Le Acli negli anni 2020. Per una nuova società del lavoro

Incontro di studi 2014
Il tema del 47° Incontro nazionale di studi
Le Acli negli anni 2020.
Per una nuova società del lavoro
«[…] un lavoro che, in ogni società, sia l'espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di
ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne,
allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di
essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le
necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a
lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire
la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello
personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla
pensione una condizione dignitosa» (Caritas in Veritate, 63)
«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che
rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»
(Costituzione Italiana, art. 4).
Come inquadrare il tema del lavoro oggi? È superato lo schema che contrappone il capitale al lavoro, in una lotta che oggi
registrerebbe una clamorosa regressione della componente lavoratrice (contemplando in essa il lavoro salariato, il lavoro
dipendente, il lavoro falsamente dipendente in realtà precario, dalla classe operaia al cosiddetto “quinto stato”, passando dai
piccoli commercianti)? Quale direzione prendere per meglio proteggere i diritti dei lavoratori? Possiamo anche noi
confermare che alle conquiste sindacali degli anni Settanta, è amaramente corrisposta una stagione di contrazione dei diritti
dei lavoratori? Per rispondere a queste domande poniamo qualche frammento di realtà, proponiamo un nostro punto di
vista per circoscrivere il lavoro attorno a tre poli. La nostra prospettiva parte dalla persona che lavora, si interroga
sull’organizzazione del sistema produttivo, per arrivare al ruolo del Paese e del territorio.
La persona che lavora
1. Il senso del lavoro: il lavoro subisce profonde trasformazioni. Sono molteplici le ricadute sulle persone e sulle loro
relazioni. L’interrogativo è rivolto alle condizione future del nostro convivere perché, come recita il dettato costituzionale
all’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e
sociale del Paese”. Il lavoro contribuisce a disegnare un progetto di vita.
Oggi la logica di quello che alcuni chiamano capitalismo tecno-nichilista propone il lavoro come strumento per il consumo e
per la soddisfazione dei desideri suggeriti-imposti dalle innovazioni del mercato. Questa idea svuota il significato del lavoro
perché lo individualizza e lo marginalizza all’interno del sistema produttivo. Il lavoro diventa essenzialmente fonte di
guadagno e di autosostentamento, diventa luogo di competizione dove sopraffare l’altro, il più debole, per ottenere successo.
Così il lavoro consuma le persone: “questa economia uccide” (EG, 53) e incentiva la cultura dello scarto (EG, 53). Invece il
lavoro non si può circoscrivere al suo mero significato materiale ed economico, perché è actus personae (LE, 6) e come
espressione della persona acquista un significato antropologico: “la persona è il metro della dignità del lavoro” (Compendio DSC,
271). Attraverso il loro lavoro le donne e gli uomini realizzano un prodotto, perfezionano se stessi, entrano in relazione con
gli altri, compiono la loro vocazione di lavorare e custodire il creato (Genesi 2,15), contribuiscono a generare bene comune.
Quando si pone al centro la persona il lavoro diviene un bene plurale, perché considera i genitori, i figli, le donne e gli
uomini in carne e ossa con le loro età e le loro condizioni di vita, con la loro cultura e le loro diverse abilità e competenze.
Per promuovere un realistico senso del lavoro è necessario agire su tre dimensioni. Anzitutto stabilire un rapporto sano con
il tempo: la dimensione biblica della festa è il luogo nel quale si attribuisce il senso del proprio lavoro, nel quale si valuta se è
“bello e buono”; il nostro tempo è aggredito dalla logica dell’usa e getta e i compiti lavorativi si esauriscono nella prigione
del presente e non aprono a una visione progettuale. In secondo luogo ricostruire una socialità del lavoro richiede di
investire nelle relazioni, non solamente quelle interne all’impresa, ma anche quelle tra impresa e territorio, tra impresa e
comunità locale, tra impresa e società civile. Abbiamo bisogno di riappropriarci di un umanesimo del lavoro che chiede
l’attenzione alle relazioni nella giustizia e nella solidarietà anche con la promozione dei valori di mutualità e cooperazione.
Infine fondare una res pubblica, perché occorre un’etica del lavoro orientata al bene comune: lavorare è sensato quando ci si
interroga sulle conseguenze dei risultati di ciò che si produce, per conciliare sviluppo economico con l’innovazione, con la
crescita sociale e la compatibilità ambientale.
2. Il lavoro e la cittadinanza: l’attuale scenario ci induce a riflettere su una svalutazione del lavoro. Accenniamo ad alcuni
aspetti: la crescita degli indicatori di Pil nei Paesi a economia avanzata non produce un corrispettivo aumento dei tassi di
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occupazione, anzi nei Paesi dell’Unione europea, e in particolare in Italia, si assiste all’aumento dei tassi di disoccupazione e
di inattività. Non c’è un automatismo diretto tra lavoro e cittadinanza, ma il legame tra diritti sociali e lavoro è strettissimo e
l’assenza di lavoro rischia di produrre anche la contrazione dei diritti di cittadinanza. Anche a livello culturale si perde un
legame prima presente e fortemente radicato tra lavoro e cittadinanza. Se si erodono i diritti, allora le persone sono
schiacciate dal bisogno di lavorare e si aprono vie per trascurare le norme, per rendere accettabili condizioni precarie, lavoro
nero, lavoro sommerso. I costi si caricano sull’individuo, sulla famiglia e sulla comunità. Lo stesso se passiamo dalla civiltà del
lavoro alla civiltà del non-lavoro, dove le persone inoccupate rimangono imprigionate dal bisogno di lavorare. Siamo in presenza
di una deriva, che finisce per non considerare il lavoro come un diritto di cittadinanza esigibile da tutti, ma solo come una
possibilità a cui non è necessario che tutti accedano. C’è uno stretto legame tra lavoro e coesione sociale, lavoro e relazioni
con altri, lavoro e costruzione della polis: la mancanza di lavoro da una parte alimenta un vuoto sociale, dall’altra parte
influisce su spazi e tempi di vita (famiglia su tutti), ricchi di significato ma diseconomici nel breve periodo. Il legame tra
lavoro e cittadinanza ci ricorda la stretta e intima connessione tra la fedeltà al lavoro e la fedeltà alla democrazia delle nostre
Acli.
3. Il lavoro e la vulnerabilità: la nuova ripartizione del lavoro, tra lavoratori forti e strategici per i processi produttivi e
lavoratori deboli e periferici, intacca le posizioni occupazionali intermedie sia con una riduzione della domanda di lavoro, sia
con una riduzione salariale. L’effetto poi si riproduce nella società con la crisi dei ceti medi. La vulnerabilità è percepita
soprattutto dai lavoratori autonomi, da quelli subordinati a medio e basso reddito, dai piccoli artigiani. Tutti vedono da una
parte peggiorare il proprio tenore di vita, dall’altra parte percepiscono maggiori insicurezze relative alle condizioni lavorative,
alla stabilità del lavoro, alle tutele nei rapporti di lavoro. Si aggiunge poi un processo di individualizzazione degli ambienti di
lavoro alimentato dal clima competitivo che contribuisce a sgretolare la dimensione socializzante e all’isolamento dei singoli
lavoratori.
4. Il lavoro e la virtù: si tratta di una visione poco esplorata, a causa della prevalenza di una visione più astratta (che colloca
il lavoro in un quadro di valori morali o di morale politica) oppure più funzionalista (la competenza, l'abilità). Tutti e tre i
livelli sono evidentemente necessari, ma ci pare che il tema delle virtù – ovvero di quando il valore assume anche una
declinazione di “bene” sul piano pratico – sia centrale. Si pensi a virtù come il sacrificio, la lealtà, il coraggio, la perseveranza,
la pazienza, l'attenzione, la cura. Il lavoro va compreso nella sua dimensione etica che si evidenzia nelle relazioni e nelle
finalità del suo prodotto o servizio. Se perdiamo questa dimensione perdiamo la misura della qualità del nostro lavoro. Non
riusciamo a provare i nostri risultati e non comprendiamo quale sia il frutto del lavoro, quali effetti abbia sul benessere delle
persone e della comunità. Il lavoro è una questione strettamente relazionale e se ne valuta la qualità sulla base delle alleanze
che costruisce, sulla forza dei legami che consolida e sulle dimensioni che lo caratterizzano dalla passione alla gratuità, dalla
responsabilità alla cura per la società, dall’apertura verso le generazioni, presenti e future. Un’etica del lavoro vede l’impresa
come comunità di persone fortemente radicata sul suo territorio, con il quale stringe legami di senso, condivide sogni per il
futuro e sente la responsabilità di progettare uno sviluppo sostenibile.
L’organizzazione che produce
5. L’organizzazione del lavoro: il mondo produttivo ha abbandonato una visione omogenea del lavoro, che veniva
sostenuta dal taylor-fordismo: l’idea del one best way conteneva una forte impronta razionalistica e ingegneristica che
strutturava e gerarchizzava il lavoro di fabbrica come quello delle amministrazioni. Le organizzazioni, inserite in un nuovo
contesto di tecnologie informatiche, portano a dividere il lavoro all’interno di reticoli più o meno estesi più o meno
importanti, portano a privilegiare unità locali all’interno di connessioni globali. L’immagine del lavoro si articola. Non c’è più
una “catena di montaggio” tra un lavoro e un altro, ma i lavori diventano più indipendenti tra loro. Si costituiscono nuclei di
knowledge worker iperpagati e sovraoccupati e nuclei di working poor, che sono la contraddizione vivente dell’ipotesi per cui il
lavoro conferisce (tra le altre cose) l’autonomia e la libertà dall’indigenza. Secondo alcuni autori si sta generando una società
scissa tra queste due polarità, con i primi a governare la produzione e i secondi che operano a loro servizio. Ma emerge
un’ulteriore figura che si distacca dalle due polarità: i “lavoratori artigiani”, che cercano nella qualità e nella dimensione
relazionale il senso del proprio lavoro, quelli che investono su una produzione cooperativa piuttosto che competitiva. Tra gli
esempi citiamo il ritorno all’agricoltura o all’allevamento (biologica); l’esperienza del coworking; l'esperienza dei giovani che si
giocano su un doppio lavoro ( uno remunerativo, uno espressivo) e le molte start up che investono sulle capacità di mettere
insieme intelligenze e idee con sogni e bisogni. In tutte queste diversità organizzative, sarà possibile sostenere un lavoro
dignitoso? Saranno immaginabili adeguate misure di protezione sociale?
6. Il lavoro e i giovani: ogni generazione intende il lavoro a seconda delle esperienze che fa e che vede (nel lavoro degli
altri) negli anni che precedono l'ingresso nel mondo del lavoro. Ma questa generazione rischia di essere la prima a diventare
adulta senza passare attraverso l'esperienza lavorativa. La generazione dei ventenni e trentenni che sta faticosamente
cercando di entrare si caratterizza per aver conformato il proprio modo di vedere attraverso una significativa espansione
spaziale (sia sul piano virtuale, ovvero il web e i social network, sia sul piano fisico, la mobilità, l'Erasmus, i viaggi low cost, la
contaminazione dei linguaggi ecc.) e temporale (più tempo passato in ambienti scolastici e formativi). Le conseguenze di
questi modelli formativi influenzeranno il modo di concepire la produzione e il lavoro: non sarà remoto affermare – come
già sostiene qualcuno – che una parte assai cospicua delle professioni del futuro prossimo venturo non sono ancora
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pensabili perché non sono ancora nate. Dobbiamo investire sulla capacità di creare innovazione, nuove idee per sostenere
un'economia che non può pensare di riprodurre gli schemi e i prodotti del passato. Innovazione è una parola chiave.
7. Il lavoro e la rappresentanza: è una questione bloccata e problematica. Il modello italiano di sindacato non sembra
rispondere adeguatamente alle sfide attuali. I due principali poli sindacali si muovono lungo un asse che a un polo colloca
una visione prevalentemente antagonista e all'altro una visione prevalentemente trattativista secondo il principio del male
minore; a un polo un sindacato fortemente tentato dal protagonismo politico, all'altro un sindacato che cerca di non farsi
coinvolgere troppo dalla politica senza disdegnare il dialogo con le diverse maggioranze politiche. Entrambi i poli,
comunque, “fanno politiche sociali”: si occupano non solo di diritto del lavoro ma anche di welfare e di politiche
economiche, cercando di condizionare l'agenda politica. Nel frattempo si rileva la riduzione della percentuale di lavoratori
sindacalizzati (anche per il fatto che oltre il 90% delle imprese è inferiore ai 15 lavoratori, e pertanto il clima sociale è
informale e probabilmente ostile verso il sindacato, per cui si preferisce rinunciare ad una rappresentanza istituzionalmente
formata). Una scarsa rappresentatività però può indurre alla formazione di un’idea asettica di uguaglianza che finisce per
produrre una falsa contrapposizione tra chi è garantito e chi non lo è. Forse sarebbe necessario evolvere vero un modello
sindacale che privilegi la contrattazione. In tal senso diventa sempre più centrale la contrattazione di secondo livello anche
sul piano della tutela e del riconoscimento di vecchi e nuovi diritti. Non mancano esperienze di welfare contrattuale
innovativo ma è assente una prassi diffusa capace di cambiare la cultura delle relazioni industriali. A questo “secondo livello”
deve corrispondere un'adeguata e coerente partecipazione delle forze lavoro a alla governance delle imprese come i consigli di
sorveglianza o strumenti analoghi.
8. Il lavoro e la partecipazione: L’esigenza di favorire i meccanismi di partecipazione e di collaborazione dei lavoratori
nell’azienda era indicata nostra Costituzione che all’articolo 46: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con
le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione
delle aziende”. Questa norma è rimasta a lungo disattesa. Promuovere partecipazione significa stimolare democrazia, ma anche
aumentare la produttività, perché quando le persone sono coinvolte in un progetto sentono il loro lavoro utile per un
obiettivo, che va oltre la mera sussistenza verso una dimensione creativa. Le forme di partecipazione sono diverse: operativa,
organizzativa, strategica. Vanno da un livello minimo che riguarda le modalità di lavoro, a uno medio che tocca le corde
organizzative, fino a uno massimo che attiene alla visione strategica dell’impresa. La strada della democrazia economica è
fondamentale per realizzare una vera democrazia in quanto favorisce lo sviluppo di forme di partecipazione dei dipendenti ai
processi decisionali dell’impresa e alla distribuzione degli utili prodotti dalla stessa. Ad oggi gli strumenti tecnici che possono
costituire i pilastri necessari alla realizzazione della democrazia economica sono i fondi pensione e l’azionariato collettivo; ci
sono poi esperienze dove i lavoratori condividono le scelte di gestione aziendale mediante partecipazione dei rappresentanti
eletti dai lavoratori o designati dalle organizzazioni sindacali.
Lo Stato e la comunità che si assumono una responsabilità
9. Lavoro e modello economico: la qualità e la stabilità del lavoro derivano dal modello di economia che si sceglie, sono
una variabile dipendente del modello economico. In Germania è prevalso e si è stabilizzato il modello dell'economia sociale di
mercato; in Italia ci si è per molti anni ispirati al Codice di Camaldoli, un modello di economia mista. È stato per almeno quattro
decenni un modello vincente: inclusivo e remunerativo. Poi i cambiamenti internazionali (ma non solo: anche una
degenerazione interna dell’applicazione del modello) hanno indebolito un modello che non ha aggiornare l'intuizione ai
tempi che correvano rapidi e inesorabili. L’assenza di una precisa politica economica e industriale ci ha portato ad essere
assoggettati a flussi del mercato globale e ai capricci della speculazione finanziaria, gestita esclusivamente dagli interessi
privati, senza l’argine di istituzioni regolative mondiali. Ma un modello economico che parta dal lavoro, dai lavoratori, dai
cittadini ha invece bisogno di istituzioni sovranazionali. Per questo anche l’Europa avrà senso se riconoscerà tra i sui compiti
la costituzione di un cartello di protezione degli interessi dei Paesi membri verso un sistema di sviluppo giusto, sostenibile e
solidale. Nella consapevolezza che “non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità
esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a
una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero
assistenzialismo” (EG, 203).
Proponiamo allora di collocare il lavoro dentro un modello di economia civile, all’interno di esso è recuperabile una dimensione
collettiva di lavoro che depotenzi una visione individualistica a favore di una dinamica persona-comunità. Si tratta di
affiancare al binomio lavoro-competizione il binomio lavoro-cooperazione. L'economia civile, dentro un modello italiano,
propone una strada che noi riconosciamo come possibile. La comunità, il territorio il distretto… Alla tendenza globalizzante
si contrappone l’attenzione alle dinamiche dei territori che promuovono la biodiversità delle economie, nelle quali fare
sistema, in cui riscoprire vocazioni antiche e nuove, in cui costruire con chi sente una responsabilità sociale e civile. Questa
pensiamo sia anche la strada privilegiata per radicare una coesione territoriale che consideri le peculiarità regionali e le
questioni complesse come lo sviluppo del Mezzogiorno, dove la marginalità va trasformata in tipicità, ovvero in elemento di
alta qualità.
Dentro tale modello vorremo concretizzate le seguenti caratteristiche:
a - la forte partecipazione dei lavoratori ai destini dell'impresa (utili compresi);
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b - il principio dell'azione responsabile, per radicare la consapevolezza che il destino dell'impresa ha a che fare con la
comunità locale, nella quale è inserita; la comunità locale deve molto all'impresa, ma anche l'impresa deve saper di dover
molto alla comunità locale all'interno della quale è nata; il bene dell'impresa non si riduce al profitto: sarebbe una visione
miope anche sul piano economico e finanziario;
c – la concreta alleanza tra lavoro, impresa, natura, cultura e territorio (istituzioni comprese) fondata sulla creazione di
maggior benessere, pace sociale e sostenibilità ambientale;
d – la valorizzazione della conoscenza, la forte spinta verso la formazione delle persone, di competenze, di ricerca e
innovazione per migliorare la qualità del prodotto, della produzione e della produttività, ma anche la responsabilità sociale
dell’impresa e la crescita del senso civico;
e – la creazione di welfare comunitario che mette in connessione i soggetti attivi del territorio: azienda, amministrazione
pubblica, associazioni di promozione sociale, realtà della società civile, terzo settore, anche a partire dal sostegno al welfare
aziendale (con la messa in atto di strumenti di sostegno sociale e familiare per i lavoratori), come una sorta di “secondo
livello” rispetto al welfare universale rivolto a ogni cittadino;
f – una politica orientata all’equa distribuzione dei redditi;
g – l’investimento sul lavoro diffuso e utile per impegnare le persone in una sorta di lavoro civile per il benessere socioambientale, per curare la bellezza del territorio e quindi la qualità della vita in cui nascono e crescono i figli.
10. Ripartire il lavoro e ripartire il reddito: perché sia possibile rilanciare il lavoro è necessario condividere le risorse e i
beni a partire da due nuclei basilari: la ricchezza e il lavoro. È inaccettabile lo squilibrio dei guadagni che si sta realizzando tra
dirigenti e operai, tra manager e impiegati, tra rendite e redditi da lavoro. Si generano sacche di opulenza e altrettante di
indigenza. Si tratta di un fenomeno pericoloso anche per il capitalismo in sé, che non può funzionare in assenza di una
buona pace sociale fondata sull’assenza di clamorosi squilibri.
Allo stesso tempo è inaccettabile assistere alla polarizzazione tra il non lavoro e l’iperlavoro, a volte anche scarsamente
remunerato. Una società del lavoro cresce dentro un’idea di uguaglianza e di libertà: occorre ripartire i redditi perché tutti
abbiano il necessario e occorre ripartire il lavoro perché ognuno possa contribuire alla vita della comunità. In questo senso,
in termini minimali, si può incentivare il part time e aumentare il costo orario del lavoro straordinario (attualmente più basso
di quello ordinario), se non prevedere – in termini più progettuali – forme di cooperazione tra lavoratori.
Conclusione: creare lavoro buono e giusto
L’Italia attraversa un momento difficile che richiede di impostare scelte efficaci per il suo futuro. Il lavoro è una risorsa
strategica e irrinunciabile, fondativa per la nostra Costituzione, la nostra società è una repubblica democratica fondata sul lavoro
(art. 1). Se manca il lavoro, manca l’humus della nostra coesione, cede il patto che cementa la nostra alleanza di cittadini.
Ci muoviamo all’interno di un contesto europeo e non possiamo leggere le sorti del nostro paese al di fuori dell’Unione,
come istituzione che chiediamo sia sempre più vicina ai cittadini.
Sosteniamo che le trasformazioni del mondo del lavoro, causate dai mutamenti dei sistemi economici, non possano
stravolgerne il senso. Pensiamo quindi che dal lavoro riparte l’Italia e a partire dal lavoro si crea un solido sistema
economico, sociale e democratico.
Per questo riteniamo essenziale la creazione di lavoro buono e giusto attraverso il contributo dei diversi soggetti: cittadini e
imprese, sindacati e istituzioni, comunità locali e società civile perché sia possibile un’economia equa sostenibile radicata
sulla vocazione dei variegati territori del nostro paese. Per “buono” intendiamo dire un lavoro che produca beni utili,
innovativi, rispettosi dell'ambiente e del territorio, capaci di risolvere bisogni e non di creare dipendenze; per “giusto”
intendiamo dire un lavoro che consenta lo sviluppo integrale della persona umana come singolo e come membro delle
comunità all'interno delle quali si sviluppa il suo percorso umano, la sua opera e la sua vocazione. Un lavoro buono e giusto
contribuisce realmente sia al progresso materiale sia al progresso sociale sia al progresso spirituale. Un lavoro buono e giusto
non è mai semplicemente individualistico perché è sempre sociale:. Il vero plusvalore è il bene comune. Cerchiamo di
raccogliere l’invito di Papa Francesco a dare priorità al tempo piuttosto che allo spazio. Questo “significa occuparsi di iniziare
processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza
retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno
avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici” (EG, 223).
Allora, per un lavoro buono e giusto, le Acli s’impegneranno a restituire spessore alla cultura del lavoro, costituita di parole e
di idee popolari, capaci di rappresentare la realtà e non l’astrazione della realtà; è importante ridare spazio e tempo alle
esperienze concrete, attraverso analisi e studio delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici nei diversi ambiti
professionali.
Sarà altrettanto fondamentale ridisegnare le nostre attività ponendole “a servizio” delle persone che lavorano: il lavoro è il
centro della nostra iniziativa politica, sociale, culturale ed ecclesiale; la fedeltà al lavoro conferisce piena identità alla nostra
storia e alla nostra progettualità sociale, attuale. Le Acli vogliono immaginare nuovi modi per sostenere i lavoratori e le
lavoratrici nella loro ricerca di senso: progetti reti, sportelli, circoli, cooperative, start up… Tutto quanto rimetterà in circolo
una creatività sociale capace di sostenere, promuovere e tutelare le comunità territoriali e i cittadini.
Nella nostra tradizione abbiamo sempre coniugato pensiero e azione. È questo modo di agire che continua a qualificarci: un
lavorare critico, capace di discernere ciò che è buono e giusto, sarà anche ciò che servirà per ricostruire l’Italia.