Giovanni Giudici Giovanni Giudici inizia la sua attività negli anni '50 e '60; per comprendere questa sua fase poetica (di cui è significativa testimonianza Le ore migliori ) è importante definire il periodo in cui venne composta: il periodo del “miracolo economico”, quando l'Italia, dopo le distruzioni belliche, conquistò un notevole benessere. Tale benessere si basava soprattutto sul possesso di quei beni di consumo (il televisore; l'automobile; gli elettrodomestici) che solo allora si andavano diffondendo nel nostro paese e che costituivano lo status symbol di una conquistata ricchezza. I mutamenti politici preconizzati dalla Resistenza venivano quindi abbandonati in nome di un “boom economico” tanto esaltato dalla cultura di massa quanto guardato con perplessità e diffidenza dalla classe intellettuale, che ne vedeva la superficialità. In questo contesto e alla luce di questa caratterizzazione storica si deve dunque intendere il testo. Nell'ultima produzione, Giudici, abbandonando la narratività che ne aveva caratterizzato la produzione, si volge alla più intellettualistica, cifrata e aulica tradizione occidentale: la lirica cortese. Anche in queste poesie egli continua la sua lotta contro il linguaggio mercificato e standardizzato della cultura di massa e se altrove (ad esempio nella raccolta Una vita in versi ) la polemica si manifestava con l'impiego di quel linguaggio e di quegli stilemi quasi per corroderli nell'intimo e mostrarne la vacuità e l'insensatezza, in Salutz Giudici sceglie una soluzione opposta. Il poeta opta per il linguaggio sceltissimo e raffinato, oscuro e allusivo, dei trovieri medievali che, vissuti nel XII-XIII secolo in Provenza, crearono una particolarissima elaborazione sull'amore che rimase esemplare anche nella cultura successiva (cfr. box a pag. OOO). Già il titolo Salutz (che significa “saluto”) allude a un genere topico della lirica cortese: la lettera alla donna amata. L'intenzionale riferimento alla lirica provenzale è riscontrabile nella scelta di Giudici per una scrittura preziosa e calligrafica, che ha la sua origine in quella poesia che i provenzali chiamavano trobar clus (poetare chiuso, cfr. box a pag. 000). Giudici, in polemica con la volgarità e la banalità della cultura di massa e del suo linguaggio stereotipato, opta per una poesia arcaicizzante e raffinata, dalle non dissimulate origini illustri, una lirica nella quale l'amore è esperienza totalizzante, quasi metafora di ogni possibile momento nell'esistenza umana. «Raggio che da fessura Spira nella stanza oscura Nei trepidi colori Ma capovolto a nude mura Specchia il vario mondo fuori Io attraverso voi, Midons, viaggio A verità per stella d’impostura A voi mi capovolgo in vostro omaggio – Reo quanto più fedele Matto quanto più saggio: Così siete il dolcissimo mio fiele La volatile chiave del passaggio Un’altra un’altra ancora diventate Voi che di me il contrario di me fate». Dalla Raccolta Salutz III. 7 (1989) Raggio che da fessura… 1 La metrica Tutte le poesie di Salutz (eccetto la lirica finale) sono composte di 14 versi (tanti quanti ne possiede il sonetto) privi di una misura omogenea e di uno schema di rime. In questa lirica compaiono tuttavia versi regolari (ad esempio, «A verità per stella d'impostura» è un endecasillabo) e molte rime. Una poesia “antica”? Sebbene non fosse intento di Giudici costuire una lirica che alludesse apertamente ed esclusivamente alla cultura trobadorica, è certo che in questa poesia molti sono i richiami a tale esperienza letteraria. In tale senso abbiamo la ripresa di particolari stilemi cortesi: ad esempio, appellarsi alla donna con il “voi” («Io attraverso voi») chiamandola, alla moda provenzale, «Midons». Una patina di aulicità viene determinata dall'impiego di vocaboli e strutture sintattiche arcaicizzanti (qui, ad esempio, «reo»), oppure di locuzioni ricche di una forte connotazioni letterarie (ad esempio l'ossimoro «dolcissimo mio fiele». Anche nei contenuti vi sono riprese di temi presenti nella lirica cortese: in primo luogo il ruolo di assoluta superiorità che la donna riveste agli occhi dell'innamorato, sempre devoto e ossequiente a «Midons»; l'assolutezza dell'amore, l'unica autentica esperienza esistenziale. In questa poesia si trovano proprio questi motivi, espressi con consapevole allusività: la donna è una creatura superiore e lontanissima (in questo senso viene appellata attraverso il «voi»), l'uomo, sottomesso, la onora e adora attraverso l'«omaggio» del “servizio d'amore” («A voi mi capovolgo in vostro omaggio» dove, tuttavia, il verbo “capovolgere”, così caratterizzato, suggerisce anche una possibile interpretazione ironica). Ella è lo strumento per conoscere il mondo, per effettuare il «viaggio a verità». Il suo volere è regola: l'uomo deve obbedire e nulla deve attendersi come ricompensa per la sua devozione. La donna, mutevole, («Un'altra un'altra ancora diventate») se dolce può elevare l'uomo se crudele può portarlo sino alla disperazione e alla follia. L'amare è già una ricompensa sufficiente e questa condizione che, assieme dolorosa ed esaltante (l'«dolcissimo mio fiele»), è capace di mutare l'esistenza dell'uomo e rendere il suo agire “folle”, cioè inesplicabile per chi non conosce la devozione assoluta («Reo quanto più fedele / Matto quanto più saggio»). Oppure una poesia “nuova”? La poesia si caratterizza per la sua calcolata difficoltà che deriva dalla scelta attuata di volgersi verso una tradizione già “naturalmente” elitaria. Egli intende cancellare e superare tutto ciò che successivamente è avvenuto nella cultura letteraria poiché «la poesia dei trovatori è stata poesia dell'amore puro e dell'amore carnale, comunque dell'amore come esperienza centrale dell'esistenza» (Costanzo Di Girolamo); tuttavia intende contrapporre polemicamente la sua elegante scrittura alla lingua contemporanea, rozza espressione di una civiltà massificata ed alienante. 2