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“LA RESPONSABILITA’ DEGLI AMMINISTRATORI NELLE SOCIETA’ DI
CAPITALI” – Ciro CARANO e Maurizio CONSOLI
SOMMARIO 1. Descrizione dell’indagine – 2. L’obbligo di diligenza – 2.1.
Natura dell’incarico e specifiche competenze – 2.2. Diligenza e perizia –
2.2.1. Diligenza e perizia alla luce della riforma – 2.3. Insindacabilità delle
scelte di gestione – 2.4. L’obbligo di diligenza nella s.r.l. – 2.5. Gli obblighi di
valutazione/vigilanza e di intervento – 2.5.1. La vigilanza nella precedente
disciplina – 2.5.2. Il nuovo assetto normativo – 2.5.3. L’obbligo di agire in
modo informato – 2.5.4. Le c.d. deleghe atipiche – 3. L’obbligo di perseguire
l’interesse sociale – 3.1. Il c.d. conflitto di interessi – 3.1.1. Casistica – 3.1.2.
Il conflitto di interessi nella s.r.l. – 3.2. La concorrenza – 3.3. Il c.d. interesse
di gruppo – 3.3.1. Interferenze tra discipline – 4. Gli obblighi a contenuto
specifico – 4.1. Adempimenti contabili – 4.2. Rapporti con l’assemblea –
4.2.1. Rapporti con le decisioni dei soci nella s.r.l. – 4.3. Verificarsi di una
causa di scioglimento – 4.4. Altri adempimenti – 4.4.1. La restituzione dei
finanziamenti “anomali” dei soci – 5. I soggetti responsabili e la solidarietà –
5.1.
L’amministratore
subentrante,
assente
e
dimissionario
–
5.2.
L’amministratore di fatto – 5.3. I soggetti esercitanti attività di direzione e
coordinamento – 6. Il danno risarcibile – 7. Cause di estinzione della
responsabilità – 7.1. Problematiche particolari in tema di rinuncia – 7.2.
Problematiche particolari in tema di transazione – 7.3. La prescrizione – 8.
Azioni extracontrattuali (cenni).
LEGISLAZIONE Cost. 3, 24 - c.c. 1173, 1176, 1218, 1223, 1304, 1322, 2° co.,
1346, 1394, 1424, 2028, 2043, 2055, 2214, 2236, 2260, 2274-2279, 2301,
2331, 2° co. previg., 2364, n. 4 previg. e n. 5 vig., 2367, 2373 previg., 23802380 bis, 2381, previg. e 3°-6° co. vig., 2384, 2° co., 2384 bis previg., 2387,
2390, 2391 previg. e vig., 2392 previg. e vig., 2393, 2393 bis, 1°-2° co., 6°-7°
co., 2394-2395, 2403, 2407, 1° co., 2409, 2409 sexies, 2409 novies, 2409
undecies, 2409 septiesdecies, 2409 noviesdecies, 2412, 2446, 2447, 2449
previg., 2454, 2465, 2467, 2475, 5° co., 2475 bis, 2° co., 2475 ter-2476,
2479, 1°-4° co., 2479 bis-2479 ter, 2484, 3° co., 2485-2486, 2487 previg. e
1° co., lett. c, vig., 2490, 5° co., 2497-2497 ter, 2631 previg., 2634, 2639,
2935, 2941, n. 7, 2949 - r.d. 16.3.1942, n. 267, l. fall., artt. 65, 146, 216, 3°
co. - d.lg. 1.9.1993, n. 385, t.u.b., artt. 135-136 – d.lg. 18.12.1997, n. 472,
2
art. 11 - d.lg. 24.2.1998, n. 58, t.u.f., artt. 149, 190,193 - l. 3.10.2001, n.
366, delega per rif. soc. - d.lg. 11.4.2002, n. 62, disciplina degli illeciti penali
ed amministrativi per soc. comm. - d.lg. 17.1.2003, n. 6, d. rif. soc., art. 5.
BIBLIOGRAFIA Minervini 1956, Weigmann 1974, Frè 1982, Spolidoro 1983,
Ferri 1985, Mignoli 1986, D’Alessandro 1988, Bonelli 1991, Cagnasso 1991,
Calandra Buonaura 1991, Benazzo 1992, Bonelli 1992, Allegri 1993, Rordorf
1993, Zanarone 1993, Montalenti 1995, Enriques 1997, Abriani 1998,
Bianchi 1998, Dellacasa 1999, De Crescenzo 1999, Galgano 2001, Patti A.
2001, Salafia 2001, De Angelis 2002, Franzoni 2002, Panzani 2002, Salafia
2002, Abriani 2003a, Abriani 2003b, Angelici 2003, Bartalena 2003,
Cagnasso 2003, Capo 2003, Carestia 2003, Caselli 2003, Di Amato 2003,
Conforti 2003, Dimundo 2003, Galgano 2003, Guizzi 2003, Manzo 2003,
Meli 2003, Nazzicone 2003a, Nazzicone 2003b, Portale 2003, Rescigno
2003, Sacchi 2003, Salafia 2003a, Salafia 2003b, Santosuosso 2003, Sbisà
2003, Toffoletto 2003, Tombari 2003, Ambrosini 2004, Badini Confalonieri
2004, Bonelli 2004, Bonfatti 2004, Cagnasso 2004, Candellero 2004,
Dalmotto 2004, Di Cataldo 2004, Galgano 2004, Irrera 2004, Rainelli 2004,
Picciau 2004, Rordorf 2004, Rossi S. 2004, Salafia 2004, Scano 2004,
Silvestrini 2004, Spiotta 2004, Vaira 2004, Dal Soglio 2005, De Nicola 2005,
Enriques-Pomelli
2005,
Franchi
2005,
Guerrieri
2005,
Lolli
2005,
Pasquariello 2005, Picciau 2005, Pomelli 2005, Rescigno 2005, Rossi A.
2005a, Rossi A. 2005b, Salafia 2005, Sandulli 2005, Ventoruzzo 2005,
Buonocore 2006, Mandrioli 2006, Minervini 2006.
1.
Descrizione dell’indagine
Poiché è raro che la responsabilità degli amministratori sia invocata
in situazioni diverse dall’insolvenza della società e poiché in questo caso,
nelle società di persone, la responsabilità dell’amministratore è assorbita da
quella che lo riguarda quale socio illimitatamente responsabile, l‘indagine è
limitata alle società di capitali (nelle quali si registra l’altra situazione tipica
che dà origine all’esercizio di azioni di responsabilità, cioè il mutamento del
gruppo di comando, anche se è diffusa la prassi di pattuire clausole ad hoc a
tutela dell’alienante che esprimeva gli amministratori cessati: infra § 7.1).
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Per le società di persone, ci si limita a ricordare che la
responsabilità degli amministratori è disciplinata dall’art. 2260, che fissa (nel
2° co.) la regola della solidarietà (salvo che si provi <di essere esenti da
colpa>) per l’adempimento degli obblighi <imposti dalla legge e dal contratto
sociale>, con un rinvio (nel 1° co.) alle <norme sul mandato>. Si è ritenuto
che
l’amministratore non può compiere operazioni irrazionali ed avventate, di
pura sorte, o azzardate, prevedibilmente rischiose ed imprudenti, e non può
superare i limiti fissati da quella ragionevolezza che deve connotare la
discrezionalità dell’imprenditore, secondo cui ogni scelta anche nel campo
dell’attività di impresa non può discostarsi dalle valutazioni tecnicoprofessionali che potrebbe esprimere ogni altro operatore che svolga
un’attività dello stesso tipo a condizioni economiche potenzialmente idonee
a generare un risultato positivo di fine esercizio, poiché lo scopo del
contratto di società è quello di conseguire degli utili da dividere fra i soci
come prodotto dell’attività imprenditoriale gestita in comune.
(App. Milano 18.1.00, GI, 2000, 986)
Gli amministratori di una s.p.a. che adotti il sistema “tradizionale” di
governance (che è il più diffuso anche dopo la recente riforma societaria e
che costituisce la regola in difetto di scelta alternativa da parte dei soci) sono
civilmente responsabili del loro operato in una triplice direzione: nei confronti
della società (art. 2392), nei confronti dei creditori sociali (art. 2394) e nei
confronti dei singoli soci o terzi (art. 2395). Mutatis mutandis, il medesimo
regime normativo si applica anche ad una s.p.a. che adotti sistemi alternativi
di amministrazione (“dualistico” o “monistico”, in virtù dei richiami espressi
3
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svolti dall’art. 2409 undecies e rispettivamente dall’art. 2409 noviesdecies),
oltre che alle s.a.p.a. (in virtù del rinvio generale contenuto nelll’art. 2454).
Da qui la scelta di ancorare l’indagine agli amministratori di una s.p.a. che
adotti il sistema di amministrazione “tradizionale”.
Almeno letteralmente (ma la conclusione non è affatto pacifica: infra
§ 8), gli amministratori di una s.r.l. (che, all’esito della recente riforma,
costituisce un modello autonomo rispetto alla s.p.a.) rispondono invece solo
nei confronti della società e di singoli soci o terzi (art. 2476 c.c.), non
essendo richiamata anche la responsabilità nei confronti dei creditori sociali.
Va aggiunto che in tale tipo sociale si registra una differenziazione rispetto al
modello azionario, a causa dell’assenza di quella dialettica tra proprietà e
potere gestorio che è tipica della s.p.a. e dei penetranti poteri di controllo (e
talora di ingerenza nella gestione) che la s.r.l. riconosce al socio. Da qui la
scelta di esaminare (ove opportuno) le peculiarità che riguardano
l’amministrazione della s.r.l.
Infine, in coerenza con l’oggetto specifico dell’opera, si è concentrato
l’attenzione sulla responsabilità contrattuale verso la società (con cenni agli
altri tipi di responsabilità) e sui soli aspetti sostanziali (e non processuali).
2.
L’obbligo di diligenza
Oltre che per violazione di divieti/obblighi specifici (quali, ad esempio,
il divieto di gestione non meramente conservativa in caso di scioglimento
della società o l’obbligo di tenuta dei libri contabili) o dell’obbligo (generale)
di non agire in presenza (e a fortiori in conflitto) di interessi propri o di terzi,
in generale, la responsabilità degli amministratori di una s.p.a. deriva
dall’inosservanza dell’obbligo di gestire la società con la dovuta <diligenza>
4
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(art. 2392) e/o di garantire la <conservazione dell’integrità del patrimonio
sociale> (art. 2394).
A prescindere dall’eventuale diversa natura (extracontrattuale e non
già contrattuale) della responsabilità verso i creditori sociali rispetto a quella
verso la società (che è sicuramente di natura contrattuale) e dall’ulteriore
presupposto previsto per la prima azione dall’art. 2394/2 (i.e. insufficienza
del patrimonio sociale rispetto al soddisfacimento dei crediti), nonostante il
diverso tenore dell’art. 2392 rispetto all’art. 2394, la responsabilità presenta
invero la medesima estensione, giacché ogni atto d’impresa ha effetti sul
patrimonio sociale ed è suscettibile di arrecarvi danno qualora venga posto
in essere dagli amministratori senza la dovuta diligenza. Si è, in proposito,
rilevato che la responsabilità degli amministratori va individuata
nel comportamento arrecante pregiudizio alla garanzia patrimoniale dei
creditori sociali che si manifesta in relazione alla diligenza con la quale
viene gestita l’impresa sociale (giacché ogni atto di impresa è atto di
disposizione del patrimonio sociale, come tale suscettibile di essere valutato
sotto l’aspetto del pregiudizio al patrimonio medesimo); e quindi, in
definitiva, la responsabilità presenta la medesima estensione di quella verso
la società e deriva dall’aver partecipato all’atto che ha causato il danno,
ovvero dal non aver fatto il possibile per impedirne il compimento o per
eliminarne o attenuarne le conseguenze.
(Cass. 6.10.81, n. 5241, GCo, 1982, II, 783)
L’obbligo di <conservazione dell’integrità del patrimonio sociale> è
dunque una specificazione del più generale obbligo di <diligenza> verso la
società. Il che significa che la responsabilità degli amministratori è una
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responsabilità da inadempimento (Cass. 22.10.98, n° 10488, FI, 1999, I,
1967), cui vanno applicati i relativi principi generali (Bonelli 2004, 162;
Franzoni 2002, 272).
Occorre allora esaminare, in primo luogo, il concetto di diligenza
sancito dall’art. 2392, in modo da individuare, da un lato, gli esatti confini del
generale obbligo di amministrare con diligenza e, dall’altro lato, i limiti del
sindacato giurisdizionale su tale amministrazione. Infatti, mentre in presenza
di violazione ad un obbligo specifico degli amministratori (es. convocazione
dell’assemblea in caso di perdite qualificate del capitale sociale) è agevole
l’individuazione della condotta censurabile dell’amministratore, l’obbligo di
diligenza nella gestione costituisce una clausola generale che, come tale,
dovrà essere apprezzata nel caso concreto, considerando tutte le
circostanze specifiche, ma tenendo fermo il principio dell’insindacabilità delle
scelte imprenditoriali (business judgement rule; infra § 2.3).
Il diverso rilievo della diligenza negli obblighi a contenuto specifico e
in quello generico di amministrare con diligenza è colto in giurisprudenza.
Nel primo caso la diligenza rappresenta la misura dell’impegno richiesto agli
amministratori e la responsabilità può essere esclusa, come previsto dall’art.
1218 cod. civ., soltanto se “l’inadempimento o il ritardo è stato determinato
da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”
ovverosia da causa che non possa essere né evitata né superata con la
diligenza richiesta al debitore. Nel secondo caso, invece, la responsabilità
non viene collegata alla violazione di un obbligo specifico, ma alla violazione
del generico obbligo di diligenza nelle scelte di gestione: l’agire diligente è
compenetrato nel contenuto della prestazione dell’amministratore e,
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pertanto, la diligente attività del debitore per realizzare l’interesse del
creditore esclude direttamente l’inadempimento.
(Cass. 23.3.04, n. 5718, RN, 2004, 1571)
Che la diligenza richiesta all’amministratore di società sia quella
propria del <mandatario> (secondo la dizione originaria dell’art. 2392, ma il
richiamo a tale parametro permane tuttora valido per le società di persone,
alla luce dell’art. 2260 che rinvia alle norme sul mandato, e non è escluso
che valga tuttora anche per le s.r.l.) ovvero sia quella <richiesta dalla natura
dell’incarico e dalle loro specifiche competenze> (secondo la dizione attuale
della norma specifica che riguarda la s.p.a. dopo la recente riforma), cioè la
diligenza richiesta nell’adempimento dell’obbligazione (art. 1176, 1° e 2°
co.), si è ben rilevato che
la diligenza non si limita ad essere un semplice criterio di valutazione
dell’esatto adempimento, ma rappresenta piuttosto una categoria che
concorre a stabilire il contenuto del dovere di buona gestione della società.
(Dellacasa 1999, 211)
Analoghe considerazioni sono rinvenibili in giurisprudenza, la quale
ha ritenuto che nelle c.d. obbligazioni di diligenza (nel caso richiamate per i
sindaci, ma l’affermazione appare estensibile anche agli amministratori)
la strumentalità della prestazione ad un certo risultato fa sì che il criterio
della diligenza a tal fine occorrente serva a determinare, anche sotto il
profilo oggettivo, l’area del comportamento dovuto.
(Cass. 15.2.05, n. 3032, FI, 2006, 1898; conforme: Cass. 8.2.05, n. 2538,
GI, 2005, 1637, che è sostanzialmente identica)
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E, in effetti, mentre nel caso delle altre obbligazioni di mezzi (ad es.
quelle professionali) dall’inosservanza delle regole tecniche che sono
proprie dell’attività è possibile desumere l’inadempimento del debitore
(essendo chiaro lo scopo cui la prestazione tende e soccorrendo regole
tecniche per il suo espletamento e quindi per la sua valutazione), nel caso
dell’amministratore di società risultano indefiniti sia lo scopo stesso della
prestazione dovuta (i.e. realizzazione dell’interesse sociale), sia il contenuto
esatto della condotta richiesta (i.e. buona gestione della società). In linea di
massima, si soleva dire (ma l’affermazione rimane tuttora attuale) che
l’attività dell’amministratore di società dovesse essere orientata al migliore
perseguimento dello scopo sociale e che la diligenza richiesta dalla legge si
compendiasse, in sostanza, in quel complesso di cautele che un qualsiasi
amministratore, di normale avvedutezza, avrebbe usato se si fosse trovato
ad affrontare, nelle stesse condizioni, il caso concreto. In particolare, con
riferimento al pregresso assetto normativo, si era ritenuto che
la legge con il riferimento alla diligenza del buon padre di famiglia ha voluto
fissare un criterio astratto e tipico di valutazione, che prescinde dal grado di
diligenza del particolare debitore; il termine di riferimento non è però la
normale diligenza dell’uomo medio, ma la diligenza che avrebbe usato un
amministratore normalmente diligente che si fosse trovato in quella
circostanza. Si tratta, come è evidente, di un criterio che va specificato in
relazione ai singoli casi concreti e che di per sé è scarsamente significativo,
tanto che sarebbe stato abbastanza indifferente se, invece di fare
riferimento alla diligenza del “buon padre di famiglia”, si fosse fatto
riferimento al criterio della “normale ed ordinaria diligenza” o a quello del
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“regolato e coscienzioso amministratore” o ad altra formula ancora. Sarà
pertanto il giudice che in definitiva dovrà apprezzare, avuto riguardo a tutte
le circostanze del caso (tipo di società amministrata, sue dimensioni e
settore dell’attività esercitata, sue strutture e possibilità finanziarie,
importanza e condizioni dell’operazione relativamente alla quale si discuta,
tempo a disposizione dell’amministratore per prendere la decisione ecc.), e
senza poter demandare l’indagine ad un consulente tecnico, se il
comportamento dell’amministratore debba o no - alla stregua di come si
comportano normalmente gli amministratori in analoghe circostanze essere qualificato diligente.
(Bonelli 1992, 49)
2.1.
Natura dell’incarico e specifiche competenze
La maggiore precisione del legislatore nella nuova dizione normativa,
che si richiama alla <diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro
specifiche competenze>, è stata rilevata dai commentatori della riforma.
In realtà il legislatore è stato anche più preciso, da un lato richiedendo uno
standard di capacità e accortezza tipico ma al tempo stesso da calibrare
nella realtà dell’attività esercitata con riferimento al tipo di incarico; dall’altro
evitando di riferirsi espressamente alla professionalità, che avrebbe potuto
dare adito ad interpretazioni volte ad equiparare la diligenza alla perizia
(contabile, finanziaria e via dicendo: in tal senso v. la Relazione) con
conseguente indebito allargamento dell’area risarcibile e quindi della
responsabilità: si tratta invece di un’attività, quella gestionale, che deve
essere condotta con adeguata prudenza e informazione, senza irragionevoli
ed improvvisate quanto improvvide e quindi dannose decisioni.
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(Santosuosso 2003, 147)
In particolare, il rinvio alla <natura dell’incarico> implica il richiamo
all’art. 1176, co. 2, come peraltro si riteneva anche prima della riforma.
In tale prospettiva, l’accertamento della responsabilità presuppone il
riferimento sia alle caratteristiche della società (avendo riguardo, ad
esempio, alle sue dimensioni o al settore di attività), sia alla posizione
concretamente assunta da ciascun amministratore nell’ambito dell’organo
collegiale, ossia se si tratti di amministratore con funzioni di presidente, di
amministratore con deleghe, con deleghe ma membro di un organo
collegiale (il comitato esecutivo) ovvero di amministratore senza deleghe o
non esecutivo e, in quest’ultimo caso, se costui sia componente di un
comitato consultivo costituito ad hoc quale il comitato per il controllo interno,
quello nomine o quello remunerazioni previsti dal Codice di autodisciplina
della Borsa Italiana.
(De Nicola 2005, 555)
Ci si chiede se il richiamo all’art. 1176/2 consenta di invocare allora la
limitazione di responsabilità (ai soli casi di dolo o colpa grave) del prestatore
d’opera intellettuale prevista dall’art. 2236 in caso di <problemi tecnici di
speciale difficoltà>. Nonostante opinioni contrarie (De Nicola 2005, 556),
sembra potersi registrare un’apertura, in questo senso, da parte della
giurisprudenza (Cass. 15.2.05, n. 3032, FI, 2006, 1898, pur in obiter dictum
e con un onere probatorio particolarmente marcato a carico della parte che
tale attenuazione di responsabilità invochi; contra, Trib. S.M. Capua Vetere
15.11.04, Soc, 2005, 477, ma in relazione ad amministratori di una s.r.l.).
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Maggiori problemi nascono nella ricostruzione del parametro delle
<specifiche competenze>, che sembra determinare un più intenso obbligo di
diligenza in chi sia munito di maggiori conoscenze tecnico-professionali,
ma con riferimento sempre ad uno standard medio applicabile ad un numero
indefinito di casi e non già alle qualità personali del singolo amministratore.
Si è ben detto che il parametro normativo delle <specifiche competenze>
non significa misurare il quantum di diligenza dovuto sul singolo individuo
(<Tizio, in quanto Tizio, non poteva ignorare che …>) ma ricostruire il
modello di amministratore diligente anche sulla base dell’esperienza e della
qualità
professionale
che
ci
si
poteva
ragionevolmente
attendere
dall’amministratore soggetto a valutazione (<Tizio, in quanto ingegnereavvocato-manager di lungo corso, non poteva ignorare che …>).
(Rossi A. 2005, 793)
Il disagio che deriva dalle difficoltà di individuare in concreto le regole
di condotta che è ragionevole attendersi da un certo amministratore (si può,
ad esempio, presumere che un avvocato conosca il diritto tributario?) - tanto
più se si considera che rimane fermo il principio dell’insindacabilità da parte
del giudice delle scelte d’impresa - spiega perché nella prassi giudiziale si
preferisca radicare le azioni di responsabilità contro gli amministratori più
che sulla violazione del generale obbligo di diligenza, su specifiche violazioni
di altri obblighi di legge, ove è più agevole un giudizio di conformità o meno
della condotta concreta rispetto a quella legalmente dovuta.
2.2.
Diligenza e perizia
Si riteneva, in prevalenza, che il dovere di amministrare con diligenza
non comprendesse anche il dovere di amministrare con perizia, giacché
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non è richiesto, né si può richiedere neanche all’amministratore più
diligente, che egli sia contemporaneamente un perito in contabilità, in
materia finanziaria, nella redazione di bilanci, nel settore o nei settori di
attività dell’impresa ecc. Ciò che si richiede all’amministratore diligente è
che egli ponderi le sue decisioni e che, se mai, di fronte alle inevitabili
lacune delle sue conoscenze tecniche, si avvalga di collaboratori ed
eventualmente di consulenze, affinché le scelte e le iniziative che egli in
definitiva dovrà decidere siano meditate e frutto di un rischio calcolato, e
non già di irresponsabile o negligente improvvisazione.
(Bonelli 1992, 61)
In una diversa prospettiva si collocava invece una tesi minoritaria,
che ravvisava nell’interpretazione dominante <un vuoto di disciplina> in un
campo di primaria rilevanza (qual è quello della gestione di società di
capitali) e, pur dando atto della difficoltà di dettare regole generali e astratte
in una materia elastica e dinamica come è quella imprenditoriale, riteneva
che la prestazione dell’amministratore di una società per azioni
valutata secondo il modello del diligente buon padre di famiglia, importa
necessariamente l’uso di cognizioni tecniche, le quali anzi tendono vieppiù a
codificarsi in apposite discipline aziendalistiche, oggetto di studio nelle
scuole specializzate nella formazione di dirigenti di impresa.
(Weigmann 1974, 146)
La difficoltà di tracciare una linea sicura di demarcazione tra perizia e
e diligenza si registrava anche nella giurisprudenza, la quale, da un lato,
manteneva fermo l’assunto secondo cui l’amministratore aveva l’obbligo di
essere diligente ma non anche quello di essere perito, dall’altro, richiedeva
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la conoscenza almeno delle regole fondamentali che regolano l’attività
della società. In particolare, si era statuito che ad esimere da responsabilità
non può valere il principio secondo cui il dovere di diligenza non comprende
il
dovere
di
perizia,
ossia
la
personale
cognizione
da
parte
dell’amministratore delle svariate tecniche la cui applicazione può essere
opportuna per una migliore gestione dell’impresa. Il principio, infatti, non può
esonerare il singolo amministratore dalla conoscenza delle regole
fondamentali ed essenziali alla professionalità di quella funzione quali sono
quelle (tra l’altro espressamente previste dalla legge) in tema di
inammissibilità di una delega non formale delle proprie funzioni ad altri
amministratori, o di tenuta della contabilità, o di divieto di nuove operazioni;
con la conseguenza che la mancata acquisizione di queste regole
fondamentali da parte di un amministratore prima di assumere la relativa
carica costituisce violazione del dovere di diligenza che su lui grava, e lo
rende imputabile di ogni forma di responsabilità connessa alla inosservanza
dei doveri conseguenti allo scioglimento della società per perdita del
capitale sociale, quale quello di astensione dall’assunzione di nuove
operazioni.
(Cass. 4.4.98, n. 3483, Soc, 1999, 62)
Il punto è che all’amministratore non si richiede solo di conoscere le
regole di base (di carattere giuridico) che regolano l’attività societaria, ma si
richiede anche di gestire bene la società, cioè di svolgere l’attività rivolta alla
cura del patrimonio sociale e all’esercizio dell’impresa, che consiste
nell’organizzazione dei fattori di produzione (al fine di conseguire un risultato
utile) e presuppone quindi un bagaglio eterogeneo di conoscenze tecniche
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che il richiamo alla <diligenza del mandatario> non sembrava esigere, pur
rilevandosi che, in mancanza di adeguate conoscenze, l’amministratore può
e deve colmare le proprie lacune ricorrendo a supporti esterni.
La speciale diligenza richiesta include anche l’obbligo di amministrare con la
specifica perizia richiesta dalla carica oltre che con la prudenza necessaria
per la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, secondo le regole
della correttezza professionale. Ciò non tanto in quanto si possa richiedere
all’amministratore più diligente di essere contemporaneamente esperto in
tutti i settori azionari, ma in quanto deve attivarsi ad esercitare
opportunamente la sua facoltà di nominare collaboratori in grado di
assisterlo.
(Bianchi 1998, 187)
Talora si richiamava espressamente il canone della “perizia”, ma in
una accezione che la sovrapponeva alla “diligenza”, sostenendosi che
nell’adempimento delle obbligazioni verso la società l’amministratore deve
osservare la diligenza del mandatario, che non può prescindere da un
connotato di adeguata “perizia” consistente nella prudenza e avvedutezza in
relazione a quelle attività, negoziali e materiali, tipicamente implicate dalla
gestione societaria-commerciale.
(Trib. Milano 29.5.04, GI, 2004, 2333)
2.2.1. Diligenza e perizia alla luce della riforma
Nel quadro normativo mutato dalla riforma societaria, il nuovo art.
2392 impone oggi agli amministratori di operare <con la diligenza richiesta
dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze>. Peraltro, il
nuovo art. 2387 consente allo <statuto> di subordinare l’assunzione della
14
15
carica di amministratore al possesso di <speciali requisiti> - oltre che di
<onorabilità> e di <indipendenza> anche - di <professionalità>.
Alla diligenza si associano, secondo i principi generali, la prudenza e la
perizia. La prima comporta il dovere di non compiere operazioni arrischiate,
che nessun avveduto imprenditore porrebbe in essere; la seconda chiama in
causa la capacità di gestire una impresa, tenuto conto delle dimensioni e
dello specifico oggetto di questa, ed il possesso delle correlative cognizioni
tecniche necessarie per decidere senza errori le operazioni sociali.
(Galgano 2003, 277)
Un’acuta dottrina ha evidenziato la centralità, nel nuovo sistema,
degli obblighi posti dall’art. 2381, 3° e 5° co., in capo all’organo delegante
(i.e. il consiglio di amministrazione) e all’organo delegato, aventi ad oggetto
rispettivamente la valutazione (sulla base delle informazioni ricevute) della
<adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della
società> e la cura che tale assetto <sia adeguato alla natura e alle
dimensioni dell’impresa>, derivandone la conclusione che l’adeguatezza
degli assetti dell’impresa – concetto proprio delle discipline aziendalistiche
– assurga a <principio giuridico di carattere generale> idoneo ad assegnare
un nuovo contenuto alla nozione di “perizia”, intesa come “diligenza tecnica”
richiesta nell’esercizio dell’attività di impresa. In questi termini,
il tema dell’adeguatezza ha un senso se collegato al tema della
responsabilità,
dell’adeguatezza
proprio
è
perché
quello
della
il
terreno
applicativo
responsabilità
da
di
elezione
“inadeguatezza”
organizzativa, contabile, amministrativa, patrimoniale e tecnica: forse la
15
16
nuova frontiera della responsabilità degli amministratori e della stessa
impresa.
(Buonocore 2006, 28)
Altra dottrina invece, con il conforto della stessa Relazione al d. lgs.
di riforma (§ 6.III,4), ben evidenzia l’assenza di un richiamo “normativo” alla
professionalità, escludendo così <quelle interpretazioni volte ad equiparare
la diligenza alla perizia con conseguente indebito allargamento dei confini
della responsabilità degli amministratori> (De Nicola 2005, 557; conforme
Bonelli 2004, 179, nt. 251), anche per evitare di minare il principio (sempre
affermato) dell’insindacabilità del merito degli atti gestori. Si è poi rilevato:
In questi tempi di ampliamento dell’autonomia negoziale, vero leit motiv
della legge delega n 366/01, ciò risponde ad una logica contrattuale, legata
al fatto che è la società che sceglie gli amministratori e sarà la società, la
sola nei cui confronti l’amministratore sia responsabile per mancanza di
diligenza, a subire le conseguenze della sua scelta. D’altronde, la precisa
opzione legislativa emergente dalla possibile assenza di ogni requisito di
professionalità in capo al gestore dell’impresa sociale (cfr. art. 2392, comma
1°, e, a contrario, gli artt. 2407, comma 1°, e 2486, comma 2°, citt.) legittima
le esternalità negative implicite nell’affidamento dell’amministrazione a
soggetti incompetenti o imperiti.
(Rossi A. 2005, 796)
2.3.
Insindacabilità delle scelte di gestione
Nella prospettiva del sindacato giurisdizionale sull’attività di gestione,
in relazione all’osservanza o meno da parte dell’amministratore dell’obbligo
di diligenza, costituisce un punto fermo l’assunto che la responsabilità non
16
17
possa essere desunta semplicemente dai risultati della gestione, sicché al
giudice è precluso di sindacare i criteri di opportunità e/o di convenienza che
sono stati seguiti dall’amministratore nell’esercizio delle sue funzioni.
La responsabilità ipotizzata dall’art. 2392 c.c. discende infatti unicamente
dalla violazione di obblighi giuridici, gravanti sui gestori del patrimonio
sociale, cui non potrebbe invece essere mai imputato, a titolo di
responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista
economico: giacché una valutazione di tal fatta atterrebbe alla sfera
dell’opportunità, e dunque della discrezionalità amministrativa, e potrebbe
semmai solo rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore dalla
carica, e non già come fonte di responsabilità contrattuale dello stesso verso
la società. Donde consegue che la responsabilità dell’amministratore non
può essere semplicemente desunta dai risultati della gestione e che, perciò,
al giudice investito dell’azione di responsabilità non è consentito sindacare i
criteri
di
opportunità
e
di
convenienza
seguiti
dall’amministratore
nell’espletamento dei suoi compiti.
(Cass. 28.4.97, n. 3652, Soc, 1997, 1390)
La legge non impone agli amministratori l’obbligo di gestire la società
senza commettere errori, che possono anzi considerarsi inevitabili nella
gestione di qualsiasi impresa e che, fra l’altro, risultano essere tali solo a
posteriori. Né tantomeno potranno addossarsi in capo agli amministratori i
rischi propri dell’attività d’impresa. Gli amministratori sono responsabili solo
se violano gli obblighi (specifici o generali di diligenza e di assenza di conflitti
di interesse) che su di essi incombono, ma non per il mero insuccesso
economico della società da essi amministrata. Con felice sintesi si è scritto,
17
18
i soci possono sperare che gli amministratori riescano nel loro compito, ma
non possono imputare loro di non aver avuto fortuna.
(Frè 1982, 502)
Ma l’insindacabilità delle scelte gestorie non può certo comportare
l’esonero degli amministratori da ogni responsabilità per scelte avventate
e/o avventurose, dovendosi in tali casi ritenere violato l’obbligo legale di
diligenza nella gestione. Il confine tra sindacato di merito e di legittimità è
sottile - anche perché può essere forte la tentazione di valutare la scelta con
il senno di poi, senza tenere in considerazione il concreto e veloce agire
d’impresa e il carattere <inusuale> delle migliori iniziative imprenditoriali, che
sono caratterizzate proprio da una forte innovatività (Bonelli 1992, 64) - e
passa attraverso il vaglio solo del metodo usato dagli amministratori per la
loro scelta gestionale e non già del merito di questa. In tale prospettiva, si è
fatta strada la c.d. business judgement rule, di origine statunitense, in base
alla quale una decisione assunta in buona fede (che è presunta), nell’onesto
convincimento che la scelta fosse nell’interesse della società, in seguito
all’assunzione (parimenti presunta) di informazioni adeguate al caso
concreto, non potrà dar luogo ad alcuna responsabilità, salvi i casi di frode o
conflitto d’interessi o waste (i.e. spreco di risorse sociali, che si ha quando il
beneficio conseguito dalla società sia così sproporzionato rispetto ai costi da
risultare irrazionale). Tale regola è stata recepita da un precedente, che ha
ravvisato la responsabilità dell’amministratore in un caso in cui si era
positivamente accertato il non corretto svolgimento del procedimento
decisionale attraverso cui la decisione dell’amministratore è stata presa,
trattandosi di decisione assunta senza quel minimo di diligenza che, lungi
18
19
dall’investire la sfera di discrezionalità degli amministratori, costituisce per
costoro l’oggetto di un vero e proprio obbligo legale. Per modo che non si
tratta di giudicare, a posteriori, della non remuneratività di una scelta
rientrante nella discrezionalità tecnica del gestore dell’impresa ma di
censurare il “modo” con cui quella scelta è stata compiuta, assumendosi
appalti per cifre così elevate in presenza di un capitale sociale (...) solo
apparentemente esistente nella misura deliberata (di centomilioni), e
comunque valutato così esiguo e inadeguato alla operazione che si andava
ad intraprendere: e ciò senza neppure la necessaria verifica preventiva degli
effetti economici che ne sarebbero potuti scaturire per la società.
(Cass. 17.9.97, n. 9252, Fa, 1998, 668)
In termini analoghi, la distinzione tra valutazione di mera opportunità
(non sindacabile in sede giudiziale) e deduzione della violazione dell’obbligo
di agire con diligenza (che espone a responsabilità) è stata colta sancendo
che la scelta tra il compiere o meno un certo atto di gestione, oppure di
compierlo in un certo modo in determinate circostanze, non è mai di per sé
sola
(salvo
che
non
denoti
addirittura
la
deliberata
intenzione
dell’amministratore di nuocere all’interesse della società) suscettibile di
essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, per l’impossibilità
stessa di operare una simile valutazione con un metro che non sia quello
dell’opportunità e perciò di sconfinare nel campo della discrezionalità
imprenditoriale; mentre, viceversa, è solo l’eventuale omissione, da parte
dell’amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle
informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel genere
che può configurare la violazione dell’obbligo di adempiere con diligenza al
19
20
mandato di amministrazione e può quindi generare una responsabilità
dell’amministratore verso la società. In breve: il giudizio sulla diligenza non
può mai investire le scelte di gestione degli amministratori, ma tutt’al più il
modo in cui esse sono state compiute.
(Cass. 28.4.97, n. 3652, Soc, 1997, 1390)
Ed ancora:
La valutazione del’eventuale responsabilità giuridica dell’amministratore (…)
non attiene al merito delle scelte imprenditoriali da lui compiute. La sua
responsabilità giuridica ben può discendere, però,dal rilievo che le modalità
stesse del suo agire denotano la mancata adozione di quelle cautele o la
non osservanza di quei canoni di comportamento che il dovere di diligente
gestione ragionevolmente impone, secondo il metro della normale
professionalità, a chi è preposto ad un tal genere di impresa, ed il cui difetto
diviene perciò apprezzabile in termini di inesatto adempimento delle
obbligazioni su di lui gravanti.
(Cass. 24.8.2004, n. 16707, GCo, 2005, II, 246; conforme: Cass. 23.3.04, n.
5718, Soc., 2004, 1517, secondo cui <il giudizio sulla diligenza non può
investire le scelte di gestione, ma il modo in cui sono compiute>)
2.4.
L’obbligo di diligenza nella s.r.l.
Conformemente alla scelta del legislatore della riforma di prevedere
per la s.r.l. una normazione ad hoc, cioè non più mutuata da quella della
s.p.a., l’attuale art. 2476/1 formula in modo autonomo la previsione generale
della responsabilità degli amministratori di s.r.l.. La norma richiama i <doveri
(…) imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della
20
21
società>, dall’inosservanza dei quali discende la responsabilità per i danni
che alla società derivano.
Ancorché sia assente il riferimento espresso al parametro della
<diligenza>, non si dubita che anche per gli amministratori di s.r.l. sia
applicabile questo criterio, giacché l’obbligo di diligenza rientra per l’appunto
tra i <doveri (…) imposti dalla legge> e richiamati dall’art. 2476/1
(Pasquariello 2005, 1974). Per questa via, trova applicazione il principio
generale di diligenza nell’adempimento stabilito dall’art. 1176 c.c.
avendo però riguardo non alla diligenza dell’uomo medio, quanto alla più
elevata diligenza che si può richiedere ad un accorto gestore di un
patrimonio altrui (art. 1176, comma 2, c.c.), quale è quello appartenente alla
società amministrata.
(Trib. S.M. Capua Vetere 15.11.04, Soc, 2005, 478; conformi: Trib. Pinerolo
2.11.04, GI, 2005, 1660 e, in dottrina, Di Amato 2003, 202)
Secondo parte della dottrina, il criterio della <diligenza richiesta dalla
natura dell’incarico e dalle specifiche competenze> per gli amministratori di
s.p.a. ai sensi dell’art. 2392/1 non può non valere anche per le s.r.l.
Il metro di misura della diligenza, infatti, pare avere una portata generale,
risultando pertanto applicabile anche alla società in esame e, forse, alle
stesse società di persone. D’altra parte, i parametri di riferimento previsti al
fine di individuare la diligenza richiesta – la natura dell’incarico e le
specifiche competenze degli amministratori – sono tali da poter trovare
applicazione in ogni modello societario e da adattarsi a qualsiasi dimensione
e carattere assunti dall’impresa sociale.
(Cagnasso 2004, 1880; conforme: Ambrosini 2004, 293)
21
22
La tesi è contrastata da altra dottrina (Angelici 2003, 123), che ritiene
incompatibile tale criterio con un modello di società che normalmente affida
l’amministrazione ai soci e quindi si sottrae alla dialettica - invece centrale
nella s.p.a. - tra investitore e gestore professionale.
Altri rilevano che nel vigente contesto normativo, che assegna valore
centrale all’autonomia statutaria nella s.r.l., la previsione generica dell’art.
2476/1 consente di fare riferimento, caso per caso, alle concrete
caratteristiche della s.r.l. in relazione alla quale si ponga il problema della
responsabilità del suo amministratore, sicché se quelle caratteristiche
la avvicinano al modello della s.p.a., allora si potrebbe concludere che
debba essere applicata la norma dell’art. 2392 cod. civ. Diversa conclusione
dovremmo forse raggiungere se i connotati assunti di fatto dalla s.r.l. la
affianchino piuttosto al tipo della s.n.c.: in questo caso, infatti, la
conseguenza dovrebbe essere quella dell’applicabilità del criterio della
diligenza del mandatario e quindi della ricordata norma dell’art. 1176 cod.
civ.
(Picciau 2004, 256)
In tal modo, la valutazione di responsabilità potrebbe essere più
equamente rapportabile alla realtà effettuale, esigendosi, in s.r.l. a ristretta
base sociale, un minor grado di qualificazione tecnico-professionale in capo
all’amministratore socio (Sandulli 2005, 482).
2.5.
Gli obblighi di valutazione/vigilanza e di intervento
L’obbligo di diligenza grava su tutti gli amministratori, che rispondono
solidalmente dei danni cagionati dall’inadempimento (salvo il regresso al
loro interno), <a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato
22
23
esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori>
(art. 2392/1, ult. parte; la previgente formula normativa non conteneva
l’inciso <in concreto> e parlava solo di <attribuzioni>). <In ogni caso>, tutti
gli amministratori hanno un obbligo di <intervento> qualora essi vengano a
conoscenza di fatti pregiudizievoli <fermo quanto disposto dal comma terzo
dell’art. 2381> (così l’attuale art. 2392/2, mentre la previgente norma poneva
un ulteriore obbligo di <vigilanza> sul generale andamento della gestione).
Infine, la responsabilità non si estende all’amministratore che abbia fatto
constatare il proprio dissenso (nelle forme specifiche di cui all’art. 2392/3).
Ciò conferma che trattasi di responsabilità per fatto proprio (e non
già per fatto altrui), ma gli amministratori privi di delega (formale) non sono
esenti da responsabilità tout court. Nel pregresso assetto, su di essi gravava
l’obbligo di <vigilanza> sul generale andamento della gestione (sostituito
oggi dall’obbligo di <valutazione> del generale andamento della gestione
sulla base della relazione degli organi delegati) e tale obbligo di vigilanza,
almeno nel diritto vivente (cui ha inteso reagire il legislatore della riforma),
determinava la indebita dilatazione delle azioni di responsabilità a schiere di
amministratori (e sindaci), presenti e passati, di società in dissesto.
Quest’obbligo a contenuto indeterminato, volto a sollecitare una vigilanza
“attiva” di tutti gli amministratori, costituiva, spesso, in effetti, l’escamotage
per coinvolgere nella solidarietà tutti gli amministratori, delegati e deleganti,
sulla base di un ragionamento del seguente tenore: “l’amministratore
delegato ha compiuto un atto pregiudizievole, dunque il consiglio non ha
vigiliato, e sono responsabili tutti gli amministratori, perché, se il consiglio
avesse vigilato, avrebbe impedito il compimento dell’atto pregiudizievole”.
23
24
(Rossi A. 2005, 805)
Invero, a ben vedere, anche nel pregresso assetto, il riferimento al
<generale andamento della gestione> escludeva già un obbligo di vigilanza
sui singoli atti o comportamenti (anche omissivi) degli organi delegati; per
contro, il dovere di intervento colpiva (e colpisce) i singoli atti di cui si abbia
conoscenza e che siano di pregiudizio per la società. L’obbligo di intervento
è la conseguenza dell’adempimento da parte dell’amministratore dell’obbligo
di <vigilanza> sul (oggi solo di <valutazione> del) generale andamento della
gestione, nel senso che, qualora nell’esercizio dell’attività di vigilanza (o di
valutazione) si riscontrasse (o si riscontri) l’esistenza di specifiche condotte
(anche omissive) degli organi delegati dannosi per la società, insorgeva (e
insorge) anche per l’amministratore privo di delega il dovere di <intervento>.
Entrambi tali obblighi sono invero mere specificazioni del generale dovere
di diligenza, il quale si esplica non solo nell’agire proprio, ma anche nel
valutare l’agire altrui (nonché di intervenire, ove necessario), come, del
resto, si desume dall’incipit del 2° co. dell’art. 2392 c.c. (<in ogni caso>), che
va riferito a tutte le forme di articolazione dell’attività gestoria (anche
delegata) all’interno della società.
2.5.1. La vigilanza nella precedente disciplina
Nel pregresso assetto normativo, la vigilanza incombeva sul singolo
amministratore, mentre competeva (e tuttora compete) all’intero consiglio
deliberare i concreti interventi di contrasto della condotta dannosa posta in
essere dagli organi delegati e che proprio l’adempimento dell’obbligo di ogni
consigliere aveva consentito di portare all’esame dell’organo collegiale ai fini
24
25
del suo intervento. In caso di inerzia del consiglio, il singolo amministratore
poteva dissociarsi nelle (sole) forme di cui all’art. 2392/3. Si era statuito che
del mancato esercizio della vigilanza rispondano in solido tutti i componenti
del consiglio – e quindi ciascuno di essi – poiché, anche ove si ritenga che i
singoli componenti non siano titolari, come si sostiene in ricorso, di poteri
individuali di vigilanza, essi in quanto componenti del consiglio sono
singolarmente tenuti ad attivarsi perché detta vigilanza sia adeguatamente
esercitata, e rispondono quindi della sua omissione, a meno che non diano
la prova – che nel caso di specie non risulta neppure offerta – di essersi
attivati a tal fine e che l’attività di vigilanza non potè essere esercitata per il
comportamento degli altri componenti del consiglio.
(Cass. 24.3.98, n. 3110, Soc, 1998, 937; conforme: Cass. 29.8.03, n. 12696,
FI, 2004, I, 3176)
Il diritto vivente vedeva quindi una marcata espansione degli
obblighi di vigilanza e di intervento degli amministratori privi di delega, di
fatto richiedendosi, pur non affermandosi in diritto, una costante (e
impossibile) vigilanza su tutti gli atti della società. Mancava la specificazione
normativa di cosa fosse ragionevole pretendere dagli altri amministratori in
presenza di organi delegati, anche perché in Italia (a differenza di quanto
avviene in altri Paesi) manca l’abitudine di elaborare, a cura delle categorie
professionali, codici che riflettano norme tecniche e/o deontologiche di
condotta, sul tipo di quelle fissate dai principi contabili (ma, per un primo
contributo, si veda il Codice di autodisciplina elaborato per le società quotate
in borsa). In via di prima approssimazione, poteva dirsi anche allora (ma a
fortiori può dirsi oggi) che la gestione spettasse agli amministratori delegati
25
26
(e ai vari managers che ad essi rispondevano); che gli altri amministratori
deleganti dovessero curare che, all’interno della società, esistessero
meccanismi idonei di analisi preventiva, e anche di verifica successiva, delle
decisioni d’impresa e che, prima delle riunioni consiliari, fossero messe a
disposizione relazioni e documenti illustrativi delle decisioni da assumere e
dei risultati generali della gestione; nel contempo, essi dovevano potersi
fidare delle informazioni loro trasmesse dagli organi delegati, andando
esenti da responsabilità in caso di violazione di tale legittimo affidamento
(almeno finché non insorgessero indizi tali da legittimare sospetti sulla
veridicità e/o completezza dei dati ricevuti).
Ma, come si è detto, l’assenza di specificazioni degli obblighi a carico
degli amministratori deleganti e il richiamo generico all’obbligo di vigilanza
aveva di fatto sopito il principio generale della responsabilità “per colpa”,
sicché, soprattutto in caso di fallimento, la responsabilità degli amministratori
era stata trasformata in una responsabilità sostanzialmente “oggettiva”.
2.5.2. Il nuovo assetto normativo
Il quadro normativo risulta mutato dalla novella di cui al d. lgs. 6/03,
giacché il nuovo 2° co. dell’art. 2392 non fa più riferimento alla <vigilanza sul
generale andamento della gestione>, ma al disposto del 3° co. dell’art. 2381,
secondo cui l’organo consiliare, in caso di delega delle funzioni, <sulla base
delle informazioni ricevute, valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo,
amministrativo e contabile della società; quando elaborati, esamina i piani
strategici, industriali e finanziari della società; valuta, sulla base della
relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione>. Di tal
ché
26
27
gli amministratori non saranno più tenuti, come si riteneva in passato, a una
costante, impossibile vigilanza su tutti gli atti della società ma dovranno,
come descritto in precedenza, svolgere con diligenza i compiti prescritti
dalla legge, con le modalità previste dalla stessa. Se i sistemi organizzativi e
informativi si sono dimostrati efficienti, se gli amministratori hanno sempre
agito con scrupolo, se hanno chiesto ed ottenuto dagli organi delegati
informazioni
circa
le
evoluzioni
della
gestione
sociale,
l’eventuale
inadempimento di un amministratore delegato non può essere imputato
anche a loro. Resta il fatto però che il loro ruolo impone, alla scoperta di
eventi anche solo potenzialmente pregiudizievoli, una pronta capacità di
reazione e che in difetto di un intervento tempestivo ed efficace teso ad
impedire o a mitigare gli effetti di un atto scellerato, essi si troveranno
nuovamente a rispondere per le funzioni delegate.
(Toffoletto 2003, 142)
L’intenzione del legislatore è esplicitato nella Relazione al d. lgs. di
riforma (§ 6.III,4), quando scrive che l’eliminazione del precedente obbligo
di vigilanza sul generale andamento della gestione <tende, pur conservando
la responsabilità solidale, ad evitare indebite estensioni che, soprattutto
nell’esperienza delle azioni esperite da procedure concorsuali, finivano per
trasformarla in una responsabilità sostanzialmente oggettiva, allontanando le
persone più consapevoli dall’accettare o mantenere incarichi in società o in
situazioni in cui il rischio di una procedura concorsuale le esponeva a
responsabilità praticamente inevitabili>.
Parole, queste, da sottoscrivere pienamente: è infatti molto meglio che gli
amministratori non esecutivi si concentrino su un compito importante e
27
28
assolvibile (quello del controllo degli assetti) piuttosto che disperdere le loro
forze nel tentativo di assolverne uno impossibile (quello del controllo delle
singole operazioni societarie); per altro verso corrisponde ad un ovvio
principio di civiltà giuridica che essi rispondano soltanto di ciò che era
effettivamente in loro potere di compiere.
(Caselli 2003, 154)
2.5.3. L’obbligo di agire in modo informato
L’eliminazione dell’obbligo di vigilanza sul generale andamento della
gestione sociale e l’introduzione del richiamo all’art. 2381/3 consente oggi di
descrivere i rapporti tra organi delegati e organi deleganti, definendo quindi
le rispettive competenze e, di conseguenza, le rispettive responsabilità.
In generale, la riforma ha ridisegnato tutta la disciplina dei rapporti tra
consiglio di amministrazione e organi delegati, sia indicando analiticamente i
poteri del consiglio nella formulazione delle deleghe (così recependo invero i
risultati ermeneutici pregressi), sia disciplinando la rete informativa tra organi
deleganti e organi delegati, e ciò in senso biunivoco: da un lato, l’obbligo
informativo costante dei delegati verso i deleganti; dall’altro, il potere-dovere
dei deleganti di richiedere informazioni integrative ai delegati.
Con la nuova regolamentazione, i rapporti fra delegati e consiglio di
amministrazione passano dalla fase di reciproca indifferenza, quale era
possibile alla stregua delle norme del codice civile del 1942, a quella
caratterizzata ora da un frequente contatto fra deleganti e delegati, con lo
scopo di interagire, in un quadro di reciproca interferenza, indirizzato alla
realizzazione migliore dell’oggetto sociale. In questo contesto, pertanto, si
giustifica la responsabilità dei deleganti, solidale con quella dei delegati per
28
29
taluni atti di gestione, dato che i deleganti ricevono dai delegati una serie di
informazioni idonee a far conoscere la reale entità delle operazioni più
rilevanti, la efficienza della struttura e l’efficacia delle decisioni prese.
(Salafia 2002, 1469)
Peraltro, proprio la previsione del novellato art. 2381/6 secondo cui
<gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun
amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano
fornite informazioni relative alla gestione della società> potrebbe riproporre
ulteriori profili di responsabilità qualora gli amministratori disattendano tale
obbligo di condotta informata e/o non chiedano informative sulla gestione.
Quindi il dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione è riferito
alle informazioni fornite dai delegati. Tuttavia i deleganti non possono
assumere una mera posizione passiva: dal momento che – come disposto
dall’ultimo comma dell’art. 2381 c.c. – sono tenuti ad agire in modo
informato, possono richiedere ai delegati ulteriori informazioni ed anzi
debbono richiederle quando ciò sia imposto appunto dall’obbligo di agire in
modo informato.
(Cagnasso 2003, 803)
Parte della dottrina ritiene che la sostituzione dell’obbligo di vigilanza
con quello di valutazione del generale andamento della gestione
sottolinea la circostanza che il controllo espletato dal singolo amministratore
non può essere approfondito e tecnico su tutti gli atti compiuti dall’organo
delegato, ma è per così dire sintetico, volto ad una valutazione, ad un
giudizio complessivo sull’attività di gestione da questo svolta, fermo
29
30
rimanendo che la rilevanza di singole operazioni può esigere, in questi casi,
un controllo più rigoroso e completo
(Nazzicone 2003a, 190)
il che porta alcuni a ritenere, in termini ancora più espliciti, che
gli amministratori deleganti non potranno “allentare” l’attenzione giacché il
dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione sociale,
nonostante l’espunzione dal testo riformato dell’art. 2392, deve ritenersi
ancora sussistente.
(Spiotta 2004, 776)
Altra (più persuasiva) dottrina esclude invece tali esiti, che appaiono
distonici rispetto alla chiara intenzione del legislatore della riforma, ritenendo
che gli amministratori deleganti non abbiano invero alcun obbligo generale di
attivazione autonoma rispetto alle informazioni fornite dall’organo delegato
(ma solo una facoltà di richiederle, fra l’altro in consiglio <in modo da evitare
informazioni selettive solo a taluni consiglieri>: Bonelli 2004, 52), giacché la
loro culpa in vigilando può sorgere solo all’esito della mancata reazione a
fatti pregiudizievoli che gli stessi delegati decidano di portare a conoscenza
(Rossi A. 2005a, 807) e il dovere di agire in modo informato <è funzionale e
va assolto dagli amministratori ogni qual volta la legge o lo statuto
prevedano un diverso e particolare dovere per l’adempimento del quale è
necessario e doveroso attivarsi> (De Nicola 2005, 567). Semmai, al fine di
evitare esiti di deresponsabilizzazione degli amministratori non esecutivi, è
prospettabile
l’esaltazione della collegialità imposta dal comma 4° dell’art. 2381, specie in
occasione della redazione del bilancio di esercizio e quando ci si trovi a
30
31
dover fronteggiare perdite incidenti sul capitale sociale ai sensi degli artt.
2446 e 2447. Allora, neppure gli amministratori deleganti potranno sottrarsi
all’obbligo di aprire gli occhi e di attivarsi nella verifica dei risultati della
gestione da contabilizzare in bilancio ovvero nell’indagine dei motivi che
abbiano portato alla necessità di investire i soci delle decisioni riguardanti la
possibile o necessaria riduzione del capitale sociale per perdite.
(Rossi A. 2005a, 807)
2.5.4. Le c.d. deleghe atipiche
L’esenzione da responsabilità in caso di delega di attribuzioni (o di
funzioni) vale solo in caso di deleghe formali. Ma, nella prassi, un riparto di
compiti può registrarsi invero senza che esso sia stata autorizzato né dallo
statuto né dall’assemblea ordinaria (c.d. deleghe interne o atipiche). In tale
ultima ipotesi, tuttavia, la responsabilità rimane collegiale.
Sono inammissibili dunque deleghe atipiche o di fatto, attuate attraverso una
mera ripartizione di compiti e comportanti, nella sostanza, un sistema
disgiuntivo di gestione, posto che tanto comporterebbe la limitazione del
metodo di collegialità diretto ad assicurare una gestione unitaria e
responsabile e, appunto, comprometterebbe i valori (appunto l’unità della
gestione e la sua imputabilità in solido agli amministratori) cui il metodo
collegiale è strumentale. D’altra parte, quando la complessità della gestione
renda necessaria la ripartizione delle competenze specifiche e delle attività,
l’ordinamento societario prevede istituti specifici, quali le deleghe di funzioni
al comitato esecutivo ovvero ad uno o più amministratori, attraverso una
procedura formalizzata secondo la previsione dell’art. 2381 c.c., dalla quale
31
32
soltanto
consegue
l’attenuazione
della
responsabilità
degli
altri
amministratori giusta il disposto dell’art. 2392, 1° co., c.c.
(Cass. 4.4.98, n. 3483, GI, 1999, I, 1, 328)
Secondo certa dottrina (Spiotta 2004, 769), l’attuale riferimento alle
<funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori> nel testo del
novellato art. 2392/1 <avrebbe inteso superare il principio dell’irrilevanza, al
fine della deresponsabilizzazione, di una delega non formale della mansioni
di gestione della società>. Secondo altro (e preferibile) orientamento (Bonelli
2004, 48), l’espressione deve intendersi riferita al caso che ad una delega di
funzioni non si accompagni l’esercizio <in concreto> di tali poteri, quando o
l’amministratore delegato investa della scelta gestoria il consiglio o lo stesso
consiglio eserciti direttamente i poteri delegati ad uno o più dei suoi membri.
L’assenza di una disciplina specifica dell’istituto della delega per la
nuova s.r.l. (i.e. per il tipo disciplinato dal d. lgs. 6/03), caratterizzata anche
dalla presenza di plurimi modelli organizzativi di amministrazione, pone il
dubbio sulla conferma di tale orientamento anche per il futuro.
In prima approssimazione potrebbe porsi il dubbio in ordine alla sussistenza
di una maggiore flessibilità della disciplina (ad esempio, ammettendosi che il
consiglio possa avvalersi della delega anche senza autorizzazione,
estendere
le
competenze
delegabili,
ferme
restando
quelle
inderogabilmente attribuite al consiglio stesso dall’art. 2475, ultimo comma,
c.c., e utilizzare ulteriori modelli di delega). D’altra parte, potrebbe anche
affacciarsi il dubbio, per converso, in ordine alla sussistenza di una
maggiore “severità” nell’applicazione della disciplina in esame alla società a
responsabilità limitata: infatti la mancata previsione della attenuazione della
32
33
responsabilità dei deleganti (tenuti al solo dovere di vigilanza attiva)
potrebbe indurre a ritenere che la regola non si estenda alla società a
responsabilità limitata.
(Cagnasso 2003, 804)
3.
L’obbligo di perseguire l’interesse sociale
L’amministrazione della società va intesa come serie di atti coordinati
all’esercizio della impresa e, nel contempo, finalizzati al perseguimento
dell’interesse sociale.
L’affermare che gli amministratori hanno anche il dovere di perseguire
l’interesse della società è qualche cosa di più – è bene che lo si noti –
rispetto al divieto (...) di operare in conflitto di interessi con la società.
Quest’ultima è una regola importante, ma che opera in negativo: nel senso,
cioè, che l’amministratore non deve anteporre un proprio interesse a quello
della società. Ciò che invece la dottrina e la giurisprudenza più recenti
hanno affermato è che, anche prescindendo da ipotesi di conflitto, tutto
l’operato degli amministratori deve essere orientato al perseguimento
dell’interesse della società.
(Allegri 1993, 367)
Diversa, seppur in qualche modo connessa, è la problematica della
responsabilità degli amministratori in caso di operazioni estranee all’oggetto
sociale (abrogato art. 2384 bis; ma v. nuovo art. 2380 bis). In tal caso, a
parte i profili che concernevano l’opponibilità o meno di tale estraneità ai
terzi contraenti, si era ritenuto (e tale conclusione va mantenuta ferma anche
nel nuovo assetto normativo, trattandosi di profilo interno) che la violazione
33
34
del limite di legge esponesse l’amministratore a responsabilità, se l’atto
estraneo compiuto fosse risultato pregiudizievole per la società.
Quanto
poi
agli
scopi
positivamente
perseguiti,
la
loro
univoca
identificazione non è evidentemente necessaria ai fini della decisione nel
presente giudizio: l’accertamento del fatto che gli amministratori agirono per
scopi extrasociali, e dunque in modo certamente illecito, è infatti sufficiente
per l’affermazione della loro responsabilità nei confronti della società.
(App. Milano 16.06.95, Soc, 1995, 1564)
Nel pregresso assetto normativo, si era rilevato in dottrina che – a
parte la problematicità della nozione di interesse sociale (che non è univoco:
interesse della società o dei soci? e, in questo secondo caso, interesse di
tutti i soci o di quelli di comando?) – la fonte dell’obbligo fosse tutt’altro che
sicura, poiché la legge non lo prevedeva espressamente. Se ne era dedotto
(anche considerando che coloro che affermano l’obbligo degli amministratori
di perseguire l’interesse sociale riconoscono loro una discrezionalità non
sindacabile nella scelta dei mezzi per il raggiungimento del fine) che
non è casuale che la legge non abbia imposto agli amministratori un obbligo
funzionale di perseguire l’interesse sociale (obbligo il cui contenuto sarebbe
concretamente indeterminabile, e per
l’adempimento del quale gli
amministratori sarebbero comunque liberi di scegliere i mezzi ritenuti più
idonei), ma si sia limitata a stabilire a carico degli amministratori la sanzione
del risarcimento del danno che sia stato causato da atti compiuti in conflitto
di interessi. Lo scopo perseguito dalla legge è stato così conseguito
utilizzando un congegno tecnico di più semplice applicazione, che con
34
35
opportuna concretezza si limita a sanzionare comportamenti che il giudice
può più facilmente identificare e colpire.
(Bonelli 1992, 80)
Ma tale orientamento va ripensato, anche alla luce della riforma (che
ha modificato la formulazione dell’art. 2391).
3.1.
Il c.d. conflitto di interessi
Il dovere dell’amministratore di non agire in <conflitto di interessi>
(secondo la dizione pregressa) o in presenza di interessi <per conto proprio
o di terzi> (secondo la nuova dizione) trova la sua fonte nell’art. 2391, ma
esso si estende anche all’amministratore unico (o delegato, che è oggi
tenuto ad astenersi dal compiere l’operazione e ad investire della decisione
il consiglio), trovando in questo caso la fonte – più che nell’applicazione
analogica dell’art. 2391 (Bonelli 1992, 81) - nell’art. 1394 (Cass. 10.4.00, n.
4505, GI, 2001, 477; Cass, 26.1.06, n, 1525, DeG, 2006, 1436).
Si ha conflitto quando vi è una divergenza tra interesse (proprio o di
terzi) dell’amministratore e interesse della società (quale persona giuridica),
mentre deve escludersi la rilevanza di un eventuale conflitto di interessi tra
soci o fra amministratori e soci. Esso non viene in considerazione in ogni
caso di rappresentazione, pur minimale, di qualsiasi utilità, ma solo in caso
di interesse <quantitativamente e qualitativamente rilevante> e che non sia
<coincidente> con quello della società, come è nel caso dell’amministratore
che sia anche socio (Enriques – Pomelli 2005, 760; in senso più rigoroso è
orientato invece Ventoruzzo 2005, 442). Inoltre il conflitto va verificato in
concreto, non essendo sufficiente (pur potendo avere valore presuntivo) la
mera contrapposizione formale di posizioni.
35
36
In primo luogo l’esistenza del conflitto deve essere verificata in concreto: il
conflitto non deriva, cioè, da un’astratta e tipica contrapposizione formale di
posizioni, rilevabile indipendentemente dalle effettive condizioni di una
determinata operazione (ad es. caso in cui la stessa persona sia
amministratore in entrambe le società che concludono il contratto o sia
amministratore in una e lui stesso o persone a lui legate siano soci rilevanti
nell’altra). Il conflitto sorge, invece, solo se il contenuto e le modalità
dell’operazioni siano tali da determinare in concreto una divergenza tra
l’interesse che l’amministratore ha (per conto proprio o altrui) in quella
operazione e l’interesse della società. In secondo luogo, per affermare che
un amministratore ha in concreto concluso un negozio in conflitto con
l’interesse della società, occorre dare sia la difficile prova che il corrispettivo
ricevuto dalla società era inadeguato, sia la ulteriore e ancor più difficile
prova che l’amministratore ha concluso il negozio con un corrispettivo
inadeguato perché era personalmente interessato, per conto proprio o altrui,
all’operazione (e non perché ha in buona fede commesso un errore di
valutazione).
(Bonelli 2004, 88)
Per contro, si è ritenuto in giurisprudenza che l’ipotesi di conflitto di
interessi sia in sé rilevante ai fini della responsabilità dell’amministratore,
risultando ininfluente valutare anche le ragioni delle scelte gestionali.
Infatti, dal dettato e dalla ratio dell’art. 2391 c.c. emerge in modo univoco
che ai fini della sussistenza della responsabilità degli amministratori per la
loro partecipazione ad una delibera riguardante un’operazione in conflitto di
interessi con la società è sufficiente che l’operazione presenti un’utilità per la
36
37
controparte nella quale costoro abbiano interesse, sicché risultano del tutto
irrilevanti le ragioni e le scelte gestionali che abbiano indotto gli stessi
amministratori a compierle. In altri termini, in presenza del conflitto di
interessi la fonte della responsabilità è costituita dal compimento dell’azione
in sé e per sé considerata, dalla sua illegittimità conseguente all’essere
stata consumata in violazione di precisi canoni di comportamento degli
amministratori generali e specifici e dalla dannosità della scelta gestionale,
senza che nessun rilievo assuma il merito della scelta gestionale.
(Cass. 4.4.98, n. 3483, GI, 1999, 328)
Era stato rilevato che già il termine <perdita> usato dal previgente
art. 2391/2, al di là del suo tenore letterale, abbracciasse <sia l’ipotesi del
danno emergente, sia quella del lucro cessante> (Cagnasso 1991, 272),
anche in coerenza con il precetto penale di cui al previgente art. 2631 (oggi
art. 2634), che parlava genericamente di <pregiudizio> (oggi <danno
patrimoniale>). L’attuale dizione dell’art. 2391/4 (che parla invero di <danni>)
elimina ogni dubbio, al pari dell’equiparazione ai fini della responsabilità (che
poteva ritenersi altrettanto pacifica) della <omissione> alla <azione>.
Nel pregresso assetto normativo, l’amministratore in conflitto di
interessi, pur potendo intervenire alla riunione consiliare e partecipare alla
relativa discussione, non doveva votare e doveva dare notizia del conflitto
agli altri amministratori e ai sindaci; ci si interrogava inoltre
se quest’ultimo obbligo sussista anche se l’amministratore in conflitto di
interessi non partecipa alla riunione del consiglio. Ma la lettera e la ratio
dell’art. 2391, 1° comma, c.c. sono tali, a mio avviso, da orientare l’interprete
in senso negativo.
37
38
(Cagnasso 1991, 272)
Tale orientamento interpretativo non era da tutti condiviso (in senso
contrario: Frè 1982, 493) e, in una visione evolutiva, va certo ripensato alla
luce del novellato art. 2391 c.c. secondo cui l’amministratore <deve dare
notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che,
per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della
società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata>, rispondendo
in caso contrario dei danni derivati alla società. Va poi evidenziato l’obbligo
di adeguata motivazione delle ragioni e della convenienza dell’operazione.
Per contro, la novella, se, da un lato, privilegia la trasparenza in ogni ipotesi
in cui l’amministratore abbia un altro interesse in una operazione, dall’altro
facilita la capacità deliberativa del consiglio, non contenendo più, infatti, un
generale dovere di astensione dal voto, ma solo un dovere di darne notizia
di eventuali interessi, e di motivare la delibera presa.
(Bonelli 2004, 149)
Se la violazione dell’obbligo di disclosure dell’interesse comporta la
responsabilità dell’amministratore (4° comma), la sua partecipazione al voto
(determinante) non rileva in sé (non essendovi obbligo di astensione), ma
semmai ai sensi dell’art. 2392 (Ventoruzzo 2005, 485; Minervini 2006, 162;
in senso contrario, Candellaro 2004, 758). Ci si chiede se la <omissione> di
cui all’art. 2391/4 ricomprenda l’ipotesi della mancata impugnazione delle
delibere viziate ai sensi della norma; sembra preferibile la risposta negativa,
almeno in linea di massima, giacché l’impugnazione di delibere consiliari si
configura come un potere dell’amministratore, non necessariamente come
un dovere, anche perché essa potrebbe risultare superflua, se non pure
38
39
svantaggiosa, per la società, ad es. sul piano dell’immagine (Ventoruzzo
2005, 486).
3.1.1. Casistica
Casi di operazioni in conflitto di interessi sono costituite dall’utilizzo di
somme o di altre utilità sociali per finalità estranee all’interesse sociale, dal
rilascio di garanzie a favore di società o imprese (o per un mutuo personale)
dell’amministratore, da operazioni concluse senza adeguato corrispettivo.
Particolare interesse rivestono le ipotesi in cui l’amministratore venga
a conoscenza ratione officii di un affare vantaggioso ma, anziché sfruttare
l’occasione per la società, la sfrutti personalmente o la ceda a un terzo.
La difficoltà di provare questo tipo di violazione sta, soprattutto, da un lato
nel fatto che la violazione consiste in una omissione, cioè nel mancato
compimento di un’operazione, sicché in genere di tale operazione non si
rinviene
traccia
documentazione
per
quanto
sociale;
d’altro
attentamente
canto
nel
venga
fatto
che
esaminata
è
raro
la
che
l’amministratore sfrutti l’operazione personalmente o tramite società in cui
egli risulti direttamente ed ufficialmente interessato, sicché non emerge che
l’amministratore si sia appropriato di una “corporate opportunity”.
(Bonelli 1992, 94)
Tale ipotesi specifica di responsabilità è prevista dal nuovo art. 2391,
ult. co., secondo cui l’amministratore risponde dei danni <che siano derivati
alla società dalla utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o
opportunità di affari appresi nell’esercizio del suo incarico>.
Si è ravvisato un caso di conflitto di interessi nella sostituzione di un
amministratore delegato preordinata, in concreto, ad impedire l’espansione
39
40
commerciale della società, in contrasto con gli interessi personali del socio
che controllava sia la società in questione che altra società concorrente. La
pronuncia si segnala per un’utile puntualizzazione della nozione di conflitto
per quelle delibere ad oggetto in sé neutro (nel caso, organizzativo) ma nel
concreto perseguenti uno scopo diverso e specifico, essendosi statuito che
se non si vuole adottare una configurazione riduttiva di deliberazione
impugnabile - che sarebbe contraria alla ratio della norma, individuata nello
scopo di proteggere la società da forme concorrenziali, spesso occulte, e
dai pregiudizi che possono derivarle dalla deviazione dei suoi fini istituzionali
per un interesse contrastante degli amministratori – deve ritenersi che, al
fine dell’applicabilità della norma in esame, non può prescindersi dal reale
scopo della deliberazione che traspaia con un grado di sufficiente certezza,
nel senso che alla deliberazione medesima deve riconoscersi carattere
“neutro” o, per così dire, “operativo” secondo gli scopi che essa si propone
di conseguire.
(Cass. 19.8.83, n. 5404, FI, 1984, I, 2302)
3.1.2. Il conflitto di interessi nella s.r.l.
Anche in tema di disciplina del conflitto di interessi, il legislatore della
riforma ha introdotto una disposizione specifica per la s.r.l. (art. 2475 ter), in
termini significativamente difformi rispetto alla s.p.a.
Con precisa sintesi, si è evidenziato che, rispetto alla normativa in
tema di s.p.a. (art. 2391), l’art. 2475 ter definisce
in termini diversi – e più restrittivi – tanto i presupposti di applicazione
quanto le regole applicabili in presenza di tali presupposti (…). Quanto ai
presupposti applicativi, va osservato che l’art. 2475 ter trova applicazione
40
41
unicamente nelle ipotesi in cui l’amministratore sia portatore di un interesse
che si ponga obiettivamente in conflitto con quello della società, laddove ai
fini dell’applicabilità dell’art. 2391 c.c. è sufficiente la mera sussistenza di un
interesse dell’amministratore nell’operazione, anche non qualificabile come
configgente. Ancor più sensibile è la differenza con riferimento alla
disciplina. (…) Per gli amministratori delle s.r.l., la legge non contempla (…)
doveri
di
disclosure
preventiva,
né
obblighi
di
astensione
per
l’amministratore delegato e neppure doveri di adeguata motivazione della
relativa deliberazione.
(Abriani 2003a, 416)
Occorre sottolineare che la disposizione dell’art. 2479, 1° e 4° co.,
consente a ciascun amministratore o ai soci che detengano almeno un terzo
del capitale di devolvere ai soci qualunque decisione gestoria (in questo
caso, necessariamente con metodo assembleare ex art. 2479 bis, in forza
dell’art. 2479/4). Per questa via, è dunque possibile sottrarre agli
amministratori la decisione che si ritenga possa essere viziata da conflitto di
interessi; inoltre, ciò determina la possibilità dell’eventuale impugnazione
della delibera assembleare ai sensi dell’art. 2479 ter, con estensione dei
presupposti sostanziali (essendo sufficiente, ex art. 2479 ter, 2° co, il danno
potenziale) e dei soggetti legittimati (tutti i soci non consenzienti e non solo
amministratori e sindaci).
Nei limiti della disciplina normativa ora esaminata (e quindi in termini
difformi rispetto al modello previsto per la s.p.a.) e ferma la possibilità che lo
statuto contempli più penetranti obblighi e maggiori garanzie, non è tuttavia
dubitabile che, sul piano sanzionatorio, la condotta dell’amministratore di
41
42
s.r.l. in conflitto di interessi ne determina la responsabilità patrimoniale ai
sensi dell’art. 2476 (oltre che la giusta causa di revoca).
3.2.
La concorrenza
Il divieto di concorrenza, posto dall’art. 2390, svolge la funzione di
prevenire situazioni di potenziale antagonismo con l’interesse sociale
(Bonelli 2004, 140), così tutelando anche la fiducia intercorrente tra la
società e la persona che ne deve curare gli interessi (Spolidoro 1983, 1327).
Il medesimo divieto si distingue dal dovere di non agire in conflitto di
interessi, ma, nel contempo, è ad esso complementare, disciplinando
situazioni di conflitto potenziale.
In realtà, l’art. 2391 c.c. regola il conflitto di interessi, di natura anche non
concorrenziale, che si manifesta in concreto nella fase deliberativa; come
tale esso si applica anche all’amministratore che sia stato autorizzato
dall’assemblea
all’esercizio
di
un’attività
concorrente.
Il
divieto
di
concorrenza disciplina invece una situazione di conflitto potenziale allo
scopo di evitare che l’amministratore possa essere indotto a tenere
comportamenti gestionali contrastanti con l’interesse della società, anche al
di fuori dell’attività deliberativa e del possibile campo di applicazione dell’art.
2391.
(Calandra Buonaura 1991, 217)
Il riferimento della norma ad una <attività> esclude la rilevanza di atti
occasionali di concorrenza. Inoltre, si deve tener conto dell’attività effettiva
svolta dalla società, escludendo quindi quelle attività previste (talora in modo
generico) nell’oggetto statutario ma non svolte in concreto. Per contro, rileva
non solo una situazione di concorrenza attuale, ma anche potenziale (da
42
43
intendersi in modo restrittivo e rigoroso, per evitare eccessive dilatazioni del
divieto) o c.d. prossima (i.e. diretta a soddisfare bisogni identici o simili o
complementari, anche in via succedanea, nel medesimo ambito di mercato).
Il divieto ricomprende anche ogni ipotesi in cui l’attività, pur essendo
svolta da altri, sia comunque riferibile all’amministratore. Controverso è il
caso del possesso di una partecipazione di controllo in società di capitali
concorrente (in senso negativo: Spolidoro 1983, 1352; in senso positivo:
Calandra Buonaura 1991, 225) e controverso era, nel pregresso assetto,
anche il caso dell’assunzione della qualità di amministratore o di direttore
generale o di dirigente in società di capitali concorrente (in senso negativo:
Ferri 1987, 649; in senso positivo: Minervini 1956, 198; per una valutazione
caso per caso: Frè 1982, 489); a tale ultimo proposito, va rilevato che il
novellato art. 2390 di cui al d. lgs. 6/03 vieta in modo espresso di <essere
amministratori o direttori generali in società concorrenti>.
L’esercizio dell’attività concorrenziale vietata non comporta ipso facto
un danno risarcibile, essendo preferibile l’orientamento che
richiamandosi ai principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di
concorrenza sleale, ritiene che debba essere provata l’esistenza di un
effettivo pregiudizio economico consistente nel decremento o nel mancato
incremento degli affari della società causato specificamente dall’attività
illecita dell’amministratore.
(Calandra Buonaura 1991, 236)
Il divieto di concorrenza può essere rimosso dai soci, sia mediante
una delibera di autorizzazione, sia mediante una clausola statutaria (Cass.
1.10.75, n. 3091, GCo, 1976, II, 634, secondo cui l’amministratore che sia
43
44
anche socio non può partecipare al voto ex art. 2373). La prassi vede un
largo uso delle deroghe statutarie e delle autorizzazioni assembleari.
Degna di essere segnalata è la questione dell’applicabilità del divieto
in caso di gruppi di società. Secondo un orientamento (Spolidoro 1983,
1349 ss.), la direzione unitaria cui sono sottoposte le società appartenenti ad
un gruppo esclude che, al suo interno, vi possa essere concorrenza e che vi
sia spazio per il divieto di cui all’art. 2390; per contro, si è statuito che violi
l’obbligo di non concorrenza l’amministratore di società holding che ricopra
analoga carica in società concorrente con società operativa controllata dalla
holding (Trib. Mantova 26.11.92, FP, 1993, I, 101); secondo altra dottrina, la
questione va affrontata caso per caso, <verificando, cioè, se la presenza di
amministratori comuni in società appartenenti al medesimo gruppo determini
effettivamente quella situazione potenzialmente conflittuale che la norma in
esame si propone di evitare> (Calandra Buonaura 1991, 238).
Va aggiunto che l’abrogazione del previgente art. 2487 ha fatto venir
meno l’applicabilità dell’art. 2390 alle s.r.l. Ci si domanda se ciò rappresenti
<un ulteriore sintomatico segnale dell’indebolimento della disciplina posta a
presidio di quel duty of loyalty”> nell’ambito delle s.r.l., ovvero – come
sembra preferibile – se soccorra in via analogica l’art. 2390, nuovo testo, o
l’art. 2301 in tema di s.n.c., a seconda che in concreto la società di avvicini
al modello dell’una o dell’altra (Pomelli 2005, 1971).
3.3.
Il c.d. interesse di gruppo
Il conflitto di interessi avuto presente (e disciplinato) dall’art. 2391
riguarda una situazione occasionale, che si determina in relazione ad uno
specifico atto, laddove, nel caso di un gruppo di società, il conflitto può dirsi
44
45
sistematico, non limitandosi ad investire questo o quell’atto, ma permeando
di sé l’intera attività. Di conseguenza, il tema del conflitto di interessi diventa
il punto nodale di ogni discorso sui “gruppi societari”, che costituiscono un
mero modello organizzativo di svolgimento dell’attività di impresa, in cui alla
unitarietà sotto il profilo economico si contrappone una pluralità di figure
soggettive cui vengono imputati i diversi momenti dell’impresa stessa.
Ad una visione “molecolare” del gruppo - che individuava un
interesse di gruppo, evidenziando che la stessa nozione di pregiudizio <va
valutata non separatamente, ma confrontata dialetticamente con i vantaggi
dell’appartenenza ad una comunità allargata> e invitando a prendere atto
che <oggi esistono società a sovranità limitata> (Mignoli 1986, 729 ss.) - si
contrapponeva una visione “atomistica” – che evidenziava che <una società
amputata della norma sul conflitto di interessi non è più una società, perché
l’attività da essa esercitata non può più dirsi “comune”, in quanto non
ricollegata ad una volontà comune, né intesa al perseguimento di un
comune interesse> (D’Alessandro 1988, 47 ss.). In posizione intermedia si
poneva la tesi che riconosceva una rilevanza all’interesse di gruppo, come
interesse dell’impresa-gruppo, da non considerarsi a priori extrasociale
rispetto a quello delle singole società, ma assumeva che il perseguimento di
tale interesse non escludeva l’obbligo del rispetto degli interessi degli
azionisti esterni al gruppo, dei creditori delle controllate e, in definitiva,
dell’interesse di ogni singola società (Galgano 2001, 133 ss.).
Dal canto suo, a partire dagli anni ’90, la giurisprudenza, da un lato,
aveva riconosciuto che la direzione unitaria non contrasta con alcuna regola
inderogabile del diritto societario, svolgendo essa una funzione meritevole
45
46
di tutela sul piano dell’autonomia negoziale (art. 1322/2), ma, dall’altro, era
rimasta fedele al principio tradizionale dell’autonomia delle singole società,
ribadendo la necessità che, nel perseguire l’interesse di gruppo, si
rispettasse sempre anche l’interesse delle singole società.
Questo modello organizzativo e strutturale non contrasta necessariamente
con l’interesse delle società del gruppo, essendo necessario, perché scatti
la tutela degli interessi che alla singola società fanno capo, non solo la
potenzialità di un conflitto di interessi, ma l’effettività del conflitto di interessi
idoneo a causare danno alla società del gruppo. Il vincolo dell’organo
amministrativo della società di gruppo, quindi, trova il limite della conformità
dell’interesse sociale della società di gruppo, dovendosi i suoi amministratori
astenere dall’eseguire delibere ed indirizzi che possono danneggiare la
società stessa.
(Cass. 26.2.90, n. 1439, FI, 1990, I, 1189)
Questa impostazione era seguita dalla S.C. nell’affrontare, più nello
specifico, il tema della responsabilità degli amministratori, ribadendosi che, a
prescindere da considerazioni de iure condendo sulla disciplina dei gruppi,
si evidenzia un’esigenza primaria che è – nell’attuale diritto positivo – quella
di tenere conto della soggettività giuridica distinta di tutte le società del
gruppo e di rispettare l’interesse sociale di queste, che può essere
coordinato, ma non conculcato, in vista di un interesse superiore di gruppo,
ma non per questo confliggente, rispetto a quello delle imprese collegate.
(Cass. 8.5.91, n. 5123, Soc, 1991, 1351)
Il riconoscimento della sussistenza dell’interesse del gruppo (e della
sua rilevanza, anche sul piano della individuazione di un interesse, mediato
46
47
e indiretto, al compimento dell’atto: Cass. 14.9.76, n. 3150, RDCo, 1978, II,
220), che si affianca, pur senza travolgerlo, all’interesse del singolo ente,
aveva aperto la via alla teoria dei vantaggi compensativi.
Si era detto che, nella logica delle operazioni infragruppo, il singolo
atto, che in sé considerato può ritenersi pregiudizievole per una società, può
ritenersi compensato da altre (precedenti o successive) operazioni o utilità di
segno opposto, evidenziandosi l’ingiustizia che gli azionisti esterni al gruppo
e/o i creditori sociali di una singola società godano dei vantaggi insiti nella
appartenenza della stessa ad un gruppo senza sostenerne i relativi costi. Di
conseguenza, si era postulata una revisione critica della teoria atomistica del
conflitto di interessi, proponendosi (come criterio-guida) l’idea che
la compatibilità con l’interesse sociale dell’interesse di gruppo deve valutarsi
in termini di razionalità e coerenza di una singola scelta, ancorché
pregiudizievole per la società che la pone in essere, rispetto ad una politica
economica generale di gruppo di medio e lungo termine, da cui
ragionevolmente può derivare un vantaggio alla singola società, anche su
piani economici differenti, anche in tempi diversi rispetto al momento
dell’operazione ed
anche secondo
un
parametro non rigidamente
proporzionale, né necessariamente quantitativo
(Montalenti 1995, 731)
ponendo altresì come discrimen decisivo tra (elastiche ma) corrette
politiche di gruppo e abusive prassi di svuotamento economico delle società
(ad esempio, in tema di garanzie infragruppo) <lo stato di insolvenza> (in
senso critico, rispetto a tale impostazione, anche per la difficoltà di calcolare
il saldo complessivo tra vantaggi e svantaggi, Enriques 1997, 698 ss.).
47
48
Questa linea di pensiero era recepita – pur sotto il profilo della
ricostruzione del carattere non gratuito dell’atto - dalla stessa Suprema
Corte, la quale aveva rilevato che, in presenza di un atto ispirato ad una
<logica di gruppo>, occorreva considerare anche che la società <viene non
di rado a conseguire dei vantaggi che la compensano dei pregiudizi
eventualmente subiti per effetto di altre operazioni>, sicché si affermava che
al fine di verificare se l’operazione abbia comportato, o meno, per la società
che l’ha posta in essere un depauperamento effettivo occorre tener conto
della complessiva situazione che, nell’ambito del gruppo, a quella società fa
capo: potendo l’eventuale pregiudizio economico che da essa sia
direttamente derivato aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto.
(Cass. 11.3.96, n. 2001, GCo, 1997, II, 133)
Tale orientamento (che era seguito anche da Cass. 29.9.97, n. 9532,
Fa, 1998, 1041 e Cass. 5.12.98, n. 12325, GI, 1999, 2317) viene applicato
anche in tema di responsabilità degli amministratori di società di capitali
verso la società stessa, nel senso che, in caso di “gruppo”, ha rilievo (anche
a prescindere dal testo dell’art. 2497 c.c. come novellato dall’art. 5 d. lgs.
6/03) la considerazione di eventuali vantaggi compensativi, precisandosi che
tuttavia l’eventualità che un atto lesivo del patrimonio della società trovi
compensazione nei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo non può
essere posta in termini meramente ipotetici. Se si accerta che l’atto non
risponde all’interesse diretto della società il cui ha amministratore lo ha
compiuto e che ne è scaturito nell’immediato un danno al patrimonio sociale,
potrà ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri
l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell’atto è
48
49
destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a
stemperarsi; ma occorre che una tal prova egli la dia.
(Cass. 24.8.04, n° 16707, GCo, 2005, II, 405; conforme, già nel pregresso
assetto normativo, Cass. 21.1.99, n. 521, Soc, 1999, 428)
Sul piano normativo, la teoria trova riscontro nel nuovo art. 2634 c.c.
(che esclude il reato di <infedeltà patrimoniale> se il profitto della società
collegata o del gruppo sia <compensato da vantaggi, conseguiti o
fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al
gruppo>). Merita evidenziare che tale norma penale contempla invero anche
i vantaggi <fondatamente prevedibili> (e tuttavia non conseguiti), sicché
sorge il problema se essi – come ben si ritiene (Sbisà 2003, 604; in senso
contrario: Sacchi 2003, 673) – siano potenzialmente idonei ad elidere anche
la responsabilità civile (e non solo quella penale).
L’intera materia ha subito un incisivo impatto dall’introduzione di una
apposita disciplina della <direzione e coordinamento di società> da parte
della riforma, anch’essa ispirata alla teoria dei vantaggi compensativi. L’art.
2497/1, ult. parte, statuisce che non vi è responsabilità (della società o degli
enti che, esercitando attività di direzione o coordinamento di altre società,
agiscono nell’interesse proprio o di altri <in violazione dei principi di corretta
gestione societaria e imprenditoriale>) <quando il danno risulta mancante
alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento
ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette>.
La norma si muove in una logica, che si potrebbe definire di compromesso,
tra considerazione unitaria del gruppo e valorizzazione dell’autonomia delle
singole società che ne sono parte. Questa, infatti, mostra di ritenere lecito
49
50
l’esercizio del potere di direzione, ancorché in danno della controllata,
qualora ricorra la condizione della ragionevolezza della scelta gestoria
pregiudizievole secondo una valutazione condotta nell’ottica della gestione
dell’impresa di gruppo - così dunque sottolineando l’attenzione all’unitarietà
del fenomeno economico che vi è sotteso. Ma essa, però, richiede, al fine di
rendere la società che esercita la direzione immune da responsabilità, che si
possa riconoscere l’esistenza per la società cui la direttiva è impartita di uno
specifico e concreto vantaggio derivante dall’appartenenza al gruppo, sì che
il pregiudizio da essa sofferto possa dirsi neutralizzato; altrimenti dovendosi
ritenere che la direzione, anche se esercitata a vantaggio del gruppo nel suo
complesso, persegue rispetto alla controllata danneggiata un interesse
alieno.
(Guizzi 2003, 253)
3.3.1. Interferenze tra discipline
Controverso è il tema dell’interferenza della normativa sul conflitto di
interessi con quella sulla direzione e coordinamento, in particolare nel caso
(molto diffuso) di amministratori della controllata nominati dalla controllante.
Come in passato, per gli amministratori che siano nominati dalla società
controllante o dal socio di controllo bisognerà valutare in concreto se
l’interesse di chi nomina possa essere riconosciuto in capo ad essi, alla luce
soprattutto dei rapporti esistenti tra amministratori e capogruppo, ma poi
anche, in genere, dal grado di indipendenza (non esclusa dal mero
concorso della società controllante alla nomina in sede assembleare) del
singolo amministratore.
(Enriques-Pomelli 2005, 763)
50
51
In senso più rigoroso è orientata altra dottrina, che, pur escludendo
che gli amministratori della controllata nominati dalla controllante siano per
ciò stesso in conflitto di interessi, ritiene che
è evidente che in tutti i casi in cui essi debbano deliberare operazioni che
assecondino politiche di gruppo, a scapito dell’interesse della società
amministrata, la loro posizione ricade certamente nell’ambito dell’art. 2391.
(Meli 2003, 163)
Nella
consapevolezza
delle
difficoltà
operative
connesse
all’applicazione delle regole previste dall’art. 2391 nell’ambito dell’agire
proprio del gruppo, si sono suggerite alcune soluzioni pratiche suscettibili di
limitare l’impasse,
tra le quali la previsione che, nei casi in esame, le operazioni infragruppo
siano decise dal comitato esecutivo, se non da un ristretto comitato ad hoc
istituito dal consiglio di amministrazione (eventualmente composto da
amministratori indipendenti), in grado di riunirsi e deliberare con celerità
sulle operazioni sottoposte alla sua attenzione dallo stesso amministratore
delegato. In secondo luogo, ci si potrebbe interrogare sull’ammissibilità di
una
sorta
di
delega
all’amministratore
preventiva
delegato
a
del
consiglio
concludere
di
amministrazione
operazioni
intragruppo,
quantomeno “correnti” ed effettuate a normali condizioni di mercato. Una
siffatta delega opererebbe come una sorta di approvazione consiliare
“quadro”, rilasciata in via preventiva, delle decisioni in questione. Questa
soluzione, tuttavia, potrebbe sollevare qualche perplessità in merito alla sua
compatibilità con il tenore letterale della norma, che sembra richiedere in
ogni caso l’astensione dell’amministratore delegato e un intervento ad hoc
51
52
del collegio. Una terza soluzione che si potrebbe ipotizzare, anch’essa non
scevra da dubbi, potrebbe consistere nell’attribuzione di una delega ad uno
o più dirigenti della società privi di legami con le controllate per il
compimento di tali operazioni, sottraendo così la materia alla competenza
dell’amministratore delegato, pur riservandola a un soggetto di fiducia della
capogruppo. Questa ultima opzione, tuttavia, comporterebbe il rilascio della
delega ad un soggetto che gerarchicamente potrebbe “dipendere”
dall’amministratore delegato interessato, situazione evidentemente non del
tutto coerente con lo spirito dell’art. 2391.
(Ventoruzzo 2005, 473)
Gli inconvenienti segnalati rispetto alle soluzioni indicate inducono a
riflettere sull’effettivo fondamento dell’applicazione dell’art. 2391 (pensato in
caso di conflitto “episodico”) al caso delle imprese di gruppo (nelle quali il
conflitto è invece “normale”) e fanno apprezzare lo sforzo interpretativo di chi
prospetta l’ipotesi che l’amministratore di società controllata o comunque
soggetta a direzione e coordinamento, il quale persegua l’interesse della sua
società tenendo conto delle strategie del gruppo, non sia portatore di un
interesse “diverso”, anche se non in conflitto con quello sociale (un interesse
“per conto di terzi”) ma sia portatore di un “interesse sociale” reinterpretato e
adeguato ad un contesto di gruppo e, per questa via, egli non sia soggetto
alla disciplina di cui all’art. 2391 (Tombari 2003, 244).
4.
Gli obblighi a contenuto specifico
In un sistema legislativo, quale è quello italiano, caratterizzato da una
pluralità di precetti di ogni tipo (tributari, previdenziali, amministrativi ecc.),
risulta impossibile (e anche scarsamente utile) una ricognizione esaustiva di
52
53
tutte le diverse norme che fissano obblighi a carico degli amministratori di
società e che, in caso di inosservanza che determini un danno (causalmente
connesso) alla società e/o a terzi, espongono i medesimi a responsabilità.
Ratione materiae, senza pretese di completezza, può risultare utile riportare
alcuni degli obblighi a carattere specifico previsti da disposizioni del Libro V,
Titolo V, del codice civile e verificarne il loro possibile impatto sul piano della
responsabilità civile degli amministratori di società di capitali.
4.1.
Adempimenti contabili
E’ pacifico che sugli amministratori di società incomba l’obbligo di
tenere regolarmente le scritture contabili di cui agli artt. 2214 ss. Nonostante
sia generalmente riconosciuto che l’irregolare loro tenuta possa facilitare
altre violazioni idonee a cagionare danni alla società (e rilevanti anche ai
sensi dell’art. 2409), le mere irregolarità contabili non sono di per sé
produttive di un danno (App. Milano 9.10.84, Soc, 1985, 179). Per contro, si
ritiene che
il giudice ben può tener conto, al fine di ricostruire l’andamento degli affari
sociali, e di valutare gli effetti concreti dell’operato degli amministratori
medesimi, delle risultanze di scritture contabili informali (una sorta di
‘contabilità nera’) e libri sociali la cui tenuta, avvenuta in modo difforme dalle
prescrizioni di legge, già di per sé può costituire autonoma forma di
responsabilità.
(Cass. 23.4.03, n. 6471, GCM, 2003, 4)
Occorre poi ricordare che, in caso di insolvenza, si è talora fatto
ricorso all’argomento presuntivo, sostenendo che l’amministratore di società
fallita possa essere ritenuto responsabile dell’intero deficit patrimoniale
53
54
dell’impresa in caso di risultanze contabili lacunose e/o inattendibili che
impediscano la ricostruzione delle vicende societarie (infra § 6).
Analoghe considerazioni valgono in caso di mancata redazione (o di
mancato deposito) del bilancio. Pur in presenza di una palese violazione di
obblighi specifici incombenti per legge sugli amministratori, un danno potrà
derivare alla società (o ai creditori sociali o ai terzi) non già dall’omissione in
sé - non essendo essa in grado di influire negativamente sul patrimonio della
società (salvo che per eventuali sanzioni amministrative o tributarie irrogate
alla società) - bensì solo da una condotta ulteriore che sia stata posta in
essere dagli amministratori, i quali abbiano, ad esempio, occultato risultati
negativi e protratto l’attività sociale che andava invece arrestata a causa
della perdita del capitale minimo (Cass. 28.4.97, n. 3652, Soc, 1997, 1389).
Affatto diverso è invece il caso della redazione (e pubblicazione) di
un bilancio infedele, sia nell’ipotesi di sottovalutazione del patrimonio sociale
(magari attuata con formazione di c.d. “fondi neri”), sia nell’ipotesi opposta.
Nel primo caso, oltre ad eventuali sanzioni tributarie (non già tributi) relative
a connesse infedeltà nella dichiarazione dei redditi della società, possono
assumere rilievo i danni subiti, ad esempio, dai soci di minoranza che
abbiano alienato a valori minori le loro partecipazioni o dalla stessa società
che abbia fatto ricorso al credito bancario (subendo i relativi oneri finanziari)
pur in presenza di altre risorse occulte. Per quanto attiene, in particolare, il
fenomeno dei c.d. “fondi neri” (cioè di risorse “non ufficiali” create e gestite
dagli amministratori), si tende ad operare una distinzione in relazione alle
modalità (o finalità) del loro successivo impiego, distinguendosi tra atti di
54
55
disposizione compiuti a scopi extrasociali e atti di disposizione compiuti
nell’interesse dell’impresa sociale.
Per i primi, infatti, alla responsabilità per l’occultamento si aggiunge quella
per l’oggettiva sottrazione del bene sociale, essendo insito, nell’affidamento
della cosa con mandato di amministrarla, il divieto per il mandatario di
devolverla a beneficio proprio o di terzi. Per i secondi, invece, non è
ravvisabile altra responsabilità, oltre quella dell’occultamento, tenendo conto
che l’impiego del bene per fini attinenti all’impresa sociale, ove non risulti un
espresso divieto (o l’obbligo di munirsi di preventiva autorizzazione), non
lede diritti della società diversi da quello di essere notiziata dell’operato dei
propri organi.
(Cass. 22.6.90, n. 6278, Soc, 1991, 34).
Parimenti suscettibile di danni può essere l’illegale sopravvalutazione
del patrimonio sociale, qualora, ad esempio, ne siano derivati un’indebito
riparto di utili o un affidamento indebito di terzi (che abbiano, ad esempio,
avviato o continuato rapporti commerciali ovvero acquisito partecipazioni
sociali confidando in modo essenziale sulle risultanze positive dei bilanci).
4.2.
Rapporti con l’assemblea
Difficilmente può dare luogo ad un danno risarcibile la violazione da
parte degli amministratori dell’obbligo di convocazione dell’assemblea (ad
es. su richiesta di una minoranza qualificata dei soci ex art. 2367), pur
potendo essa favorire altre condotte pregiudizievoli (quale, ad esempio, il
mancato arresto dell’attività sociale dopo la perdita del capitale minimo).
L’unico effetto sicuro della violazione di un tale obbligo è, infatti, che
l’assemblea non viene posta in grado di assumere decisione alcuna in una
55
56
situazione nella quale, viceversa, la legge o lo statuto richiedono che una
qualche decisione sia presa. Sennonché, il pregiudizio così indiscutibilmente
inferto alla potestà dell’organo assembleare non si traduce facilmente in un
danno patrimoniale, come tale risarcibile, se non a patto d’ipotizzare che,
ove convocata, l’assemblea avrebbe preso una determinata decisione e che
proprio la mancanza di questa ha prodotto un risultato negativo sul
patrimonio della società. Ipotesi, come ognuno intende, tutt’altro che facile
da dimostrare: implicando la necessità di presumere in via del tutto ipotetica
quale deliberato, nella situazione data, avrebbe assunto un’assemblea in
realtà mai riunitasi, e quali conseguenze quell’immaginario deliberato
avrebbe potuto avere sugli affari della società.
(Rordorf 1993, 621)
Fonte di responsabilità può essere la violazione dell’obbligo degli
amministratori di dare esecuzione alle delibere assembleari (nei casi di cui
al pregresso art. 2364 n. 4, che si sono ridotti con l’entrata in vigore del
nuovo art. 2364 n. 5), sempre che da tale inadempimento sia derivato un
concreto (e causalmente connesso) pregiudizio alla società. Ma tale
pregiudizio può, per contro, essere prodotto alla società stessa (e ai creditori
sociali o ai singoli terzi) anche dall’esecuzione di una delibera assembleare
illegittima. In proposito, il nuovo art. 2364 n. 5 prevede che l’autorizzazione
assembleare al compimento di atti degli amministratori (ove prevista dallo
statuto) mantiene <ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti
compiuti>, non solo verso soggetti diversi ma anche verso la stessa società.
Pertanto, qualora gli amministratori dovessero decidere di “rispettare” il
contenuto dell’autorizzazione, rimane ferma la loro responsabilità per gli
56
57
eventuali danni alla società ex art. 2392, anche se in tal caso la prova da
fornire sulla violazione dei doveri di buona gestione sarà più ardua.
(De Nicola 2005, 568)
La più rigorosa dottrina (Zanarone 1993, 266) sostiene un obbligo
degli amministratori di impugnare le delibere assembleari invalide e non già
solo un potere di disattenderne l’esecuzione (così invece Bonelli 1992, 59).
4.2.1 Rapporti con le decisioni dei soci nella s.r.l.
Mentre il modello legale per la s.p.a. prevede che <la gestione
dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori> (artt. 2380 bis, 2409
novies, 2409 septiesdecies), l’ampia autonomia statutaria riconosciuta per
la s.r.l. dal legislatore della riforma consente che sia rimessa alla volontà dei
soci anche la disciplina della ripartizione delle competenze tra soci stessi e
amministratori. Le norme codicistiche hanno carattere tendenzialmente
derogabile e suppletivo, con le eccezioni poste dall’art. 2475, ult. co.
Al di là di queste ipotesi, l’atto costitutivo della s.r.l. può legittimamente
deferire alla volontà vincolante dei soci qualunque decisione amministrativa
e può altresì riconoscere ad essi, collettivamente o anche individualmente,
un potere di veto o di istruzione nei confronti di determinate operazioni
gestorie.
(Abriani 2003b, 202; conforme: Rainelli 2004, 1906)
In questo rapporto dialettico, inoltre, sia gli amministratori (anche
singolarmente) che i soci (titolari di una partecipazione qualificata) possono
provocare la decisione di questi ultimi in qualunque momento e su qualsiasi
oggetto, ai sensi dell’art. 2479/1 (cfr. § 3.1.2.). Infine, sono deferite
inderogabilmente ai soci le decisioni contemplate dall’art. 2479/2 (così come
57
58
ad essi spetta, di norma, l’autorizzazione ai c.d. “acquisti pericolosi”, ai sensi
dell’art. 2465/2).
L’ampio potere di intervento dei soci (non amministratori) nella
gestione dell’impresa – parallelo all’attenuazione della “struttura corporativa”
della nuova s.r.l. – trova come corollario la previsione, all’art. 2476/7, della
loro responsabilità, in solido con gli amministratori (e <ai sensi dei
precedenti commi>), per gli atti <intenzionalmente> decisi o autorizzati che
abbiano arrecato danno alla società, ai soci o a terzi. Tale responsabilità
dei soci si aggancia a <comportamenti di eterodirezione all’insegna
dell’atipicità> e quindi non solo all’ipotesi di formale devoluzione statutaria o
volontaria, ma altresì ad ogni caso in cui essi abbiano comunque compiuto,
orientato o avallato atti di gestione (Rossi S. 2004, 1064; Capo 2003, 516;
Abriani 2003b, 226). In questa prospettiva si chiarisce anche il significato
dell’avverbio <intenzionalmente> con cui l’art. 2476/7 qualifica la condotta:
esclusa la necessità dell’animus nocendi (cioè della dolosa consapevolezza
del danno, che porterebbe a risultati troppo restrittivi e non in linea con la
ratio della norma), il requisito dell’intenzionalità assume
rilievo non tanto quando il socio abbia deciso, autonomamente o di concerto
con gli amministratori, il compimento dell’atto, poiché in questi casi
l’intenzionalità difficilmente può essere negata, quanto invece proprio per
quei comportamenti, anche atipici e diversi dall’assunzione diretta della
decisione o dalla sua espressa autorizzazione, in cui il socio comunque
manifesti la volontà di condividere l’operato illecito degli amministratori.
L’intenzionalità si sostanzierà allora nella consapevolezza e nella piena
58
59
informazione circa le caratteristiche dell’atto e dei suoi potenziali effetti e in
una volontà di conferma di tutto ciò che il compimento dell’atto comporta.
(Rossi S. 2004, 1068)
Dalla testuale previsione normativa della responsabilità solidale dei
soci che abbiano adottato decisioni gestionali con gli amministratori (art.
2476/7), discende che questi ultimi potranno andar esenti da responsabilità
– per lo meno nei confronti della società – solo se abbiano fatto constare il
proprio dissenso ai sensi dell’art. 2476/1 (Guerrieri 2005, 2028) e siano
esenti da colpa sotto il profilo dell’esecuzione della decisione illegittima.
4.3.
Verificarsi di una causa di scioglimento
Precedentemente alla riforma introdotta con il d.lgs 6/03, l’art. 2449
prevedeva un fondamentale obbligo a contenuto specifico: quello secondo
cui, verificatasi una causa di scioglimento, conseguiva automaticamente che
gli
amministratori
<non
possono
intraprendere
nuove
operazioni.
Contravvenendo a questo divieto, essi assumono responsabilità illimitata e
solidale per gli affari intrapresi>. La norma esprimeva la coerente
conseguenza del fatto che, dopo il verificarsi di un evento dissolutivo (ad
esempio, la perdita del capitale minimo), il patrimonio sociale non era (e non
è) più destinato, come in precedenza, alla realizzazione dell’oggetto sociale,
sicché gli amministratori erano abilitati a compiere soltanto gli atti correlati al
fine della liquidazione, restando ad essi inibito il compimento di nuovi atti
d’impresa, in sé suscettibili di porre a rischio le aspettative sia dei creditori
sociali (al pagamento) sia dei soci (alla quota di liquidazione).
La giurisprudenza aveva chiarito che
59
60
la responsabilità degli amministratori, che l’art. 2449 c.c. fa discendere dalla
violazione del divieto in questione, assume due aspetti, rispettivamente
verso la società e verso i terzi. Sotto il primo profilo (…) è sufficiente
constatare che l’obbligo di contenuto proibitivo posto dall’art. 2449 c.c.
rientra tra quelli, genericamente indicati come derivanti dalla legge o
dall’atto costitutivo, la cui inosservanza costituisce fonte della responsabilità
prevista dall’art. 2392 c.c.: responsabilità di natura contrattuale, in relazione
al peculiare rapporto di origine negoziale che intercorre tra l’amministratore
e la società da lui rappresentata e che si definisce appunto come “rapporto
di amministrazione”; responsabilità da valutarsi in concreto alla stregua del
parametro della diligenza professionale specifica. Sotto il secondo profilo,
giova qui sottolineare che – come viene posto in rilievo dalla migliore
dottrina – la configurazione di una responsabiltià diretta degli amministratori
verso i terzi emerge sia dal tenore letterale della norma, nella quale si parla
di responsabilità non per la violazione del divieto ma per le operazioni poste
in essere in violazione del divieto, sia dal rilievo che se la responsabilità
operasse solo verso la società e non anche verso i terzi non avrebbe senso
che essa venisse qualificata come illimitata e solidale, sia infine da altri dati
di interpretazione sistematica desumibili dal raffronto con la disciplina delle
società di persone (art. 2274 – 2279 c.c.) e dalla constatazione della
simmetria che caratterizza l’ipotesi in argomento rispetto a quella delle
obbligazioni assunte nel periodo anteriore alla iscrizione della società (art.
2331, secondo comma, c.c.); restando così irrilevante l’opponibilità o meno
ai terzi della causa di scioglimento.
60
61
(Cass. 12.6.97, n. 5275, Soc, 1997, 1395; conforme: Cass. 20.6.00, n. 8368,
Soc., 2001, 55)
Il quadro normativo è mutato con l’entrata in vigore della nuova
disciplina dello <scioglimento e liquidazione>, comune a tutti i tipi di società
di capitali (artt. 2484 ss.), anche se buona parte dei principi formatisi sotto la
precedente normativa devono ritenersi tuttora validi ed applicabili.
La riforma ha innanzitutto fatto venir meno l’operatività ipso iure delle
cause di scioglimento, giacché l’art. 2484/3 prevede che <gli effetti dello
scioglimento si determinano (…) alla data dell’iscrizione presso l’ufficio delle
imprese della dichiarazione con cui gli amministratori ne accertano la
causa>. Ciò non significa affatto che, nel nuovo regime, gli amministratori
possano ritardare l’iscrizione della causa di scioglimento e continuare a
gestire la società anche nel caso (per riprendere l’esempio sopra citato) di
riduzione del capitale per perdite al di sotto del minimo legale. Infatti, il
nuovo art. 2485 prevede che <gli amministratori devono senza indugio
accertare il verificarsi di una causa di scioglimento e procedere agli
adempimenti previsti dal terzo comma dell’art. 2484. Essi, in caso di ritardo
o omissione, sono personalmente e solidalmente responsabili per i danni
subiti dalla società, dai soci, dai creditori sociali e dai terzi>.
Inoltre, l’art. 2486 supera il riferimento al divieto assoluto di <nuove
operazioni> posto dal previgente art. 2449/1 con la previsione in positivo
che, al verificarsi di una causa di scioglimento, <gli amministratori
conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione
dell’integrità e del valore del patrimonio sociale> e che, ancora, <sono
personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai
61
62
soci, ai creditori sociali ed ai terzi, per atti od omissioni compiuti in violazione
del precedente comma>. In questo contesto, si è rilevato che non molto pare
cambiare rispetto alla disciplina previgente, giacché si è passati dalla
responsabilità per il compimento di <nuove operazioni> a quella (comunque
sussistente) per la violazione del dovere di <conservazione> del patrimonio
sociale; e il momento in cui scatta il divieto di proseguire la normale gestione
<è, sia prima che dopo la riforma, la perdita del capitale sociale> (Bonelli
2004, 171). Obblighi e conseguenze risarcitorie appaiono in linea con il
precedente regime, nel quale si riteneva che devono reputarsi “nuove”
quelle operazioni che si collocano in una prospettiva di conseguimento di un
utile nell’ambito di ulteriori iniziative speculative, e non già quelle che sono in
rapporto di sequenzialità rispetto alle operazioni già intraprese ed in corso
(Cass. 19.9.95, n. 9887, FI 1996, I, 2873; Cass. 27.11.82, n. 6431, Soc,
1983, 751). Così, si è rimarcato che
la nuova disciplina tiene conto dei risultati cui era pervenuta l’elaborazione
giurisprudenziale, che aveva chiarito vigente l’art. 2449 che per nuove
operazioni dovevano intendersi non già qualsiasi nuovo atto, ma quelli non
finalizzati alla liquidazione della società, non necessari quindi per portare a
compimento un’attività intrapresa, preordinati al conseguimento di nuovi utili.
(…) Rispetto alle conclusioni cui era pervenuta la giurisprudenza, la nuova
formula utilizzata dal legislatore ha portata sostanzialmente identica. Gli
amministratori (…) dunque possono completare il ciclo produttivo,
trasformando in prodotto finito i semilavorati od anche possono stipulare
nuovi contratti di vendita e compiere atti diretti a mantenere in efficienza gli
62
63
impianti, per garantire la cessione dell’azienda alle migliori condizioni di
mercato, ovvero il mantenimento dell’avviamento e del marchio.
(Panzani 2002, 1484)
Peraltro, in termini di ulteriore approfondimento, si è prospettata la
tesi che la norma dell’art. 2486 introduca un vero e proprio dovere di
continuazione dell’attività di impresa, seppur rigorosamente limitato in
funzione della conservazione del patrimonio sociale; dovere che
dovrà leggersi, in controluce, come divieto di liquidazione del patrimonio
sociale da parte degli amministratori, tenuti a conservarlo affinché pervenga
integro nella disponibilità dei liquidatori, gli unici facoltizzati, quindi, alla sua
monetizzazione.
(Rossi A. 2005b, 2186; in termini ancor più aperti, Dimundo 2003, 68)
Merita aggiungere che, nel nuovo sistema, i liquidatori – se a ciò
abilitati da disposizione statutaria o in sede di nomina – possono continuare
l’attività di impresa, in regime di esercizio provvisorio anche di singoli rami
(artt. 2487/1, lett. c), e 2490/5).
In questa prospettiva, può allora evidenziarsi, rispetto al precorso
assetto normativo, un significativo mutamento di impostazione generale del
problema della responsabilità degli amministratori. La nuova norma <sembra
far venir meno quell’automatismo che è stato finora caratteristico della
responsabilità per nuove operazioni>, in forza del quale, una volta provato il
verificarsi di una causa di scioglimento (solitamente la riduzione del capitale
al di sotto del minimo legale), era
piuttosto agevole addossare solidalmente agli amministratori – e con essi ai
sindaci – l’intero ammontare delle perdite prodottesi da quel momento in
63
64
avanti, senza bisogno di provare una mala gestio di ciascuno di questi
soggetti, causalmente connessa all’elemento del danno.
(De Angelis 2002, 1460)
Nell’attuale situazione, in particolare alla luce della previsione in
positivo della persistenza del potere (e dovere) di gestione della società ai
(soli) fini della conservazione del suo patrimonio, potrebbe ritenersi che –
rimosso ogni automatismo – l’onere della prova di chi agisce in
responsabilità si estenda alla circostanza che la continuazione della
gestione non era funzionale allo scopo conservativo e che essa ha invece
arrecato pregiudizio; e i singoli atti posti in essere andranno valutati nel
quadro complessivo di un giudizio di congruità dell’attività produttiva rispetto
alle finalità conservative del patrimonio e ai profili di complessiva
economicità nella realizzazione dell’attivo. Inoltre, e sotto altro profilo, in
considerazione dei nuovi artt. 2381/3 e 2392/2, andrà attentamente valutata
la posizione dell’amministratore privo di deleghe di poteri, come tale
meno in grado di percepire con immediatezza lo “stato di salute” della
società e la situazione del patrimonio netto, non di rado rimesse ad
informative e valutazioni molto complesse (De Angelis 2002, 1460).
Secondo l’opinione preferibile, come il previgente art. 2449, anche gli
attuali artt. 2485 e 2486, in caso di omissione/ritardo negli adempimenti
pubblicitari della causa di scioglimento e di gestione non conservativa, pur
essendo
espressione
di
una
limitazione
legale
dei
poteri
degli
amministratori, non comportano una compressione del generale potere di
rappresentanza, sicché va tuttora ritenuta la validità ed efficacia, nei
confronti della società, dei negozi posti in essere dagli amministratori.
64
65
L’estraneità dell’atto rispetto al profilo conservativo della gestione potrà
essere opposta solo nei limiti generali posti dagli artt. 2384/2 e 2475 bis/2
(Rossi A. 2005b, 2191). Del pari, si ritiene che vincoli la società anche
l’operazione non funzionale alla liquidazione che venga compiuta dagli
amministratori dopo la pubblicazione della causa di scioglimento, sempre in
forza del generale potere di rappresentanza (Vaira 2004, 2064).
4.4.
Altri adempimenti
Senza alcuna pretesa di completezza, vanno ricordati alcuni ulteriori
obblighi o divieti incombenti in capo agli amministratori, la cui violazione può,
in particolare, essere suscettibile di esporli a responsabilità civile: il divieto di
emissione delle azioni prima dell’iscrizione della società nel registro delle
imprese; l’obbligo di riesame della stima in caso di conferimenti in natura; il
richiamo dei decimi (oggi centesimi) mancanti; l’obbligo di iscrizione a libro
soci dei nuovi soci o, al contrario, il divieto di annotazione dei trasferimenti
attuati in contrasto con clausole statutarie limitative della libera cessione; il
rispetto dei diritti di opzione e prelazione in caso di aumenti di capitale o di
recesso del socio; l’obbligo di dare pubblicità ad atti sociali (es. nomina o
cessazione da cariche, delibere di assemblee straordinarie) e/o di indicare
nella corrispondenza i prescritti dati sociali (ammontare del capitale, titolarità
unica dello stesso, soggezione a direzione e coordinamento); il divieto di
accordare prestiti o di fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione delle
partecipazioni e (talora) di rimborsare i finanziamenti rientranti nell’art. 2467.
In tutti questi casi, così come negli altri non ricordati, chi agisce in
responsabilità deve provare non solo l’inadempimento (doloso o colposo)
dell’amministratore, ma anche il danno che all’attore ne sia conseguito in via
65
66
immediata e diretta, potendosi presumere (in caso di azione contrattuale) il
carattere doloso e colposo della sua mala gestio ma non i danni conseguiti.
4.4.1. La restituzione dei finanziamenti ”anomali” dei soci
All’evidente scopo di introdurre una regolamentazione limitativa del
diffuso fenomeno della sottocapitalizzazione nominale (che si verifica, per
lo più nelle piccole società di capitali a base familiare, allorché gli apporti dei
soci non sono integralmente sottoposti al regime vincolistico del capitale
sociale e sono quindi restituibili durante societate), l’art. 2467 prevede che
<il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato
rispetto alla soddisfazione degli altri creditori>. La postergazione opererà in
presenza (alternativa) di due circostanze, consistenti nell’eccessivo squilibrio
dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto o in una situazione finanziaria
nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento: ricorrendo (almeno)
una di queste condizioni, il <finanziamento> dei soci (inteso in senso lato)
viene <trattato come un conferimento”> (Lolli 2005, 1806). Inoltre, la norma
prevede la ripetibilità del rimborso <se avvenuto nell’anno precedente al
fallimento della società>.
Molte sono le problematiche sollevate dal nuovo istituto: in questa
sede, esse rilevano perché la mancata postergazione in una situazione di
pendente squilibrio può comportare la responsabilità degli amministratori
che abbiano dato corso alla restituzione del finanziamento “anomalo”.
Ci si interroga, in primo luogo, sul significato della nozione di
“eccessivo squilibrio” tra capitale proprio e capitale di terzi, facendosi
riferimento all’art. 2412 (Salafia 2005, 1079) ovvero agli indici di bilancio
tipici della struttura finanziaria e patrimoniale elaborati dalla dottrina
66
67
aziendalistica (Irrera 2004, 1791). Pure il criterio della “ragionevolezza” del
conferimento appare non facilmente identificabile fuori dalle ipotesi sopra
esaminate: si prospetta il caso che il finanziamento serva non già a superare
momenti di crisi ma ad assecondare programmi di sviluppo della società
(Scano 2004, 396).
Per altro verso, occorre chiedersi se la postergazione ex lege trovi
applicazione anche durante la vita della società ovvero esclusivamente in
pendenza di una procedura concorsuale o di liquidazione volontaria. In
proposito, ad una concezione ”sostanzialistica” (minoritaria in dottrina, ma
apprezzabile per la sua coerenza rispetto alle finalità della norma), che
sottolinea l’interesse della società (e dei suoi creditori), sinché perdura la
situazione di sottocapitalizzazione, a non subire la privazione di risorse
ormai acquisite all’esercizio dell’attività d’impresa (Rescigno 2005, 15;
Rordorf
2004,
Quest’ultima,
547),
nella
si
sua
contrappone
versione
una
radicale,
tesi
rileva
“processualistica”.
che
<il
termine
postergazione deve essere inteso nel suo senso tecnico, vale a dire di
graduazione che opera in un contesto di concorso caratterizzato dalla
necessità di dar corso ad un soddisfacimento dei crediti> sulla base delle
legittime cause di prelazione: e, quindi, la postergazione opererebbe solo in
sede di procedura concorsuale liquidatoria o in pendenza di esecuzione
individuale (Mandrioli 2006, 177; Carestia 2003, 79). Altri autori (Irrera 2004,
1794; Bonfatti 2004, 311) bene aggiungono che l’operatività della
postergazione si avrebbe non solo in sede esecutiva (individuale o
concorsuale), ma anche di liquidazione volontaria.
67
68
Occorre inoltre segnalare la necessità di coordinamento tra l’art.
2467 c.c. e l’art. 65 l. fall. (Bonfatti 2004, 312; Mandrioli 2006, 179), nonché
la possibile rilevanza della restituzione del prestito postergato ai sensi del
precetto penale di cui all’art. 216/3 l. fall. (con la conseguente responsabilità,
anche patrimoniale, dell’amministratore che lo abbia disposto).
Resta da aggiungere che, secondo un orientamento (Portale 2003,
681; Irrera 2004, 1796; Rescigno 2005, 15), la norma dell’art. 2467,
ancorché dettata in tema di s.r.l., rappresentando un principio generale di
diritto dell’impresa (come tale transtipico ed estensibile a tutte le società di
capitali), è suscettibile di applicazione anche alla s.p.a. o quanto meno – la
precisazione pare opportuna (Lolli 2005, 1809) – alle sole s.p.a. a ristretta
ed omogenea base azionaria, laddove altro (più persuasivo) orientamento
(Bartalena 2003, 399; Scano 2004, 406) esclude tali esiti estensivi, ponendo
in evidenza le diversità sia delle strutture finanziarie che delle regole di
governance nella s.p.a. e nella s.r.l. (diversità che sono sottese alla scelta
del legislatore di enunciare la regola solo per quest’ultima, oltre che in caso
di <direzione e coordinamento> alla luce del richiamo di cui all’art. 2497
quinquies, stante la possibilità di analoghe condotte opportunistiche del
socio di controllo nell’ambito dei gruppi).
5.
I soggetti responsabili e la solidarietà
Anche nel nuovo assetto normativo, e fermo quanto s’è detto supra §
2.5.1, 2.5.2 e 2.5.4 circa i rapporti tra organi delegati e organi deleganti, gli
obblighi e i divieti previsti dalla legge per gli amministratori gravano su
ciascuno di essi, derivandone responsabilità solidale (così, esplicitamente,
gli artt. 2392, 1° e 2° co., nonché 2476, 1° co.) per i danni provocati (salvo il
68
69
regresso interno). Venuto meno l’obbligo generale di vigilanza e fermo
l’obbligo di agire informato (nei limiti di cui supra § 2.5.3), la presenza (ma
solo se consentita dai soci: supra § 2.5.4) di una delega
determina una netta differenza di responsabilità degli amministratori delegati
rispetto a quella dei consiglieri deleganti: non solo, infatti, la responsabilità
deriva dalla violazione colposa o dolosa dei rispettivi doveri (v. art. 2392/1)
(…), ma l’art. 2392/1 esclude, per le attribuzioni delegate, la responsabilità
solidale degli amministratori senza delega.
(Bonelli 2004, 46)
Ciò dimostra che (anche nel precedente regime, ma ancor più
marcatamente nell’attuale) la responsabilità degli amministratori non è
connessa al fatto in sé dell’appartenenza all’organo di gestione, bensì
all’effettivo contributo prestato all’atto generativo del danno. In equivalenti
termini, la solidarietà in capo agli amministratori fa <salva la possibilità di
provare – trattandosi di responsabilità per colpa e fatto proprio – di
essere immuni da colpa> (così la Relazione al d. lgs. di riforma: § 6.III,4). E’
stato dunque precisato che, in regime di delega, la responsabilità solidale
degli amministratori senza delega
sussiste solo: (i) per le materie non delegate o non delegabili; (ii) per le
materie che, anche se delegate, siano state portate all’esame del consiglio;
iii) per gli inadempimenti commessi dagli stessi amministratori senza delega
(v. gli obblighi imposti dall’artt. 2381/3 e 6, espressamente richiamato
dall’art. 2392/2); iv) per l’ipotesi in cui essi, ‘essendo a conoscenza di fatti
pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il
69
70
compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose’ (art.
2392/2).
(Bonelli 2004, 190)
Salve le eccezioni normativamente previste, nel regime previgente la
regola della responsabilità solidale degli amministratori verso l’esterno, cioè
nei confronti del danneggiato ai sensi dell’art. 2055 (e quindi a prescindere
dalle graduazioni interne, rilevanti ai soli fini del regresso), è stata
interpretata da dottrina e giurisprudenza in termini rigorosi. Su questa
problematica, è opportuno segnalare il suggerimento (allo stato isolato) di
una acuta dottrina secondo la quale, alla luce della riforma ed in particolare
in virtù dei riferimenti normativi alle <funzioni in concreto attribuite> al
singolo
consigliere,
alla
<natura
dell’incarico>
e
alle
<specifiche
competenze> (art. 2392/1), sarebbe possibile e necessario cogliere
diversamente la responsabilità di ciascun consigliere <con riferimento alla
vicinanza/lontananza del singolo inadempimento dannoso rispetto al suo
ambito di competenze professionali>. Di modo che
la nuova norma suggerisce la possibilità di scindere le responsabilità degli
amministratori anche sul piano esterno, e non solo sul piano interno del
regresso tra i coobligati; e questa scissione potrebbe poi, coerentemente,
portare anche ad una diversa quantificazione del danno risarcibile cui
ciascuno dei consiglieri venga ad essere esposto. (…) Di ciascun fatto che
costituisce violazione degli amministratori dell’obbligo di gestire bene
l’impresa si dovrebbe verificare l’imputabilità non solo al consiglio di
amministrazione nella sua interezza, ma anche a ciascun componente del
70
71
consiglio. E sarebbe possibile che un certo fatto dannoso risulti imputabile
solo ad alcuni dei componenti del consiglio, e non imputabile ad altri.
(Di Cataldo 2004, 649)
In
questa
prospettiva,
la
previsione
legale
della
solidarietà
assumerebbe un valore residuale, cioè continuerebbe a valere come regola
presuntiva, da applicarsi ogni volta che l’amministratore (sul quale grava il
relativo onere probatorio) non provasse una effettiva diversificazione del
proprio ruolo o delle proprie competenze.
5.1. L’amministratore subentrante, assente e dimissionario
L’assunzione di responsabilità si radica a partire dal momento
dell’assunzione della carica e, in linea di principio, non ha effetto retroattivo,
ma
gli amministratori sono responsabili se omettono di rilevare e di porre
rimedio alle irregolarità compiute da amministratori precedenti.
(Trib. Milano 8.10.02, GI, 2002, 798)
Del pari, l’amministratore di una società che, succedendo ad altro
amministratore e ricevendo una gestione affetta da gravi irregolarità, ometta
del tutto di informare l’assemblea dei soci, è responsabile non già dell’attività
dei precedenti gestori che hanno realizzato le irregolarità, ma della propria
colpevole omissione (Cass. 23.2.05, n. 3774, Soc, 2006, 188; Cass. 27.2.02,
n. 2906, FI, I, 3156).
L’amministratore assente dalla seduta consiliare che ha assunto la
scelta pregiudizievole, stante il suo obbligo di agire in modo informato, deve
comunque attivarsi per impedire l’atto dannoso o per attenuarne le
conseguenze (Conforti 2003, 87).
71
72
In termini analoghi va affrontato il tema dell’amministratore
dimissionario. L’amministratore è libero di dimettersi e quindi le dimissioni
non integrano di per sé un fatto generatore di responsabilità (App. Milano
12.11.93, FI, 1994, I, 1904), ma esse non possono sostituire l’adempimento
ai propri obblighi, in primo luogo quello di intervento rispetto a irregolarità
pregresse e apprese nella vigenza della carica.
5.2.
L’amministratore di fatto
Per lungo tempo è prevalsa la tesi che gli obblighi e le responsabilità
civili dell’amministratore (in quanto derivanti dall’inosservanza dei doveri
inerenti al potere di gestione e di rappresentanza organica) non
conseguissero al mero esercizio delle funzioni, ma postulassero appunto
l’instaurarsi di un rapporto organico con la società, cioè un’investitura
assembleare seppur invalida o implicita (Cass. 12.1.84, n. 234, GCo, 1985,
II, 182); sicché l’extraneus che si fosse ingerito nella gestione sociale senza
il consenso dell’assemblea avrebbe risposto dei danni arrecati ex art. 2043.
Tale impostazione – non condivisa in dottrina (Bonelli 1992, 126 ss.;
Abriani 1998, 193 ss.) - è stata abbandonata dalla Suprema Corte, che ha
finito per riconoscere che l’instaurarsi di <rapporti contrattuali di fatto> si
desume dalla disciplina di cui agli artt. 2028 ss., che, pur dando luogo ad
un’ingerenza non autorizzata nella sfera altrui, non è dalla legge ritenuta
illegittima, ma, al contrario, rispondente ad un interesse meritevole di tutela
e rientrante tra quei <fatti> giuridici, privi in quanto tali di natura negoziale,
annoverati dalla stessa legge tra le <fonti> dell’obbligazione (art. 1173).
Non vi è quindi motivo di ritenere che il sorgere degli obblighi inerenti
all’amministrazione della società abbia come presupposto ineliminabile la
72
73
nomina, sia pure irrituale, dell’amministratore da parte dell’assemblea e che,
in difetto di tale presupposto, l’attività del gestore non autorizzato avrebbe
rilievo solo sul piano della responsabilità aquiliana: gli artt. 2028 e segg.
stanno infatti ad indicare che, nel nostro ordinamento, l’assunzione non
autorizzata della gestione di affari altrui è reputata idonea a far sorgere a
carico del gestore gli obblighi tipici di colui che, in base ad un valido
contratto, tale incarico ha ricevuto dall’interessato, e, quindi, di situazioni
giuridiche la cui violazione assume rilievo sul piano della responsabilità
contrattuale.
(Cass. 6.3.99, n. 1925, Soc, 2001, 810)
Ne consegue che, anche nell’ambito del diritto privato, come in quello
del diritto penale e amministrativo (artt. 135 e 136 d. lgs. 385/93; artt. 190 e
193 d. lgs. 58/98; art. 11 d. lgs. 472/97), ai fini della qualificazione di un
soggetto come amministratore di fatto, e della estensione nei suoi confronti
delle norme in tema di responsabilità degli amministratori di società di
capitali, occorre verificare se l’attività svolta in concreto abbia o meno
comportato l’esercizio di poteri di gestione, indipendentemente dalla
qualificazione istituzionale formalmente assunta (Cass. 27.2.02, n. 2906, GI,
2002, 1424; conforme, Cass. 14.9.99, n. 9795, GCo, 2002, II, 168).
In coerenza con la previsione penale dell’art. 2639, come modificato
dal d.lgs. 61/02, la figura dell’amministratore di fatto presuppone che le
funzioni gestorie svolte in concreto abbiano carattere continuativo e
significativo e non si esauriscano nel compimento di atti di natura
eterogenea ed occasionale (così ancora Cass. 9795/99).
5.3.
I soggetti esercitanti attività di direzione e coordinamento
73
74
L’art. 2497 detta la disciplina della responsabilità nell’ambito del
gruppo di società per l’esercizio di attività di direzione e coordinamento <in
violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale>. Si
tratta, in primo luogo, di definire i criteri di <corretta gestione> cui la norma
fa riferimento e, in secondo luogo, di individuare la posizione degli
amministratori delle società interessate.
Sotto il primo aspetto, si è esattamente evidenziata la correlazione
con la nozione (pur non identica) di <principi di corretta amministrazione>
(che, oltre che nell’art. 2403, sono richiamati nell’art. 149 t.u.f. per le società
quotate). In tale prospettiva, da un lato, rimarrebbe ferma la business
judgement rule, dovendosi valutare non già il merito della scelta gestionale,
ma il metodo; dall’altro lato, il sindacato effettuato sarebbe di tipo sintetico,
riguardando la complessiva attività di direzione e coordinamento più che i
singoli atti atomisticamente considerati. Inoltre, è necessaria una lettura
globale delle varie prescrizioni contenute nell’art. 2497/1, che richiamano sia
gli interessi tutelati (integrità del patrimonio, redditività e valore delle
partecipazioni), sia appunto i risultati complessivi della gestione (secondo la
teoria dei vantaggi compensativi: supra § 3.3). Sulla base di queste
premesse, si è detto che
la corretta amministrazione del gruppo, con riferimento alla direzione
unitaria ed al coordinamento delle società controllate, consiste nella
individuazione, per ciascuna strategia od operazione, del punto di equilibrio
fra gli interessi delle controllate e della capogruppo, punto di equilibrio che
può definirsi come la situazione in cui convergano gli interessi di tutte le
74
75
società coinvolte (…) con possibilità di soddisfazione, anche se di entità,
scadenza e qualità diverse, per tutte le società.
(Salafia 2003b, 395)
Ciò significa che il rispetto dei principi di corretta gestione societaria
ed imprenditoriale nell’ambito della direzione unitaria esclude che possano
perseguirsi “politiche di gruppo” che impediscano stabilmente l’equa
remunerazione del capitale di una controllata o deprezzino in modo
significativo il valore di scambio delle partecipazioni al suo capitale. Per
contro, sono ammissibili compressioni temporanee della redditività e del
valore della singola partecipazione se compensate da vantaggi pregressi o
futuri.
Ancorché il 1° co. dell’art. 2497 contempli la responsabilità per
scorretta gestione solo delle società (o degli enti) che esercitano la direzione
e
il
coordinamento,
nessuno
dubita
che
rispondano
anche
gli
amministratori della holding che hanno dato corso all’eterodirezione in
termini illegittimi: ciò ex art. 2043 oppure in virtù della previsione estensiva
del 2°co. dell’art. 2497 che aggancia la responsabilità solidale di <chi abbia
comunque preso parte al fatto lesivo>: e quindi, oltre agli amministratori
della capogruppo, anche i suoi soci, quanto meno nei limiti del vantaggio
conseguito ai sensi dell’ultima parte dell’art. 2497/2 (previsione normativa
che può essere correlata alla disposizione dell’art. 2476/7: Rescigno 2003,
332). Secondo l’opinione preferibile (Galgano 2004, 175), l’abuso di direttiva
si ricollega ad una mera situazione di fatto inerente <alla forza persuasiva o,
se del caso, dissuasiva> derivante dal rapporto di controllo e implica sempre
una condotta commissiva (contra, Dal Soglio 2005, 2336).
75
76
Mentre l’amministratore della controllata, che abbia partecipato o
consentito all’eterogestione scorretta, risponderà nei confronti della società e
dei creditori secondo le regole di cui agli artt. 2392 e 2394, stante l’obbligo
(vigente anche nel sistema ante riforma) di vagliare le direttive impartite
dalla capogruppo e di disattendere quelle non conformi ai principi di corretta
gestione. Problematica si prospetta poi la responsabilità degli amministratori
della controllata nei confronti dei soci di questa: secondo taluno (Badini
Confalonieri 2004, 2169), la responsabilità discenderebbe dall’art. 2497/2 e
non vi osterebbe la previsione dell’art. 2395 (che consente l’azione
individuale del socio solo in presenza di un danno diretto), giacchè
quest’ultima limitazione riguarderebbe la società autonoma (o “isolata”) e
non già quella “di gruppo”; secondo altri (Salafia 2003b, 397), tali esiti
sarebbero invece preclusi dall’art. 2395.
Va infine segnalata la specifica responsabilità degli amministratori
della società eterodiretta in caso di mancato adempimento agli obblighi
pubblicitari previsti dall’art. 2497 bis, così come è astrattamente produttiva di
responsabilità (generale) la violazione dell’obbligo motivazionale previsto
dall’art. 2497 ter (Minervini 2006, 162).
Peraltro, al fine di evitare la sua responsabilità, l’amministratore della
controllata (in presenza di eterogestione scorretta) non potrà limitarsi ad
adempiere ai doveri di motivazione di cui all’art. 2497ter ovvero a quelli
informativi e di astensione di cui all’art. 2391, ma
andrà esente da responsabilità solo se effettivamente non avrà “preso parte
al fatto lesivo”, votando contro la delibera, facendo annotare il suo dissenso
76
77
e comunque facendo quanto in suo possesso per impedirne il compimento o
attenuarne le conseguenze dannose (arg. ex art. 2392).
(Badini Confalonieri 2004, 2169)
6.
Il danno risarcibile
La delimitazione dell’area del danno risarcibile nelle azioni di
responsabilità, promosse ai sensi degli artt. 2393, 2394, 2394 bis e 146 l.
fall., nonché degli artt. 2485-2486 (art. 2449 nel sistema previgente),
costituisce un problema molto dibattuto. L’indiscutibile principio generale è
che, ai sensi dell’art. 1223, all’amministratore che si sia reso responsabile di
condotte illecite
può essere imputato non ogni effetto patrimoniale dannoso che la società
sostenga di aver subito, ma solo quello che si ponga come conseguenza
immediata
e
diretta
della
violazione
degli
obblighi
incombenti
sull’amministratore.
(Cass. 23.2.05, n. 3774, GI, 2005, 1643; conforme: Cass. 22.10.98, n.
10488, GI, 1999, 773)
Il danno risarcibile, dunque,
è costituito dal deterioramento delle condizioni della società amministrata e
dalla dispersione quindi di quella ricchezza che essa, dedotte le passività,
avrebbe dovuto conservare ed aumentare, tenuto conto dell’obbligo primario
dei predetti [amministratori] di conservazione del patrimonio sociale e di
perseguimento del lucro, che costituisce lo scopo naturale della società.
(Patti A. 2001, 101).
Il problema si presenta, in astratto, di soluzione non particolarmente
ardua qualora gli amministratori debbano rispondere di addebiti specifici
77
78
quali, ad esempio, distrazioni o dispersioni di beni sociali, prelievi indebiti,
violazioni tributarie o previdenziali, atti posti in essere in conflitto di interessi,
singole operazioni palesemente negligenti: in questi casi, l’individuazione del
danno procede in stretta e diretta correlazione causale tra la specifica
violazione e il pregiudizio patrimoniale che da essa sia derivato.
La questione assume ben maggiore complessità quando agli
amministratori vengano imputati non singoli addebiti, ma una complessiva
mala gestio della società protratta nel tempo, ovvero l’indebita prosecuzione
dell’attività dopo la perdita del capitale sociale (artt. 2485-2486 e previgente
2449, letti assieme agli artt. 2393 e 2394) che costituisce l’ipotesi di
responsabilità più frequentemente dedotta nella prassi (nell’ambito di azioni
promosse da procedure concorsuali ex artt. 2394 bis e 146 l. fall.). In questi
casi, nel passato, la giurisprudenza ha fatto ricorso, con una certa
frequenza, ad un criterio presuntivo (o, come talvolta è stato esplicitamente
scritto, “parzialmente equitativo”), consistente nel quantificare il danno in
misura pari alla differenza tra l’attivo acquisito e il passivo accertato nel
corso della procedura concorsuale. Questo orientamento, pressoché
unanimemente contrastato in dottrina, è stato sottoposto a critica e
progressivamente ritenuto di solo residuale applicazione dapprima dalla
giurisprudenza di merito ed in seguito anche dalla Suprema Corte: in
particolare, il criterio del c.d. deficit fallimentare è stato ritenuto legittimo in
presenza di contabilità tenuta in modo irregolare e tale da impedire la
ricostruzione delle vicende societarie (Trib. Milano 7.10.05, GI, 2006, 978;
Trib. Napoli 24.4.03, Fa, 2004, 1215) oppure qualora il dissesto sia frutto
dell’intera gamma di atti posti in essere dagli organi sociali (Cass. 22.10.98,
78
79
n. 10488, GI, 1999, 773; Cass. 4.4.98, n. 3483, GI, 1999, 324; Cass.
17.9.97, n. 9252, Soc, 1998, 1025; Trib. Torino 6.5.05, GI, 2005, 1858).
All’esito di questo percorso, la S.C. è pervenuta ad un assetto che
pare conciliare razionalmente principi generali, esigenze equitative e tutela
risarcitoria, ritenendo in primo luogo che
l’identificazione automatica del danno imputabile all’illegittima condotta di
amministratori e sindaci con la differenza tra attività e passività accertate in
sede
concorsuale
sia
concettualmente
insostenibile.
Lo
sbilancio
patrimoniale di una società insolvente, infatti, può avere (e per lo più ha)
cause molteplici, non necessariamente tutte riconducibili al comportamento
illegittimo dei gestori e dei controllori della società. (…) I principi da cui è
retto il risarcimento del danno civile impongono, del resto, l’individuazione di
un preciso nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui taluno è
chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nell’altrui
sfera giuridica, e richiedono che di tale nesso sia fornita la prova da parte di
chi il risarcimento invoca. Un automatismo del genere di quello sopra
prospettato, quindi, non solo conduce a risultati che empiricamente paiono
per lo più poco rispondenti all’effettiva realtà dei fatti, ma soprattutto si pone
in insanabile contraddizione con i principi dianzi richiamati.
(Cass. 8.2.05, n. 2538, GI, 2005, 1642)
Peraltro, la Corte ha aggiunto che il criterio del deficit fallimentare, se
non può rappresentare un’automatica modalità di quantificazione del danno,
può tuttavia soccorrere,
in guisa di parametro cui ancorare una liquidazione in via equitativa, una
volta accertata l’impossibilità di ricostruire i dati in modo così analitico da
79
80
individuare le conseguenze dannose dei singoli atti illegittimi imputati ad
amministratori e sindaci della società. (…) Occorre però pur sempre che,
per evitare una surrettizia reintroduzione di un criterio che di per sé si è già
visto non essere logicamente idoneo ad identificare in modo soddisfacente il
danno risarcibile, il giudice di merito dia in proposito una puntuale
motivazione: sia in ordine all’effettiva impossibilità di addivenire ad una
ricostruzione (magari non completa e del tutto puntuale, ma almeno
sufficientemente
approssimativa)
degli
specifici
effetti
pregiudizievoli
procurati al patrimonio sociale dall’illegittimo comportamento degli organi
della società (…); sia, comunque, in ordine alla plausibilità logica, in
rapporto alle specifiche caratteristiche del caso in esame, dell’imputazione
causale a detto comportamento dell’intero sbilancio patrimoniale della
società.
(Cass. 15.2.05, n. 3032, FI, 2006, I, 1913)
Quindi, il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare può
continuare ad essere utilizzato solo in via suppletiva e nell’ambito di
un’adeguata struttura motivazionale nel senso precisato dalla Corte.
In questo contesto, già da tempo la dottrina e la giurisprudenza più
avvedute avevano affrontato il problema della quantificazione del danno
nell’azione promossa nell’ambito di procedure concorsuali nei confronti degli
organi sociali per il risarcimento dei danni derivanti dall’illecita prosecuzione
dell’attività in luogo della messa in liquidazione. Si è quindi pervenuti
all’adozione del criterio, valido tanto nel previgente quanto nell’attuale
regime normativo, del differenziale dei netti patrimoniali.
80
81
In
virtù
della
comparazione
delle
situazioni
di
netto
patrimoniale
determinate, previa la (quasi sempre) necessaria riclassificazione dei
bilanci, alla data di doverosa percezione della perdita rilevante del capitale
da parte degli amministratori (e dei sindaci) ed alla data di dichiarazione di
fallimento o, nel caso di minor durata in carica, di cessazione della stessa
(con necessità quindi di un’articolata elaborazione di situazioni patrimoniali
(…) da demandare al C.T.U. contabile officiato), esso bene coglie la
formazione
del
danno
dipendente
dalla
progressione di un’attività
imprenditoriale non consentita.
(Patti A. 2001, 114)
Questo criterio ha trovato fortuna anche in giurisprudenza. Si è quindi
statuito che in caso di dichiarazione di fallimento, ai fini della quantificazione
del danno cagionato dagli amministratori per aver intrapreso nuove
operazioni dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, nel
quadro di una valutazione equitativa
possono essere presi come parametri di riferimento il bilancio anteriore allo
svolgimento dell’attività vietata e quello fallimentare, rettificando il primo in
modo da far emergere la perdita e attribuendo il saldo a titolo di
responsabilità o, con miglior comprensione, possono essere messi a
confronto i netti patrimoniali dei due momenti rilevanti, facendo così rientrare
nel danno non solo il risultato negativo delle singole operazioni, ma anche il
pregiudizio che la società ha subito per effetto della ritardata liquidazione.
(Trib. Milano 11.11.02, Soc, 2003, 1018; conformi: Trib. Milano 7.2.03, Soc,
2003, 1385; Trib. Milano 8.10.01, GI, 2002, 795; Trib. Genova 24.11.97, Fa,
1998, 843)
81
82
7.
Cause di estinzione della responsabilità
L’art. 2393, ult. co., parzialmente modificato dalla riforma, detta
alcune previsioni comuni alla rinuncia e alla transazione dell’azione sociale
di responsabilità della s.p.a. Entrambe devono essere <approvate con
espressa deliberazione dell’assemblea> (pertanto, non v’è spazio per
manifestazioni di volontà implicite o tacite). Inoltre, non vi deve essere il voto
contrario di una minoranza qualificata dei soci (un quinto per la s.p.a.
“chiusa”; un ventesimo per la s.p.a. che faccia ricorso al mercato del capitale
di rischio). Sussiste quindi un diritto di veto in capo ai possessori di una
percentuale del capitale pari a quella necessaria per esperire l’azione
sociale di minoranza: questa perfetta coincidenza è all’evidenza necessaria
per evitare che la maggioranza possa frustrare il diritto della minoranza
qualificata all’azione di responsabilità. Occorre aggiungere che la rinunzia è
possibile
anche
in
caso
di
azione
di
responsabilità
proposta
dall’amministratore giudiziario (così il novellato art. 2409/5): previsione
questa discutibile, quanto meno in ragione della diversità (per le società
“chiuse”) della percentuale del capitale necessario per il veto rispetto a
quella (inferiore) richiesta per la denuncia al tribunale (Dalmotto 2004, 822).
Queste disposizioni normative in tema di rinuncia e transazione
trovano applicazione, ex art. 2393 bis, ult. co., anche all’azione sociale
esercitata dai soci. Tuttavia, in quest’ultima ipotesi, fermo restando che il
vantaggio patrimoniale consegue a favore della sola società, titolari della
facoltà di rinuncia e di transazione sono <i soci che hanno agito> in
sostituzione (6° co.): ma contro l’interpretazione letterale, Silvestrini 2004,
685, <non potendosi riconoscere al sostituto di rinunciare ad un diritto (o
82
83
transigere su un diritto) di cui non è titolare>. Nell’azione esercitata dalla
società è invece solo quest’ultima che potrà rinunciare o transigere, nelle
forme e nei termini di cui s’è detto. Gli statuti possono derogare, per la
legittimazione all’esercizio dell’azione sociale di minoranza, alla misura della
partecipazione al capitale prevista dall’art. 2393 bis, 1° e 2° co., con effetti
che si riflettono specularmente anche per la rinuncia e per la transazione
(art. 2392, ult. co., ult. parte).
Per la s.r.l., l’art. 2476/5 richiede il consenso alla rinuncia o alla
transazione di almeno i due terzi del capitale e la non opposizione di almeno
il decimo del capitale stesso. La differenziazione del regime rispetto alla
s.p.a. appare finalizzata ad una maggior tutela della prerogativa dei soci
della s.r.l. di agire individualmente in responsabilità (art. 2476/3). Ma la
norma sta a significare che, in ultima analisi, titolare del diritto incomprimibile
all’azione non è ciascun socio, bensì solo la minoranza qualificata del 10%:
il socio che detenga una minor partecipazione, infatti, si troverà sempre
esposto all’eventualità della rinuncia o della transazione, da parte della
maggioranza (a condizioni rispetto alle quali non potrà interloquire, salve le
ipotesi dell’abuso), dell’azione di responsabilità che egli abbia promosso.
L’autonomia statutaria (art. 2476/5) può introdurre maggioranze rafforzative
(non indebolitrici, si deve ritenere) delle prerogative dei soci di minoranza. A
differenza di quanto previsto in tema di s.p.a. dall’art. 2393 bis/6, e stante
l’esplicita disposizione dell’art. 2476/5, l’azione di responsabilità <può essere
oggetto di rinuncia e transazione da parte della società> e non anche dei
soci che l’hanno proposta (Salafia 2003a, 9; Ambrosini 2004, 298).
83
84
Non v’è dubbio che se l’amministratore convenuto in responsabilità è
anche socio, il problema del suo conflitto di interessi nella decisione relativa
alla rinuncia o alla transazione si pone e va risolto negli stessi termini che
riguardano la delibera sociale di promozione dell’azione: sicché egli deve
necessariamente astenersi dal voto (e non varrebbe a togliere il conflitto
l’intestazione delle azioni o delle quote del socio amministratore ad una
società fiduciaria: Trib. Reggio Emilia 20.12.02, GI, 2003, 953).
La rinuncia (così come la transazione) effettuata dal legale
rappresentante della società senza la preventiva deliberazione sociale
è affetta non da mera inefficacia, secondo la disciplina dell’atto posto in
essere dal rappresentante senza poteri, ovvero da mera annullabilità, in
base alle regole sul difetto di capacità a contrarre, ma da nullità assoluta e
insanabile, deducibile da chiunque vi abbia interesse e rilevabile d’ufficio.
(Cass. 1.10.99, n. 10869, Soc, 2000, 432)
7.1.
Problematiche particolari in tema di rinuncia
Non è raro riscontrare nella prassi, specie in occasione del
mutamento del gruppo di controllo, l’adozione di decisioni assembleari di
rinuncia all’azione di responsabilità (sociale) in termini generici, cioè non
riferiti a fatti specifici e descritti, per lo più in forma di “manleva” o ratifica
indeterminata. Nonostante la diffusione di questo fenomeno, è opinione
unanime che
la condizione indispensabile perché la decisione dell’assemblea [in materia
di rinuncia o transazione] possa produrre i propri effetti è che tale decisione
sia determinata nelle ragioni di credito delle quali s’intende disporre e che
84
85
sia preceduta da un’adeguata (secondo un criterio di ordinaria diligenza)
evidenziazione ed illustrazione dei fatti di gestione illeciti.
(Benazzo 1992, 316)
Ciò, si aggiunge, in ragione della ineludibile determinatezza o
determinabilità (art. 1346) del negozio di rinuncia e della necessità che
l’assemblea sia in grado di compiere una valutazione compiuta e
consapevole. Ne consegue che
appare corretto concludere che ai fini della validità di una deliberazione a cui
si intenda attribuire efficacia dispositiva dell’azione di responsabilità sociale,
non sia sufficiente una generica rinuncia
(Trib. Milano 16.1.95, Gius, 1995, 3752)
e che, quindi, la delibera di manleva per l’attività svolta dagli
amministratori
non può intendersi nel senso di rinuncia all’azione di responsabilità, in
considerazione del suo contenuto generico. (…) Al fine di attribuire efficacia
dispositiva liberatoria e di rinuncia all’azione sociale di responsabilità
occorre infatti la specifica e concreta determinazione degli episodi di
amministrazione integranti l’eventuale pretesa risarcitoria.
(Trib. Milano 10.2.00, GCo, 2001, II, 327)
Si è anche precisato che
le considerazioni che precedono portano ad escludere l’ammissibilità della
rinuncia all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità in via preventiva,
anteriormente, quindi, all’emersione dei fatti di mala gestio, proprio perché in
tal caso sarebbe impossibile individuare con esattezza le operazioni
85
86
pregiudizievoli che determinino l’insorgere della responsabilità degli
amministratori.
(Franchi 2005, 729; conforme: Trib. Milano 10.2.00, GCo, 2001, II, 327)
Prima della riforma si discuteva degli effetti, in termini di esonero
della responsabilità, della delibera assembleare che preventivamente
autorizzasse gli amministratori a compiere l’operazione poi rivelatasi
dannosa, ovvero la ratificasse posteriormente: gli art. 2364/1 n. 5 e 2476/7
hanno ora normato la fattispecie, in termini di perdurante responsabilità degli
amministratori.
Nella disciplina della s.r.l. non è prevista la necessità del carattere
<espresso> della deliberazione di rinuncia e transazione. I principi generali
sopra esposti portano ad escludere che la mancata previsione possa
incidere sull’oggetto della manifestazione di volontà, legittimando cioè
l’esonero da responsabilità con decisione generica e non riferita a specifiche
operazioni; fermo restando che, sotto il diverso profilo delle modalità di
esternazione, l’art. 2479/3 richiede in ogni caso che risulti documentalmente
<con chiarezza l’argomento oggetto della decisione ed il consenso alla
stessa>.
Fattispecie parzialmente diversa è quella del patto con cui un socio
si impegna a non esprimere in assemblea voto favorevole all’esperimento
dell’azione di responsabilità nei confronti di taluni degli amministratori.
Questo patto, in quanto assuma funzione abdicativa all’esercizio del diritto di
voto in presenza dei presupposti per l’azione di responsabilità (e non già di
mera presa d’atto dell’insussistenza dei medesimi), è affetto da nullità
giacché il suo contenuto
86
87
ponendo un conflitto di interessi tra il terzo e la società (e quindi tra la
società e i soci, che dell’interesse confliggente del terzo si sono fatti
portatori nel negozio in esame), comporta condotte contrarie a finalità
imposte dal modello legale. (…) Se, quindi, il socio non può esercitare il
diritto di voto in conflitto con l’interesse sociale, a maggior ragione non può
disporne, vincolandosi negozialmente ad esercitarlo, non solo per il
perseguimento dell’interesse di un terzo estraneo alla società, ma
soprattutto per il contrasto con l’interesse della società. (…) nessun rilievo
può assumere la ristretta base della compagine sociale o della comunione di
interessi tra i soci, così come nessun rilievo può conferisrsi al fatto che con il
patto si erano vincolati tutti i soci della società.
(Cass. 27.7.94, n. 7030, GCo, 1997, II, 102; conforme Cass. 1.10.99, n.
10869, Soc, 2000, 433)
Occorre aggiungere che, ove si accertasse un collegamento
negoziale tra il patto di rinuncia all’azione e altri eventuali accordi contrattuali
cui tale patto accedesse (ad esempio, la cessione della partecipazione) in
modo da far ritenere sussistente un’inscindibile finalità complessiva, la nullità
del primo potrebbe riverberarsi sull’esistenza e permanenza dei secondi
(Cass. 1.10.99, n. 10869, Soc, 2000, 433; Bonelli 2004, 198). In questo
ambito problematico, ci si può inoltre domandare se il patto abdicativo possa
– anche in forza dell’art. 1424 – altrimenti vincolare ed esporre quindi la
parte inadempiente alla sanzione risarcitoria (in questo senso, Franchi 2005,
738).
7.2.
Problematiche particolari in tema di transazione
87
88
Qualora l’azione di responsabilità trovi esito in una transazione solo
con alcuni degli amministratori, si pone il problema della possibilità che gli
altri, condebitori solidali, si avvalgano della facoltà di profittare del negozio
transattivo ai sensi dell’art. 1304. Per evitare questa eventualità (che
precluderebbe l’azione anche nei confronti dei condebitori che abbiano
profittato della transazione), la società, nell’atto deliberativo, dovrà
specificare che la transazione stessa è limitata alla sola quota interna
dell’amministratore stipulante. Infatti,
la disposizione di cui all’art. 1304 del cc, in forza della quale la transazione
fatta dal creditore con uno dei debitori in solido giova agli altri che dichiarano
di volerne profittare, si riferisce solo alla transazione stipulata per l’intero
debito solidale e non è quindi applicabile quando la transazione è limitata
alla sola quota interna del debitore che la stipula.
(Cass. 3.7.01, n. 8991, GCM, 2001, 1319)
Ne discende che
quando l’oggetto del negozio transattivo sia limitato alla quota interna del
debitore stipulante, si riduce l’intero debito dell’importo corrispondente alla
quota transatta con il conseguente scioglimento del vincolo solidale fra lo
stipulante e gli altri condebitori, i quali pertanto rimangono obbligati nei limiti
della loro quota.
(Cass. 27.3.99, n. 2931, GCM, 1999, 691; conformi: Salafia 2001, 1193;
Bonelli 2004, 199)
Quindi, il petitum nei confronti degli altri amministratori convenuti in
responsabilità andrà ridotto non già di importo pari al prezzo della
transazione, ma in misura corrispondente alla quota che avrebbe fatto carico
88
89
al condebitore transigente nei rapporti interni con gli altri (Cass. 17.5.2002,
n. 7212, GCM, 2002, 861) e che si presume eguale ex art. 2055/3.
7.3.
La prescrizione
L’art. 2393/3 novellato prevede che l’azione sociale di responsabilità
<può
essere
esercitata
entro
cinque
anni
dalla
cessazione
dell’amministratore dalla carica>. Nonostante qualche opinione contraria
(Dalmotto 2004, 799), non pare potersi dubitare che, come nel regime
antevigente, si tratti di un termine non già di decadenza, ma di prescrizione
(Picciau 2005, 591; Nazzicone 2003b, 196): da un lato, infatti, manca
un’esplicita previsione nel primo senso (che sarebbe necessaria, giacché la
decadenza costituisce fattispecie eccezionale); dall’altro, la norma non può
non coordinarsi con il sistema e quindi con gli artt. 2941 n.7, 2949, 2409
sexies.
Ci si è chiesti, allora, se con la nuova previsione normativa il
legislatore della riforma abbia inteso introdurre ex professo un elemento di
certezza circa il dies a quo della prescrizione dell’azione sociale: di tal che, il
quinquennio decorrerebbe sempre e solo dalla cessazione della carica, a
prescindere dal momento in cui sia stato posto in essere l’illecito, si sia
verificato il danno o esso sia divenuto oggettivamente percepibile con
l’ordinaria diligenza. Una simile interpretazione, però, potrebbe pregiudicare
il diritto della società al risarcimento nell’ipotesi in cui il danno si manifesti
dopo un lasso temporale, a volte anche lungo, successivo al compimento
della condotta che lo ha cagionato: tipica l’ipotesi di omissione degli obblighi
tributari o contributivi, quando l’accertamento della violazione e la
comminatoria della sanzione e degli interessi può intervenire dopo alcuni
89
90
anni; o il caso in cui l’amministratore concluda contratti con clienti già
rivelatisi morosi o insolventi, ove il danno può dirsi verificato soltanto al
momento in cui il credito diventi definitivamente inesigibile; e così via.
(Nazzicone 2003b, 195; conforme, Dalmotto 2004, 802)
E sarebbe in contrasto non solo con il principio generale, discendente
dall’art. 2935, in base al quale
qualora la percezione del danno non sia manifesta ed evidente, il termine di
prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito così come di
quello dipendente da responsabilità contrattuale sorge non dal momento in
cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all’altrui diritto, bensì
dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno,
divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile
(Cass. 29.8.03, n. 12666, GCM, 2003, 7-8; Cass. 9.5.00, n. 5913, GCM,
2000, 972)
ma (non è da escludere) anche con gli artt. 3 e 24 Cost., perché
consentirebbe la prescrizione del diritto prima ancora che esso possa essere
fatto giuridicamente valere. Si impone dunque un’interpretazione dell’art.
2393/3 nel senso che la prescrizione decorre dalla cessazione dall’ufficio da
parte degli amministratori, a condizione che, in quel momento, il danno si sia
già verificato e sia oggettivamente percepibile e riconoscibile (Picciau 2005,
592; cfr. anche Nazzicone 2003b, 198 e Dalmotto 2004, 801).
Per quanto attiene all’azione dei creditori sociali, la previsione del
2° co. dell’art. 2394 (che si legge assieme all’art. 2949/2) non è mutata,
sicché nel nuovo come nel precedente regime
90
91
l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci di
una società, esperibile ex art. 2394 c.c. dai creditori sociali (ovvero (…) dal
curatore fallimentare della società poi fallita, ex art. 146 l.fall.) è soggetta a
prescrizione quinquennale con decorso non già dalla commissione dei fatti
integrativi
di
tale
responsabilità,
bensì
dal
(successivo)
momento
dell’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti (…),
momento che, non coincidendo con il determinarsi dello stato di insolvenza,
ben può risultare anteriore o posteriore alla dichiarazione di fallimento.
L’onere della prova della preesistenza al fallimento dello stato di
insufficienza
patrimoniale
della
società
spetta,
poi,
al
soggetto
(amministratore o sindaco) che (…) eccepisca l’avvenuta prescrizione.
(Cass. 18.1.05, n. 941, Gco, 2005, II, 731; conformi: Cass. 22.10.04, n.
20637, Soc, 2005, 1122)
Quanto
all’azione
di
responsabilità
promossa
dal
curatore
fallimentare ai sensi degli artt. 2394 bis e 146 l. fall. (che compendia in sé
l’azione sociale e quella dei creditori sociali ed è diretta alla reintegrazione
del patrimonio della società fallita, visto unitariamente come garanzia e dei
soci e dei creditori stessi), un orientamento giurisprudenziale fa discendere
da tale premessa che
essa sorge, ai sensi dell’art. 2394, secondo comma, c.c., nel momento in cui
il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei creditori
sociali (…). Ne consegue la prescrizione quinquennale, di cui all’art. 2949,
secondo comma, c.c., decorre dal momento in cui si verifica l’insufficienza
del patrimonio sociale.
91
92
(Cass. 7.11.97, n. 10937, Fa, 1998, 697; conforme: Trib. Milano 7.2.03, Soc,
2003, 1385)
Altra opinione evidenzia invece che le due azioni ex artt. 2393 e
2394, pur se esercitate cumulativamente dal curatore ex art. 2394 bis (quale
successore ope legis nei diritti già appartenuti rispettivamente ai soci e ai
creditori), mantengono la loro distinzione e quindi i diversi regimi di
decorrenza della prescrizione loro propri (Bonelli 1991, 455; De Crescenzo
1999, 370).
8.
Azioni extracontrattuali (cenni)
La violazione degli obblighi specifici (quale, ad esempio, quello di
proseguire la gestione, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, ai soli
fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale) o, in
generale, dell’obbligo di gestione secondo diligenza espone l’amministratore
a responsabilità - oltre che nei confronti della società anche – nei confronti
dei creditori sociali, qualora da tale violazione, secondo un rapporto di
causalità (Cass. 6.12.00, n. 15487, Soc, 2001, 591), derivi un’insufficienza
patrimoniale della società rispetto al soddisfacimento dei suoi creditori (art.
2394). Va distinto il concetto di “insufficienza patrimoniale” (i.e. eccedenza
delle passività rispetto alle attività sociali) da quello di “insolvenza” (che ha
profili essenzialmente finanziari), anche se la prima è spesso correlata alla
seconda (come dimostra il fatto che anche la responsabilità specifica è, nella
prassi, azionata principalmente dal curatore dopo il fallimento della società).
Anche se la responsabilità verso i creditori sociali ha la medesima
estensione di quella verso la società, le due azioni si differenziano tra di loro:
in primo luogo, mentre l’azione sociale ha natura contrattuale, la seconda –
92
93
in assenza di un vincolo obbligatorio che lega gli amministratori ai creditori
sociali – ha natura extracontrattuale (Cass. 22.10.98, n. 10488, Soc, 1999,
557) e costituisce un’applicazione specifica della regola generale che è
posta dall’art. 2043 (Galgano 2004, 290); da qui – per inciso – la possibilità
di prospettare analoga azione dei creditori sociali nella s.r.l., pur in assenza
di una specifica previsione anche di tale tipo di responsabilità nell’art. 2476;
in secondo luogo, mentre l’azione sociale è finalizzata in via diretta alla
reintegrazione del patrimonio sociale (e solo indirettamente è esercitata
nell’interesse anche dei suoi creditori), l’azione in esame mira ad un risultato
che va direttamente a loro beneficio (i.e. pagamento, a titolo risarcitorio,
dell’equivalente del credito insoddisfatto). Ne discendono, come corollari, sia
il carattere autonomo (e non già surrogatorio) dell’azione dei creditori sociali
rispetto all’azione sociale (Cass. 22.10.98, n. 10488, Soc, 1999, 557; contra
la precedente Cass. 14.12.91, n. 13498, FI, 1992, I, 1803), sia la disciplina
che regola i rapporti tra le due azioni concorrenti: la rinunzia all’azione
sociale non preclude l’azione in esame (dato che il patrimonio della società –
che costituisce la garanzia generica dei creditori sociali - non è stato ancora
reintegrato), mentre preclusiva (salvo il rimedio dell’azione revocatoria) è la
transazione (da cui, di norma, consegue il ristoro del pregiudizio subito dalla
società).
L’incidenza diretta del danno sul patrimonio del socio o del terzo (che
è richiesta dalle formule normative sia dell’art. 2395 per la s.p.a. che dell’art.
2476 per le s.r.l.) costituisce il requisito essenziale dell’azione individuale di
responsabilità, che postula la lesione di un diritto patrimoniale del socio o del
terzo che non sia mera conseguenza del depauperamento del patrimonio
93
94
della società (Cass. 28.10.04, n. 10271, DeG, 2004, 120). Ovviamente, la
risarcibilità di tale danno presuppone una violazione dei doveri (generali o
specifici) dell’amministratore e la sussistenza di un rapporto di causalità tra
la sua condotta e l’evento lesivo (Cass. 2.6.89, n. 2685, GC, 1989, I, 2000).
Anche qui la mancanza di un vincolo obbligatorio tra amministratori e terzi (o
anche soci, ma considerati uti singuli) induce a riconoscere natura
extracontrattuale all’azione in esame (come risulta confermato dall’espressa
previsione della prescrizione quinquennale introdotta dalla riforma nel 2° co.
dell’art. 2395), il cui carattere di specialità rispetto all’azione generale di cui
all’art. 2043 è data dal rapporto tra la lesione patrimoniale e l’atto gestorio.
***
NOTA. L’elaborato è frutto di un lavoro comune. Tuttavia sono da attribuire a Ciro
Carano i § 1, 2, 2.1, 2.2, 2.2.1, 2.3, 2.5, 2.5.1, 2.5.2, 2.5.3, 2.5.4, 3, 3.1, 3.1.1, 3.2,
3.3, 3.3.1, 4, 4.1, 4.2, 4.4 e 8 e a Maurizio Consoli i § 2.4, 3.1.2, 4.2.1. 4.3, 4.4.1, 5,
5.1, 5.2, 5.3, 6, 7, 7.1, 7.2 e 7.3.
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