inquinanti
reagiscono con i pigmenti determinando
variazioni cromatiche di vario tipo come,
ad esempio, il viraggio dal bianco al grigionero della biacca, un pigmento a base di
piombo, o il viraggio dell’azzurrite, a base
di rame, dall’azzurro al verde.
Anche sostanze naturalmente presenti
nell’atmosfera, come l’anidride carbonica,
possono risultare dannose, soprattutto quando i loro livelli subiscono notevoli innalzamenti per via di fenomeni, naturali e non.
Uno studio, eseguito nella Camera degli
Sposi del Palazzo ducale di Mantova, ha
evidenziato che il forte afflusso dei visitatori, insieme al volume ridotto del locale,
causava variazioni di temperatura e umidità
tali da provocare la deposizione di vapore
d’acqua e anidride carbonica sulle superfici affrescate e innestare un attacco acido in
grado di disgregare la superficie pittorica e
alterare il colore di alcuni pigmenti.
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LA SOLFATAZIONE DEGLI AFFRESCHI
Un inquinante particolarmente dannoso
è l’anidride solforosa, proveniente dal traffico automobilistico e dal riscaldamento
domestico.
L’anidride solforosa, trasformata in acido
solforico nelle piogge acide e nell’umidità
atmosferica, può corrodere pietre e metalli e
provocare la solfatazione degli affreschi:
una reazione chimica porta alla formazione
di efflorescenze biancastre che, ricoprendo
la superficie dipinta, ne impediscono la lettura, e, penetrando nella materia affrescata,
ne provocano la polverizzazione.
Nel corso del restauro della Cappella degli Scrovegni a Padova, ad esempio, le indagini hanno rilevato che la solfatazione,
era più accentuata in prossimità della porta di ingresso, aperta su una via di intenso
traffico, e decresceva mano a mano che ci
si allontanava dalla porta; questo a dimostrare la stretta relazione tra inquinamento
e degrado.
LE CROSTE NERE
È sotto gli occhi di tutti la formazione di
spessi depositi neri sulle superfici lapidee,
in particolare nelle zone ove queste non
sono esposte al dilavamento della pioggia.
Si tratta delle croste nere, depositi grassi di
particelle carboniose e materiali biologici
trasportati dalle correnti d’aria.
Oltre al danno estetico, le croste nere innestano gravi fenomeni di degrado che
possono portare alla disgregazione della
pietra.
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
6
Sopra Fig. 11
Claude Monet
Ninfee, 1920 circa.
Olio su tela, trittico,
ogni sezione 200x425 cm.
New York, Museum
of Modern Art.
A lato Fig. 11.12
L’analisi al microscopio
della sezione lucida ha
evidenziato l’applicazione
di molti strati di pittura.
Nel particolare se ne
contano circa dieci.
Metodi di indagine
La premessa fondamentale a qualsiasi intervento di restauro è la conoscenza sia
della storia del bene culturale, sia del suo
stato di deterioramento e delle cause che
lo hanno prodotto. Per questo, ad approfondite indagini storico-archivistiche si
affiancano indagini scientifiche, di tipo
chimico, fisico e biologico.
Molti e in continua evoluzione sono gli
strumenti diagnostici a servizio della tutela
dei beni culturali; specifici settori di ricerca
scientifica e tecnologica si occupano della
diagnostica applicata alle opere d’arte.
L’insieme delle indagini diagnostiche
può fornire informazioni relative a:
• materiali impiegati e tecnica di esecuzione dell’opera;
MICRORGANISMI
E AFFRESCHI: IL CASO DEL
• stato di conservazione dell’opera e dei
materiali, con identificazione delle cause
e dei meccanismi del degrado;
• eventuali “ripensamenti” dell’artista e precedenti interventi di restauro o ridipintura,
con individuazione e localizzazione dei
materiali impiegati.
Ulteriori indagini scientifiche riguardano
la caratterizzazione dell’ambiente di conservazione del bene dal punto di vista dei
parametri ambientali, come temperatura e
umidità, dell’inquinamento atmosferico e
dei microrganismi trasportati dall’aria
(componente aerobiologica).
Altre tecniche ancora sono in grado di
fornire informazioni utili per la verifica dell’autenticità dell’opera e della sua datazione. Ad esempio, la rilevazione di pigmenti
CAMPOSANTO
DI
PISA
I microrganismi non esercitano soltanto un’azione di degrado nei confronti delle opere
d’arte; un’interessante sperimentazione, attuata dall’Università degli studi di Milano sugli
affreschi del Camposanto di Pisa, ha selezionato batteri in grado di coadiuvare le operazioni di restauro degli stessi. Poiché versavano in cattivo stato di conservazione, negli
anni ‘80 gli affreschi furono staccati dalla parete con la tecnica dello “strappo” (tecnica
ora esclusa dagli interventi di restauro): l’operazione prevede che una tela sia incollata
alla superficie affrescata, in modo da consentirne il distacco mediante strappo.
Gli affreschi strappati furono poi “dimenticati” per alcuni anni e quando, nel 1995, si
provò a liberarli dalla tela, i metodi tradizionali non risultarono efficaci. I batteri selezionati per la sperimentazione, invece, opportunamente dispensati sulla superficie
della tela, si sono mostrati in grado di degradare la colla animale che la teneva incollata alla superficie dipinta, consentendone la rimozione.
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TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
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Sopra Fig. 13
Mario Sironi, Meriggio,
prima metà del XX secolo.
Olio su tela. Firenze,
Galleria d’Arte Moderna.
Sopra a destra Fig. 14
La Fluorescenza UV
evidenzia la stesura di varie
vernici originali applicate
in maniera disomogenea.
sintetici, non ancora in uso all’epoca del
presunto autore, consente di identificare
opere pittoriche falsificate.
I metodi di indagine si distinguono a seconda della loro invasività, ovvero a seconda della necessità di effettuare prelievi
di campioni che “sottraggono” materia alle
opere, o della possibilità di eseguire indagini che non comportano tali prelievi.
• Metodi non distruttivi, eseguiti direttamente sull’opera senza prelievo di campioni: tecniche fotografiche, radiografiche, ecografiche, a ultrasuoni, e altre
sofisticate indagini di tipo fisico.
• Metodi paradistruttivi, che richiedono il
prelievo di un campione riutilizzabile
per più analisi: campionamenti per la
realizzazione di sezioni da analizzare,
ad esempio, al microscopio ottico.
• Metodi distruttivi, che richiedono il prelievo di minuscoli campioni di materiale: tutti i metodi più tradizionali di analisi chimica.
Alcuni metodi di indagine presuppongono l’impiego di apparecchiature molto sofisticate e costose; altri possono essere utilizzati anche dai restauratori nei loro laboratori. Alcuni forniscono dati di difficile interpretazione; altri restituiscono immagini
di immediata lettura. Presentiamo metodi
rappresentativi delle indagini paradistruttive sui dipinti.
A destra Fig. 15
La radiografia rivela,
al di sotto del film pittorico,
una precedente versione
della raffigurazione.
st chimici per identificare i componenti dei
vari strati (leganti, pigmenti e vernici).
Alcune tecniche diagnostiche non invasive forniscono immagini che possono riguardare tanto lo strato superficiale del dipinto quanto gli strati sottostanti, consentendo di acquisire informazioni circa la natura dei materiali impiegati, lo stato di conservazione dell’opera, eventuali ridipinture
e precedenti restauri.
• FLUORESCENZA ULTRAVIOLETTA
Il metodo sfrutta la proprietà di alcune
sostanze di emettere una fluorescenza se
opportunamente sollecitate da una sorgente luminosa a raggi UV. Il fenomeno riguarda prevalentemente i materiali organici; questi sono in grado di dare risposte diverse a seconda della loro natura chimica
e del grado di invecchiamento.
Può servire a mettere in evidenza precedenti interventi di restauro, rilevando la
presenza di materiali organici, come vernici e leganti, non chiaramente distinguibili
alla normale luce visibile. Consente anche
di riconoscere alcuni pigmenti.
• RIFLETTOGRAFIA INNFRAROSSA
La tecnica si basa sulle riprese di una te-
• SEZIONI LUCIDE
Dall’opera pittorica è prelevato un frammento di materiale in direzione trasversale
al dipinto. Su questo frammento, opportunamente trattato, vengono eseguite indagini
microscopiche che mostrano la successione
degli strati costituenti la pittura (preparazione, imprimitura, strato pittorico, vernice).
Sui campioni è anche possibile eseguire te-
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TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
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I
GRAFFITI CITTADINI
Una delle cause di degrado delle opere è il gesto vandalico dei graffitari: sempre più
spesso le superfici dei monumenti diventano il supporto di questa problematica forma di “espressione artistica”.
Con il termine graffiti oggi comunemente intendiamo sia le firme lasciate a memoria del
proprio passaggio in un luogo di interesse artistico, sia i variopinti disegni che ricoprono superfici più o meno ampie di monumenti, vagoni ferroviari e manufatti in genere.
I materiali utilizzati sono i più svariati e vanno dalle comuni penne a sfera, a pennarelli indelebili, gessetti e vernici spray.
Oltre all’evidente danno estetico di superficie, alcune tra le sostanze utilizzate sono
in grado di diffondersi all’interno del materiale costituente il manufatto, danneggiandolo in modo permanente.
La pratica più consolidata per ovviare a questo fenomeno e restaurare i beni danneggiati è quella di procedere alla rimozione di scritte e disegni mediante operazioni di pulitura. Queste possono impiegare getti di vapore, acqua, opportune soluzioni detergenti e solventi chimici o, addirittura, la sabbiatura e le più sofisticate tecniche laser, in relazione alla natura dei materiali da rimuovere, delle opere da salvaguardare e dell’estensione della superficie imbrattata.
Per la prevenzione del degrado associato ai graffiti, oltre a opportune misure educative
nei confronti degli autori, risulta efficace l’impiego dei cosiddetti “protettivi antiscritta”.
Si tratta di opportune miscele di resine artificiali che vengono stese sulle superfici da
proteggere, andando a costituire uno strato omogeneo e resistente, una vera e propria pellicola, che non consente al colore di penetrare nel materiale e ne rende agevole la rimozione.
Nel restauro monumentale, come antiscritta si utilizzano materiali reversibili, ovvero cere e resine sintetiche che, nella fase di pulitura, vengono rimosse insieme alle
scritte, e successivamente ripristinate con nuove stesure.
lecamera a raggi infrarossi che, puntata sull’opera insieme ad opportune lampade, registra informazioni provenienti dai vari
strati del materiale.
Consente di individuare la natura di alcune sostanze e pigmenti, la presenza del
disegno preparatorio e, in generale, stesure
sottostanti il film pittorico: eventuali ripensamenti dell’artista, precedenti ritocchi e
ridipinture.
• RADIOGRAFIA A RAGGI X
Si tratta di una tecnica applicabile a svariati manufatti artistici e archeologici.
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TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
I raggi X sono in grado di attraversare selettivamente i diversi materiali, in base alla
loro diversa radiopacità, restituendo un’immagine in trasparenza dell’oggetto e di ciò
che si trova al suo interno. Si ottiene una vera e propria radiografia dell’opera che, oltre
a fornire informazioni su struttura e tecnica
di esecuzione, può evidenziare lo stato di
degrado, la presenza di discontinuità nei
materiali (gallerie di tarli e chiodi metallici
nelle tavole lignee, cuciture e strappi nelle
tele, ecc.), eventuali rifacimenti della pellicola pittorica, dipinti sottostanti quello di
superficie, scritte e firme nascoste.
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B.
IL RESTAURO IN PITTURA
L’intervento di restauro si propone di assicurare il recupero di un’opera d’arte rispettandone la specificità storica ed estetica. Il restauro è comunque l’esito di un
lavoro integrato tra storici dell’arte, responsabili dell’indagine fisico-chimica e
restauratori.
La prima fase consiste nella raccolta di
tutta la documentazione storica e stilistica. Si passa, quindi, ad individuare le
cause del degrado, sia quelle dovute al
naturale invecchiamento dell’opera, sia
quelle dovute a situazioni indotte (efflorescenze saline, patina determinata dalla risalita capillare di acqua, ecc.), sia quelle,
più numerose di quanto non si creda comunemente, determinate da precedenti
restauri. Sovente, infatti, il deterioramento
è stato provocato dagli oli usati come trattamento protettivo: mescolati alla polvere
o al fumo delle candele (nel caso di dipinti rimasti per molto tempo nelle chiese), questi compromettono la qualità cromatica dell’opera. La fase più complessa
riguarda la scelta della tecnica di intervento più adeguata.
L’indagine documentaria
Fino all’avvento dei colori acrilici, nel
Novecento, i pittori sceglievano e rielaboravano i materiali naturali con estrema cura. Raramente essi utilizzavano i materiali
grezzi, ma seguivano antiche tradizioni,
tramandate di bottega in bottega o attraverso manuali.
Nei testi teorici, quali quelli di Plinio il
Vecchio (23-79 d.C.) nell’antichità, di Cennino Cennini (fine XIV sec. – inizio XV
sec.), Benvenuto Cellini (1500-1571) e
Gianbattista Armanini (1530-1609) nel Rinascimento, di André Félibien (16191695) e Francisco Pacheco (1564-1654)
nel Seicento, sono descritti metodi di lavoro, materiali utilizzati ed effetti cromatici
da questi determinati.
Strumento per comprendere le tecniche
pittoriche utilizzate nei secoli medievali,
molte delle quali presenti ancora nel Rinascimento ed oltre, è il Libro dell’arte di
Cennino Cennini, redatto tra il Trecento e il
Quattrocento.
Attraverso informazioni dettagliate e si-
A lato Fig. 16
Andrea del Sarto,
Sacra Famiglia, 1515.
Olio su tela, 100x134 cm.
Parigi, Museo
del Louvre.
A destra Fig. 17
Andrea del Sarto,
Sacra Famiglia, 1515.
Disegno preparatorio.
I
SEGRETI DELLA TECNICA PITTORICA
A partire dagli anni Settanta del Novecento sono emerse alcune importanti informazioni relative ai disegni preparatori degli artisti. Contrariamente a quanto si credeva
un tempo, oggi si è dimostrato che anche in opere su cavalletto, e non solo sugli affreschi, gli artisti hanno fatto largo uso di disegni, spesso accurati, a volte riportati
da allievi.
La scoperta è dovuta all’applicazione del processo della spettrometria in riflessione
a raggi infrarossi, coadiuvata da telecamere sofisticate. Tale scoperta apre nuovi
orizzonti critici; si è osservato, infatti, come nei primi decenni del Cinquecento, soprattutto in Europa settentrionale, il disegno preparatorio fosse vicino a quello della tecnica incisoria. Esemplare è il caso della Sacra Famiglia di Andrea del Sarto, dipinta nel 1515.
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TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
10
LE
CAUSE NATURALI DEL DEGRADO
Le alterazioni di un dipinto sono determinate da agenti chimici, fisici e biologici. Tra
le alterazioni più diffuse, ricordiamo le seguenti:
11
TEORIA
Screpolature da essiccamento
Si formano nella fase iniziale della vita dello
strato pittorico, per l’impiego errato di materiali e di metodi di stesura del pigmento. Sono
dovute a variazioni chimiche del legante,
della vernice o al ritiro degli strati di preparazione.
Screpolature da invecchiamento
Si sviluppano quando la pittura è già essiccata e non può, quindi, resistere alle tensioni
meccaniche che derivano dall’assestamento
del supporto della cornice e della tela. Tutto è
in relazione all’umidità e alla temperatura
dell’ambiente.
Sollevamenti e cadute di colore
Pur mantenendo invariata la capacità di tenere
coese le particelle di pigmento, con il tempo il
legante pittorico può perdere la proprietà di
aderire al supporto. In questo caso si formano
screpolature i cui bordi possono incurvarsi o
sollevarsi.
Deformazioni del supporto in legno
Il supporto in legno del telaio e la tela stessa subiscono fasi di riduzione di volume
determinate dalla stagionatura del legno.
Ciò può provocare deformazioni al supporto
e alla tela, creando problemi di conservazione.
Alterazione dei colori
Tra i fattori che possono maggiormente deteriorare un dipinto ricordiamo quello dovuto
alle radiazioni luminose e ultraviolette.
Un’illuminazione errata provoca l’ingiallimento delle vernici e la perdita di colore di
alcuni pigmenti.
Danni biologici
Tra le possibili cause di alterazione e danneggiamento di un dipinto si annoverano anche
quelle biologiche, legate all’azione di insetti
e allo sviluppo di vegetali e di microorganismi sulla tela.
E PRATICA DEL RESTAURO
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stematiche sul lavoro degli artisti, Cennini
suggerisce come intervenire con modalità
coerenti a quelle originarie.
Il testo offre la chiave di lettura delle innovazioni della pittura medievale rispetto
L’IMITAZIONE
ai secoli precedenti: a guisa di manuale,
esso insegna a preparare un dipinto murale, a scegliere il legno più adatto, a incollarne le assi, a preparare il fondo della pittura su legno.
E L’INTEGRAZIONE DELLA MATERIA PITTORICA
Il procedimento dell’imitazione della materia pittorica tende a ricostruire la superficie
originaria, mantenendo molto spesso, comunque, una caratterizzazione neutra, ben
distinguibile dal resto dell’opera.
Le informazioni di queste
pagine sono tratte da
Arte su Arte, Istituto per
l’Arte e il Restauro “Palazzo
Spinelli”, Firenze.
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La prima fase di reintegrazione di un dipinto
prevede la stuccatura della parte mancante.
Una volta essiccato, il gesso viene lisciato a
livello della superficie pittorica con la lama di
un bisturi.
Le pennellate e le imperfezioni della superficie originale vengono successivamente imitate, usando gesso e colla diluiti in una certa
quantità d’acqua.
La figura mostra il risultato dell’operazione
precedente con gesso e colla: la lacuna originaria è stata colmata, ma volutamente lasciata a vista.
Molte volte l’integrazione del colore viene
eseguita con un tratteggio parallelo.
Il particolare mostra l’effetto a distanza dell’integrazione a tratteggio parallelo: allontanandosi dal dipinto, la tessitura del tratteggio
non si nota più.
La verniciatura ha la funzione di difendere il
colore dagli agenti esterni e conferire la
necessaria lucentezza al dipinto. La vernice
ha uno spessore limitato ed omogeneo ed è
applicata a pennello.
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
12
ANALISI DELL’OPERA
A lato Fig. 18
Trittico della Natività, retro della tavola di
San Francesco con la traversa di sostegno applicata.
A destra Fig. 19
Trittico di San Lorenzo, retro della tavola
di San Giovanni Battista dopo il restauro.
Sotto Fig. 20
Giovanni Bellini, Trittico di San Lorenzo,
1460-1464. Tempera su tavola.
Venezia, Gallerie dell’Accademia.
UN ASPETTO DEL RESTAURO: I SUPPORTI LIGNEI
Il supporto ligneo riveste grande importanza sotto il
profilo tecnico, in quanto su di esso si dispongono gli
strati preparatori e la pellicola pittorica; tuttavia, solo di
recente la tecnica del restauro ne studia le caratteristiche,
finalizzandole al processo di recupero globale dell’opera.
Il supporto ligneo condiziona la conservazione dell’opera, in quanto è sottoposto a comportamenti diversi da
quelli del colore. Il legno, infatti, presenta un’elasticità
ben superiore a quella degli strati pittorici, generalmente
composti da colla e gesso o carbonato di calcio. Di conseguenza i due materiali presentano micromovimenti diversi, a danno della coesione reciproca nel tempo.
Il legno cambia più volte dimensione, in quanto il suo
equilibrio igroscopico varia con le condizioni ambientali:
esso può dilatarsi in presenza di forte umidità, o viceversa. Questo movimento, radiale o trasversale a seconda delle venature e delle caratteristiche fisiche, è il principale responsabile delle deformazioni della superficie pittorica.
Un primo passo per la corretta conservazione dell’opera
consiste ovviamente nel mantenere un costante grado di
umidità relativa ambientale, che deve essere compreso
tra il 55% e il 65%. Tuttavia, non è semplice ottimizzare
la climatizzazione di molti luoghi storici, quali chiese,
conventi, palazzi d’epoca, portici. Eventuali guasti agli
13
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
impianti di climatizzazione possono inoltre causare danni considerevoli alle opere.
Solo negli ultimi due decenni del Novecento sono state
applicate competenze scientifiche in questo settore. La
tendenza è quella di garantire la reversibilità dell’intervento.
Spesso l’azione si concentra nel risanamento delle fessurazioni che si determinano in corrispondenza all’accostamento tra diverse tavole. In questi casi, si prevede sovente l’alleggerimento o, al contrario, l’irrigidimento del
sistema di sostegno, al fine di offrire buona stabilità al
supporto stesso.
Uno dei procedimenti diffusi consiste nell’inserire segmenti cuneiformi dello stesso legno, opportunamente essiccato e disinfestato in camera sottovuoto, perché non si
diffondano microrganismi dannosi o insetti xilofagi.
In fase di restauro, poiché la pellicola pittorica non può
essere deposta dal supporto, essa va velinata, ovvero ricoperta.
Può capitare che l’intervento sul supporto ligneo muti per
sempre l’assetto strutturale originario: significativo è il caso della creazione di sistemi scorrevoli, che permettono
ad ogni singola tavola di muoversi in modo indipendente rispetto alle tavole di traversatura.
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Fig. 21
Giovanni Filippini,
particolare della carta
catastale manoscritta
intitolata Iconografia della
città e castello di Milano,
1722. Milano, Raccolta
Bertarelli.
C.
IL RESTAURO DI UN EDIFICIO
In una lettera indirizzata a papa Leone X,
scritta intorno al 1518, Raffaello Sanzio auspicava un vero e proprio programma di
mantenimento e di restauro delle opere di
architettura. Non più considerata un astratto
modello di perfezione, l’arte classica era per
Raffaello una fase storica, certamente la più
apprezzata e studiata, comunque inscritta in
un processo di cui tutti i capitoli meritavano
uguale attenzione. “Né bisogna che in cuore d’alcuno – egli scriveva – nasca dubbio
che degli edifici antichi li meno antichi fossero men belli o meno intesi, perché tutti
erano d’una ragione”.
Raffaello anticipava in questo modo il pensiero moderno sul restauro architettonico: il
fatto che un edificio abbia attraversato più fasi storiche, portando i segni stratificati di
questo percorso, può di per sé legittimarne la
salvaguardia.
In tutte le epoche, la riflessione sul recupero di un edificio ha avuto come oggetto di
interesse la sua continuità funzionale: come
possiamo oggi riutilizzare una vecchia stazione di posta, un antico ospedale, una porta urbana?
È ovvio che quando si interviene su monumenti importanti sotto il profilo tipologico e
stilistico ci si affida ad indagini specifiche e
si recuperano supporti documentari di assoluto rigore scientifico; la prassi del restauro
architettonico è dotata di un ricco apparato
metodologico di indagine e di rilevamento.
Ma è altrettanto vero che i princìpi teorici sono applicati in modo meno rigido quando si
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interviene sul patrimonio edilizio di minor
pregio, e sono spesso soggetti a margini interpretativi poco controllabili.
Non è raro, tuttavia, che un edificio di
scarso valore tipologico od estetico sia sottoposto ad un mantenimento rigoroso in ogni
sua parte, mentre si assiste a scempi di edifici pregevoli sotto il profilo storico.
Non sempre, comunque, è possibile stabilire precise categorie di intervento: la casistica del patrimonio edilizio, soprattutto in Italia, è così ampia da non consentire generalizzazioni.
Negli ultimi decenni si è affermata l’idea
della conservazione integrata: restaurare
un edificio non vuol dire soltanto “curarlo”
dai dissesti statici o dagli effetti di invecchiamento; occorre operare nel rispetto
della tipologia originaria, dei suoi caratteri
distributivi.
Oggi il recupero degli edifici si integra con
le nuove realizzazioni, e in questo interessante contesto gli architetti non perdono occasione per sperimentare nuove soluzioni
tecnologiche. Un buon restauro può farci
scoprire che un edificio antico può ben confrontarsi con una parte nuova, la quale può
a sua volta suggerirci nuove chiavi di lettura
dell’edilizia storica.
Così un muro antico, reso grezzo dal tempo, può coesistere con una sottile scala moderna, o al contrario una parete nuova, solcata da segni leggeri, può offrire un interessante parametro di interpretazione ad una
antica modanatura, e così via.
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
14
GLI
STRUMENTI E I METODI DI ANALISI STORICA DI UN EDIFICIO
• Carte geografiche
Si utilizzano carte, mappe catastali, piante di città, ecc.
• Ricerca bibliografica
Bisogna saper selezionare il materiale saggistico e critico, spesso assai ricco, magari classificandolo per ambiti
tematici. I testi sono a loro volta utili per trovare approfondimenti bibliografici.
• Ricerca in loco
È utile la raccolta di tradizioni orali, ma anche di pareri di anziani muratori, abituati a misurarsi con edifici analoghi.
• Documentazione fotografica
Può essere diretta o indiretta: vecchie fotografie (rintracciabili in archivio o in testi specializzati) possono farci
scoprire il disegno originario del sagrato di una chiesa, di una piazza, di facciate.
• Documentazione grafica
Consiste nella ricerca di antichi disegni, rilevazioni attuali, fotografie. È importante individuare l’eventuale esistenza di progetti, più o meno recenti, che potrebbero avere alterato l’originario assetto o la distribuzione dell’edificio.
• Metodi di indagine costruttiva
Spesso in un muro di mattoni si trovano pietre, e viceversa. Particolari strumenti a raggi infrarossi permettono
di evidenziare l’età di un corpo attraverso il calore. Questi innesti, quando non appartengono a materiali troppo eterogenei, e quando non sconvolgono l’assetto statico, vanno mantenuti.
• Schedatura del materiale
L’indagine preliminare nel restauro
IL VALORE ESTETICO
Ogni intervento di restauro è un’operazione molto complessa, che comprende elaborate indagini preliminari e varie ipotesi di intervento.
L’analisi preliminare dell’edificio deve essere svolta per fasi.
Il valore estetico di un edificio riguarda
due aspetti: il suo carattere stilistico e quello
tipologico. Apprezziamo un edificio quando
vi riconosciamo una coerenza tra tutti gli
elementi formali ed organizzativi che lo costituiscono: in un palazzo neoclassico individuiamo il portale, l’atrio con scalinata, il
giardino interno, le sale al cosiddetto piano
nobile, il mezzanino.
Piccoli innesti (lapidi, frammenti di pietre
incise con date o frasi, pietre scolpite) possono costituire un interessante indizio storico.
Alcuni elementi sono stati probabilmente recuperati da altri manufatti, altri sono sorti
con l’edificio stesso.
Un’architettura all’apparenza modesta
può conservare stemmi ed emblemi, talvolta
modificati (come in occasione del cambio di
proprietà), e ancora stipiti, stucchi, apparati
o frammenti decorativi.
Particolari secondari, infine, rivelano talvolta ulteriori aspetti del palazzo originario:
una porta murata può significare che sono
state scisse le unità abitative; una dissimmetria nel ritmo delle finestre può nascondere
l’accecamento, magari in tempi lontani, di
una di esse, ecc.
IL PROFILO STORICO
Occorre conoscere l’età dell’edificio e
delle sue parti, il nome del progettista, l’origine e le caratteristiche professionali delle maestranze che lo hanno costruito.
A questo scopo si possono svolgere ricerche di archivio, facendo attenzione che
le fonti non siano condizionate da giudizi
critici. Si consultano archivi storici catastali, provinciali, comunali, parrocchiali; si
cercano antiche descrizioni.
Importanti sono i documenti che attestano la fondazione e le eventuali trasformazioni successive; per la conferma delle ipotesi storiche può essere necessario rintracciare documenti indiretti, quali antichi
contratti di lavoro o ricevute delle merci.
Forse da un’antica mappa (molte sono riprodotte in pubblicazioni locali) si evince
che un edificio ha contribuito a determinare l’evoluzione urbanistica di una parte
della città: ciò, ad esempio, nel caso significativo in cui questo abbia rappresentato
uno dei primi nuclei costitutivi dell’abitato.
Ci si può accorgere, allora, che anticamente l’edificio mostrava un fronte principale
diverso, e che l’apertura di un nuovo asse
viario ne ha alterato l’assetto organizzativo
originario.
15
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
L’ANALISI COSTRUTTIVA E
LE MODALITÀ DI INTERVENTO
L’analisi costruttiva di un edificio va affrontata relativamente alle sue strutture, ai
materiali di costruzione, agli elementi di invecchiamento o di dissesto. Questa indagine
deve essere svolta mediante un esame diretto dell’edificio, da corredare con una descri© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS
Sopra Figg. 22 e 23
Rafael Moneo, Intersezione dei muri con le aperture ad arco (in alto)
e prospettiva interna della navata longitudinale del Museo di Arte Romana
(sopra). Mérida (Spagna), 1980-1984.
© F. Català-Roca.
Sotto Fig. 24
Flavio Albanese, Casa di lava e ossidiana a Pantelleria,
realizzata su preesistenti damusse, 1998.
© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS
zione dettagliata, con rilievi complessivi e di parti, con fotografie.
Oggi tutti gli studi professionali utilizzano
software specifici, che consentono da un lato di
raccogliere e catalogare dati sui dissesti degli
edifici, da un altro lato di “simulare” gli effetti
visivi di un intervento.
Un dissesto statico può essere causato dall’invecchiamento dei materiali, da errori di costruzione o dall’intervento di agenti esterni.
Poiché la struttura portante in cemento armato si è diffusa nell’edilizia civile a partire del primo ventennio del Novecento, gli edifici di età
precedente si sostengono su muri portanti, con
solai in legno. I muri possono essere in pietra o
in mattoni pieni, le cui dimensioni variano talvolta da regione a regione.
I cedimenti più frequenti si concentrano tra gli
innesti di due muri, di cui almeno uno portante,
o sopra le architravi di porte, finestre o logge. In
questi casi le fessurazioni si notano al centro dell’architrave, o a lato di essa, in corrispondenza
dell’imposta.
Frequenti i casi di flessione (o imbarcamento)
delle travi del solaio. Questo fenomeno si verifica quando lo spazio coperto dalle travi (la luce)
è eccessivo, o quando è stato applicato incautamente un peso, magari non all’origine (ad esempio, un setto murario), senza che al piano inferiore vi corrisponda un elemento portante.
Se la fessurazione verticale di un muro sembra
inoltrarsi sotto il pavimento, con ogni probabilità si è verificato un cedimento nelle fondazioni. Occorrerà, quindi, intervenire con precauzione con uno scavo, condotto con metodi archeologici, e capire se si tratta di un cedimento
del terreno, dei materiali di costruzione, o se sia
stato causato da un sovraccarico dei pesi soprastanti.
Una parte importante dell’analisi riguarda la
diagnosi e la bonifica dell’umidità, le cui tracce
sono spesso presenti sui muri, nelle parti strutturali lignee o nelle decorazioni. Nel primo caso
l’umidità può essere ascendente (e dunque proviene dal terreno) o discendente (proviene, per
esempio, dal tetto). In tutti e due i casi l’intonaco
si deteriora irreparabilmente e va sostituito.
È importante riservare grande attenzione agli
aspetti relativi alla sicurezza: quando si recupera
un edificio occorre ottemperare alle odierne normative e garantire l’adeguamento degli standard.
Un edificio oggi è solcato, in verticale e in
orizzontale, da numerose reti tecniche (quali
l’impianto di riscaldamento, elettrico, di refrigerazione, ecc.), che necessitano talvolta di spazi
adeguati entro le murature o accostati ad esse.
Non di rado è necessario intervenire alterando
l’assetto statico originario dell’edificio. In questo
caso, la messa in evidenza delle nuove strutture
può modificare considerevolmente l’estetica
dell’edificio. Nuove strutture in ferro o in cemento armato a vista possono divenire solidali
con le antiche murature portanti, e esaltarne
l’assetto strutturale.
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
16
Figg. 25, 26,
27 e 28
Esempi di
elaborazioni
virtuali e di immagini
equalizzate della facciata
di Santa Maria della
Misericordia in Albenga
(a lato) e di un edificio
privato (sotto).
L’AUSILIO
DEL MEZZO INFORMATICO: IL TRATTAMENTO DI IMMAGINI DIGITALI
Prima di intervenire su un antico edificio è necessario svolgere attente analisi riguardo
gli aspetti tipologici, la tenuta strutturale, nonché la qualità e la condizione delle superfici murarie.
Molti operatori utilizzano oggi software per il “disegno assistito”, che permettono di “simulare” l’intervento dalla fase dell’acquisizione dei dati fino alle operazioni in cantiere.
Si parla pertanto di image processing, ovvero del processo che contempla l’elaborazione digitale delle immagini. Questo strumento consente confronti e simulazioni in tempi molto brevi, e trova spazio sia nella fase analitica sia in quella progettuale. Testando l’assetto delle varie parti dell’edificio in ogni fase del progetto, tali strumenti consentono di pervenire a precise scelte operative e di controllare il risultato finale.
Un’applicazione interessante è quella, ad esempio, che consente di simulare la qualità
visiva di una parete o di una sua parte in diverse condizioni di luminosità. Nella fase
di analisi si acquisiscono informazioni sullo stato del degrado o sulla caratteristica dei
materiali mediante specifiche strumentazioni, o mediante tecnica fotografica digitale.
Al primo caso appartengono le immagini digitali ad infrarosso, che consentono, dallo
studio dell’intensità luminosa dei livelli di grigio dei pixel, di risalire alla temperatura di
ogni parte edificata, e dunque alle caratteristiche dei materiali o alla data della loro applicazione.
Riguardo il secondo caso, si può risalire, ad esempio, al tipo di lavorazione degli intonaci o delle decorazioni apposte; una volta fotografata la superficie con luce radente,
che ne rafforza le ombre, le immagini vengono rielaborate a computer sulla base del
contrasto rilevato.
Interessante è lo strumento dell’equalizzazione dell’immagine, che consiste nell’estendere sul più ampio spettro tutti i diversi valori di luminosità, che invece ad occhio nudo appaiono simili. Equalizzando l’immagine si evidenzieranno sul video figure apparentemente nascoste di una vecchia decorazione, fenditure o rialzi dell’intonaco, ecc.
17
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
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A lato Fig. 29
Roma, Arco di Tito prima
del restauro del 1819-21.
Da una stampa
ottocentesca.
A destra Fig. 30
Arco di Tito dopo
il restauro eseguito
da Giuseppe Valadier
nel 1819-21.
© Foto Anderson.
C.
LA NASCITA DELL’IDEA MODERNA DI RESTAURO ARCHITETTONICO
Il restauro degli edifici
in Età neoclassica
Si è soliti far risalire al decreto della Convenzione nazionale francese del 1794, che
proclamava il principio della conservazione dei monumenti, il primo importante capitolo della moderna idea del restauro.
Fino ad allora tale questione veniva affrontata, ad eccezione di alcuni contributi
teorici, con un approccio meramente utilitaristico, volto al semplice adeguamento
funzionale di un edificio o ad una sua
reinterpretazione monumentale, in relazione a mutate esigenze rappresentative.
Si pensi, ad esempio, alla “riprogettazione” della Chiesa di San Francesco a Rimini nel Tempio Malatestiano, opera di Leon
Battista Alberti.
A destra Fig. 31
Dettaglio delle parti
di completamento
realizzate da Valadier
per l’Arco di Tito.
restauri di monumenti importanti, cui si accompagnò un’ampia riflessione sia sotto il
profilo filologico sia sotto quello tecnico.
Si pensi, ad esempio, alla sperimentazione
di nuovi metodi di scavo.
Roma offrì, soprattutto in età napoleonica, l’occasione per un vasto numero di interventi, generalmente finalizzati a liberare
i monumenti classici dalle sovrapposizioni
successive, a ricomporli e a consolidarli.
Fondamentale fu l’apporto di Giuseppe
Camporese (1763-1822), Raffaello Stern
(1774-1820) e Giuseppe Valadier (17621839), che accompagnarono l’attività di
restauro a quella progettuale.
Nel restauro del Colosseo (1826) e in
quello dell’Arco di Tito (1819-21), il roma-
L’Età neoclassica, orientata a sottoporre
a rigorosa verifica l’architettura antica, segnò l’avvio di una nuova concezione, volta a valorizzare il monumento antico in
quanto tale.
Si è fatto ampio riferimento alle scoperte
archeologiche di Ercolano e Pompei come
momento catalizzatore di questa coscienza; tali scoperte, peraltro, misero subito in
evidenza la scarsità di conoscenze tecniche e metodologiche per la ricostruzione.
Sia pure in modo empirico, vennero realizzati così i primi interventi di anastilosi,
che consiste nel riassemblare le parti cadute, quando queste si trovino ancora in
loco, e quando si è certi della loro originaria positura.
In questo clima furono compiuti i primi
© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
18
Fig. 32
Giuseppe Valadier,
Progetto per la Piazza della
Colonna Traiana a Roma,
1816 circa.
no Stern ed il successore Valadier coniugarono le conoscenze sulle strutture e sui
materiali (fondamentali negli interventi di
consolidamento degli edifici) ad una approfondita erudizione archeologica.
In particolare, Valadier superò il concetto di restauro empirico, giungendo a quello che nel Novecento sarà chiamato “restauro di completamento”: egli ha realizzato nell’Arco di Tito, ad esempio, in travertino le parti nuove, perché non si confondessero con quelle antiche, in marmo.
Giusto un secolo dopo Gustavo Giovannoni non mancherà di fare notare che per
recuperare l’Arco di Tito sono state abbattute costruzioni medievali importanti, propaggini della turris chartularia e fortificazioni palatine.
In verità, un peso decisivo nelle scelte di
Valadier fu giocato dalle esigenze rappresentative e di riordino urbanistico dell’amministrazione francese. Gli interventi in
cui egli si confrontò con l’architettura antica, non a caso, si caratterizzarono spesso
per la loro scala urbana. In qualità di direttore dei lavori di risanamento urbano
della capitale, Valadier intervenne anche
nel piano generale per la sistemazione a
pubblica passeggiata del comprensorio
dei Fori (1811).
Pur adottando, a volte, soluzioni discutibili sotto il profilo filologico, egli valorizzò
i monumenti offrendo loro un contesto edilizio di pregio. Paradigmatico è il caso della sistemazione dell’area posta intorno alla
Colonna Traiana a Roma. Il progetto di Valadier era volto ad esaltare la veduta del
19
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
monumento, ponendolo a fulcro visivo di
una piazza a doppia esedra, lontana dalla
concezione originaria di insieme.
Solo per impulso dell’Accademia di San
Luca e della Commissione degli abbellimenti, che considerava la Colonna come
completamento del Foro di Traiano, nel
1813 il piano Valadier veniva sostituito da
quello di Pietro Bianchi, orientato, secondo una concezione ben più moderna, verso un progetto di respiro archeologico, recuperando contestualmente gli scavi della
Basilica Ulpia.
Le teorie romantiche del restauro
Nell’Ottocento il dibattito sul restauro
dei monumenti fu influenzato ampiamente
dalla cultura romantica. Lo “stato” della disciplina fu in buona parte condizionato,
pur se in direzioni diverse, da due sostenitori del revival medievale: Viollet-le-Duc e
Ruskin.
In Francia, Eugène Viollet-le-Duc (18141879) avanzava l’idea che il restauro di un
monumento debba “ristabilirlo in uno stato completo che può non essere mai esistito in nessun momento”. In tal modo, egli
affermò la legittimità di qualsiasi intervento volto a ripristinare l’unità stilistica di un
edificio, anche per analogia con altre testimonianze coeve.
Venivano così formulati i princìpi del cosiddetto restauro stilistico, che ebbe nel
Dictionnaire raisonné d’architecture del
1854-1868 il suo testo di riferimento.
Guardando principalmente all’architettu© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS
A lato Fig. 33
Franz von Lembach,
L’Arco di Tito a Roma,
1858.
Olio su tela,
98x74,5 cm. Monaco,
Städtische Galerie
in Lenbachhaus.
Molto spesso i pittori ottocenteschi pongono gli antichi monumenti entro ambientazioni
naturalistiche e mettono in
evidenza i segni inequivocabili del tempo.
A destra Fig. 34
Eugène Viollet-le-Duc,
Immagine dal Dictionnaire
raisonné d’architecture,
alla voce Construction,
‘Costruzione’, 1854-1868.
ra medievale ed in particolare a quella gotica, Viollet-Le-Duc suggerì come intervenire nelle parti mancanti, manomesse o
compromesse di un edificio, che dovevano
essere completamente ricomposte nel segno stilistico e con le modalità costruttive
originarie.
Secondo questo principio furono ricostruite intere parti della città francese di
Carcassonne, della Basilica di Notre Dame
a Parigi e del Castello di Pierrefonds.
Il pensiero di Viollet-Le-Duc segnò l’avvio di una nuova concezione nel recupero
degli edifici storici, soprattutto per l’introduzione di una rigorosa analisi delle fonti;
il procedimento, tuttavia, determinò in
molti casi evidenti licenze interpretative
sulla ricostruzione delle parti mancanti,
che non sempre poteva essere basata su
prove documentate.
Una tesi così suggestiva non tardò ad affermarsi in Italia, ed in particolare nelle
città in cui il recupero dei monumenti era
un’occasione per riaffermare il valore e
l’individualità della storia civica.
Celebri sono a Firenze il completamento
delle facciate delle Basiliche di Santa Croce (1857-1863), di Nicola Matas, e di Santa Maria del Fiore (1866-1887), di Emilio
de Fabris.
Fig. 35
Nicola Matas,
Facciata di Santa Croce,
1857-1863. Firenze.
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TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
20
L’influenza delle teorie del restauro stilistico giunse persino al XX secolo: si pensi
all’intervento massiccio e nello stesso tempo astratto dell’inglese Arthur Evans nel
Palazzo minoico di Cnosso, realizzato a
partire dal 1900.
Nella seconda metà dell’Ottocento si affermò in Inghilterra il cosiddetto restauro
romantico, ispirato da John Ruskin (18191900). Questi auspicava il rispetto del monumento così come giunto dal passato, anche se in forma frammentaria, e rifiutava
ogni intervento che non fosse di tipo strettamente conservativo; qualsiasi altro approccio avrebbe infatti alterato il valore
unico ed originario dell’edificio.
Ruskin, che nella sua Inghilterra aveva
assistito a significativi cambiamenti sociali
ed economici determinati dal massiccio
sviluppo industriale, si contrappose a qualsiasi evoluzione estetica che potesse essere
da questo condizionata.
Il suo pensiero si concentrò, pertanto,
sull’esigenza di mantenere valori già consolidati, quale, ad esempio, l’individualità
dell’artista e dell’artigiano.
Tale concezione si tradusse in una sorta
di misticismo della natura: il monumento
antico trova motivo di esistenza nel rapporto con una natura “selvaggia”, esaltato
dalla sua condizione di rudere.
La proposta di lasciare morire l’opera del
passato è coerente con il suo scagliarsi
contro la “vitalità” del mondo capitalistico
e industriale. Ma questo stesso atteggiamento, possiamo desumere, impedì a Ruskin di promuovere una prassi strutturata e
una critica del restauro.
Sopra Figg. 36 e 37
Due immagini di Piazza della Frutta a Padova prima (in alto) e
dopo (sopra) l’intervento di Camillo Boito (1872-1874).
Nel suo intervento su Palazzo delle Debite, Boito non è riuscito a salvaguardare il carattere originario della piazza: l’edificio, impostato su un portico eccessivamente alto, con la sua cromaticità violenta e la complessità stilistica si impone visivamente sul Palazzo della Ragione.
L’idea di restauro in Italia
nella seconda metà dell’Ottocento
In Italia, Camillo Boito (1836-1914) sostenne una teoria attenta a mediare le posizioni estreme di Ruskin e Viollet-le-Duc.
Egli espose per la prima volta la sua teoria, nota come restauro scientifico, al Congresso degli Ingegneri ed Architetti italiani,
tenutosi a Roma nel 1883.
A lato Fig. 38
Luca Beltrami,
nuovo fronte di Palazzo Marino
su Piazza della Scala a Milano
(lavori completati nel 1889).
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TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
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Boito non considerava prioritaria l’unità
architettonica dell’edificio: al contrario,
tutte le modifiche che si sono succedute
nel tempo devono essere salvaguardate, a
testimoniare la storia del monumento. Per
lo stesso motivo esse devono essere ben distinguibili dalle preesistenze, nella tecnica
e nei materiali.
L’edificio storico, pertanto, deve esibire,
come veri e propri documenti delle proprie
fasi storico-evolutive, le aggiunte successive alla data di edificazione.
Ammonendo gli operatori a curarsi di
“conservare, non restaurare”, Boito pose
un freno all’arbitrarietà di molti interventi
ottocenteschi.
Tuttavia, egli avrebbe voluto la pubblicazione di un “libro d’oro” dei principali
monumenti da salvare, allineandosi in
questo modo alla volontà della classe borghese dirigente. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che nella seconda metà dell’Ottocento molti interventi di pianificazione urbanistica tendevano a salvaguardare solo alcuni edifici monumentali, usati come “quinte” nobilitanti di un rinnovato tessuto edilizio.
Proponendo una sorta di parametro estetico, che valorizzasse il “bell’edificio”, Boito sembrava dunque ridurre la portata dei
princìpi che egli stesso affermava con la
teoria del restauro scientifico.
Riteniamo tuttavia innovativa la constatazione che ciascun monumento rappresenta
un documento della vita di un popolo.
Non serve ricordare quanto questo assunto
abbia trovato fortuna nelle elaborazioni
teoriche successive.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento, il milanese Luca Beltrami
(1854-1933) propose il restauro storico.
Secondo i suoi princìpi è lecito ricostruire
un edificio antico, o parti di esso, se l’analisi delle fonti documentarie o delle testimonianze iconografiche del passato consentono di tracciare un’ipotesi sull’assetto
formale e stilistico complessivo, legittimandone così l’intervento.
Un’approfondita indagine storico-archivistica ed archeologica si pone, così, alla
base della ricostruzione filologica dell’antico edificio.
Se nella progettazione di nuovi edifici
Beltrami adottò lo stile neorinascimentale,
nella ricostruzione di edifici del passato
sperimentò più stili.
A lui si devono a Milano, tra gli altri, un
progetto per la facciata del Duomo, la ricostruzione integrale della Torre nel Castello Sforzesco (detta del Filarete) e della
facciata di Palazzo Marino che fronteggia
Piazza alla Scala.
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Ormai il rispetto del dato storico era un
criterio condiviso dai più attenti protagonisti del restauro architettonico; nuovo
era, però, il confronto a viso aperto tra un
singolo professionista e gli operatori bancari e immobiliari. Agli interessi speculativi di questi, Beltrami oppose il valore di
testimonianza civica di alcuni monumenti. Emblematico è il caso del Castello Sforzesco, che molti avrebbero voluto distruggere.
In un piccolo volume di ampia divulgazione risalente al 1907, Note sull’arte di
costruire le città, Ugo Monneret de Villard
poneva la questione dell’abbattimento
delle mura storiche nella città moderna.
Pur ritenendo “questo anello di pietra un
grave impedimento”, egli affermava l’esigenza di “isolare e conservare” le porte urbane. Il monumento, pertanto, trovava riconoscimento solo come “segno” del passato, e non come tassello di un unicum
storico.
Eppure con Monneret de Villard veniva
superato il principio di legittimazione della ricostruzione in stile: nell’opporsi al
“vandalismo restauratore, terribile e deleterio quanto il vandalismo distruttore”, egli
suggeriva di “curare la sicurezza statica di
tali avanzi, ma non permettersi mai di rifarne anche il minimo pezzo salvo casi eccezionali”.
In realtà, lontana dalla riflessione teorica,
la prassi concreta tendeva a riutilizzare i
monumenti più rappresentativi come quinte scenografiche, elementi catalizzatori di
rendita fondiaria, allo scopo di avallare interventi di speculazione in intere aree dei
centri cittadini.
La città borghese, infatti, non accetta l’idea della salvaguardia di un insieme monumentale; essa, al contrario, scrive il teorico Leonardo Benevolo, “tende ad assorbire e a distruggere l’organismo precedente”, in quanto vi sovrappone nuovi edifici.
E lo fa, aggiungiamo, lasciando intatti solo
alcuni brandelli del corpo storico, elevati
ad un ruolo di pura rappresentanza.
Il restauro scientifico:
Gustavo Giovannoni
All’inizio del Novecento si era ormai affermata un’idea di conservazione dei monumenti basata sulla loro manutenzione
costante.
Gustavo Giovannoni (1873-1947) organizzò con coerenza, nella Carta del restauro del 1932, i princìpi espressi da Camillo
Boito. Egli riaffermò il metodo filologico e
la necessità di dare maggior risalto al materiale storico-documentario su quello stilistico-formale.
Se il monumento ha innanzitutto valore
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
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di testimonianza storica, tutte le aggiunte o
i mutamenti che ne testimoniano l’evoluzione vanno ugualmente tutelati.
Giovannoni promuove, così, il cosiddetto restauro scientifico, in opposizione
all’intervento “creativo” propugnato da
Viollet-le-Duc. Eppure Giovannoni stesso
non esita ad accettare senza riserve i “restauri di completamento”, come quando
suggerisce di ricostruire le “ardite volte
ogivali” dell’Abbazia di San Galgano (Siena), uno dei maggiori monumenti del Gotico italiano, da secoli rimasto privo di copertura.
Altri risultati non furono esenti da contraddizioni anche molto gravi. Quando
Giovannoni operò nella città, finì con il diradare le vie storiche, abbattendo o sostituendo qua e là edifici o loro parti considerate di minor pregio, allo scopo di conservare il “carattere” generale del quartiere. La “liberazione” di alcuni monumenti
dal loro immediato intorno, accompagnata da ipotesi di modernizzazione, offrì, così, facili spunti ad interventi speculativi nei
centri storici.
Altro spessore critico è garantito dalla
posizione vigile, ad esempio, del razionalista Le Corbusier, che riteneva si dovessero lasciare integre intere parti della città
storica. Egli si mostrò lungimirante: nel Secondo Dopoguerra, infatti, si sarebbe affermata l’idea, e in alcuni felici casi la
prassi, di salvaguardare il centro storico
nel suo insieme.
Sopra Figg. 39 e 40
Gustavo Giovannoni,
Nuovo portico di raccordo a fianco
della Cattedrale di San Nicola (in alto) e
sistemazione della Piazza di San Pietro
(al centro) a Bari. Da La sistemazione edilizia
di Bari vecchia, 1932.
A lato Figg. 41
Giovanni Michelucci,
Ampliamento della sede centrale della
Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.
È un esempio interessante di innesto di un nuovo edificio in un contesto storico.
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TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
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ANALISI
DELL’OPERA
A lato Figg. 42
Milano, Torre del Filarete nel
Castello Sforzesco, ricostruita da
Luca Beltrami su esempio di torri
sforzesche e di antiche rappresentazioni.
Sotto Fig. 43
Antonio Averulino, detto Filarete,
Entrata di una rocca signorile.
Pagina miniata dal Trattato di Architettura,
1460 circa. Firenze, Biblioteca Nazionale.
LA RICOSTRUZIONE DELLA TORRE DEL FILARETE AL CASTELLO SFORZESCO
Il Castello fu eretto nel 1450 a Milano come dimora signorile del duca Francesco Sforza.
Allo splendore rinascimentale seguì, però, una lunga fase di decadenza, durante i periodi di dominazione spagnola, francese e infine austriaca, quando il Castello fu
utilizzato come caserma.
La sua presenza, e quella della vicina Piazza d’Armi sul
lato occidentale, ebbe il merito, nell’Ottocento, di frenare ogni intervento speculativo legato al congiungimento
di Corso Sempione con Piazza Cordusio; il fascino legato
alla sua storia lo preservò persino dalla decisione comunale, presa nel 1886, di abbatterlo.
La valorizzazione e il ripristino del Castello sono senz’altro dovuti a Luca Beltrami.
Ottenuto il vincolo ministeriale di salvaguardia, perché
fosse destinato a museo, Beltrami avviò la complessa
operazione di ripristino.
Fase di spicco dell’operazione fu la ricostruzione della
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Torre detta del Filarete, crollata nel 1521 in seguito ad
un’esplosione di polvere da sparo. Essa fu eretta al centro della facciata, rivolta verso la città. Nell’intervento fu
abbattuto il recinto della Ghirlandaia.
Spinto dalla volontà di realizzare un “restauro storico”,
Beltrami avviò una scrupolosa disamina di documenti, rilievi e saggi sulle strutture e i materiali originali.
Nonostante le prove documentarie fossero lacunose riguardo l’esatta collocazione e le caratteristiche architettoniche della torre, Beltrami volle ricostruirla “in stile”, con
un criterio di verosimiglianza che appare senz’altro un’operazione di forzatura teorica. Convinto che il restauro
avesse una valenza “patriottica”, egli riteneva che la torre ricostruita con uno stile fortemente connotato potesse
assurgere a simbolo della comune cultura nazionale.
Trova analoga giustificazione il massiccio intervento di
restauro nella Sala delle Asse di Leonardo, anch’essa nel
Castello.
TEORIA
E PRATICA DEL RESTAURO
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