Incontro di studi 2014 Il tema del 47° Incontro nazionale di studi Le Acli negli anni 2020. Per una nuova società del lavoro «[…] un lavoro che, in ogni società, sia l'espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa» (Caritas in Veritate, 63) «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (Costituzione Italiana, art. 4). Come inquadrare il tema del lavoro oggi? È superato lo schema che contrappone il capitale al lavoro, in una lotta che oggi registrerebbe una clamorosa regressione della componente lavoratrice (contemplando in essa il lavoro salariato, il lavoro dipendente, il lavoro falsamente dipendente in realtà precario, dalla classe operaia al cosiddetto “quinto stato”, passando dai piccoli commercianti)? Quale direzione prendere per meglio proteggere i diritti dei lavoratori? Possiamo anche noi confermare che alle conquiste sindacali degli anni Settanta, è amaramente corrisposta una stagione di contrazione dei diritti dei lavoratori? Per rispondere a queste domande poniamo qualche frammento di realtà, proponiamo un nostro punto di vista per circoscrivere il lavoro attorno a tre poli. La nostra prospettiva parte dalla persona che lavora, si interroga sull’organizzazione del sistema produttivo, per arrivare al ruolo del Paese e del territorio. La persona che lavora 1. Il senso del lavoro: il lavoro subisce profonde trasformazioni. Sono molteplici le ricadute sulle persone e sulle loro relazioni. L’interrogativo è rivolto alle condizione future del nostro convivere perché, come recita il dettato costituzionale all’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il lavoro contribuisce a disegnare un progetto di vita. Oggi la logica di quello che alcuni chiamano capitalismo tecno-nichilista propone il lavoro come strumento per il consumo e per la soddisfazione dei desideri suggeriti-imposti dalle innovazioni del mercato. Questa idea svuota il significato del lavoro perché lo individualizza e lo marginalizza all’interno del sistema produttivo. Il lavoro diventa essenzialmente fonte di guadagno e di autosostentamento, diventa luogo di competizione dove sopraffare l’altro, il più debole, per ottenere successo. Così il lavoro consuma le persone: “questa economia uccide” (EG, 53) e incentiva la cultura dello scarto (EG, 53). Invece il lavoro non si può circoscrivere al suo mero significato materiale ed economico, perché è actus personae (LE, 6) e come espressione della persona acquista un significato antropologico: “la persona è il metro della dignità del lavoro” (Compendio DSC, 271). Attraverso il loro lavoro le donne e gli uomini realizzano un prodotto, perfezionano se stessi, entrano in relazione con gli altri, compiono la loro vocazione di lavorare e custodire il creato (Genesi 2,15), contribuiscono a generare bene comune. Quando si pone al centro la persona il lavoro diviene un bene plurale, perché considera i genitori, i figli, le donne e gli uomini in carne e ossa con le loro età e le loro condizioni di vita, con la loro cultura e le loro diverse abilità e competenze. Per promuovere un realistico senso del lavoro è necessario agire su tre dimensioni. Anzitutto stabilire un rapporto sano con il tempo: la dimensione biblica della festa è il luogo nel quale si attribuisce il senso del proprio lavoro, nel quale si valuta se è “bello e buono”; il nostro tempo è aggredito dalla logica dell’usa e getta e i compiti lavorativi si esauriscono nella prigione del presente e non aprono a una visione progettuale. In secondo luogo ricostruire una socialità del lavoro richiede di investire nelle relazioni, non solamente quelle interne all’impresa, ma anche quelle tra impresa e territorio, tra impresa e comunità locale, tra impresa e società civile. Abbiamo bisogno di riappropriarci di un umanesimo del lavoro che chiede l’attenzione alle relazioni nella giustizia e nella solidarietà anche con la promozione dei valori di mutualità e cooperazione. Infine fondare una res pubblica, perché occorre un’etica del lavoro orientata al bene comune: lavorare è sensato quando ci si interroga sulle conseguenze dei risultati di ciò che si produce, per conciliare sviluppo economico con l’innovazione, con la crescita sociale e la compatibilità ambientale. 2. Il lavoro e la cittadinanza: l’attuale scenario ci induce a riflettere su una svalutazione del lavoro. Accenniamo ad alcuni aspetti: la crescita degli indicatori di Pil nei Paesi a economia avanzata non produce un corrispettivo aumento dei tassi di Incontro di studi 2014 Il tema del 47° Incontro nazionale di studi occupazione, anzi nei Paesi dell’Unione europea, e in particolare in Italia, si assiste all’aumento dei tassi di disoccupazione e di inattività. Non c’è un automatismo diretto tra lavoro e cittadinanza, ma il legame tra diritti sociali e lavoro è strettissimo e l’assenza di lavoro rischia di produrre anche la contrazione dei diritti di cittadinanza. Anche a livello culturale si perde un legame prima presente e fortemente radicato tra lavoro e cittadinanza. Se si erodono i diritti, allora le persone sono schiacciate dal bisogno di lavorare e si aprono vie per trascurare le norme, per rendere accettabili condizioni precarie, lavoro nero, lavoro sommerso. I costi si caricano sull’individuo, sulla famiglia e sulla comunità. Lo stesso se passiamo dalla civiltà del lavoro alla civiltà del non-lavoro, dove le persone inoccupate rimangono imprigionate dal bisogno di lavorare. Siamo in presenza di una deriva, che finisce per non considerare il lavoro come un diritto di cittadinanza esigibile da tutti, ma solo come una possibilità a cui non è necessario che tutti accedano. C’è uno stretto legame tra lavoro e coesione sociale, lavoro e relazioni con altri, lavoro e costruzione della polis: la mancanza di lavoro da una parte alimenta un vuoto sociale, dall’altra parte influisce su spazi e tempi di vita (famiglia su tutti), ricchi di significato ma diseconomici nel breve periodo. Il legame tra lavoro e cittadinanza ci ricorda la stretta e intima connessione tra la fedeltà al lavoro e la fedeltà alla democrazia delle nostre Acli. 3. Il lavoro e la vulnerabilità: la nuova ripartizione del lavoro, tra lavoratori forti e strategici per i processi produttivi e lavoratori deboli e periferici, intacca le posizioni occupazionali intermedie sia con una riduzione della domanda di lavoro, sia con una riduzione salariale. L’effetto poi si riproduce nella società con la crisi dei ceti medi. La vulnerabilità è percepita soprattutto dai lavoratori autonomi, da quelli subordinati a medio e basso reddito, dai piccoli artigiani. Tutti vedono da una parte peggiorare il proprio tenore di vita, dall’altra parte percepiscono maggiori insicurezze relative alle condizioni lavorative, alla stabilità del lavoro, alle tutele nei rapporti di lavoro. Si aggiunge poi un processo di individualizzazione degli ambienti di lavoro alimentato dal clima competitivo che contribuisce a sgretolare la dimensione socializzante e all’isolamento dei singoli lavoratori. 4. Il lavoro e la virtù: si tratta di una visione poco esplorata, a causa della prevalenza di una visione più astratta (che colloca il lavoro in un quadro di valori morali o di morale politica) oppure più funzionalista (la competenza, l'abilità). Tutti e tre i livelli sono evidentemente necessari, ma ci pare che il tema delle virtù – ovvero di quando il valore assume anche una declinazione di “bene” sul piano pratico – sia centrale. Si pensi a virtù come il sacrificio, la lealtà, il coraggio, la perseveranza, la pazienza, l'attenzione, la cura. Il lavoro va compreso nella sua dimensione etica che si evidenzia nelle relazioni e nelle finalità del suo prodotto o servizio. Se perdiamo questa dimensione perdiamo la misura della qualità del nostro lavoro. Non riusciamo a provare i nostri risultati e non comprendiamo quale sia il frutto del lavoro, quali effetti abbia sul benessere delle persone e della comunità. Il lavoro è una questione strettamente relazionale e se ne valuta la qualità sulla base delle alleanze che costruisce, sulla forza dei legami che consolida e sulle dimensioni che lo caratterizzano dalla passione alla gratuità, dalla responsabilità alla cura per la società, dall’apertura verso le generazioni, presenti e future. Un’etica del lavoro vede l’impresa come comunità di persone fortemente radicata sul suo territorio, con il quale stringe legami di senso, condivide sogni per il futuro e sente la responsabilità di progettare uno sviluppo sostenibile. L’organizzazione che produce 5. L’organizzazione del lavoro: il mondo produttivo ha abbandonato una visione omogenea del lavoro, che veniva sostenuta dal taylor-fordismo: l’idea del one best way conteneva una forte impronta razionalistica e ingegneristica che strutturava e gerarchizzava il lavoro di fabbrica come quello delle amministrazioni. Le organizzazioni, inserite in un nuovo contesto di tecnologie informatiche, portano a dividere il lavoro all’interno di reticoli più o meno estesi più o meno importanti, portano a privilegiare unità locali all’interno di connessioni globali. L’immagine del lavoro si articola. Non c’è più una “catena di montaggio” tra un lavoro e un altro, ma i lavori diventano più indipendenti tra loro. Si costituiscono nuclei di knowledge worker iperpagati e sovraoccupati e nuclei di working poor, che sono la contraddizione vivente dell’ipotesi per cui il lavoro conferisce (tra le altre cose) l’autonomia e la libertà dall’indigenza. Secondo alcuni autori si sta generando una società scissa tra queste due polarità, con i primi a governare la produzione e i secondi che operano a loro servizio. Ma emerge un’ulteriore figura che si distacca dalle due polarità: i “lavoratori artigiani”, che cercano nella qualità e nella dimensione relazionale il senso del proprio lavoro, quelli che investono su una produzione cooperativa piuttosto che competitiva. Tra gli esempi citiamo il ritorno all’agricoltura o all’allevamento (biologica); l’esperienza del coworking; l'esperienza dei giovani che si giocano su un doppio lavoro ( uno remunerativo, uno espressivo) e le molte start up che investono sulle capacità di mettere insieme intelligenze e idee con sogni e bisogni. In tutte queste diversità organizzative, sarà possibile sostenere un lavoro dignitoso? Saranno immaginabili adeguate misure di protezione sociale? 6. Il lavoro e i giovani: ogni generazione intende il lavoro a seconda delle esperienze che fa e che vede (nel lavoro degli altri) negli anni che precedono l'ingresso nel mondo del lavoro. Ma questa generazione rischia di essere la prima a diventare adulta senza passare attraverso l'esperienza lavorativa. La generazione dei ventenni e trentenni che sta faticosamente cercando di entrare si caratterizza per aver conformato il proprio modo di vedere attraverso una significativa espansione spaziale (sia sul piano virtuale, ovvero il web e i social network, sia sul piano fisico, la mobilità, l'Erasmus, i viaggi low cost, la contaminazione dei linguaggi ecc.) e temporale (più tempo passato in ambienti scolastici e formativi). Le conseguenze di questi modelli formativi influenzeranno il modo di concepire la produzione e il lavoro: non sarà remoto affermare – come già sostiene qualcuno – che una parte assai cospicua delle professioni del futuro prossimo venturo non sono ancora Incontro di studi 2014 Il tema del 47° Incontro nazionale di studi pensabili perché non sono ancora nate. Dobbiamo investire sulla capacità di creare innovazione, nuove idee per sostenere un'economia che non può pensare di riprodurre gli schemi e i prodotti del passato. Innovazione è una parola chiave. 7. Il lavoro e la rappresentanza: è una questione bloccata e problematica. Il modello italiano di sindacato non sembra rispondere adeguatamente alle sfide attuali. I due principali poli sindacali si muovono lungo un asse che a un polo colloca una visione prevalentemente antagonista e all'altro una visione prevalentemente trattativista secondo il principio del male minore; a un polo un sindacato fortemente tentato dal protagonismo politico, all'altro un sindacato che cerca di non farsi coinvolgere troppo dalla politica senza disdegnare il dialogo con le diverse maggioranze politiche. Entrambi i poli, comunque, “fanno politiche sociali”: si occupano non solo di diritto del lavoro ma anche di welfare e di politiche economiche, cercando di condizionare l'agenda politica. Nel frattempo si rileva la riduzione della percentuale di lavoratori sindacalizzati (anche per il fatto che oltre il 90% delle imprese è inferiore ai 15 lavoratori, e pertanto il clima sociale è informale e probabilmente ostile verso il sindacato, per cui si preferisce rinunciare ad una rappresentanza istituzionalmente formata). Una scarsa rappresentatività però può indurre alla formazione di un’idea asettica di uguaglianza che finisce per produrre una falsa contrapposizione tra chi è garantito e chi non lo è. Forse sarebbe necessario evolvere vero un modello sindacale che privilegi la contrattazione. In tal senso diventa sempre più centrale la contrattazione di secondo livello anche sul piano della tutela e del riconoscimento di vecchi e nuovi diritti. Non mancano esperienze di welfare contrattuale innovativo ma è assente una prassi diffusa capace di cambiare la cultura delle relazioni industriali. A questo “secondo livello” deve corrispondere un'adeguata e coerente partecipazione delle forze lavoro a alla governance delle imprese come i consigli di sorveglianza o strumenti analoghi. 8. Il lavoro e la partecipazione: L’esigenza di favorire i meccanismi di partecipazione e di collaborazione dei lavoratori nell’azienda era indicata nostra Costituzione che all’articolo 46: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. Questa norma è rimasta a lungo disattesa. Promuovere partecipazione significa stimolare democrazia, ma anche aumentare la produttività, perché quando le persone sono coinvolte in un progetto sentono il loro lavoro utile per un obiettivo, che va oltre la mera sussistenza verso una dimensione creativa. Le forme di partecipazione sono diverse: operativa, organizzativa, strategica. Vanno da un livello minimo che riguarda le modalità di lavoro, a uno medio che tocca le corde organizzative, fino a uno massimo che attiene alla visione strategica dell’impresa. La strada della democrazia economica è fondamentale per realizzare una vera democrazia in quanto favorisce lo sviluppo di forme di partecipazione dei dipendenti ai processi decisionali dell’impresa e alla distribuzione degli utili prodotti dalla stessa. Ad oggi gli strumenti tecnici che possono costituire i pilastri necessari alla realizzazione della democrazia economica sono i fondi pensione e l’azionariato collettivo; ci sono poi esperienze dove i lavoratori condividono le scelte di gestione aziendale mediante partecipazione dei rappresentanti eletti dai lavoratori o designati dalle organizzazioni sindacali. Lo Stato e la comunità che si assumono una responsabilità 9. Lavoro e modello economico: la qualità e la stabilità del lavoro derivano dal modello di economia che si sceglie, sono una variabile dipendente del modello economico. In Germania è prevalso e si è stabilizzato il modello dell'economia sociale di mercato; in Italia ci si è per molti anni ispirati al Codice di Camaldoli, un modello di economia mista. È stato per almeno quattro decenni un modello vincente: inclusivo e remunerativo. Poi i cambiamenti internazionali (ma non solo: anche una degenerazione interna dell’applicazione del modello) hanno indebolito un modello che non ha aggiornare l'intuizione ai tempi che correvano rapidi e inesorabili. L’assenza di una precisa politica economica e industriale ci ha portato ad essere assoggettati a flussi del mercato globale e ai capricci della speculazione finanziaria, gestita esclusivamente dagli interessi privati, senza l’argine di istituzioni regolative mondiali. Ma un modello economico che parta dal lavoro, dai lavoratori, dai cittadini ha invece bisogno di istituzioni sovranazionali. Per questo anche l’Europa avrà senso se riconoscerà tra i sui compiti la costituzione di un cartello di protezione degli interessi dei Paesi membri verso un sistema di sviluppo giusto, sostenibile e solidale. Nella consapevolezza che “non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo” (EG, 203). Proponiamo allora di collocare il lavoro dentro un modello di economia civile, all’interno di esso è recuperabile una dimensione collettiva di lavoro che depotenzi una visione individualistica a favore di una dinamica persona-comunità. Si tratta di affiancare al binomio lavoro-competizione il binomio lavoro-cooperazione. L'economia civile, dentro un modello italiano, propone una strada che noi riconosciamo come possibile. La comunità, il territorio il distretto… Alla tendenza globalizzante si contrappone l’attenzione alle dinamiche dei territori che promuovono la biodiversità delle economie, nelle quali fare sistema, in cui riscoprire vocazioni antiche e nuove, in cui costruire con chi sente una responsabilità sociale e civile. Questa pensiamo sia anche la strada privilegiata per radicare una coesione territoriale che consideri le peculiarità regionali e le questioni complesse come lo sviluppo del Mezzogiorno, dove la marginalità va trasformata in tipicità, ovvero in elemento di alta qualità. Dentro tale modello vorremo concretizzate le seguenti caratteristiche: a - la forte partecipazione dei lavoratori ai destini dell'impresa (utili compresi); Incontro di studi 2014 Il tema del 47° Incontro nazionale di studi b - il principio dell'azione responsabile, per radicare la consapevolezza che il destino dell'impresa ha a che fare con la comunità locale, nella quale è inserita; la comunità locale deve molto all'impresa, ma anche l'impresa deve saper di dover molto alla comunità locale all'interno della quale è nata; il bene dell'impresa non si riduce al profitto: sarebbe una visione miope anche sul piano economico e finanziario; c – la concreta alleanza tra lavoro, impresa, natura, cultura e territorio (istituzioni comprese) fondata sulla creazione di maggior benessere, pace sociale e sostenibilità ambientale; d – la valorizzazione della conoscenza, la forte spinta verso la formazione delle persone, di competenze, di ricerca e innovazione per migliorare la qualità del prodotto, della produzione e della produttività, ma anche la responsabilità sociale dell’impresa e la crescita del senso civico; e – la creazione di welfare comunitario che mette in connessione i soggetti attivi del territorio: azienda, amministrazione pubblica, associazioni di promozione sociale, realtà della società civile, terzo settore, anche a partire dal sostegno al welfare aziendale (con la messa in atto di strumenti di sostegno sociale e familiare per i lavoratori), come una sorta di “secondo livello” rispetto al welfare universale rivolto a ogni cittadino; f – una politica orientata all’equa distribuzione dei redditi; g – l’investimento sul lavoro diffuso e utile per impegnare le persone in una sorta di lavoro civile per il benessere socioambientale, per curare la bellezza del territorio e quindi la qualità della vita in cui nascono e crescono i figli. 10. Ripartire il lavoro e ripartire il reddito: perché sia possibile rilanciare il lavoro è necessario condividere le risorse e i beni a partire da due nuclei basilari: la ricchezza e il lavoro. È inaccettabile lo squilibrio dei guadagni che si sta realizzando tra dirigenti e operai, tra manager e impiegati, tra rendite e redditi da lavoro. Si generano sacche di opulenza e altrettante di indigenza. Si tratta di un fenomeno pericoloso anche per il capitalismo in sé, che non può funzionare in assenza di una buona pace sociale fondata sull’assenza di clamorosi squilibri. Allo stesso tempo è inaccettabile assistere alla polarizzazione tra il non lavoro e l’iperlavoro, a volte anche scarsamente remunerato. Una società del lavoro cresce dentro un’idea di uguaglianza e di libertà: occorre ripartire i redditi perché tutti abbiano il necessario e occorre ripartire il lavoro perché ognuno possa contribuire alla vita della comunità. In questo senso, in termini minimali, si può incentivare il part time e aumentare il costo orario del lavoro straordinario (attualmente più basso di quello ordinario), se non prevedere – in termini più progettuali – forme di cooperazione tra lavoratori. Conclusione: creare lavoro buono e giusto L’Italia attraversa un momento difficile che richiede di impostare scelte efficaci per il suo futuro. Il lavoro è una risorsa strategica e irrinunciabile, fondativa per la nostra Costituzione, la nostra società è una repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1). Se manca il lavoro, manca l’humus della nostra coesione, cede il patto che cementa la nostra alleanza di cittadini. Ci muoviamo all’interno di un contesto europeo e non possiamo leggere le sorti del nostro paese al di fuori dell’Unione, come istituzione che chiediamo sia sempre più vicina ai cittadini. Sosteniamo che le trasformazioni del mondo del lavoro, causate dai mutamenti dei sistemi economici, non possano stravolgerne il senso. Pensiamo quindi che dal lavoro riparte l’Italia e a partire dal lavoro si crea un solido sistema economico, sociale e democratico. Per questo riteniamo essenziale la creazione di lavoro buono e giusto attraverso il contributo dei diversi soggetti: cittadini e imprese, sindacati e istituzioni, comunità locali e società civile perché sia possibile un’economia equa sostenibile radicata sulla vocazione dei variegati territori del nostro paese. Per “buono” intendiamo dire un lavoro che produca beni utili, innovativi, rispettosi dell'ambiente e del territorio, capaci di risolvere bisogni e non di creare dipendenze; per “giusto” intendiamo dire un lavoro che consenta lo sviluppo integrale della persona umana come singolo e come membro delle comunità all'interno delle quali si sviluppa il suo percorso umano, la sua opera e la sua vocazione. Un lavoro buono e giusto contribuisce realmente sia al progresso materiale sia al progresso sociale sia al progresso spirituale. Un lavoro buono e giusto non è mai semplicemente individualistico perché è sempre sociale:. Il vero plusvalore è il bene comune. Cerchiamo di raccogliere l’invito di Papa Francesco a dare priorità al tempo piuttosto che allo spazio. Questo “significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici” (EG, 223). Allora, per un lavoro buono e giusto, le Acli s’impegneranno a restituire spessore alla cultura del lavoro, costituita di parole e di idee popolari, capaci di rappresentare la realtà e non l’astrazione della realtà; è importante ridare spazio e tempo alle esperienze concrete, attraverso analisi e studio delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici nei diversi ambiti professionali. Sarà altrettanto fondamentale ridisegnare le nostre attività ponendole “a servizio” delle persone che lavorano: il lavoro è il centro della nostra iniziativa politica, sociale, culturale ed ecclesiale; la fedeltà al lavoro conferisce piena identità alla nostra storia e alla nostra progettualità sociale, attuale. Le Acli vogliono immaginare nuovi modi per sostenere i lavoratori e le lavoratrici nella loro ricerca di senso: progetti reti, sportelli, circoli, cooperative, start up… Tutto quanto rimetterà in circolo una creatività sociale capace di sostenere, promuovere e tutelare le comunità territoriali e i cittadini. Nella nostra tradizione abbiamo sempre coniugato pensiero e azione. È questo modo di agire che continua a qualificarci: un lavorare critico, capace di discernere ciò che è buono e giusto, sarà anche ciò che servirà per ricostruire l’Italia.