Istituto Superiore di Studi Musicali
“V. Bellini”
CALTANISSETTA
Note Musicali
Trimestrale di studi e cultura musicale
Note musicali
Trimestrale di studi e cultura musicale
dell’Istituto Superiore
di Studi Musicali “V. Bellini”
Presidente Consiglio di Amministrazione
Avv. Giuseppe Gaetano Iacona
Direttore dell’Istituto
M° Gaetano Buttigè
Direttore Amministrativo
Dr. Alberto Nicolosi
Direttore Responsabile
Rosa Maria Li Vecchi
Comitato di Redazione
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Giuseppe Fagone
Francesco Gallo
Angelo Licalsi
Angelo Palmeri
Raffaello Pilato
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Lussografica - Caltanissetta
dicembre 2013
Autorizzazione Tribunale di Caltanissetta
n. 227 del 27/09/2011
www.istitutobellini.cl.it
Sommario
7.
Ester Mazzoleni la sublime Aida del 1913
Salvatore Aiello
13.
In cammino per un sentiero storico-filosofico della musica II
Luigi Bordonaro
33.
La “Vendetta slava” di Pietro Platania
Letizia Colajanni
51.
Lo stile classico nell’interpretazione e nell’esecuzione pianistica
Nino Gardi
59.
Le tesi
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
Rosanna Furnari
IN COPERTINA
“Risonanze” di Stefania Como. La realizzazione del pannello prende l’idea da una soggettiva ed
intima ricerca spirituale, assegnando alla musica e a quello che essa rappresenta, una chiave di lettura ad ampio respiro. L’ispirazione prende forma dalle origini del suono e dall’ipotesi che attraverso il
suono e il suo riverberarsi nello spazio, inteso come spazio cosmico , sia potuto nascere l’universo. Lo
sfasamento può essere percepito dall’osservazione del numero sette, le sette note musicali, la musica
che dalle origini arriva sino a noi, esprimendosi in una dimensione “terrena”attraverso l’intuizione e
la sensibilità di grandi artisti e di un pubblico ricettivo pronto per ascoltarli. Sullo sfondo del pannello in plexiglass il Corale della cantata n. 147 di J. S. Bach nella trascrizione per pianoforte; l’artista prediligeva una musica ispirata a momenti di “elevazione spirituale”, dove per spirituale si intende quell’aspetto insito nell’uomo che va oltre la religione intesa in senso stretto, ma anzi attraverso una visione più laica ci spinge ad osservare la vita anche nei suoi aspetti trascendenti. Il rame usato riconduce
alle origini attraverso l’effetto del magma primordiale, delle sue alterazioni, della chimica, della trasformazione degli elementi e dei passaggi evolutivi che si sono susseguiti dall’origine del suono sino
a noi. L’uso del rame evoca anche i materiali usati per fabbricare gli strumenti musical. L’esplosione
dirompente della musica e del suono vengono ulteriormente enfatizzati attraverso lo spaccarsi del
numero che come un’onda di vibrazioni e risonanze riconduce al movimento e alla spazialità.
Stefania Como nasce a Torino nel 1968 dove attualmente vive e lavora, la sua formazione e la sua attuale
ricerca si configurano sia in campo artistico che educativo, dopo aver conseguito la laurea all’Accademia delle
Belle Arti di Torino e l’abilitazione in Counseling educativo e Arte terapia sviluppa progetti con l’arte moderna e contemporanea a carattere relazionale in contesti pedagogici, educativi e riabilitativi, oltre che a portare
avanti la sua personale ricerca artistica orientata all’approfondimento della pluralità dei linguaggi con l’intento di far dialogare l’arte con la collettività al fine di costruire una relazione ed uno scambio utile ad entrambi.
Accademie di Musica, accademie d’arte:
una riflessione
“Nati non foste a viver come bruti”
(D. Alighieri, Divina Commedia)
Fare arte, musica-poesia-pittura-teatro-danza, non può essere mero
esercizio ludico di una passione, nobile hobby o solo istinto, solo talento. Molte le eccezioni che confermano la regola (una per tutte il jazzista Thelonius Monk) ma proprio per questo la regola diventa ancora
più intransigente: l’arte non è solo espressione di sentimenti ma
soprattutto interpretazione di linguaggi, per quanto semanticamente
ambigui eppure con loro precise regole, attraverso un rigoroso esercizio della tecnica. Non ci si improvvisa, dunque, artisti né lo si nasce:
semplicemente è indispensabile conoscere le regole che governano la
propria arte e poi su quelle costruire ascoltando il proprio talento, la
propria anima, percorso tanto facile per la monumentale produzione
di Bach quanto arduo per l’altrettanto monumentale produzione di
Beethoven, sublime vetta dello spirito per il primo quanto difficile culmine della scalata alla montagna della “ratio” per il secondo. E’ questa una riflessione non peregrina ma dettata dalla ambigua interpretazione che oggi si vuole imporre al mondo dell’arte, plaudendo alla
nascita di questo o quel “talento” da imporre tramite i mass media
all’attenzione dei più giovani, effimera farfalla destinata solo ad alimentare il business fittizio dell’arte con la minuscola, a vantaggio personale di qualcuno ma senza nulla avere a che spartire con l’eredità
culturale che ogni epoca lascia alla successiva, appunto l’Arte con la
maiuscola.
Un po’ come sarebbe accaduto al giovanissimo Ludwig van Beethoven, ignaro strumento nelle mani del padre Johann che sperava di rinnovare il mito dell’“enfant prodige” concretizzatosi già a Salisburgo
con il piccolo Mozart (con ben altri risultati, però, come giustamente
scrive Ballola, evidenziando che il padre di Beethoven “non possedeva né le qualità morali e intellettuali, né le rettitudine di pater familias
e neppure la preparazione musicale” e che lo stesso “vide, nel lancio
del figlio come attrattiva per i salotti musicali, niente altro che il tornaconto personale”) se lo stesso Ludwig, avviato agli studi musicali
prima dal padre e da un certo Tobias Pfeiffer, attore, clavicembalista,
suonatore di flauto o di oboe (“un artista randagio”, lo definisce
Ballola) e dopo dall’organista Van Der Aeden e dal violinista
Rovantini, non avesse infine incontrato nel 1782 Christian Gottlob
Neefe, non solo Kapellmeister ma anche compositore, prototipo del
nuovo musicista colto che prendeva a modello Carl Philipp Emanuel
Bach e la sua teoria sulla poetica degli affetti musicali ma anche allievo di un allievo di Johann Sebastian Bach: solo attraverso questo tortuoso percorso il grande talento musicale del giovane Ludwig poté
modellarsi sulla poderosa lezione del “Das Wohltemperierte Klavier”,
colonna portante della formazione musicale di ogni pianista, e non
solo, per la perfezione stilistica e tecnica – compresa in verità molto
tardi dagli ambienti accademici – delle strutture musicali dei preludi e
delle fughe bachiani. Non secondario il ruolo della cultura e di altre
forme artistiche in senso lato, capaci nella loro pienezza di formare le
aspirazioni, il senso del bello, del giusto, del bene in ciascun individuo. Così il giovane organista Beethoven, che nel frattempo visse
l’esperienza di maestro dei quattro figli orfani di un consigliere di
Corte in casa Breuning, dove si discuteva familiarmente di arte, letteratura, teatro, disquisendo sulle opere di Shakespeare, Schiller,
Goethe, Herder, ebbe chiara la sua strada, mettendo il suo talento,
modellato sulla tecnica sublime ereditata attraverso il suo maestro da
Bach, al servizio di valori altissimi, ponendosi, con la sua opera, come
pietra miliare per la musica, eterno modello di elevazione spirituale e
morale come solo l’Arte può essere.
Restituire, dunque, ai nostri giovani musicisti ed artisti il senso di
questi percorsi, che richiedono impegno, sacrificio, dedizione, fiducia
in se stessi e nei propri maestri e in cambio restituiscono il senso di
appartenenza forte al mondo vivo dell’umanità immortale attraverso
l’Arte perché capaci di portare alla trascendenza attraverso la combinazione di tecnica e talento, è il piccolo grande contributo che le
Accademie (di musica, di pittura, di danza, di teatro) offrono alla
costruzione di una società migliore, a patto che la società stessa (e la
politica, che di quella dovrebbe essere specchio) ne comprendano il
ruolo fondamentale, non sottraendo altri fondi alla Cultura e all’Arte,
evitando di giudicare questi settori come improduttivi ed evitando di
disperdere risorse in settori che con la cultura nulla hanno a che vedere se non la parvenza esteriore di tutto quanto fa spettacolo. Altrimenti
sarà la barbarie.
Rosa Maria Li Vecchi
Direttore responsabile di “Note Musicali”
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Salvatore Aiello
Critico musicale
Ester Mazzoleni
la sublime Aida del 1913
Compie 100 anni l’Arena di Verona
Si era nel 1913, l’Italia e il mondo intero solennizzavano il centenario della nascita di Giuseppe Verdi, a Verona, Giovanni Zenatello ebbe
l’idea per l’occasione di invitarlo, così si disse, in Arena.
In verità da tempo il tenore veronese, dotato di un senso spiccato
degli affari, aveva in mente di creare nella sua città un grande teatro
all’aperto, popolare, di modo che grandi folle potessero assistere agli
spettacoli di altissimo livello artistico.
Si racconta che un caldo giorno di giugno del ’13 nella splendida
piazza Bra erano seduti ad un caffè Maria Gay, Serafin, Cusinati e l’impresario Rovati; improvvisamente Zenatello alzando gli occhi verso
l’anfiteatro romano esclamò: “Ecco il grande teatro che tanto vado cercando basterebbe che soltanto avesse una buona acustica, perché non andiamo a
provare le voci?”
A quel punto si alzarono, tutti entrarono nell’Arena, il tenore intonò Celeste Aida, il maestro Serafin apprezzò la prova e nonostante
parecchie perplessità invitò alcuni strumentisti ottenendo l’effetto voluto. Si trovarono d’accordo, per celebrare degnamente Verdi, di allestire l’Aida.
Zenatello finanziò l’impresa, lui e la compagna, la Gay, ricoprirono
i ruoli di Radames ed Amneris, a Serafin toccò la responsabilità di
completare il cast.
Per il ruolo di Aida in un primo momento si pensò a Gilda Dalla Rizza
poi si convocò Ester Mazzoleni la più grande Aida del tempo (Teodoro
Celli ).
Così ci raccontava la Mazzoleni: “Nell’estate del 1913 mi trovavo a
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Salvatore Aiello
Zlarin allorchè mi giunse il telegramma con cui mi s’invitava a cantare a
Verona , non immaginavo che in Italia volessero fare degli spettacoli all’aperto. Come sempre mi consultai con mio padre il quale m’incoraggiò ad accettare senza dovermi preoccupare dell’acustica.”
In un clima febbrile ebbero inizio i preparativi, la prova generale fu
turbata dalla scrosciante pioggia ma nonostante tutto fu portata a termine; il maestro Cusinati si curò delle masse e del coro, autore delle
scene Ettore Fagiuoli (D’Annunzio lo chiamerà “architetto delle pietre
vive”). Quel 10 agosto del 1913 rivelò al mondo che l’Arena poteva trasformarsi in una sede unica ed ideale per gli spettacoli lirici all’aperto;
il cielo era sereno e anche le stelle si presentarono puntualmente
all’appuntamento con la storia alla presenza della nobiltà torinese, i
Borghese, i Colonna, i Torlonia, i Ruspoli, e poi Boito, Cilea, Giordano,
Mascagni, Montemezzi, Puccini, Pizzetti, Zandonai e, come se non
bastasse, Gorkj e Kafka.
Novello Papafava dei Carraresi Alighieri così ne scrisse: “…..la
scena del trionfo suscitò grande entusiasmo ma il maggiore della fusione arti-
Ester Mazzoleni la sublime Aida del 1913
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stica venne raggiunto nel terzo atto, il duetto tra Aida (Mazzoleni) implorante “O patria mia quanto mi costi “ ed Amonasro (Passuello) esortante a
pensare che “un popolo vinto e straziato per te soltanto risorger può” dominò
la folla fino alla fine dell’atto allorchè Zenatello lanciò il fatidico grido Viva
Verdi!”
Ma soffermiamoci un attimo a raccogliere i consensi che da più critici vennero rivolti alla protagonista Ester Mazzoleni: “Questo grande
soprano dai piani soavi e puri – ebbe a dire Renato Simoni – fu un’Aida
indimenticabile per l’omogenea limpidezza del suono, la facilità del registro
acuto e le insinuanti risorse del legato” e Contini sostenne che stupiva
l’omogeneità e l’eleganza del porgere. Fraccaroli del Corriere della
Sera aggiungeva: “Il terzo atto ebbe un grande successo; sedotto dalla bellezza della musica, il pubblico si tacque in un silenzio di ammirazione e ne
godette la deliziosa poesia; bisogna dire però che al successo dell’atto contribuì la Mazzoleni che cantò con grazia, con vigoria, con freschezza straordinaria, fu dopo quest’atto che si ebbero le maggiori chiamate e le più entusiastiche”. Ramo del Mondo Artistico così recensì: “Un vivo successo ha ottenuto la Mazzoleni, la sua voce non ha dato mai segni di stanchezza, cosa eccezionale in una simile rappresentazione all’aperto, è stata una protagonista
stupenda per gli squilli sonori ed ampi della sua voce, per il canto pieno di
espressione.” A queste voci così autorevoli si aggiungeva il critico
dell’Arena: “Ester Mazzoleni e Maria Gay quale meraviglioso binomio d’arte! Furono un’Aida e un’Amneris divine; osiamo dire che se tutta la grandiosità gigantesca di questa produzione avesse scosso l’animo di Verdi redivivo,
le inarrivabili magnificenze liriche e drammatiche delle due artiste sarebbero
giunte a commuoverlo”. Ma lasciamo a Boccardi concludere queste inestimabili testimonianze: “Quando la Mazzoleni cantava O terra addio,
addio terra di pianto, pareva che si fosse dato appuntamento con la luna che
ogni sera appariva in quel momento ed era una cosa eccezionale”. Tutta la
compagnia di canto ricevette lodi unanimi dalla stampa veronese, ma
particolare attenzione ed ammirazione circondarono l’Aida della
Mazzoleni definita cantante di moderna sensibilità.
Nel 1953 Verona celebrava il quarantesimo anniversario con il ritorno dell’opera, a dirigere c’era ancora Serafin, protagoniste Maria
Meneghini Callas e Anita Cerquetti. Invitata da Piero Gonella a presenziare all’avvenimento, per motivi familiari dovette rinunciarvi ma
le fu fatta pervenire la medaglia d’oro di cui si fregiò sempre con orgoglio.
Il 1963 sanciva le nozze d’oro tra l’Aida e l’Arena col ritorno per la
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Salvatore Aiello
Ester Mazzoleni in Giulia de “La Vestale
terza volta di Serafin, alla presenza della storica cantante fu scoperta
una lapide dello scultore Girelli con i leggendari esecutori del ’13.
Assistendo poi alla rappresentazione, donna Ester vi ritrovò l’amica di
sempre la duchessa Bona di Savoia col marito Konrad di Baviera.
Nel 1982 si decise la rievocazione dell’Aida del ’13 affidandone la
ripresa a Vittorio Rossi e la regia a Gianfranco De Bosio che utilizzò i
bozzetti del Fagiuoli. A marzo la nostra cantante fu interpellata perché
mettesse a disposizione i propri costumi e i personali ricordi ma la sua
vicenda terrena era ormai agli sgoccioli. Grande l’aspettativa a luglio
della storica messinscena; il critico Carlo Bologna, alla nostra presenza, la ricordò come un personaggio eccezionale, vera dominatrice della
mitica serata. In quella circostanza ebbi l’occasione di incontrare Nina
Zenatello Consolaro figlia del mitico tenore che così si espresse
“…c’era la Mazzoleni, che grande Artista! Le loro voci combaciavano meravigliosamente, non a caso costituirono una coppia fissa nell’incisione dei
duetti per la Fonitipia.” Se è esaltante ricordarla come prima Aida a
Verona non meno memorabile fu nel 1923 la sua Norma, sotto la direzione di Panizza con Pinza e la Capuana.
Siamo giunti all’odierno centenario, il clima forse è cambiato e se ci
si appresta il 10 agosto a riesumare nuovamente l’allestimento del ’13,
si è forse meno disponibili a rinverdire il ricordo di un’artista che
Ester Mazzoleni la sublime Aida del 1913
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Gualerzi definì “la Callas degli anni venti” non solo insuperabile Aida
e memorabile Norma, ma prima Medea italiana nel secolo e l’interprete prestigiosa di un repertorio straordinariamente di grande responsabilità che spaziava da Cherubini, Spontini a Wagner affrontando Bellini e Donizetti, Meyerbeer e il suo amato Verdi, per giungere a Ponchielli, Puccini, Giordano, Catalani, Franchetti.
Noi siamo orgogliosi del privilegio di avere goduto della sua calda
e tenera amicizia per l’ultimo ventennio della sua esistenza, eredi della
sua memoria e della sua vicenda umana ed artistica per cui, affinché il
tempo non ne appannasse il ricordo, abbiamo pubblicato la Sua biografia e dato vita, a Palermo, all’Associazione Ester Mazzoleni nella
città dove visse il dorato ritiro dalle scene attorniata da affetti familiari e amicali ma sempre attenta alle vicende della sua musica e viva nel
ricordo lusinghiero degli ammiratori, dei critici, degli storici sempre
più numerosi nel convincimento che in tempi in cui imperava il
Verismo, donna Ester riproponeva lo stile, l’accento aulico del soprano drammatico discendente della grande tradizione italiana del
Belcanto ottocentesco.
“Regole di vita musicale”
(Musikalische Haus-und Lebensregeln, 1845),
Robert Schumann
Suchst du dir am Clavier kleine Melodieen zusammen, so
ist das wohl hübsch; kommen sie dir aber einmal von
selbst, nicht am Clavier, dann freue dich noch mehr, dann
regt sich in dir der innere Tonsinn. – Die Finger müssen
machen, was der Kopf will, nicht umgekehrt.
Se ti metti al pianoforte cercando di costruire delle
piccole melodie, è già una bella cosa; ma se un giorno quelle melodie ti verranno da sole, senza bisogno
del pianoforte, rallegrati ancora di più, perché vuol
dire che è vivo in te il senso interno della musica. Le
dita devono fare ciò che la testa vuole, non il contrario.
Wenn Alle erste Violine spielen wollten, würden wir kein
Orchester zusammen bekommen. Achte daher jeden
Musiker an seiner Stelle.
Se tutti volessero suonare da primo violino, non metteremmo mai insieme un'orchestra. Pertanto, rispettate ogni musicista, qualunque posto occupi.
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Luigi Bordonaro
Docente di materie storiche e filosofiche
nei licei
In cammino per un sentiero
storico-filosofico della musica
Dal Rinascimento al secolo dei Lumi
L’età della “rinascita”
“Guardati dal lettore di un solo libro”
Tommaso d’Aquino
“Il musicista che conosce
solo la sua disciplina
è un uomo limitato”
Plutarco
“Noi pur sappiamo che chi sa una scienza sola, non sa quella né l’altre bene;
e che colui che è atto a una sola, studiata in libro, è inerte e grosso” scrive
all’inizio del XVII secolo Tommaso Campanella ne “La Città del Sole” e
sembra voglia spronare gli uomini del suo tempo a proseguire nel solco
del Rinascimento, età che apre ai venti del rinnovamento e fucina in cui
si inizia a produrre futuro.
Questo giudizio del filosofo di Stilo appare, infatti, come uno stimolo a coltivare la sapienza agendo da uomini di scienza, a sfogliare il
grande Libro della Natura, ad esempio, per interrogarlo senza pregiudizi e investigarne i segreti, come sostenuto da Galileo, sperimentando e
misurando le cose con rigorosi metodi matematici, piuttosto che limitarsi a imparare e trasmettere le nozioni acquisite dai libri, da Platone,
Aristotele o Galeno, che sarebbe come correre da fermi, ovvero sprecare
infinite energie per non muoversi di un passo.
Cercare, investigare, sperimentare nuove vie, interrogarsi, inseguire
la verità …, cambiare il modo di vedere il mondo (non più con gli occhi
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Luigi Bordonaro
dei “giganti” del pensiero antico, per adoperare l’immagine di Bernardo
di Chartres, ma con quelli più lungimiranti degli uomini dell’età moderna che, seppur “nani”, stanno sulle loro spalle e possono vedere più lontano) e, con questo, iniziare già a cambiarlo: tutto ciò è possibile soltanto attraverso i saperi nel loro insieme che, unitamente alla dimensione
complessiva della curiosità e della ricerca, della libertà creativa e dell’originalità espressiva, in un primo momento alimentano il costituirsi
dello spirito rinascimentale e più tardi definiscono la cultura dell’”homo
novus” bruniano col suo robusto radicamento mondano.
Il collegamento delle varie arti tra loro in una sorta di “koinè” dei
codici espressivi più diversi (dalla letteratura alle arti figurative, dal teatro alla musica) sta, infatti, all’origine del clima intellettuale “rinascimentale”, in cui peraltro diviene ambizione dell’artista rappresentare
l’uomo “universalmente colto”, capace di ricoprire in modo pregevole,
da specialista, più “ruoli” contemporaneamente. In tal senso Leonardo
da Vinci, eccellente pittore, scultore, architetto, matematico, anatomista,
musicista, filosofo, ingegnere, inventore, scienziato, incarna pienamente
lo spirito del Rinascimento e ne diviene la figura-simbolo.
Alla fine degli anni ’20 del secolo scorso Igor Stravinskij nell’“Apollo
Musagète” attribuisce al potere della musica l’armonizzazione dei saperi e la rappresenta simbolicamente nella danza di tre Muse (Calliope,
poesia - Polimnia, mimica - Tersicore, musica) che intrecciano i loro
corpi mentre si scambiano i doni ricevuti da Apollo (una tavoletta, una
maschera, una lira).
La musica, in effetti, rivalutata dalla pedagogia umanistica, occupa
una posizione di rilievo nell’universo artistico del Rinascimento, età in
cui si avverte in modo diffuso il bisogno di “ritrovarsi insieme a cantare o
a suonare – scrive Stefano Lorenzetti – perché la musica rappresenta l’atto
attraverso il quale si riapre il sipario della vita sociale”.
Il rinnovato interesse nei confronti della musica, peraltro, è favorito
anche dalla nascita della stampa: lo testimonia una serie di trattati sul
comportamento, fioriti nel XVI secolo, nei quali alla musica si riconosce
una funzione importante per la formazione culturale e sociale dell’uomo di corte (non di rado essa è parte integrante del programma formativo anche dello stesso principe) come chiaramente espresso nel
«Cortegiano» di Baldassarre Castiglione:” Non vogliate privar il nostro
cortegiano della musica, la qual non solamente gli animi umani indolcisce, ma
spesso le fiere fa diventar mansuete; e chi non la gusta si po tener per certo
ch’abbia i spiriti discordanti l’un dall’altro. La musica non è solamente orna-
In cammino per un sentiero storico-filosofico della musica
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mento, ma necessaria al cortegiano perciò“Signori, disse il conte, avete a sapere ch’io non mi contento del cortegiano s’egli non è ancora musico, e se, oltre
allo intendere ed esser sicuro a libro, non sa di varii instrumenti”.
Il mecenatismo, che alimenta il nuovo clima culturale rinascimentale
sostenendo gli uomini d’ingegno nell’espressione della loro creatività,
costituisce così il potente stimolo anche per le sperimentazioni e le radicali innovazioni che in questa età si registrano in campo musicale.
I primi sintomi della «rinascita” musicale, in verità, si possono già
rintracciare nell’Ars nova del ‘300 (di cui si è detto in precedenza) e
nella polifonia che si afferma nel ‘400 grazie alla scuola fiamminga che,
affrancatasi dai rigidi vincoli teologici e liturgici dell’età medievale, si
impone sia nei contesti laici delle corti sia in quelli religiosi delle cattedrali, dando vita ad una vivace e intensa produzione di musica vocale,
le cui iniziali difficoltà nella composizione contrappuntistica scompaiono nel corso del secolo successivo, grazie al rilevante apporto di
Gioseffo Zarlino. Grande teorico musicale dell’età rinascimentale,
Zarlino ha, però, soprattutto il merito di dare il suo fondamentale contributo alla nascita della musica tonale moderna: egli, infatti, riaffermando la rilevanza del fondamento numerico-matematico della musica
(“scienza che considera il numero e le proporzioni” scrive ne “Le Istitutioni
armoniche”), si propone di ricondurla alla semplicità e alla chiarezza
della tradizione classica e, superando la tradizionale modalità gregoriana (quattro “modi autentici” e quattro “modi plagali”), afferma il principio del dualismo armonico introducendo i modi “maggiore” e “minore”, da allora a base dell’armonia tonale.
L’inizio effettivo del Rinascimento musicale, tuttavia, viene convenzionalmente posto nel 1480, anno in cui Papa Sisto IV, revocando la scomunica per i musici, non più ritenuti semplici giullari ma elevati alla
dignità di artisti, favorisce la realizzazione di importanti innovazioni e
il fiorire della grande stagione della musica strumentale.
Nell’arco di un secolo, infatti, da un lato nasce la stampa musicale
con tutto il suo portato rivoluzionario per il definitivo affrancamento
della musica strumentale da quella vocale (nel 1501, meno di mezzo
secolo dopo la prima stampa di Gutenberg, viene pubblicato da
Ottaviano Petrucci l’ “Harmonice Musices Odhecaton”, il primo testo
musicale con un allineamento preciso, e nel 1528 il francese Pierre Attaignant ne affina la tecnica, stampando ogni nota col suo frammento di
rigo) e, dall’altro, si realizza, grazie all’uso di nuove tecnologie, l’evolu-
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Luigi Bordonaro
zione di tutte le famiglie strumentali (fiati, strumenti a corda, tastiere),
che conferma la previsione fatta agli inizi del ‘500 da Sebastian Virdung,
autore del primo libro a stampa corredato di illustrazioni sugli strumenti musicali: “Io credo pure che nei prossimi cento anni gli strumenti saranno
resi così raffinati, belli, buoni e ben fatti come mai non li videro né udirono
Orfeo, Lino, Pan e Apollo e nessun altro di quei poeti”.
Nel corso del XVI secolo, in effetti, prestigiose botteghe artigiane non
solo perfezionano con straordinaria abilità tecnica gli strumenti musicali
già in uso (di rilievo tra questi il liuto che, portato in Europa al tempo
delle Crociate, diviene lo strumento più popolare, insieme con le varianti arciliuto, tiorba, chitarrone, rivestendo ben presto un ruolo da protagonista nella musica rinascimentale sia come strumento solista che da
accompagnamento), ma ne inventano anche di nuovi, primo tra tutti il
violino che, a partire dal secolo successivo, domina sulla scena musicale.
Mutamenti così radicali in campo musicale, determinati dalla straordinaria creatività rinascimentale, suscitano immensa meraviglia (forse
pari a quella da lui avvertita al momento delle sue osservazioni astronomiche) anche in un genio innovatore quale Galileo, che così si esprime
nel “Dialogo sui massimi sistemi”:”S’io guardo quel che hanno ritrovato gli
uomini nel compartir gli intervalli musici, nello stabilir precetti e regole per
potergli maneggiare con diletto mirabile dell’udito, quando potrò io finir di stupire? Che dirò dei tanti e sì diversi strumenti?”.
Si annuncia, in questo modo, il nuovo gusto musicale che dal
Rinascimento trapassa nel Barocco e nell’età moderna.
L’età barocca
“È meraviglioso come la musica
abbia la possibilità
di salvarci dall’irrigidimento
e di farci tornare
uno stupore incantato
nei confronti delle cose.”
Giovanni Allevi
Caratterizzato da profonde contraddizioni, il ‘600 è un secolo veramente bizzarro: afflitto da rovinose guerre, devastanti crisi economiche e sociali, funeste pestilenze e terribili carestie, è nel contempo ric-
In cammino per un sentiero storico-filosofico della musica
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chissimo e sfarzoso dal punto di vista artistico.
I canoni di misura, equilibrio, sobrietà dell’estetica classico-rinascimentale vengono sconvolti dalle innovazioni e dalle esagerazioni dell’arte barocca, che deve “fare spettacolo”per stupire e sedurre un pubblico che non è più soltanto quello delle Corti, ma anche quello della
borghesia cittadina.
La musica, in particolare, diventa nell’età barocca espressione di
affetti allo scopo “di eccitare la passione degli ascoltatori - scrive Armando
Plebe - e di soddisfare i sensi”.
I filosofi del ‘600 non hanno particolare interesse speculativo nei
confronti della musica e, nonostante essa entri in modo sempre più
crescente nella vita quotidiana e diventi un fatto di costume, la considerano un’arte minore, un “innocente lusso” per il suo carattere
“capriccioso” e un piacevole gioco di suoni per la sua intrinseca mancanza di razionalità.
Tuttavia, importante appare l’attenzione che ad essa riservano i due
massimi esponenti del razionalismo moderno, Descartes e Leibniz: il
primo, nei decenni iniziali del ‘600, con il breve trattato “Musicae compendium” (contenente “in nuce” i tratti della sua filosofia matura),
ritenendo la musica “sola ratione” giudicabile, avvia un percorso di
riflessione che trapassa nell’estetica illuministica; il secondo, alla fine
del medesimo secolo, attento alle novità che si manifestano nel mondo
musicale del tempo, pur non scrivendo alcun testo specifico sulla
musica, partecipa a tale trasformazione attraverso originali considerazioni presenti in conversazioni epistolari con matematici e teorici del
tempo.
Descartes si propone di spiegare in modo scientifico il meccanismo
acustico e fisiologico grazie al quale la musica agisce, producendo i
suoi effetti sui sensi e sull’anima: “La musica – egli scrive – deve divertire e suscitare nell’uomo diversi sentimenti. Si possono comporre melodie tristi e ciononostante piacevoli, senza che così gran contrasto ci provochi meraviglia: per cui elegiaci e tragici riscuotono tanto successo quante più lacrime
ci fanno piangere. Mediano questo scopo fondamentale due modi di essere del
suono, e precisamente il suo poter variare in durata, cioè rispetto al tempo, e
il suo poter variare in altezza, cioè rispetto all’acuto e al grave”. Per
Descartes (che comunque ritiene “sia compito dei fisici studiare la natura
del suono, da che corpo sia generato e a che condizioni risulti più gradevole”)
piacere e godimento vengono suscitati da regolarità, proporzione e
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Luigi Bordonaro
simmetria fra le proprietà misurabili di altezza e durata, ovvero quando l’oggetto sonoro appare “chiaro e distinto”, con le necessarie varietà di modificazione nelle diverse altezze e durate di un suono perché
la musica risulti sempre affascinante e piacevole all’udito.
Questo scritto cartesiano, in cui non si fa mai cenno alla “bellezza”
della musica, risulta fondamentale per il pensiero moderno perché
“rappresenta - scrive Fubini - un primo e potente stimolo allo sviluppo di
studi scientifici sul suono e sull’armonia, che conduce all’affermazione dell’autonomia della musica fondata su proprie leggi e su di un preciso e identificabile rapporto psico-fisico con la nostra sensibilità emotivo-acustica”.
A sua volta Leibniz, all’inizio del ‘700, se da un lato riconosce alla
musica un fondamento matematico, forse ispirandosi alla concezione
pitagorica che coglie nella struttura numerica il segreto dell’armonia,
dall’altro individua in essa una qualità intuitiva, come percezione confusa di elementi immaginativi, che la rendono simbolo dell’armonia
divina, allorché afferma “Musica est exercitium arithmeticae occultum
nescientis se numerare animi” (la musica è l’esercizio matematico nascosto di una mente che calcola inconsciamente). In questa definizione
della musica come calcolo inconsapevole è contenuto un richiamo alla
sua teoria delle piccole percezioni “oscure e confuse”, da cui muove il
processo gnoseologico di continua e infinita chiarificazione: “La musica - scrive Leibniz - si manifesta in larga misura in percezioni confuse e
quasi inavvertite che sfuggono alle percezioni più chiare. Sbagliano coloro che
pensano che nell’animo non vi possa essere nulla di cui non sia esso cosciente. L’anima, infatti, sebbene non s’accorga di compiere un calcolo, avverte tuttavia l’effetto di questo calcolo inconscio o attraverso un senso di piacere di
fronte ad una consonanza, o di fastidio di fronte alla dissonanza. Il piacere
sorge da molte consonanze insensibili. La Musica ci affascina benché la sua
bellezza non consista che nella proporzione dei numeri e del calcolo, di cui non
siamo coscienti, ma che l’animo tuttavia compie”.
In merito, Fubini commenta: “Noi proviamo piacere all’ascolto dei
suoni proprio perché in quest’ascolto, prima ancora che intervenga il filosofo
o il matematico a spiegarci come è fatta la musica, già compiamo un inconscio
calcolo matematico e ne proviamo piacere: la musica è un modo sensibile e tangibile con cui la natura si rivela a noi nella sua suprema armonia”.
Insomma, l’anima dell’ascoltatore percepisce, seppur inconsciamente, la bellezza della musica attraverso la potenza di una “proportio” che, in quanto mai riducibile alle semplici leggi della consonanza
sensibile, rinvia ad un’irraggiungibile unità superiore.
In cammino per un sentiero storico-filosofico della musica
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Il XVII e la prima metà del XVIII secolo segnano, così, in un quadro
metafisico indebolito a favore delle scienze positive, l’inizio di un processo rivoluzionario che, liberando la musica dalla sua tradizionale
funzione pedagogica e psicologica, pone le proporzioni geometricomatematiche legate alla sensibilità a fondamento dell’arte musicale e
favorisce, in tal modo, la valorizzazione dell’originalità, che diviene
progressivamente principio di stile.
“Nella musica dell’età del barocco - scrive Fubini - due sono gli eventi
rivoluzionari: l’invenzione dell’armonia caratterizzata dal contrappunto e la
nascita del melodramma”.
Del contrappunto si dirà più avanti a proposito della produzione
musicale di Johann Sebastian Bach, che rappresenta il vertice di una
ricchissima elaborazione contrappuntistica inserita in un piano armonico-tonale.
Per adesso ci si può limitare a rilevare che l’insieme dei caratteri che
contrassegnano il contrappunto viene chiamato durante il barocco
“stile alla Palestrina”, in riferimento al più grande tra gli esponenti
della scuola romana del secondo ‘500, Giovanni Pierluigi da
Palestrina.
Musicista per eccellenza della cattolicità, Palestrina nella sua ampia
e articolata produzione musicale, quasi interamente costituita da composizioni sacre polifoniche in latino che vivono «fuori dal tempo e dallo
spazio – afferma il musicologo tedesco Peter Wagner - e sono una rivelazione puramente spirituale che propone alle coscienze l’immagine dell’essenza intima della religione», presenta infatti una magistrale e formidabile abilità contrappuntistica che sviluppa, evitando l’enunciazione
simultanea di testi diversi, in direzione dell’intelligibilità delle parole
e di una sonorità ordinata.
L’altro evento rivoluzionario è rappresentato dal melodramma che,
comparso in età tardo-rinascimentale allorché la borghesia cerca di
legittimarsi culturalmente, domina la scena del teatro musicale per più
di tre secoli.
Questo nuovo genere di rappresentazione nasce, infatti, nella
seconda metà del ‘500 a Firenze ad opera di un gruppo di intellettuali
(la cosiddetta Camerata Fiorentina o“Camerata dei Bardi”, dal nome
del palazzo nobiliare in cui solitamente si riunisce) che, emulando la
tragedia greca, danno luogo ad uno spettacolo teatrale in cui linguag-
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Luigi Bordonaro
gio, musica, costumi e scenografie si fondono insieme.
Si afferma in questo modo il “recitar cantando”, ovvero la declamazione intonata e sostenuta da strumenti di un testo, che esalta la chiarezza della parola della voce solista sull’intreccio polifonico tradizionale, con potenzialità enormi di resa teatrale:
”Le parole non devono essere cantate da quattro, cinque voci in modo tale
da non essere più distinte - scrive Vincenzo Galilei, uno dei membri più
battaglieri del cenacolo fiorentino - ma bisogna piuttosto fare come gli
antichi che esprimevano le più veementi passioni per mezzo di una voce sola
sostenuta dal suono di una lira, rinunciando al contrappunto e alle differenti
specie di strumenti per ritornare alla primitiva semplicità ”; gli fa eco Giulio
Caccini, per il quale occorre “non pregiare quella sorta di musica, che non
lasciando bene intendere le parole, guasta il concetto e il verso … ma attenersi a quella maniera cotanto lodata da Platone ed altri filosofi, che affermano la
musica altro non essere che la favella e il ritmo et il suono per ultimo , e non
per lo contrario, a volere che ella possa penetrare nell’ altrui intelletto e fare
quei mirabili effetti che ammirano gli scrittori”.
Nel“recitar cantando”, tuttavia, il canto solistico risulta piuttosto
monotono, sino a quando, all’inizio del ‘600, Claudio Monteverdi con
“L’Orfeo” non apre la strada alla struttura definitiva del melodramma, utilizzando da un lato un’orchestra formata da svariati strumenti
(dai tradizionali archi, trombe, cornetti, arpa, a quelli di più recente
invenzione quali clavicembalo e fagotto, nonché l’organo con funzione di basso continuo che, capace di generare accordi che sostituiscono
le altre voci, prende il posto di quello “interrotto” proprio delle composizioni polifoniche) e, dall’altro, gli slanci melodici e i virtuosismi.
Un fenomeno di costume affatto originale nel melodramma barocco è la comparsa sulla scena musicale degli “evirati cantori”, come li
chiama Foscolo nei “Sepolcri”.
Alla fine del ‘500, infatti, sulla scorta di quanto San Paolo scrive
nella prima lettera ai Corinzi, “mulieres in ecclesiis taceant” (le donne
tacciano nelle assemblee), Papa Sisto V impone in tutto lo Stato
Pontificio il divieto alle donne di calcare i palcoscenici, perché costituisce “deterioramento grande del costume”, e causa involontariamente
il triste fenomeno dei fanciulli sottoposti alla castrazione per conservare la voce cristallina in età adulta.
I “castrati”, che in seguito all’operazione acquistano un’estensione
di voce “celestiale e sovrumana”, possente come quella maschile e
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insieme acuta come quella femminile, all’inizio ammessi dal Pontefice,
con la bolla “Cum pro nostro pastorali munere”, a ricoprire il ruolo di
“voci bianche” nei cori ecclesiastici (che così possono rimuovere l’inconveniente di dover sostituire continuamente i ragazzi che interpretano le voci femminili, a causa del modificarsi della loro voce con lo
sviluppo puberale), in seguito cominciano ad esibirsi anche nel melodramma barocco, suscitando immediatamente, per le loro notevoli
capacità canore, fascino e ammirazione nel grande pubblico del teatro
musicale.
Dagli ultimi decenni del XVII e per tutto il XVIII secolo, così, tra i
castrati, i cui “falsetti – scrive Pietro Della Valle - sono il maggiore ornamento della musica”, si forma una vera e propria schiera di “prime
donne”, con autentici divi universalmente conosciuti con i loro nomi
d’arte - Siface, Senesino, Caffariello, Cusanino, Porporino, il celeberrimo Farinelli … -, che si esibiscono in tutti i teatri più importanti
d’Europa e, complice il gusto per il “virtuosismo” allora imperante,
diventano ovunque protagonisti delle scene e riscuotono onori trionfali cantando le arie scritte appositamente per loro dai più grandi
musicisti del melodramma.
Nel lungo periodo di straordinari successi, però, gli “evirati cantori” da un lato ispirano a Giuseppe Parini l’ode “La Musica”, in cui
manifesta la sua ferma contrarietà nei confronti di queste vere e proprie “macchine per cantare”, efficace definizione di Vanna De Angelis,
(“Aborro in su la scena / Un canoro elefante, / Che si strascina a pena / Su
le adipose piante, / E manda per gran foce / Di bocca un fil di voce”) e il suo
profondo biasimo per una pratica inumana (“Cangi gli uomini in
mostri,/ E lor dignità prostri”) e, dall’altro, inducono i filosofi illuministi
dell’ “Encyclopédie” a sviluppare un acceso dibattito e ad avviare una
vera e propria battaglia culturale contro la castrazione (uno sdegnato
Rousseau nel “Dictionnaire de la Musique” alla voce “castrato” scrive:
“Ci sono dei padri barbari che sacrificano la Natura al profitto ed espongono
i loro bambini a questa operazione per il solo divertimento di gente che non
rinuncia alla propria stupidità nel richiedere sempre e ancora il canto di quegli infelici”).
Tuttavia, anche se esplicitamente criticata e condannata come atto
di barbarie contrario all’umanità, alla ragione e alla religione, soltanto
dopo gli editti napoleonici che vietano la pratica dell’evirazione si perviene alla scomparsa dei “castrati” dai teatri di tutta Europa, grazie
anche all’affermarsi del Romanticismo che determina profondi cam-
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Luigi Bordonaro
biamenti nel gusto musicale e operistico.
Non altrettanto, però, accade nello Stato Pontificio dove, nonostante Clemente XIV già nel 1771 proibisca l’evirazione per ottenere voci
bianche per le Scholae Cantorum, i castrati continuano ad esibirsi nella
Cappella del Papa per tutto l’’800 (a Rossini che nel 1865 prega Pio IX
di ammettere le donne a cantare, il Pontefice oppone un deciso diniego, perché le voci femminili portano “ad effeminandos sensus”) e
ancora all’inizio del ‘900, con l’ultimo celebre «evirato cantore», Alessandro Moreschi, la cui voce affidata alle incerte registrazioni sperimentali dei primi anni del secolo, effettuate dai tecnici della Gramophone Company, costituisce l’unico documento sonoro rimasto alla
storia a viva testimonianza di questo fenomeno durato tre secoli.
Soltanto nel 1903 le voci artificiali dei castrati vengono bandite da
Pio X in modo definitivo, seppure implicitamente, con il riformatore
motu proprio sulla musica sacra “Tra le sollecitudini”, in cui si dispone che “Nulla deve occorrere nel tempio che dia ragionevole motivo di disgusto o di scandalo … Occorre adunque sradicare l’abuso nelle cose del canto e
della musica sacra … “ e, ribadita “l’incapacità” delle donne per l’”officio liturgico” di cantore, si assegna ai fanciulli (e solo ad essi) il ruolo
delle “voci acute dei soprani e contralti”.
Molto amato da aristocratici e borghesi, il melodramma è, invece,
scarsamente apprezzato dagli intellettuali, come appare evidente dalle
parole di un letterato francese della seconda metà del ‘600, Charles de
Saint-Evremond: “Se desiderate sapere cosa è un’opera vi dirò che è un lavoro bizzarro fatto di poesia e di musica, dove il poeta ed il musicista impediti
l’un l’altro si danno una gran pena per far un cattivo lavoro … una stupidaggine piena di musica, di danze, di macchine, di decorazioni, una magnifica
stupidaggine ma pur sempre una stupidaggine”.
Nonostante critiche così sarcastiche e sprezzanti insieme, il melodramma entusiasma e trascina il vasto pubblico degli spettatori, talvolta anche con una musica affrontata con vena sperimentale e con un
uso non convenzionale degli strumenti: il grande successo di cui gode
ad esempio il violino, che a partire dalla seconda metà del XVII secolo
conosce il suo periodo di splendore grazie alla raffinata maestria
costruttiva degli artigiani della liuteria padana, tra cui i celeberrimi
Niccolò Amati, Antonio Stradivari e Giuseppe Guarneri del Gesù, è
dovuto anche al fatto che “oltre ad imitare vari canti di animali, tanto volatili quanto terrestri - scrive già nel1636 Padre Mersenne – sa anche imita-
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re e contraffare ogni genere di strumenti, quali le voci, gli organi, la viella, la
cornamusa, il piffero, ecc., di modo che può arrecare tristezza, come fa il liuto,
e vivificare come la tromba, e coloro i quali lo sanno trattare con perfezione
sono in grado di rappresentare tutto ciò che passa loro per la testa”.
Il melodramma, che esercita un irresistibile fascino sugli spettatori
nei teatri italiani e francesi non solo per le musiche e i virtuosismi, ma
anche per le scene e i costumi sfarzosi e strabilianti, appassiona poco
il pubblico luterano nell’austera Germania dove, invece, in età barocca si sviluppano in campo musicale interessanti studi metodologici
che, nella prima metà del ‘700, culminano nel“Clavicembalo ben temperato”di Johann Sebastian Bach, il monumentale compendio di stile e
invenzione, che utilizza tutte le tonalità possibili.
La cultura musicale germanica, infatti, seguendo la strada indicata
dal calcolo matematico leibniziano, alla fine del XVII secolo perviene
ad uno stadio teorico e scientifico notevolmente avanzato del “temperamento equabile” (già descritto alla fine nel IV secolo A.C. da Aristosseno di Taranto per risolvere alcuni problemi della scala pitagorica e teorizzato nel tardo ‘500 da Vincenzo Galilei) grazie al nuovo
sistema, ideato dall’organista Andreas Werkmeister, che si basa sulla
suddivisione della scala in 12 semitoni della stessa ampiezza e consente al compositore di arricchire la melodia, darle diversi colori ed esaltarne certe parti.
Tale sistema ha il pregio di soddisfare le esigenze pratiche degli
strumentisti, giacché il cambiamento di tonalità, ovvero la modulazione che permette di sfruttare i rapporti armonici tra gli accordi per produrre nuove combinazioni, non necessita più del mutamento nell’accordatura dello strumento, in quanto tutto viene “equalizzato”,
seguendo il principio di un “ temperamento” che riduce la differenza
tra suoni molto vicini nell’intonazione.
Soltanto nel tardo barocco, però, la nuova teoria si consolida col
decisivo e geniale intervento di Bach, “sophòs musicale, geometra e matematico – afferma Ladislao Mittner - sempre alla ricerca di nuove audacissime formule tecniche e sperimentatore di tutte le possibilità insite nella musica”, che con l’autorità della sua arte immensa fa sì che il modulare “ben
temperato” (“un temperamento tale da consentire l’impiego di tutte le tonalità – si legge nella “Storia della musica occidentale” di Carrozzo – Cimagalli – senza intervalli troppo duri per l’orecchio ma senza nondimeno privarle della loro inconfondibile individualità e quindi dell’affetto associato a cia-
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Luigi Bordonaro
scuna di esse”) si imponga nel mondo della musica e divenga un valore con l’affermarsi del primato del linguaggio tonale.
Anche per il contrappunto, “termine che significa etimologicamente
“punctum contra punctum” – afferma il violinista Enrico Gatti, uno dei
più valenti interpreti di musica barocca attualmente sulla scena internazionale - ossia nota contro nota, la cui proprietà è quella di rappresentare
il principio dualistico, con evidente allusione al pensiero pitagorico che vedeva nei contrari il principio delle cose, sicché l’armonia non è assenza, bensì
equilibrio di contrasti”, Bach riesce perfettamente ad organizzare sul
piano strumentale la struttura musicale in combinazione con l’armonia del sistema tonale.
Già sin dal Rinascimento, in verità, diversi sono i trattatisti che
esortano gli architetti a trarre le regole delle proporzioni architettoniche dai musicisti, con frequenti richiami alle teorie armoniche proporzionali mutuate dal pensiero pitagorico e platonico, giacchè “negli
intervalli armonici della scala musicale - scrive Wittkower - vedevano le
prove udibili della bellezza e dei rapporti dei piccoli numeri interi (1:2:3:4)”.
Bach, però, interpretando nei termini leibniziani il rapporto tra sensi e
razionalità, attua nelle sue opere una rivoluzionaria correlazione tra i
principi matematici dell’armonia musicale e la geometria architettonica - la “musica congelata”, secondo la definizione di Goethe - utilizzando delle semplici regole geometriche che permettono di rappresentare graficamente la struttura dei canoni, cioè di quelle composizioni
che si costruiscono combinando tra loro melodie più o meno autonome.
Basate sul contrappunto, le “Variazioni Goldberg” e l’“Arte della
fuga “, estremo lascito del cantore di Eisenach, costituiscono le più
celebri sperimentazioni per strumenti a tastiera: le prime, per l’architettura compositiva e l’aspetto tecnico-esecutivo, “offrono il migliore
esempio – scrive Piero Buscaroli - di una musica concepita per la ricreazione di uno spirito competente ed esigente” … ” musica che - per Ramin
Bahrami, il pianista iraniano considerato internazionalmente tra i più
interessanti interpreti bachiani viventi - “ti può accompagnare per tutta la
vita”; la seconda, impresa titanica di scrittura contrappuntistica, spinta ai limiti dell’umanamente possibile, costituisce un’armonia di rapporti musicali che, riflettendo l’ “armonia prestabilita” leibniziana,
manifesta la ricerca di un’utopica unione di fisica e metafisica.
Particolarmente in quest’ultima sua opera compositiva “Bach parla
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di un universo dove Dio è evidente – afferma il drammaturgo EricEmmanuel Schmitt – e quando lo si ascolta si è di fronte ad un mondo ordinato, colmo di senso, dotato di una vitalità senza fine”: con un afflato geometrico-musicale che richiama il filosofo del calcolo infinitesimale,
infatti, Bach esibisce una tecnica che, quasi a volersi trascendere, si fa
vera e propria impresa spirituale in musica, che sembra rendere armonicamente percepibile l’infinito pullulare delle monadi leibniziane
nella tensione verso il Principio irraggiungibile (“Monade delle monadi”), dal quale tutto si origina e di cui ogni cosa è risonanza.
Sperimentando armonie e soluzioni del tutto innovative, Bach si
rivela, pertanto, come il più ardito viaggiatore del barocco musicale,
capace di raggiungere altissimi vertici d’arte nell’esprimere e comunicare l’esperienza del divino. La sua musica (in cui, per Bahrami, “è possibile scorgere la capacità di Bach di unire il rigore più ferreo alla poesia più
celestiale”) assume, perciò, caratteristiche di autentica preghiera e apre
orizzonti sconfinati in cui “sembra che la divina armonia - afferma
Goethe - si intrattenga con se stessa, come doveva essere in seno a Dio
prima della creazione” sicché ”mentre ascoltate Bach – conclude due
secoli più tardi Emil Cioran - vedete germinare Dio … e dopo un oratorio,
una cantata o una Passione, Dio deve esistere”.
Strano destino, tuttavia, ha nell’immediato Bach, perché i suoi contemporanei, non comprendendo in pieno le doti di un uomo talmente
grande, lo considerano soltanto un onesto «artigiano», un valente
organista, un insegnante capace, ma nulla di più. Laddove, invece,
pienamente comprensibili e giustificati possono essere i toni, sia pur
enfatici, utilizzati dagli studiosi tedeschi del primo ‘800 che, sotto la
spinta dei potenti impulsi patriottici che caratterizzano la nascente
coscienza nazionale germanica, associano alla sua musica termini
quali “sublime”, “geniale”, “mirabile”, “solenne”, “celestiale”, da
Bach peraltro pienamente meritati, se tra i suoi più convinti ammiratori si ritrovano Mozart, Beethoven, Chopin … .
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Luigi Bordonaro
L’età illuministica
“Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità
che egli deve imputare a se stesso … Sapere aude!
Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!
È questo il motto dell’Illuminismo”
Immanuel Kant
“L’uomo che non ha musica nel cuore
ed è insensibile ai melodiosi accordi
è adatto a tradimenti, inganni e rapine
… non fidarti di lui. Ascolta la musica”
William Shakespeare
Nel ’700 la musica rappresenta bene i contrasti e i paradossi di un
secolo fortemente contrassegnato dalla maturazione culturale di problemi filosofici, politici, estetici, storici, antropologici. Sebbene ancora
legata agli ambienti aristocratici, la musica diventa un centro di interessi sempre più articolato e multiforme per un pubblico più vasto e,
in particolare, per la colta borghesia illuminata che ne subisce il fascino, grazie alla diffusione di numerosi trattati sull’armonia e agli accesi dibattiti su giornali e riviste da parte di intellettuali, filosofi o letterati, matematici o musicisti che siano.
In questo clima culturale, particolare rilevanza assume la “querelle
des bouffons”che nel cuore del ‘700 riaccende il dibattito, già sviluppatosi nella prima metà del secolo, relativo alla supremazia della
musica francese su quella italiana o viceversa.
Agli inizi del Settecento, infatti, accanto all’opera “seria”, con trame
derivate per lo più dalla storia dell’antichità e con prevalenza delle voci
acute di soprani e contralti maschili evirati, nasce in Italia l’opera
“buffa”, con personaggi e vicende della vita quotidiana del mondo
popolare e borghese, che apre a una comicità frizzante sostenuta da voci
maschili di tenori e di bassi e da voci femminili di soprani e contralti.
L’opera “buffa” riscuote in tutta la penisola un successo immediato
anche nella forma dell’intermezzo, una breve rappresentazione comica
che ironizza sulla società del tempo, musicalmente semplice e senza pretese di virtuosismo, inserita nell’intervallo fra un atto e l’altro di un’opera seria e affidata a due personaggi, di solito un soprano e un basso, dai
caratteri modellati secondo i tratti della commedia dell’arte.
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La “querelle des bouffons”, scoppiata a Parigi nel 1752 proprio in
seguito alla rappresentazione di un intermezzo di Pergolesi,“La Serva
padrona”, vede due gruppi dell’intellighenzia parigina schierarsi in
una fiera contrapposizione filosofico-musicale a sostegno di melodia o
armonia: “Tutta Parigi – scrive Rousseau – si divise in due partiti, più
ardenti che se si fosse trattato di un affare di Stato o di religione. L’uno più
potente, più numeroso, costituito dai grandi, dai ricchi e dalle donne, sosteneva la musica francese; l’altro più vivo, più fiero, più entusiasta, composto dai
veri conoscitori e dalle persone intelligenti, sosteneva quella italiana”.
Il confronto, clamorosamente condotto a colpi di pamphlets, vede
così da un lato i sostenitori della compostezza e del carattere razionalistico – matematico dell’armonia della“tragédie-lyrique” e, dall’altro,
gli ammiratori dell’innovativa opera “buffa” italiana, forma antiaccademica di teatro borghese, di cui apprezzano la freschezza melodica e
la vivacità delle trame.
Tra i “buffonisti”, autorevolmente rappresentati dal gruppo di
intellettuali dell’Encyclopédie (“veri conoscitori della Musica e dell’Arte”), spicca la posizione di Rousseau. Il pensatore ginevrino, infatti,
sulla scorta della sua riflessione filosofica tesa a rivalutare il sentimento in un’età intrisa di razionalismo, non solo critica in modo caustico
la musica transalpina (“i Francesi non hanno affatto musica – egli scrive
- e non ne possono avere … e se mai ne avranno una sarà peggio per loro”) e
magnifica il linguaggio della musica italiana che parla più da vicino al
cuore dell’uomo, frutto del genio che, come la natura, non osserva nessuna regola ed è sinonimo di libertà e di vitalità, ma anche scrive egli
stesso un’opera, «Le divin du village»,divenuta il prototipo dell’opera
comica francese, in cui ripropone il carattere di freschezza ed allegria
proprie dell’intermezzo, che ha per Rousseau la funzione di «rasserenare e sollevare un po’ lo spirito».
La “querelle des bouffons” nell’immediato non ha vincitori.
Quando, però, il “dramma giocoso” perviene al suo culmine nelle
opere di Mozart (il cui felice incontro con il librettista Lorenzo Da
Ponte porta alla creazione della trilogia italiana, «Le nozze di Figaro»
- «Don Giovanni» - «Così fan tutte», tra i massimi capolavori della storia della lirica), è la forma teatrale delineata dall’opera “buffa” a prevalere e a determinare il crollo del tradizionale melodramma serio che,
rifuggendo da ogni realtà storica, continua sterilmente ad offrire un
mondo fatto di eroi, interpretati dalle voci «asessuate» dei castrati.
Nella seconda metà del ‘700, infatti, il melodramma comincia a
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Luigi Bordonaro
vivere una fase di profondo rinnovamento in cui, superando il limite
maggiore del Barocco che era stato quello di volere a tutti i costi stupire e meravigliare, prevalgono semplicità, realismo ed equilibrio fra il
testo e la musica. L’”Orfeo ed Euridice” di Gluck (in cui Rousseau
riscontra l’ideale di musica melodica, «naturale» ed espressiva) che
presenta la fusione di voce e strumento, di canto ed orchestra, instaura già nel 1762 i nuovi canoni del melodramma, nonostante la forte
ostilità di coloro che ritengono tutte le novità di una“musica troppo
strumentale” causa di “deformazione della melodia“.
Si realizza, così, il passaggio dal sensualismo della vocalità, in cui il
cantante improvvisando virtuosismi riduce l’arte ad uno sfoggio esibizionistico, alla tensione del dramma, dal piacere inerente alla espressione degli “affetti”, all’idealità etica che, postulando il bene quale
valore assoluto, anticipa la morale kantiana.
All’apice di questo rinnovamento che caratterizza l’illuminismo del
secondo ‘700, si colloca Mozart, il fanciullo prodigio che desta stupore
e sbalordita ammirazione presso le corti europee, “il messia lungamente aspettato dal teatro giocoso – scrive Giulio Confalonieri – colui che ne
comprese le immense possibilità musicali … e conferì nell’opera comica di
stampo italiano un inesauribile arricchimento di musica”, nelle cui opere,
straordinaria sintesi di classicità e melodia, confluiscono le vitali
espressioni del secolo.
Mozart è uomo e artista colto: frequenta l’intellighenzia più progressista e aperta dell’epoca, viene in contatto con valenti musicisti,
studia il contrappunto, il teatro italiano, la musica sacra tedesca, con la
curiosità tipicamente infantile, sua compagna di viaggio per tutta la
vita, che fa di lui, osservatore attento del mondo che lo circonda, un
fenomeno di straordinaria ricettività e di prodigiosa originalità in tutta
la sua produzione musicale, dalle sinfonie ai concerti solistici alle
opere teatrali, serie e buffe.
Tutto ciò, però, non fa venir meno le contraddizioni, talora sconcertanti, dell’uomo Mozart: difetti, infantilismi, immaturità e anche scurrilità di linguaggio, presenti talvolta nel suo epistolario, fanno dire ad
Armando Tonno: “L’enigma di Mozart sta proprio in questo semplice
punto: la sua vita non ci aiuta a leggere la sua musica: si direbbero due percorsi diversi”. In apparenza un giudizio opposto a quello formulato da
Stendhal, per il quale: “Mozart uomo sotto l’aspetto filosofico è ancor più
straordinario del Mozart creatore di opere sublimi. Mai la sorte ha presenta-
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to più a nudo l’anima di un genio … era uno straordinario crogiuolo di doti
l’uomo che ebbe nome Mozart e che gli italiani chiamano oggi “mostro di
ingegno””.
In verità, lo stesso Mozart può forse aiutare a comprendere i suoi
atteggiamenti contraddittori, che hanno uno stretto e intrinseco riverbero sulla sua produzione musicale, quando nel suo epistolario scrive:
“Vedi, sono capace di scrivere in tutti i modi che voglio, elegante o selvaggio,
corretto o contorto. Ieri ero di pessimo umore e il mio linguaggio era corretto e serio; oggi sono allegro e il mio stile è contorto e gioioso”, facendo così
emergere uno spirito che anela alla libertà e, in primo luogo, alla libertà della propria musica.
Innervata dagli ideali illuministici, divenuti il trittico della
Rivoluzione francese - liberté, égalité, fraternité -, l’opera musicale di
Mozart si impone come una grande lezione di modernità.
Temi quali il rispetto della diversità, la negazione della violenza,
l’esaltazione del perdono, la difesa dell’ecosistema, la salvaguardia
dell’arte, la tutela dello stato come espressione della rousseauiana
volontà generale e della partecipazione attiva di tutti cittadini, uomini
e donne, presenti in tutto l’arco della sua produzione e resi espliciti
negli ultimi due sublimi affreschi morali con i quali il genio salisburghese si congeda dal suo tempo – “Il flauto magico e “La clemenza di
Tito” –, costituiscono lo straordinario lascito a tutte le generazioni
future del rivoluzionario pensiero di Mozart espresso in termini di
radiosa e coinvolgente musicalità.
Alla luce di quanto sopra, la decisione di Mozart di abbracciare,
neanche trentenne, gli ideali della Massoneria (a cui dedica “Il flauto
magico”) si può ricondurre, piuttosto che a particolari motivazioni
esoteriche, soltanto in parte al tentativo “di scrollarsi di dosso e seppellire per sempre il fanciullo che era stato – come scrive Francesco Attardi –
per proiettarsi finalmente nel modo degli adulti”, ma soprattutto all’esigenza da lui intimamente avvertita di instaurare più profondi legami
di amicizia e di solidarietà umana.
L’adesione ai valori di armonia e fratellanza universale sostenuti
dalla Massoneria, peraltro, non mette affatto in discussione la sua fede
cristiana, come emerge chiaramente, tra le “Deutsche Kantate”, dalla
famosa “Eine kleine” KV525, una delle più elevate testimonianze della
sua spiritualità, in cui Mozart esalta la natura, espressione di ordine ed
equilibrio proprio perché proiezione divina, in quanto costituisce l’hu-
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Luigi Bordonaro
mus primordiale continuamente rinvigorente la solidarietà fra tutti gli
uomini, al contrario della società corruttrice e causa di diseguaglianze
di rousseauiana memoria; e ancor più dalla “Messa di Requiem”, l’ultima opera mozartiana rimasta incompiuta a causa della morte,” grande preghiera espressione di fede propriamente cristiana che ben conosce la tragicità dell’esistenza umana – afferma il Papa emerito Benedetto XVI - che
ci conduce, allo stesso tempo, ad amare intensamente le vicende della vita terrena come doni di Dio e ad elevarci al di sopra di esse, guardando serenamente alla morte come alla «chiave» per varcare la porta verso la felicità eterna”.
Una gioiosa pienezza umana e creaturale che affonda le sue radici
in una visione “totale” della vita, ispirata da principi cristiani profondamente avvertiti, è pertanto presente nella musica di Mozart, in cui
risuona lo spirito di una teologia della speranza e si esplicita un messaggio filosofico profondamente “umanistico”: “Nessuno sente come lui
o quanto meno sa come lui esprimere e mettere in evidenza la bontà della creazione nella sua totalità” scrive il filosofo e teologo Karl Barth, per il quale
“quando gli angeli sono intenti a rendere lode a Dio, suonano musica di Bach,
ma quando si trovano fra loro suonano Mozart ed allora anche il Signore
trova particolare diletto ad ascoltarli”. Riflettendo sulla possibilità di una
relazione tra uomo e Dio, Barth mette così l’accento sul significato teologico della musica di Mozart in quanto “ pur non essendo egli un Padre
della Chiesa … ode ciò che noi vedremo alla fine dei giorni: la coerenza della
Provvidenza e l’armonia della creazione … che comprende anche il limite e la
fine dell’uomo “ sicché in un certo senso”Mozart vuol essere discepolo di
Cristo vivendo e creando ” - conclude il teologo Hans Urs von Balthasar
- “e fa udire il canto del trionfo che accompagna la creazione prima della caduta e dopo la risurrezione, dove sofferenza e colpa non sono memoria lontana e
passato, bensì presente rischiarato e superato”.
Nell’ultimo periodo compositivo Mozart mostra apertamente una
significativa inclinazione verso quei fermenti intellettuali che, in
un’età culturalmente ricca, portano in sé i germi del romanticismo.
E’ pur vero, infatti, che la geniale produzione mozartiana ha come
peculiarità la gioia di vivere, la solarità, il piacere puro e, pertanto, di
per sé appare lontana dai chiaroscuri, dai toni drammatici e dalle
intense passioni propri dell’imminente atmosfera culturale del romanticismo. Tuttavia, appare nel contempo indiscutibile che il suo teatro
musicale, in cui l’opera buffa diventa dramma di caratteri, insuperata
incarnazione dello «spirito del tempo» e sintesi di una civiltà e di
In cammino per un sentiero storico-filosofico della musica
31
un’epoca, denota un’anima “romantica” di Mozart, verosimilmente
influenzata dallo Sturm und Drang, e anticipa in modo impressionante temi e tecniche compositive della musica del secolo successivo, il
secolo di Beethoven, Schubert , Chopin, Brahms ... . Il romanticismo
vero, però, è alle porte: già freme ribelle nei drammi giovanili di
Schiller e, per la musica, nell’opera di Beethoven, appassionata e tempestosa.
Tra i melomani di inizio ‘800 si registra, così, una spaccatura profonda tra coloro che, urtati dall’inaudita asprezza della musica beethoveniana, guardano appassionati e nostalgici all’età in cui l’arte è grazia ed equilibrio, espressa dal mito di Mozart “apollineo”, e coloro che,
vedendo in Mozart il “dionisiaco” precursore di Beethoven, scorgono
nella sua musica un presagio d’infinito, espressione del “demoniaco”
ovvero del suo “romanticismo”, e considerano di conseguenza il
«Don Giovanni» un perfetto esempio di arte romantica.
Querelle comprensibile nell’immediatezza temporale e nel tumulto
dei sentimenti, ma sostanzialmente immotivata perché“ già il viaggio in
Italia – scrive Massimo Mila - ha schiuso al Mozart adolescente le vie del
cuore, l’ispirazione appassionata e romantica nella dedizione ad un ideale di
vibrante intensità espressiva … sicché Mozart è né apollineo, né dionisiaco,
ma semplicemente umano …” in quanto “… egli non ha né l’assurdo di
un’arte che sia pura forma esteriore, impassibile e astratta, vuota d’umanità,
né il mistero di un’arte che sia trascendente rivelazione dell’inconoscibile,
messaggio sublime della divinità ... Il totale disciogliersi dell’esperienza
umana in musica – conclude Mila - è veramente la qualità in cui rifulge la
delicata “purezza” della sua arte” che fa di Mozart una creatura speciale
e un’artista sommo, e della sua musica un universo infinito di armonia, una “musica infinita”.
“Regole di vita musicale”
(Musikalische Haus-und Lebensregeln, 1845),
Robert Schumann
Liebe dein Instrument, halte es aber nicht in Eitelkeit für
das höchste und einzige. Bedenke, daß es noch andere und
ebenso schöne gibt. Bedenke auch, daß es Sänger gibt, daß
im chor und Orchester das Höchste der Musik zur
Aussprache kommt.
Ama il tuo strumento, ma non cedere alla vanità di
considerarlo lo strumento supremo e unico. Ricorda
che ve ne sono altri, altrettanto belli. E poi ricorda
che ci sono i cantanti e che l'aspetto più alto della
musica si manifesta con il coro e l'orchestra.
Die Kunst ist nicht da, um Reichthümer zu erwerben.
Werde nur ein immer größerer Künstler; alles Andere fällt
dir von selbst zu.
L'arte non è fatta per conquistare ricchezze. Cerca
soltanto di diventare un artista sempre più grande;
tutto il resto verrà da sé.
33
Letizia Colajanni
Soprano, musicologa
La “Vendetta slava”
di Pietro Platania
In un momento di particolare sconforto culturale ed economico in cui
vive il nostro paese ho scelto di investire fino ad oggi parecchi anni di
studio per una delle ragioni che mi rendono orgogliosa di essere siciliana ossia restituire un briciolo degli antichi onori tributati ad un compositore il cui nome al giorno d’oggi evoca solo a pochissimi eletti lo
splendore musicale della Palermo ottocentesca, Pietro Platania ed in
particolare ad una delle sue opere che riscosse maggior successo, la
“Vendetta slava”.1 Grazie alla mia collaborazione con la University
Minnesota Duluth nel 2011 è stato possibile dare alle stampe la versione della partitura in trascrizione moderna dell’opera.
Pur rimandando ad altra sede le nozioni biografiche sul compositore, non si può tristemente tener conto del fatto che, seppure le cronache dell’epoca gli auguravano una “gloria imperitura” ereditata direttamente da Pacini, Bellini e Coppola, nonostante Platania avesse ricoperto l’incarico di direttore del Conservatorio di Palermo dal 1863 al
1881, l’incarico di maestro di cappella al Duomo di Milano (1882-1884)
1 Per uno studio più approfondito sul tema si rimanda a L. COLAJANNI,
L’opera di un ‘popolo senza storia’, tesi di laurea A.A. 2005/2006, Università degli
Studi di Palermo; L. COLAJANNI “L’IMMORTALE” obliato, Ricostruzione storica
della biografia e delle opere di Pietro Platania, Ed. Panastudio, Palermo, 2008; L.
COLAJANNI, Francesco De Beaumont e la Vendetta Slava di Pietro Platania: un messaggio tra le righe, Ed. Panastudio, Palermo,2008; L. COLAJANNI, La Vendetta
slava, partitura dell’opera in trascrizione moderna, UMD University Minnesota
Duluth Press, Duluth, USA, 2011.
34
Letizia Colajanni
e per diciassette anni fino al 1902 quello di direttore del Conservatorio
a Napoli, il compositore fu vittima dell’oblio. Ciò fu presumibilmente
dovuto in parte a vicende storiche, in parte alla negligenza dei posteri, ma anche perché le nuove tecniche musicali e i nuovi ideali artistici ed estetici del XX secolo travolsero con ritmo veloce e convulso
uomini e cose.
La produzione operistica
Nonostante l’apprezzabile tentativo giovanile delle “Scene liriche”
tratte dal romanzo “I Misteri di Parigi” di Sue e i melodrammi “Corso
Donati”, “Francesca Soranzo”, “La corte di Enrico III” e “Camma”
(privi di datazione), senza alcun dubbio i maggiori consensi in merito
alla produzione melodrammatica di Platania sono attribuibili a
“Matilde Bentivoglio” (1852), “Piccarda Donati” (1856-1857) e la
misteriosa “Vendetta slava” rappresentata al Real Teatro Carolino di
Palermo nella stagione 1864-1865 e due anni dopo, col medesimo favore, al Teatro Argentina di Roma. Seguono poi “Giulio Sabino” (s.d.)
e “Spartaco” (1891).
La produzione operistica del primo periodo è stata definita da
Francesco Guardione, il primo biografo e concittadino di Platania,
come emblema di ciò “che è creduto sentimento profondo della musica nazionale2” proprio per la capacità di mettere in scena, seppur
mediati da opportuni artifici metaforici, soggetti chiave della storia
italiana coeva. In realtà il richiamo a quel valore storico e nazionale di
cui il nostro paese poteva finalmente vantarsi dopo l’Unità permea
quasi tutta la produzione di Platania tant’è vero che il proemio sinfonico di “Spartaco” entrò immediatamente a pieno titolo a far parte del
repertorio sinfonico sino alla seconda guerra mondiale.
Tra le opere citate la “Vendetta slava” è sicuramente tra le più
emblematiche, un’opera chiave nella lettura storica dell’epoca e affascinanti misteri hanno probabilmente custodito in essa un segreto
2 F. GUARDIONE, Pietro Platania (Milano 1908) successivamente ristampato
come: Pietro Platania. Memoria biografica dettata per l’Omaggio reso in Palermo dal R.
Liceo “Bellini” il dì 21 maggio 1910, Palermo, Amoroso, 1910.
La “Vendetta slava” di Pietro Platania
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messaggio per difenderlo dalla censura o dal silenzio. Dalla prima
questo gioiello melodrammatico si è salvato, dal secondo purtroppo
no.
Un misterioso librettista
Contrariamente alle altre fonti Ottavio Tiby è il solo a riportare il
nome di Francesco Maria Piave quale autore del testo poetico della
“Vendetta slava”: l’illustre librettista che aveva regalato i versi ad alcune celeberrime opere di Giuseppe Verdi.
Un cospicuo numero di altri documenti riporta invece il nome di
Francesco De Beaumont e ciò viene confermato da una copia a stampa della “Vendetta slava”, nella versione ridotta per canto e pianoforte edita da F. Lucca (1871), dal manoscritto autografo di Pietro Platania
della partitura incompleta conservata presso la Biblioteca del
Conservatorio “S. Pietro a Majella” a Napoli, e ancora da una copia a
stampa per canto e piano del duetto “O mia Lida” (soprano-tenore),
pubblicato come numero staccato dall’opera ancora nella riduzione
per canto e piano edita da F. Lucca e conservato presso la Biblioteca del
Civico Istituto Musicale “Gaetano Donizetti” di Bergamo. A questi dati
va aggiunto il libretto stesso della “Vendetta slava”, conservato presso
la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.
Pur attestata la sua esistenza, molto scarse, per non dire pressoché
inesistenti, sono le notizie biografiche su Francesco De Beaumont, personaggio certamente stimatissimo dai suoi contemporanei. Tra le varie
opere del misterioso, poliedrico e colto De Beaumont, infatti, ve n’è
una che diventa indispensabile per comprenderne le origini e il pensiero sulle complesse mutazioni storiche che l’Italia era impegnata a
vivere soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento. Si tratta dell’ode
“Dopo sei secoli” dedicata a Dante Alighieri (1865) in cui l’autore scrive:
D’italo cor anch’io,
non ultimo tra’ figli dell’Oreto,
ad onorar il padre vostro e mio,
mesco ai vostri i miei versi e la mia cetra.
Beaumont è dunque senza dubbio un palermitano che, attraverso la
carica espressiva degli appassionati versi che compongono l’intero
36
Letizia Colajanni
scritto, manifesta sia il forte legame che lo unisce alla sua terra natale,
sia la sua esultanza per l’avvenuta unificazione dell’Italia.
Un’ulteriore conferma della “palermitanità” di Beaumont ci viene
confermata nel suo “Gregorio Ugdulena: ricordi biografici” del 1872
che è l’elogio di un conterraneo nonché di un amico3. I due, verosimilmente frequentatori degli stessi ambienti, erano certamente coinvolti
nella politica e nelle vicende storiche del loro tempo.
E fin qui tutto sembrerebbe essere discutibile ma abbastanza verosimile.
Nella quarta di copertina dello scritto “Pianto e riso” di Giuseppe
Sapio, poeta e letterato siciliano operante nella seconda metà
dell’Ottocento, nonché librettista stabile del Real Teatro Carolino (non
a caso il teatro palermitano in cui fu rappresentata per la prima volta
l’opera), compare tra le «altre opere dell’autore» proprio la “Vendetta
slava”4. Sapio era, senza alcun dubbio, un esperto conoscitore delle
lettere e del teatro e non sarebbe fuori luogo dunque prendere in considerazione l’ipotesi che Giuseppe Sapio avesse potuto utilizzare lo
pseudonimo di Francesco De Beaumont per differenziare gli ambiti
letterari che trattava, cosa confermata anche da una incredibile somiglianza nella grafia dei due. Se Giuseppe Sapio era dunque il librettista effettivo del Real Teatro, la probabile scelta dello pseudonimo De
Beaumont avrebbe potuto forse avere lo scopo di abbracciare quelle
opere di genere più elevato della poesia di stampo classico, evidentemente poco consono alle scene teatrali dell’epoca.
Inoltre da un attento confronto tra le datazioni delle produzioni
attribuite alle opere ora dell’uno, ora dell’altro, emerge che quelle a
nome di Sapio e quelle a nome De Beaumont solo raramente queste
furono redatte contemporaneamente e una dei rarissimi casi in cui ciò
si verifica è proprio quello della “Vendetta slava”.
Altra coincidenza. Nel medesimo periodo in cui visse Giuseppe
Sapio, si andava affermando la produzione musicale del figlio
Romualdo, studente al Conservatorio di Musica di Palermo negli stessi anni in cui Platania era direttore. In una copia autolitografata dell’
3 F. DE BEAUMONT Gregorio Ugdulena: ricordi biografici, Roma, Tipografia di
Giovanni Polizzi, 1872.
4 G. SAPIO, Pianto e riso ovvero due melodrammi di Giuseppe Sapio, Palermo,
Tipografia di Michele Amenta, 1871.
La “Vendetta slava” di Pietro Platania
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“Inno popolare del Vespro” di Platania, sui versi di Antonio Ugo,
Romualdo Sapio compare proprio come autore della riduzione per
pianoforte.
Il valore dell’identità nella “Vendetta slava”
La “Vendetta slava” è un’opera che rispetta un’impostazione molto
tradizionale sia nella suddivisione in numeri, sia nella scelta del soggetto dell’opera.
Eccone in breve la sinossi.
Atto I
Nella città di Reidgost, sulle sponde del Danubio nel X secolo, Lida festeggia l’anniversario delle sue nozze. All’arrivo in città del fratello Ivano, Lida
trasale al pensiero che il fratello non approverà le sue nozze con un uomo
dello stesso sangue dell’assassino del genitore Svaran, ucciso tempo addietro
da un misterioso veneziano.
Veniero, lo sposo di Lida, condannato a vivere da esule in terra straniera,
incontra Ivano nel tempio di Perun. Comal, un vecchio slavo vedendolo, lo
riconosce come il veneto che ha salvato suo figlio e gli va incontro. Ivano
intuisce che possa trattarsi dell’uccisore di suo padre. Veniero, in buona fede
è disposto anche ad un atto di pentimento ma un uragano impetuoso spalanca la porta del tempio: Perun non approva quest’atto di pace.
Atto II
Ivano osserva la una veste insanguinata del padre, cimelio che non può
essere sottratto alla vista fino a ché la vendetta non sia compiuta.
Lida, che nel frattempo ha raggiunto il fratello, gli dichiara di nutrire
anche lei desiderio di vendetta nei confronti dell’uccisore del padre. Ivano le
consegna allora il pugnale dell’assassino e col quale si dovrà compiere la vendetta.
Al racconto della donna, Veniero la incita a perseguire nel suo intento.
Lida nel pieno della rabbia, estrae dal seno il pugnale consegnatole dal fratello. Veniero ne dichiara immediatamente la proprietà e rimane impietrito rendendosi conto del tragico errore commesso.
Atto III
Comal suggerisce a Veniero di fuggire, ma il solo pensiero di abbandonare la moglie ed il figlio lo strazia. Lida vede Veniero in fuga e gli chiede di partire con lui portando anche il figlioletto. Ma sopraggiunge Ivano accortosi del
tradimento di Comal e ferisce a morte Veniero: la vendetta è giunta a compimento.
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Letizia Colajanni
Una perfetta impostazione melodrammatica dunque: una eroinasoprano vittima dell’amore e degli affetti, un baritono antagonista, e
un marito - tenore innamorato e intimamente lacerato, ed in ultimo
(nonché forse l’elemento più interessante) un dramma familiare che si
dilata fino a coinvolgere un intero popolo. Aspetti che risentono notevolmente delle tendenze del secolo e quindi delle suggestioni dell’ormai dilagante grand-opèra, in cui il coro assume un’importanza fondamentale tanto da divenire spesso l’indiscusso protagonista, come
Verdi e Meyerbeer ci insegnano. A questo riguardo va detto che molti
letterati e musicisti ispirati alle tendenze di stampo proto-nazionalistico allora in auge, non riuscirono a non cedere alla tentazione di rivolgere la loro attenzione alla coralità dei popoli senza distinzione di
razza, cultura e religione.
È questa una delle ragioni per le quali la particolarità dell’argomento scelto da Beaumont non dovette stupire più di tanto gli spettatori ed
i critici che assistettero alla prima della “Vendetta slava”.
“Gli Slavi, popolazione originale, che in epoca oscura alla storia, avendo
abbandonato i dintorni del mar Baltico, vennero a stabilirsi tra l’Elba, la
Vistola e il Danubio, son noti per la loro indole selvaggia e caratteristica.
Teneano sacra la vendetta, e non toglievansi di vista il vestimento dell’ucciso,
se non dietro averlo vendicato. L’ospitalità, l’amicizia, l’amore aveano in essi
quella decisa energia ch’è proprio di ogni tribù selvaggia. Nel secondo decimo
i Veneziani, avendo conquistato la Dalmazia, ebbero che fare eziandio con la
Slavonia, sulla quale voleano estendere il loro dominio. L’autore si è valso di
questo filo istorico come fondamento del presente dramma”5.
Questa l’importante avvertenza che De Beaumont premette al
libretto.
Com’è stato dimostrato nel paragrafo precedente, il librettista
(chiunque egli fosse) era un uomo estremamente colto e poliedrico,
che sicuramente aveva raccolto parecchio materiale sull’argomento da
trattare, anche per non correre il rischio di relegare le vicende storiche
dei suoi slavi a mero strumento di un gusto esotico ormai dépassé.
5 Libretto dell’opera, F. DE BEAUMONT, Vendetta slava/ Melodramma in tre atti
da rappresentarsi nel Real Teatro Bellini di Palermo nell’anno teatrale 1864-65. Palermo,
Stabilimento tipografico di Fr. Lao, Salita Crociferi num.86., 1865.
La “Vendetta slava” di Pietro Platania
39
Sensibile a quello che nel corso del XIX secolo era noto come “Rinascimento slavo” o “Panslavismo”, egli ben conosceva quel sentimento nazionalista risvegliatosi dopo la rivoluzione del 1848 che animava quelle genti e che anelava a tutti i costi di ricercare origini culturali (e folkloriche) per individuare i punti di contatto che avrebbero
funto da aggreganti delle diversità etniche racchiuse nel riduttivo termine “slavi”.
Una forte componente del patrimonio culturale di quelli che Engels
ha tristemente definito “popoli senza storia”, infatti, compare in modo
prepotente nella “Vendetta slava”. L’elemento religioso per esempio, si
manifesta continuamente attraverso riferimenti al dio Perun, dio del
fulmine e della luce, in cima al pantheon slavo. Intorno a Perun la
comunità slava si riunisce in preghiera sul finale del I atto della
“Vendetta slava” ed all’interno del suo tempio i due protagonisti
maschili sono in procinto di dichiararsi reciprocamente, pur controvoglia, pace, ma il dio non approva il patto e scaglia sulla terra i suoi fulmini.
Un’altra divinità slava era Radigost, protettore delle città, dei commercianti, degli stranieri e dell’ospitalità. Il suo culto ha lasciato tracce nella toponomastica tedesca, come nel caso della cittadina di Alt
Rehse, anticamente chiamata Redigast, Radigast, Redigost o Rethra da
slavi e tedeschi, verosimilmente “l’amena campagna sulle sponde del
Danubio” in cui è ambientata la “Vendetta slava”. D’altro canto, quale
migliore ambientazione avrebbe potuto scegliere il saggio De Beaumont per parlare di ospitalità tradita e per portare avanti il valore
metaforico che l’opera possiede? E soprattutto, perché questi temi
hanno sposato perfettamente sia il genio di Platania che quello del
librettista della Vendetta slava?
Una risposta ce la fornisce indubbiamente la storia.
Nel 1848 l’unico stato slavo indipendente era la Russia, mentre le
altre popolazioni erano ancora sottomesse all’impero asburgico o
all’impero ottomano. Il desiderio dei popoli sottomessi, sia dalla prospettiva slava che da quella italiana, entrambe vittime delle culture
dominanti, era unico e prepotente: trovare una risposta al concetto di
patria.
La problematica della nazionalità come simbolo culturale dell’identità e dell’appartenenza territoriale divisa tra i sentimenti di nazionalismo e cosmopolitismo, è una costante nella storia di quest’angolo
dell’Adriatico, definita per comodità Mitteleuropa: austriaca dal 1798
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Letizia Colajanni
al 1918, da sempre considerata una terra di confine, in bilico tra tre
mondi e tre civiltà (italiana, tedesca e slava), una sorta di barriera contro l’invasione dello straniero, del diverso, ma contemporaneamente
cerniera che favorisce l’incontro e lo scambio.
Il contesto storico nel quale la “Vendetta slava” andò in scena potrebbe suggerirci il suo valore metaforico di sensibilizzazione degli italiani nei confronti della situazione del popolo slavo, sottomesso all’impero asburgico e che
attende di essere liberato, esattamente come gli italiani delle terre irredente.
Se in più si considera che in quegli anni acquistò credito la teoria sulla progenitura baltica dei popoli slavi, secondo la quale pare che gli slavi discendessero dai Veneti (nei quali a loro volta si è voluto vedere dei protocelti),
l’opera di sensibilizzazione toccava lo spirito nazionalistico ancor più nel profondo e la relazione italiani/slavi appariva ancora più chiara.
Il libretto, dunque risulta essere sia allegoria dello slavo oppresso
dall’Austria, ma anche allegoria degli italiani che vivevano in quelle terre e
che ancora attendevano di unirsi alla madrepatria.
Sotto questa prospettiva, inoltre, ammesso che la figura di De Beaumont e
quella di Sapio si equivalgano, sarebbe allora comprensibile l’atteggiamento
del librettista del Teatro Carolino, che sotto lo pseudonimo di De Beaumont
ha fortemente urlato il valore dell’identità nazionale e ha diplomaticamente
tutelato se stesso e il suo messaggio politico, mantenendosi al di fuori di qualsiasi tipo di equivoco. Il librettista, e con lui certamente anche Platania, in
quanto italiani consapevoli dei mutamenti che stavano profondamente modificando l’Italia, si auguravano che i loro connazionali residenti nelle terre
irredente potessero far parte della nuova Italia, senza però ignorare le aspirazioni dell’altra componente etnica.
Le fonti
L’analisi della “Vendetta slava” che qui si propone si basa sullo studio della partitura manoscritta conservata presso la Biblioteca del
Conservatorio “S. Pietro a Majella” di Napoli, ove è stato possibile
consultare anche bozze ed appunti autografi dell’autore6. Un’attenta
6 PIETRO PLATANIA, La Vendetta slava, Ms., 1865. Napoli, Biblioteca del
Conservatorio “S. Pietro a Majella”. Segnatura - I-Nc. Platania 24.3.
La “Vendetta slava” di Pietro Platania
41
analisi rivela che la partitura differisce in taluni particolari a causa dei
cambiamenti apportati nella suddivisione delle scene rispetto alla
copia del libretto rintracciata alla Biblioteca Nazionale Marciana di
Venezia.
In un abbozzo dell’opera7, e nel pezzo corale “Vel dissi quel vecchio” (III, 2), il compositore fornisce come riferimento la locuzione
“Lida slava” che presumibilmente doveva essere il titolo originario
dell’opera. La donna slava infatti è colei che in sé assume il contrasto
dell’intera vicenda: il travagliato amore per Veniero, il nemico del suo
popolo e la brama di vendicare il padre Svaran ucciso da quel misterioso veneziano che verrà identificato proprio nel suo consorte. A ciò
si aggiunge la pressione che esercita su di lei il fratello Ivano, il quale
la richiama costantemente a questo dovere, anche quando la donna
sarebbe propensa al perdono.
Osservando il manoscritto originale allo stato attuale, al preludio
segue immediatamente l’ingresso del coro che intona il marziale “Già
perduto si credea”, che occupa la scena 4 del I atto e che nel libretto è
invece preceduto da un pezzo corale (“Come ride l’Orïente”), in cui si
assiste ai festeggiamenti dell’anniversario delle nozze di Lida (I, 1) e
alla presentazione del suo stato emotivo (I, 2). E’ plausibile pensare
che la prima scena, in cui tra le altre cose era presente anche la cavatina di Lida “O care e liete immagini” sia andata smarrita o non assemblata ai fascicoletti staccati che completano il manoscritto.
Fortunatamente possiamo conoscere l’aria di Lida insieme a quelle
degli altri protagonisti e ad alcuni duetti, grazie alle riduzione per
canto e pianoforte pubblicata da F. Lucca8.
Da un confronto con i numeri pubblicati da Lucca e il manoscritto,
l’altra aria che risente di profonde modifiche in partitura è quella di
Veniero “O mia Venezia”, cassata nel manoscritto addirittura da alcune cuciture di spago. In corrispondenza di questo numero compaiono
dei segni (i riferimenti personali di Platania) che rimandano ad alcuni
appunti in cui si ritrova la cavatina di Veniero in una forma molto
7 Si tratta di appunti riguardanti il duetto Lida - Veniero “Venier mi fuggi? E
il puoi?” (III, 4).
8 Vendetta slava: melodramma tragico in tre atti i F. De Beaumont, musica del
Maestro Cav.e P. Platania; riduzione con accompagnamento di pianoforte, Milano, F.
Lucca, 1871 ca.
42
Letizia Colajanni
simile a quella presentata dalla versione edita.
L’altro dato importante riguarda l’aria di Ivano “Per ignoti estranei
lidi”. Non un’omissione, ma un’integrazione del libretto; questo, privato di due versi («Ombra del padre irata / Ah placati, sarai tu vendicata!»), è stato farcito della splendida aria.
Al di là di queste annotazioni, la partitura manoscritta è estremamente fedele al libretto e dalla scena 4 del I atto alla 10 il testo del
librettista è rispettato quasi appieno. Di tanto in tanto Platania apporta qualche modifica ai versi per adattarli ad esigenze strettamente
musicali che gli impongono di variare la struttura metrica. L’ingresso
di Ivano (I, 5), per esempio, che riporta nel libretto il verso “O cara
terra! O cielo!” viene invece sottolineato dal più diretto “O patria! O
cara patria!” per dare sicuramente maggiore rilievo a quel concetto
d’identità e di appartenenza alla patria tanto caro sia al librettista che
al compositore. La “patria” è il valore primario ed assoluto che dominerà gli ideali del prode slavo, e attraverso la sua mediazione, anche il
più alto valore di un intero popolo. Questo è solo un esempio, di come
Platania sappia abilmente impiegare tutte le componenti del linguaggio musicale al fine di ‘tradurre’ con incredibile chiarezza ciascuna
indicazione temporale, spaziale e scenica fornitegli dal libretto di
Beaumont.
La “Vendetta slava” si apre con un preludio, secondo la prassi del
XIX secolo, quasi un “avvertimento ai lettori” in cui vengono fin dall’inizio stabilite le finalità timbriche. L’organico è immediatamente
molto ampio poiché, nel presentare le atmosfere che saranno poi sfruttate nel corso dell’opera, esso deve necessariamente comprendere al
suo interno gli strumenti che connoteranno con la loro tinta determinati aspetti descrittivi, gestuali e psicologici.
Il preludio si apre con l’enunciazione di quello che definiremo
“tema della vendetta”, che comparirà infinite volte, trasferito da uno
strumento all’altro e con variazioni dell’impianto armonico obbedienti a precise finalità espressive.
La “Vendetta slava” di Pietro Platania
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ES. 1 - Tema della vendetta (Preludio atto I)
Ancora nel preludio si può rintracciare non un vero e proprio tema
ma il principio tematico del cromatismo che sarà più avanti alla base
della preghiera corale “O formidabile possente Nume” (I, 8).
ES.2 - Cromatismo in funzione di ‘colore locale’ (Preludio atto I)
Il tema della vendetta viene sottoposto da Platania a continue variazioni melodiche e timbriche come a voler sottolineare un avvenimento che è stato interiorizzato dalla comunità e che anche ogni strumen-
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Letizia Colajanni
to, esponente timbrico di un preciso ruolo attribuitogli, ha fatto proprio. Questo materiale tematico appare dunque come già consumato
in tutte le sue possibili varianti fin dall’inizio dell’opera, esattamente
come consumato è già stato il delitto di Svaran di cui la vicenda drammatica è conseguenza. Il cromatismo della preghiera, invece, non
viene sviluppato ma accennato come richiamo al “colore locale” di cui
la pratica religiosa della collettività slava (I, 8) si tinge nella mente di
Platania. Esso resta una cellula di minuscole proporzioni, un assaggio
di ciò che accadrà più avanti come conseguenza e maturazione dell’assassinio non perpetratosi in scena, ma nella mente dell’ascoltatore
attraverso la reiterazione del tema della vendetta nel preludio.
Una volta che l’autore ha effettuato la sua dichiarazione d’intenti
nel preludio, viene dato il via a quello scambio comunicativo fra i personaggi, attraverso il quale il compositore invia un messaggio diretto
allo spettatore.
Platania spesso riesce sapientemente a trasformare la musica in
scena da credibile paradosso (come può esserlo un dialogo tra due o
più personaggi che anziché parlare cantano!) in elemento riconosciuto
dall’intera collettività nella sua funzione di evento sonoro autentico,
che quindi risuona ai personaggi esattamente allo stesso modo in cui
risuona agli spettatori. Ciò accade per esempio nella preghiera corale
“O formidabile possente nume” (I, 8), l’intima preghiera d’invocazione al dio Perun in cui l’intera comunità slava può riconoscersi esattamente come il popolo ebreo ritrova la sua unione spirituale nel
“Nabucco” verdiano. Nella “Vendetta slava”, inoltre, Perun interagisce con la comunità di fedeli e risponde alla preghiera scagliando la
sua arma, il fulmine. Il tema dominante dell’episodio corale si identifica in questo caso con una cellula melodica che risuona a diversi e
molteplici livelli timbrici, una scaletta cromatica discendente, da intendersi anche come la personalissima idea del compositore di caratterizzare un popolo attraverso uno squarcio di “colore locale” soggettivo.
La “Vendetta slava” di Pietro Platania
ES.3 - Introduzione strumentale “O Formidabile possente Nume” (I, 8)
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Letizia Colajanni
ES.4 - Coro: “O Formidabile Possente Nume” (I, 8)
Altro interessante elemento che Platania utilizza per sottolineare
timbricamente la sacralità di un particolare momento scenico è l’harmonium, spesso impiegato come succedaneo dell’organo nelle composizioni di Rossini e Richard Strauss.
ES. 5 - Primo intervento dell’harmonium
nella preghiera “O formidabile possente Nume” (I, 8)
In corrispondenza del sesto verso dell’invocazione («Tu all’alme
suscita la speme ardita») all’harmonium si sostituisce il suono cristallino dell’arpa, altro topos timbrico nella storia del melodramma ottocentesco da Verdi a Bellini, da Gluck a Donizetti, carico di una connotazione antica o ancestrale.
La “Vendetta slava” di Pietro Platania
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ES. 6 - L’harmonium viene sostituito dall’arpa
L’arpa, lo strumento che per antonomasia connota la dimensione
onirica, accompagna spesso il ricordo dei protagonisti che vivono lo
stato di una mente straniata dalla dimensione reale. E’ quanto accade
a Lida (“O care e liete immagini”) rapita dal ricordo di un passato felice, a Veniero che ricorda la sua Venezia e nel duetto Comal-Veniero
(“Vieni ti seguo intrepido”).
E ancora l’impiego dell’arpa, che Platania ha scelto di alternare all’harmonium nelle scene di preghiera è non a caso lo strumento che
accompagna frequentemente i momenti d’incontro tra Lida e Veniero,
i due esponenti di una morale positiva: il cristiano e sua moglie, la
slava presumibilmente cristianizzata. Il cristallino ed etereo suono dell’arpa che si associa timbricamente alla positività, talvolta ingenua se
vogliamo, dei personaggi, scompare per lasciar spazio alla tempestosa
irruenza di ottoni, legni e percussioni che accompagnano gli ingressi
in scena di Ivano, prototipo classico del baritono ottocentesco: l’antagonista che non teme gli oppressori, il raggiratore mefistofelico, il barbaro traditore degli affetti, a cui, nell’intimità dei pensieri, fa da eco il
timbro caldo e suadente del violoncello.
48
Letizia Colajanni
ES.7 - Incipit atto II Tema della vendetta in modo maggiore
affidato ai violoncelli
Dopo la prima frase di Ivano (“Il doppio oltraggio alla paterna
tomba”) comincia un gioco di intarsi: il tema della vendetta diventa
martellante, quasi ossessivo, si modifica seguendo il flusso della
coscienza, compare variato e trasportato, per ben sei volte solo nel
recitativo, risuonando nei contrabbassi, nei fagotti e poi nel coro di
uomini in lontananza, quasi con la funzione motivica inconsapevole
del Leitmotiv wagneriano.
Se un particolare timbro può fungere da tratto identificativo di un
personaggio ed essere ad esso associato, una precisa scelta timbrica
può sottolineare anche la descrizione dello spazio, elemento tuttavia
imprescindibile dal personaggio che lo occupa. Nel caso di Veniero si
tratta di uno spazio vitale negato che può solo realizzarsi attraverso
l’evasione mentale in un mondo, Venezia e la sua laguna, che non può
più appartenergli, e che rappresenta la sua utopia di libertà. Veniero in
Slavonia è completamente solo, perché vive la condizione umana e
sociale dell’emarginato; l’immagine della laguna veneta gli offre uno
spazio mentale in cui egli può trovare conforto.
Profondamente diversa è la solitudine di Ivano (II, 1), pienamente
integrato socialmente, lo slavo pone invece la sua forza proprio nelle
sue radici, ribadite ossessivamente dal coro attraverso la riproposizione del tema della vendetta che espleta la funzione della sua coscienza,
il suo ‘luogo mentale’.
Lo spazio della “Vendetta slava” è costituito in prevalenza da un paesaggio esterno sereno in contrapposizione ad uno spazio interno che,
La “Vendetta slava” di Pietro Platania
49
come nel caso di Ivano nella squallida solitudine della sua stanza (II, 1)
funge da metafora rivelatrice circa lo stato di turbamento dei personaggi in esso calati. L’eccezione si ha durante il tentativo di fuga da parte di
Veniero (III, 4) in cui l’ambiente notturno esterno è il funesto presagio
del triste epilogo. La musica risponde con estrema coerenza alle indicazioni fornite dal libretto: una cellula melodica formata da tre quartine di
biscrome fluttua attraverso le viole, i violoncelli (con i violini secondi) e
i violini primi, dipingendo il moto delle onde sulle quali sta viaggiando
l’imbarcazione che sarebbe servita a Veniero per la fuga.
ES. 8 - Moto delle onde ( III; 4) - Ed. Lucca per canto e pf.
La funzione di accompagnamento strumentale alla gestualità dei
personaggi è qui quanto mai esplicativa. La dimensione temporale
50
Letizia Colajanni
sembra autonoma e concepita secondo un sistema musicale atto a consentire l’espletamento dei tempi scenici e a rendere credibile l’evoluzione psicologica dei personaggi coinvolti.
La musica, che non possiede né forme verbali che definiscano un
tempo dell’azione, né strumenti che precisino lo spazio, costringe
l’ascoltatore all’unica dimensione possibile: il presente. Lo scarto cronologico è possibile solo grazie all’impiego della reminescenza, che
pur non essendo rappresentazione chiara di un passato, di un ricordo
o di un proposito, si offre all’orecchio attento in forma di segmento di
un ‘mondo parallelo’ rispetto a quello in cui i protagonisti si muovono: una dimensione che scorre in sincronia con il presente; un passato
che, in questo caso, risuona ostinatamente nel tema della vendetta e
che attraverso le sue continue apparizioni annulla la distanza tra i
piani temporali dell’intera opera.
51
Nino Gardi
Pianista, concertista, docente nei Conservatori
di Stato
Lo stile classico
nell’interpretazione
e nell’esecuzione pianistica
Le ultime pagine del libro “Il Bianco e il Nero”1 esprimono l’augurio che, in un prossimo futuro, i musicisti, i critici musicali e i musicologi più attenti, più coraggiosi e più intraprendenti, riascoltando le più
celebrate esecuzioni dei più celebrati pianisti attraverso l’amplissima
documentazione discografica di cui oggi possono disporre, vogliano
ricercarvi e sappiano rinvenirvi la presenza di elementi comuni o, per
dir meglio, la presenza di atteggiamenti interpretativi e di procedimenti esecutivi condivisi che, in un accurato raffronto fra tutte quelle
realizzazioni, pur tra le molte diversità che le distinguono e le differenziano l’una dall’altra, appariscano come “costanti invariabili” del loro
modo di esprimersi.
Tali costanti, una volta identificate in modo certo, potrebbero a
nostro avviso esser poste alla base di un costituendo codice di “stile
classico” dell’esecuzione musicale, un codice, cioè, che si mostrasse
capace di dar forme e indirizzi certi, sia al modo di operare di chi la
pratica, ossia dei concertisti, sia al modo di ascoltare di chi ne fruisce,
ossia del pubblico che frequenta i concerti.
Appare subito evidente che un simile progetto non è per niente facile a compiersi. Esso, anzi, sembra l’invito a percorrere un vicolo cieco.
Ancor peggio, il tentativo stesso di percorrerlo rischia di esser giudicato come un irresponsabile attentato alla libertà d’espressione che è
1 N. Gardi, Il Bianco e il Nero, Zecchini Editore, Varese, 2008, Cap. XVIII, § III.
52
Nino Gardi
sacrosanto requisito di ogni attività d’arte, e quindi anche di un’attività com’è quella dell’arte dell’interpretazione-esecuzione musicale,
benché la sua appartenenza a pieno titolo al mondo dell’arte sia tuttora “sub judice”.
Appare poi evidente che le esecuzioni più meritevoli di restare
nella storia sono soprattutto quelle che presentano i tratti caratteristici
più marcati, tratti che sembrano riconducibili a un loro esclusivo e inimitabile stile, capace di distinguerle perfino da altre realizzazioni dei
loro stessi interpreti-esecutori. Volerne ricavare elementi e aspetti
codificabili, e quindi applicabili come regole, sembrerebbe comportare il rischio di svilire proprio i singolari, irripetibili risultati artistici che
ciascuna di quelle esecuzioni ha saputo raggiungere.
Vi sono bensì dei periodi storici in cui alcune eccellenti realizzazioni, pur senza perdere i loro meriti e le loro peculiari qualità, si sono
adattate a certe consuetudini interpretativo-esecutive ricorrenti e
accettate senza esitazioni dai concertisti e dal pubblico, ossia a certi
modi di interpretare e di eseguire che, appunto, considerate e divenute “di moda”, sono state unanimemente e inconsciamente assunte
quali paradigmi stilistici. Ma, come si usa dire, a giudizio dei posteri,
ossia a un successivo giudizio più attento e ponderato, l’eco di simili
consuetudini si è rivelata come fattore secondario e irrilevante che, di
per sé, non ha saputo né esaltare né inficiare le autentiche qualità artistiche delle più gloriose fra quelle esecuzioni. Le definizioni di
“moda” e di “stile”, quantomeno secondo il significato che qui si vuol
loro attribuire, non sono per nulla equivalenti, e nemmeno assimilabili. Al contrario, sono, per molti versi, antitetiche. Se vogliamo ricorrere ad un paragone “di moda” per giustificare questo asserto, possiamo
figurarci una persona che sappia vestirsi con “stile” senza vestire “alla
moda” e, al contrario, una persona che pur vesta “alla moda” senza,
con ciò, sapersi vestire con “stile”.
Nel mondo della Musica non sono nemmeno mancate celebri Scuole
pianistiche che hanno preteso di essere depositarie di tutti i segreti dell’arte dell’interpretazione e dell’esecuzione e di dettar legge su ogni loro
aspetto. Ma, anche in questi casi una semplice riflessione oggi ci aiuterebbe di comprendere che, se tutto ciò fosse stato vero, l’interpretazione-esecuzione musicale si sarebbe allora cristallizzata, una volta per
tutte, in una serie di immutabili archetipi, così che il mestiere dell’interprete-esecutore, svolto quantomeno nella forma fino ad oggi conosciuta
e consueta, non avrebbe avuto più ragione di esistere.
Lo stile classico nell’interpretazione e nell’esecuzione pianistica
53
In un panorama tanto vasto e tanto vario come quello offerto dall’attuale documentazione disco-video-grafica dell’esecuzione musicale, le realizzazioni più gloriose, quelle registrazioni che, ad ogni nuovo
ascolto, riconfermano la loro intatta grandezza, sembrano dunque
esser affatto irriducibili a qualsiasi indagine che tenti di estrarne una
pur minima quantità di procedure esecutive compartecipate e conformi ad un codice stilistico da tutti accettato.
Ma, a pensarci proprio bene, le cose non stanno affatto così.
Innanzitutto, in ognuna di quelle grandi performances, a unanime
giudizio di chiunque l’ascolti, si mostrano presenti ed evidenti alcune
qualità che potrebbero esser definite come le virtù capitali dell’interpretazione e dell’esecuzione musicale.
Esse, a nostro avviso, sono almeno quattro: primo, la fedele aderenza ai valori musicali del testo interpretato ed eseguito; secondo, la sincerità delle ideazioni interpretative-esecutive germinate dal testo stesso; terzo, la chiarezza, la concisione e la moderazione con cui quelle
ideazioni sono espresse; quarto, la continuità dell’impegno espressivo,
presente in ogni momento dell’esecuzione.
Per quanto riguarda il punto primo, non può esservi grande esecuzione che, pur nella sua singolarità, non aderisca pienamente ai valori
musicali del testo interpretato. Anzi, quanto più elevato sia giudicato
il suo livello, tanto più unanime l’attribuzione di veridicità interpretativa: dalla maggior parte degli ascoltatori essa sarà addirittura assunta come “pietra di paragone” dell’interpretazione del testo stesso.
In simili esecuzioni ogni nota, ogni pausa, ogni “segno” del testo
trova e rende manifesta la funzione che svolge nella partitura. Ogni
buon interprete-esecutore sa di dover realizzare ognuno di quei segni
con la stessa cura, con la stessa “intenzione” con cui il compositore lo
ha ideato e quindi tracciato sul pentagramma, e ogni buon ascoltatore
allora ne sa accogliere la realizzazione con un sentimento di più illuminata e profonda comprensione del significato musicale che riveste.
Ciò significa che in una esecuzione “classica” nessuna nota può
essere suonata in modo “indifferente”. Eccezion fatta per l’esecuzione
di quei procedimenti compositivi che intendono riprodurre sul pianoforte suoni prolungati, utilizzati come campiture sonore, quali trilli,
tremoli e simili sonorità “di sfondo”, che ovviamente richiedono successioni di suoni uniformi, ogni suono di ogni semplice tratto, ossia
ogni nota di ogni semplice passaggio deve trovare il suo peculiare
significato ritmico, melodico, armonico, dinamico, ecc., che non può
54
Nino Gardi
essere eguale a quello dei suoni ad esso contigui. Ad esempio, in una
semplice scala diatonica ciascuna nota deve suonar differente dalla
successiva, perché differente è, nel contesto, la sua collocazione ritmica, differente la sua altezza, differente la sua implicita armonizzazione, spesso differente anche il suo requisito d’intensità, ecc., ecc. I tanti
“Esercizi per l’eguaglianza delle dita” serviranno bensì per allenarne
le articolazioni e per correggerne le involontarie disuguaglianze... ma
non sia mai che una pur semplicissima scaletta di Mozart venga eseguita come un “Esercizio”!
Quanto al punto secondo, come raccomanda Leopold Mozart nel
suo “Versuch einer gründlichen Violinschule”: “The performer must play
everything in such a way that he will himself be moved by it”2, il pianista di
classe sa che sue ideazioni interpretative-esecutive devono essere trasparenti e genuine per “far sentire” al pubblico l’autenticità delle emozioni musicali suscitate in lui dall’opera che si appresta ad interpretare e ad eseguire. Nella sua realizzazione egli sa di dover evitare con
estremo rigore tutte quelle autosuggestioni e tutti quegli auto-compiacimenti riconducibili a fattori esterni che, seppur allettanti e fascinosi,
siano estranei alle cagioni prettamente musicali che devono produrre
le sue emozioni e le sue idee. Così, dopo simile severo autocontrollo,
egli a buon diritto potrà confidare, e far sentire di confidare in se stesso e nella forza dei propri intenti espressivi. Solamente a tali condizioni egli potrà trasmettere le sue idee con la voluta pregnanza ed efficacia ai suoi ascoltatori, e solamente a tali condizioni gli ascoltatori stessi sapranno farne tesoro e partecipare idealmente “in presa diretta”
alla sua performance.
Ma per poter sempre aderire fedelmente ai valori espressi nella partitura, il buon esecutore-interprete, ogni nuova volta che ne affronta la
realizzazione, sa di dover rivivere le sue emozioni musicali e ri-determinare le sue scelte esecutive con rinnovata libertà, ossia dovrà riavvicinarsi a quella partitura rimettendo daccapo in gioco la sua intuizione, la sua immaginazione e il suo giudizio. Un’esecuzione priva di
codesta sincera, sentita, rinnovata partecipazione, suonerebbe fredda e
scostante e anche il più volenteroso tentativo di corrispondere fedel-
2 N. Gardi, La Coscienza di Arturo, La Finestra Editrice, Lavis (TN), 2003, Cap.
XVIII, § I, n. 11 (L’esecutore ‘deve suonare ogni cosa in tal modo che egli stesso ne
sia commosso’).
Lo stile classico nell’interpretazione e nell’esecuzione pianistica
55
mente a tutti requisiti musicali del testo eseguito ne rivelerebbe una
fedeltà falsa e “di maniera”.
Una “classica” interpretazione-esecuzione, ogni volta che vien ripetuta, deve seguire un suo nuovo destino artistico. Fatica vana dunque
quella di volerne ricalcare le tracce, fatica ingrata e infruttuosa anche
per lo stesso suo artefice. Fatica vana quella di colui che “si voglia ricopiare”, ricopiando meccanicamente i risultati di una propria esecuzione ben riuscita... o, peggio ancora, che tenti di impadronirsi delle qualità di una performance altrui, plagiandone la registrazione disco-ovideo-grafica, e supponendo con sciocca furbizia di impossessarsi così
di un’arte che certo non possiede...
Al punto terzo, quando la penetrazione e l’assimilazione dei valori
di un’opera siano chiare e profonde, e l’interpretazione altrettanto profonda e sentita, la realizzazione sonora che conseguentemente ne risulta è limpida e inequivocabile. L’interprete-esecutore non sente allora
alcun bisogno di ricorrere a quegli astuti vezzi quali, ad esempio, gli
improvvisi “calando” di intensità, o gli accenti inopinati, o le interruzioni ritmiche “a singhiozzo”, ecc., ecc., insomma quelle varie furberie
di mestiere che vengono utilizzate dai mediocri concertisti con la pretesa di ravvivare l’interesse del pubblico. Quanto più semplice è l’esecuzione, tanto più intensa la sua forza comunicativa, tanto più grata
l’accoglienza degli ascoltatori.
E l’esecutore-interprete di classe sa che, in tutte le discipline artistiche, la semplicità e la chiarezza sono anche sinonimi di concisione:
quanto più stringata ed essenziale la forma, tanto più nitida ed efficace l’espressione. Ogni ridondanza, ogni insistenza ripetitiva, anche e
nonostante se attuata allo scopo di dar maggior nitore o maggior
espressività al proprio gioco, si fa subito sentire da chi ascolta come
inautentica e artificiosa. Se pedissequamente ripetute, anche le più
geniali e suggestive ideazioni rischiano un immediato scadimento.
Anzi, quanto più elevata ne è la qualità artistica, tanto più insopportabile una troppo insistita riproposizione. E raramente il pubblico è incapace di rendersene conto: lo dimostra con la risposta raramente sproporzionata dei suoi applausi.
Al concetto di concisione si accoppia il concetto di moderazione, di
economia dei cosiddetti mezzi d’espressione. Come ognun sa, l’artista
di classe autentica nel suo operare rifiuta, nonché ogni insistita ridondanza, anche ogni eccessiva forzatura. Nella “Coscienza di Arturo”, il
personaggio del vecchio maestro osserva che “...lo spazio che in arte
56
Nino Gardi
divide il bello dal brutto, il naturale dall’artificioso, l’autentico dal falso, è uno
spazio assai sottile”.3 E un buon interprete-esecutore deve saper mantenere in quel sottile spazio tutto il gioco delle movimentazioni e la dinamica delle intensità. L’esecuzione grossolana o esagerata di un’idea
interpretativa pur sincera e geniale ne distruggerebbe ogni merito.
Per quanto attiene al punto quarto, ci si ricordi che suonare o ascoltare una musica richiede un impegno assoluto e continuo. Se la continuità di svolgimento venisse interrotta, la musica perderebbe di colpo
la sua forza espressiva, anzi, diverrebbe di colpo incomprensibile, sia
per chi suona, sia per chi ascolta. Nella “Coscienza di Arturo”, il protagonista, durante un esperimento di autoanalisi, si accorge che, quando suona, “non può pensare ad altro”. E tale “esclusiva” attività della
mente deve perdurare durante l’intera realizzazione esecutiva.
Ogni segno sul pentagramma svolge, infatti, la funzione di singolo, infrangibile anello nella concatenazione del procedimento musicale, e tutti i grandi interpreti mostrano, seppur ciascuno a suo modo, di
saper pensare e dar suono a ognuno di quei segni con altrettanta continuità e coerenza. Continuità e coerenza che, appunto, incatenano
l’ascoltatore al flusso del tracciato musicale e lo trascinano durante
l’intera realizzazione esecutiva.
Questo è il potere che distingue le grandi esecuzioni e che si può
infallibilmente verificare in tutte le performances più celebrate e
apprezzate. Non crediamo vi sia alcun musicista, alcun critico musicale, alcun musicologo o alcun musicofilo, che in buona fede possa affermare il contrario, che abbia cuore di affermare, cioè, che il trascurare
la continua aderenza al tracciato testuale e il tralasciare l’indispensabile concatenazione di ogni singolo elemento musicale della partitura
siano atteggiamenti compatibili con una buona esecuzione.
Si consideri ora che tutte e quattro le virtù capitali dei grandi interpreti-esecutori trovano immediato riscontro nella forza comunicativa
delle loro realizzazioni. Non può esservi grande esecuzione che non
lasci il segno nell’animo degli ascoltatori. L’applauso finale potrà essere magari meno enfatico e più raccolto di certe “standing ovations”
che premiano a volte esibizioni di bravura spettacolare piuttosto che
3 N. Gardi, La Coscienza di Arturo, (op. cit.) Cap. XXVII, p. 163.
Lo stile classico nell’interpretazione e nell’esecuzione pianistica
57
musicale, ma tutti coloro fra il pubblico che avranno saputo ascoltare
per davvero una grande performance, se ne porteranno a casa un’eco
imperitura.
Il concertista “classico” svolge dunque, quant’altri mai, una funzione socio-culturale di grande importanza, funzione la cui importanza
appare tanto più grande quando si consideri che ben poche persone
fra il pubblico sanno “sentire” una musica limitandosi a leggerne la
partitura. Si può dire che tutta la conoscenza della musica, tutta la sua
storia, tutta la cultura musicale del mondo si realizzino attraverso la
funzione dell’interprete-esecutore.
L’opera di mediazione svolta dall’interprete-esecutore è dunque
così importante da indurre a studiarne, per cosi dire, sia le cause, sia
gli effetti e, dunque, da indurci a ricercare e a tentar di individuarne le
proprietà non solo attraverso un’attenta disamina dei valori musicali
presenti nelle grandi esecuzioni, ma anche attraverso una disamina
degli effetti che tali esecuzioni producono su coloro che le ascoltano.
Noi crediamo che il filtro del giudizio del pubblico, ossia del giudizio di tutti coloro che devono affidarsi comunque alla realizzazione
interpretativa-esecutiva per vivere un’esperienza musicale, possa fornire una valida controprova nel discernere quegli elementi di stile che
costituirebbero il più sicuro tramite di siffatta mediazione.
58
Corsi Accademici - Le Tesi
Scrivere un pensiero sul M° Francesco Celso e soprattutto sulla sua arte
compositiva non è cosa da poco. Intanto perché è un ritornare indietro nel
tempo, e qui ti assale la nostalgia di un passato vissuto per tanti anni in quella casa d’arte; quel risentire quasi la sua voce, i suoi consigli, la sua musica e
tutto ciò che da essa emanava: la serenità, la dolcezza, la melodiosità, i “colori” che uscivano dalle note scritte sul pentagramma. Colori pastello, mai
aggressivi, anche nei momenti di impeto o di drammatica verità, anche nell’ultimo periodo della sua vena inesauribile di comporre musica; come nell’accorata “Sarajevo ‘94”, pagina di struggente melanconia, dettata dalla tristissima visione di immagini trasmesse durante la guerra nella ex Jugoslavia
e, come una scossa elettrica al cuore, realizzata, seduta stante, sul pentagramma, con una miscela di suoni simili a un grido di dolore e di denuncia
per quanto si perpetrava in quei luoghi martoriati; ma nello stesso tempo
senza perdere la speranza di un domani migliore; infatti la musica della 2^
parte richiama ad una serena nostalgia di un tempo passato, ma che è anche
presagio di un futuro migliore….
Il genere musicale del M° Celso è piuttosto chiaro e pulito, schivo da
orpelli ed esibizionismi di presunta innovazione musicale, avulso da falsi
tentativi di musica atonale, come quella dei presunti costruttori o ingegneri
della musica, con le loro trovate volte al calcolo, alla fisica, alla chimica…,
tentativi spesso così azzardati da confondere e travisare la “vera origine
della musica” e privarla della qualità più importante: della “sensibilità musicale”.
Prediligeva molto la scala orientale, pentafonica, ma anche quella esatonale di debussyana memoria, ma con qualcosa in più: aveva infatti un suo
modo di sentire il suono dal di dentro, analizzato fino al cuore, quasi come
una lente di ingrandimento per “vedere” o meglio “sentire” le sfumature
chiaroscurali che esso emanava dal modo di essere “toccato” o sistemato in
una certa maniera.
Il modo di scrivere musica del M° Celso, il modo di pensare ai suoni e alla
loro architettura, come comporli, mischiarli, aggregarli, costruirli, incastrarli, concatenarli, ha sempre avuto un unico scopo, quello che: “tutta la Musica,
propriamente detta, deve agire sulla sensibilità umana, con l’alternarsi di tutte le
infinite sensazioni che le infinite combinazioni degli intervalli producono”.
E qui riportava l’esempio della differenza che sta tra un intervallo, comunemente detto maggiore e le sue caratteristiche, e uno detto minore con le
sue differenze.
Diceva ancora che “il valore di una musica dipende dalla qualità e dall’intensità delle sensazioni prodotte da essa”.
E in questo si avvicinava molto al pensiero del grande Ravel che soleva dire: “Se la musica composta non fa vibrare il proprio cuore [dei compositori], non vale il costo della carta su cui è scritta”.
Vera Pulvirenti
59
Rosanna Furnari
Soprano
Francesco Celso.
Maestro di musica e di vita
La memoria ancora viva della famiglia Celso nella città di Acireale,
così come in tutta la provincia di Catania, ed il ricordo affettuosissimo del
Maestro Francesco Celso, suscitano in me, ultima tra i suoi allievi, il forte
desiderio di rendere il giusto omaggio e la meritata risonanza ad un grande musicista e didatta della vocalità.
Parafrasando una frase di Debussy mi sento di riassumere la vita del
Maestro con queste parole: “ha servito la musica senza quasi domandarle gloria; quello che ha ricevuto come dono da Dio lo ha restituito all’arte con una
modestia che sfiora quasi l’anonimato”.
Nonostante il Maestro abbia operato ininterrottamente per più di cinquanta anni educando generazioni di giovani al canto, anche attraverso le
sue originali composizioni, il suo lavoro è rimasto piuttosto nell’ombra a
motivo della sua naturale riservatezza e della sua disarmante semplicità.
La maggior parte della sua produzione è ancora inedita non avendo ricevuto la dovuta attenzione da parte di numerosi critici e direttori artistici
di prestigiosi enti e teatri italiani contattati durante la sua vita. Negli scritti del Maestro, semplici articoli stampati su testate locali o brevi saggi
pubblicati da note accademie culturali siciliane, si trova piena conferma
della sua alta preparazione sotto il profilo intellettuale, scientifico, storico
e musicologico.
Suscita, pertanto, un certo stupore il fatto che il nome e l’opera di
Francesco Celso non siano annoverati al fianco dei compositori italiani del
‘900 e che i Conservatori della penisola non facciano tesoro del suo pensiero così come della sua produzione didattica, ostinandosi, invece, sui
tradizionali sussidi e metodi.
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Rosanna Furnari
La vita
Il Maestro Francesco Antonio Celso Palella nacque nel giorno di S.
Antonio da Padova, il 13 Giugno 1903, ad Acireale, in una casa vicina al
Palazzo Pennisi, nella salita di via Vittorio Emanuele II. Il padre, Gabriele,
ferrotipista e pittore di origini agrigentine, uomo signorile ed autorevole
nei modi, fu il primo illustre fotografo acese, conosciuto in tutta la provincia di Catania, per le creative composizioni di ritratti fotografici dei nobili siciliani e degli studenti interni nei prestigiosi collegi della città di
Acireale Pennisi, San Michele e Santonoceto. La madre, Sebastiana Palella,
era una seria e timorata giovane acese e Gabriele l’aveva conosciuta
durante le funzioni sacre presso la chiesetta di S. Antonino, dove il suo
dolce canto l’aveva fatto innamorare. Francesco fu l’ultimo dei quattro
figli nati da quella felice unione; lo precedevano tre bambine, Francesca,
Maria e Rosaria. Prima della “Grande Guerra” il ragazzino ricevette il
sacramento della Cresima, amministratogli da Sua Eccellenza Monsignor
Gian Battista Arista, d. O., secondo vescovo di Acireale, recentemente proclamato “servo di Dio”.
Già dalla fine dell’Ottocento la bella e colta città di Acireale offriva
innumerevoli occasioni per avvicinare le anime dei propri figli alle sorgenti
purissime dell’arte musicale italica. Il suo Teatro Bellini, costruito nel 1864,
rinomato per l’invidiabile cassa armonica e la perfetta disposizione geometrica, ospitava cantanti di prim’ordine per le sue stagioni liriche e fu
persino visitato da Richard Wagner nel marzo del 1882.
La celebrata banda musicale della città, fondata nel lontano 1587, composta da legni ed ottoni, si esibiva ogni domenica sera, in una elegante
divisa bianca, presso un angolo acustico della centrale Piazza Duomo, su
un piccolo palco circondato da quattro aiuole, chiamato, per questo,
Cinque Oro.1
In seguito fu il padiglione del giardino pubblico Belvedere ad accogliere fitte schiere di cittadini musicofili che convenivano per i consueti concerti estivi, diretti da celebri maestri.
Stimolato da un tale appassionato e piacevole clima musicale,
Francesco iniziò a suonare il violino, quando aveva soli sette anni, sotto la
guida del violinista Salvatore Neglia, il quale suonava anche il trombone
proprio nella banda di Acireale. Poco dopo passò allo studio del violoncello con Salvatore La Rosa, tipografo e musicista autodidatta. Da quel
momento in poi Francesco, innamorato del suono rotondo, corposo e
1 Alfio Fichera, Cronache e memorie, Accademia Zelantea, vol II, pag. 39-40,
pag. 163-164, pag.189.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
La famiglia Celso (per gentile concessione del M° Vera Pulvirenti)
61
62
Rosanna Furnari
delle molteplici possibilità timbriche di questo elegante strumento, non se
ne sarebbe più separato. Solo in tarda età, e non senza un velo di nostalgico rimpianto, giunse alla risoluzione di venderlo. Non stupisce, dunque, il fatto che la sua prima composizione seria, scritta all’età di 16 anni,
sia una Sarabanda concepita proprio per l’amato violoncello.
Parallelamente agli studi musicali, Gabriele Celso aveva avviato l’ultimo nato agli studi scientifici. Nei pressi della Piazza Duomo di Acireale,
Francesco frequentò l’Istituto Tecnico Superiore, con indirizzo fisico –
matematico, ottenendo risultati lusinghieri.
In seguito superò il biennio propedeutico alla facoltà di Ingegneria di
Catania ed anche quello di medicina, ma la musica lo avrebbe attirato presto altrove.
Pur essendo già molto impegnato con lo studio tecnico e la preparazione musicale, il giovane riusciva a trovare anche il tempo per l’addestramento e l’allenamento fisico: praticava nobili sport quali la scherma, la
sciabola, la spada e l’equitazione.2
Grazie ai sacrifici dei genitori che, sino a tarda età avrebbe definito
“impareggiabili”, nel 1926 si trasferì a Palermo per studiare al Regio
Conservatorio “Vincenzo Bellini”. La scelta di questo spostamento non
era casuale: era buon amico della famiglia Celso il compositore e didatta
catanese Antonio Savasta (Catania 22 agosto 1874 - Napoli, 2 luglio 1959).
Durante le sue visite domenicali ad Acireale il Maestro Savasta aveva
avuto modo di apprezzare la bella voce di Sara, tanto da dedicarle la lirica da camera intitolata “L’ultima ebbrezza” e anche l’occasione di visionare alcune composizioni scritte per divertimento dal piccolo Francesco:
essendone rimasto entusiasta, aveva incoraggiato i genitori affinché gli
facessero studiare composizione.
Proprio nell’anno 1926, il celebre compositore catanese era stato chiamato a ricoprire la carica di direttore dell’importante istituzione musicale
del capoluogo siciliano, succedendo al Maestro Giuseppe Mulè, mansione, questa, che avrebbe mantenuto fino al 1938.
Antonio Savasta rappresentò un punto di riferimento per il giovane
Francesco quando si trovò per la prima volta ad affrontare tutto da solo la
vita in una grande città, lontana dal calore familiare. A Palermo il giovane
musicista ebbe l’occasione di studiare violoncello e perfezionarne la tecnica
con il Maestro Olivieri ed il Maestro Caminiti (che dedicò all’allievo una
Sonata); il serio impegno e la costanza nell’applicazione portarono presto i
loro frutti tanto che, nel 1931, superò la licenza di 8° anno. Francesco ebbe
come compagno di studi, tra gli altri, anche Ettore Paladino.
2 “Il grazie di cuore del caro Maestro centenario” da Il gazzettino del Sud,
17/06/2003.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
Il M° Francesco Celso (per gentile concessione del M° Vera Pulvirenti)
63
64
Rosanna Furnari
Le giornate al Conservatorio erano ricche di vari appuntamenti poiché
oltre al violoncello era necessario esercitarsi al pianoforte, al violino, dedicarsi all’apprendimento dell’organo, seguire un corso di canto principale
ed uno di canto gregoriano. Il giovane musicista affrontava tutti questi
impegni con dedizione e forte motivazione, in quanto era convinto che
“non si può comporre senza conoscere la voce umana e gli strumenti ad arco, che
sono il perno dell’orchestra”.3
Fra tutti quei doveri, quello di esercitarsi al pianoforte era indubbiamente il meno pesante.
Sin dall’infanzia, Celso aveva avuto la possibilità di conoscere ed
apprezzare le qualità dell’ottimo strumento della sorella che aveva a
disposizione nel salotto di casa.
Francesca, eccellente pianista e valente didatta, nonostante la giovanissima età, oltre ad accompagnare il fratello durante le sue esecuzioni al
violoncello, gli dispensava, abitualmente, preziosi consigli tecnici.
Francesco Celso cominciò a studiare con il Maestro Antonio Savasta
solo dopo un anno dal suo trasferimento, nel 1927, frequentando con profitto i corsi di armonia, composizione, ma anche quelli di fuga, contrappunto ed orchestrazione.
Dopo i primi anni di studio in città, Francesco ebbe la gioia di condividere l’esperienza palermitana con la sorella Sarina, soprano drammatico,
che giunse nel capoluogo per perfezionare gli studi di canto lirico, sotto
l’attento orecchio della famosa interprete Ester Mazzoleni. La mentalità
dell’inizio Novecento, specie quella siciliana, molto restrittiva e condizionante nei confronti delle donne, aveva ostacolato le sorelle Celso, sia Sara
che la pianista Francesca, nello svolgere la carriera concertistica all’estero,
limitandole alla sola Sicilia. Il dovere del caro Francesco era dunque quello di vegliare su di loro; non si trattava di una mansione imposta da genitori dalle idee all’antica, quanto, piuttosto, di una naturale emanazione
del sano clima familiare, espressione di quel meraviglioso legame che
univa il Maestro alle sorelle, così come ai genitori, cementato da un forte
istinto di protezione. Questo senso di appartenenza lo avrebbe accompagnato per il resto della vita così che anche la rinuncia a costruire una vita
privata ed una famiglia propria non sarebbe stato un peso per lui. Sara
rimase a Palermo, a fianco del fratello, per sette anni. Celso fu in quegli
anni anche l’artefice dell’avvio alla carriera musicale di quello che sarebbe divenuto, poi, celebre pianista, compositore, direttore d’orchestra e
scrittore, il Maestro Franco Mannino.
In seguito alla richiesta della sorella Sara, Francesco aveva ascoltato il
3 Aldo Mattina, Il personaggio. Giornale di Sicilia 23/08/1990.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
65
bambino e si era fatto intermediario presso il Maestro Savasta affinché gli
facesse una audizione e lo ammettesse al Conservatorio.
In un’intervista concessa al professor Aldo Mattina Celso ricordava:
“Andò proprio così, quel ragazzino di otto anni eseguì in modo convincente una
Sonata di Scarlatti e Savasta ne fu molto colpito, vinse la ritrosia del padre e
ammise il bambino al corso di pianoforte”.4
Nel 1933 Antonio Savasta ritenne il suo diligente e prediletto allievo
ormai pronto per la prova finale. Le previsioni del caro professore non
furono disattese: Francesco ottenne con il massimo dei voti il Diploma di
Licenza Superiore in Composizione.
L’esperienza di quell’esame rimase vivida tra i suoi ricordi sino a tarda
età: “Gli esami finali erano molto più difficili di oggi: restavamo chiusi a chiave,
come reclusi, per 24 ore; si trattava di comporre una fuga a quattro voci, un tempo
di Sonata ed una scena lirica; attraverso una porticina comunicavamo solo per
chiedere qualcosa da mangiare”.5
Ritornato nella sua città natale, il neo-compositore continuò ad aiutare
il padre, ormai piuttosto anziano, riprendendo le sue vecchie amicizie di
via Galatea ma rimase tuttavia molto legato al Maestro Savasta (che aveva
sposato nel 1927 una signorina napoletana ma non aveva eredi) e così,
nonostante non alloggiasse più a Palermo, si recava spesso nel capoluogo
per fare visita al suo insegnante e per accudirlo, come un vero figlio, nei
giorni in cui era ammalato e soprattutto nel momento in cui rimase vedovo.
In seguito alla prematura scomparsa della sorella Maria (laureata in
architettura a soli 18 anni, pittrice e professoressa di disegno) ed alla perdita dei genitori, Celso portò avanti la gestione familiare abbandonando
definitivamente l’antica e prestigiosa professione paterna. Tentò più volte
di far parte del Liceo Musicale di Catania come docente ma i suoi sforzi
furono vani. Il Maestro avrebbe in seguito motivato i dinieghi subiti con
queste parole: “Evidentemente qualcuno non mi vide di buon occhio, forse perché provenivo dal Conservatorio di Palermo”.
Così, senza tralasciare mai la composizione, si concentrò sull’insegnamento privato del canto. In un primo tempo aveva affiancato la sorella
cantante ma, nel momento in cui Sarina venne chiamata ad insegnare alla
Scuola di Canto del Teatro Bellini di Catania, egli la sostituì completamente. Era pronto ad accogliere allievi appartenenti ai più svariati ceti sociali,
purché dotati di buone capacità naturali e di forza di volontà: professionisti, dilettanti nel canto, aristocratici e persino giovani popolani, ai quali
4 Aldo Mattina, Il personaggio. Giornale di Sicilia 23/08/1990.
5 Aldo Mattina, Il personaggio. Giornale di Sicilia 23/08/1990.
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Rosanna Furnari
impartiva lezioni gratuite in modo del tutto disinteressato.
Ogni giorno e soprattutto il venerdì pomeriggio, agli alunni si univano anche gli amici per vivere ore spensierate, lontani dalla quotidianità
esistenziale. In quella “Casa delle Muse”, come riferisce il professor
Antonio Pagano, “si viveva di musica e per la musica, di arte per l’arte: ars
gratia artis”.6
Quel caldo e confortevole cenacolo presto cominciò a calamitare intellettuali e studiosi della borghesia illuminata presente ad Acireale nei
primi decenni del secolo, personaggi illustri quali il pittore Giuseppe
Sciuti, il Vescovo illuminato Monsignor Ferdinando Cento, lo scultore e
pittore Michele La Spina, il medico filantropo Teodoro Musmeci, il celebre
tenore Alabiso ed il baritono Titta Ruffo. Non vi era artista di passaggio in
Sicilia, pianista, direttore d’orchestra o cantante, scritturato presso il vicino Teatro Bellini di Acireale, che non visitasse il rinomato salotto dei
Celso. L’abitazione di via Galatea veniva anche chiamata “casa del glicine” per via del rampicante che, partendo da una piccola aiuola della strada, saliva su fino a ricoprire completamente il gazebo posto sulla terrazza
della costruzione. Come scrisse il Professor Cristoforo Cosentini,
Francesco “con la sua arte contribuiva personalmente a vivificare” quella
elegante atmosfera e questa nobile inclinazione venne tanto apprezzata
da far sì che il Lions Club conferisse alla famiglia Celso, nel 1987, il
“Premio Lions”.
Riportiamo di seguito l’incisiva ed essenziale motivazione del riconoscimento:
“Cenacolo romantico d’arte che, dal primo Novecento ha riunito amabilmente nella propria casa di Acireale, appassionati di musica, di canto, di pittura e, con
meritoria opera di elevazione spirituale, generosità e nobile impegno, ha dato a
numerose generazioni di giovani, magistrale insegnamento”.7
Alla fine degli anni Quaranta, il Maestro si dedicò alla composizione
della sua prima ed unica opera lirica, su libretto dell’amico-poeta professor Tommaso Papandrea, intitolata “Abù – Hassan o Il dormiglione risvegliato”, tratta da una novella delle “Mille e una notte”, completata nel
1950. L’ opera, nonostante gli unanimi consensi di critica, non è stata mai
rappresentata. Fino all’ultimo istante l’anziano Maestro visse col desiderio di una realizzazione scenica.
Sul finire degli anni Cinquanta Francesco si cimentò anche nel genere
vocale della canzone “slow” vincendo un concorso di musica leggera
organizzato ad Acireale.
Dall’osservazione sistematica dell’amato violoncello, dall’analisi delle
6 Antonio Pagano. I cento anni del M° F. A. Celso. Biblioteca Zelantea. Acireale
7 Lucio D’agata. Rivista Logos, anno 1992, pag.28
La “Vendetta slava” di Pietro Platania
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sue componenti e dalla consueta pratica dell’accordatura nacque l’idea di
sperimentare un artigianale meccanismo che potesse trasferire anche alle
corde del pianoforte verticale il facile sistema usato per gli strumenti ad
arco, basato su viti di precisione che permettono di agire sulle corde per
regolarne la tensione. Il Maestro mise a servizio della sua intuizione tutte
le conoscenze nell’ambito della fisica e dell’ingegneria ed attinse a grandi
risorse finanziarie per la costruzione di un prototipo. Creò un innovativo
sistema di caviglie di ancoraggio delle corde del pianoforte che consentisse una veloce accordatura fai da te semplicemente attraverso un minimo
movimento delle dita che effettuano un avvitamento o uno svitamento di
una manopola. Nel 1958 Francesco Celso ottenne, in Francia, il meritato
brevetto, tuttavia, forti interessi economici che ruotavano attorno alla
sfera delle case costruttrici ed alla categoria degli accordatori, fecero sì che
questa innovazione venisse effettivamente ignorata.
Intanto l’attività didattica dei Celso cominciava ad essere sommessamente ostacolata dalla mal celata invidia degli altri docenti di pianoforte
acesi, per cui nel 1962 la famiglia decise di trasferirsi nella vicina e più
grande Catania, in via Vittorio Veneto.
Qui il Maestro riprese subito l’insegnamento ed anzi incrementò la sua
occupazione, facendo, inoltre, della pittura - sua seconda passione - molto
più che un semplice passatempo. Dipingeva con pennellate morbide e
calde, dai tratti netti e decisi, mentre altrove i colori erano sfumati, dall’aspetto di abbozzo, i contorni tenui quasi ad evocare vaghi ricordi,
atmosfere serene ma lontane, come nel caso del ritratto della madre,
custodito accanto al suo pianoforte.
Riuscì a realizzare anche alcune mostre personali e con un pizzico di
orgoglio ricordava che una sua tela era esposta in una sala dell’Ente
Turismo di Catania.8
Nel 1966 Celso vide concretizzare il desiderio di poter eseguire al
Teatro Bellini di Catania la sua nuova fatica compositiva, la “Suite
Americana Azteca” per grande orchestra, composta una decina di anni
prima. In quella occasione il suo lavoro fu diretto dal Maestro Carlo
Frajese.
Il 12 maggio 1990, per “festeggiare uno dei cittadini acesi più illustri, tanto
provvisto di talento quanto ignorato dai nomi che contano”, si dedicò a Francesco Celso l’appendice conclusiva del ciclo “I concerti del Novanta”,
manifestazione culturale organizzata dall’Assessorato alla Cultura del
Comune di Acireale.9
La programmazione della serata previde una conferenza – concerto al
8 Aldo Mattina, Il personaggio. Giornale di Sicilia 23/08/1990.
9 La Sicilia, 22/5/1992.
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Rosanna Furnari
Palazzo di Città, i cui relatori furono il professor Aldo Mattina ed il giornalista Michele La Spina.10
In quella occasione venne attribuito al Maestro il premio “Vivere per
la musica” per additarne al mondo l’impegno, la carriera ed i meriti. Il 24
maggio 1992 il compositore acese assistette personalmente all’esecuzione
del suo “Quartetto in Do” al Teatro Massimo di Catania, interpretato dalla
pianista Vera Pulvirenti e dai solisti dell’Orchestra dell’E.A.R Teatro
Bellini. Questa iniziativa concluse la stagione delle domeniche musicali al
Bellini e la Stagione sinfonica e di balletto del 1991-1992.
Il 13 giugno 1993, in occasione del novantesimo compleanno del
Maestro, i numerosi alunni ed amici festeggiarono, nel foyer del Teatro
Bellini di Catania, la sua pluridecennale e meritata attività didattica, intesa a infondere e stimolare nei giovani l’amore per l’arte e per la musica,
nella sua più alta espressione, il canto. Nel corso della serata, venne ufficializzato il conferimento al Maestro acese della nomina di socio a vita
dell’Accademia degli Zelanti e Dafnici della città di Acireale e nel luglio
1997 gli fu conferito anche il prestigioso ed antico premio “Aci e Galatea”
nello scenario del parco delle Terme acesi. Molto eloquente è la menzione:
“ La sua figura eccelsa fa pensare alle annose querce dei boschi sacri. Nella sua
lunga vita ha formato intere generazioni di giovani nell’arte e nella vita. Uomo
retto, profondamente onesto, limpido e trasparente come l’acqua di sorgente, è
considerato la memoria storica di Acireale”
Qualche mese prima che Francesco Celso compisse 100 anni anche RAI
3 inviò una troupe a casa sua per una intervista. Al Maestro, compositore
originale, che aveva dedicato tutta la vita alla musica, fu dedicata una
intera puntata di un rotocalco sulla longevità della popolazione italiana.
In occasione del centesimo genetliaco, il 13 giugno 2003, gli ex allievi, gli
amici e quanti gli erano più vicini, coordinati dalla professoressa Vera
Pulvirenti, docente di pianoforte presso il Conservatorio “Fausto Torrefranca” di Vibo Valentia, organizzarono un memorabile festeggiamento
pubblico al Teatro Bellini di Catania, patrocinato dalla Regione Sicilia e
dal Comune di Catania, con la partecipazione di numerose autorità militari, politiche e religiose.
Durante la prolusione Angelo Munzone, aveva giustamente affermato
come la “multiforme attività” di Francesco Celso, musicologo, ricercatore,
compositore e Maestro di canto, “rinnovi la fecondissima famiglia di musicisti che hanno tenuto alto il prestigio della plaga etnea nel mondo”. Durante la
manifestazione furono eseguite le più significative tra le numerose composizioni di Francesco Celso, soprattutto pianistiche, cameristiche e vocali, disposte in una sequenza rispettosa della cronologia.
10 A. Strano. Il Gazzettino del Sud, 29 giugno 1993.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
69
Il Maestro fu poi insignito dell’onorificenza di Cavaliere dell’OSJ,
Ordine di Malta e Cavaliere Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme
ed alla fine, molto commosso, soffiò sulle cento candeline di una gigantesca torta.11
Nella ricorrenza dei suoi cento anni il professor Antonio Pagano,
docente di latino e greco, suo ex vicino di casa e socio dell’Accademia
degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale, fu mosso a dettare il testo di una
epigrafe in latino in onore dell’illustre cittadino acese, pubblicata a conclusione di un paragrafo della raccolta “Memorie e rendiconti” della suddetta Accademia.12
Ne riporto integralmente il testo:
Ad Franciscum Antonium Celso Palella Magistero
Centesimo aetatis Tuae expleto iam anno
Tibi insigni ac preclaro Magistro
Aciensium Civitatis dilectissimo filio
Ingenti animi gaudio permoti
Nec non spiritu praeter modum sublati
Ob ingenii lumen multasque laudes
In sublimi Euterpis Musae arte quaesitas meritis
Vetustae Xiphoniae gratulantur municipes
Qui quam plurimi habent atque summopere admirantur Te Magistrum
Cuius aede innumera iuvenum agmina exiere formata
Splendido hoc diutino vitae facto itinere
Acienses laetantur cives bona verba dicentes
Fervidisque ominantes futurum esse ut
Centum nuper pulchros expletos annos
Pulchriores deinde alteri centum feliciter sequantur.
Aciregali idibus iuniis MMIII
Antonius Pagano dictavit
All’inizio del 2006, il Maestro Celso, uomo che aveva sempre goduto
di ottima salute, subì un peggioramento delle sue condizioni fisiche che
gli impedì di alzarsi dal letto. Questo stato di malessere durò per qualche
mese, sino a quando non lo colse la morte il 21 febbraio 2006, alla soglia
dei 103 anni.
11 I cento anni del M° Celso da “La provincia di Catania”, pag. 45.
12 Antonio Pagano. I cento anni del M° F. A. Celso. Biblioteca Zelantea.
Acireale.
70
Rosanna Furnari
L’antica giovinezza
Nel descrivere la personalità di Francesco Celso, mi piace ricorrere ad
un efficace ossimoro, quello della “antica giovinezza”. “Antica” e quasi
mitica è la figura della civiltà greca cui sento di assimilare l’immagine di
Francesco Celso. Come un remoto aedo anche il Maestro ha speso tutta la
sua vita per tramandare il suo sapere agli allievi, è stato memoria storica
per diverse generazioni ed ha “lasciato parlare le Muse” per mezzo delle
sue originali composizioni.
“Antica” ed alta era la concezione del Maestro circa l’arte e la vita del
musicista, che egli elevava alla dignità di vera e propria “missione”. Tale
compito si evince facilmente dalle sue stesse parole, pronunciate in occasione del novantesimo compleanno della sorella Francesca: “Poiché mia
sorella non aveva avuto nella sua vita terrena altro desiderio che quello di far
comprendere e amare dai suoi conterranei la divina voce della Grande Musica ed
io, conoscendo la elevatezza del sue aspirazioni, penso che qualsiasi manifestazione, che continuasse l’incremento della vera musica, unico scopo della sua vita terrena, sarebbe accetta al suo spirito eletto”.13
Frutto di qualche contaminazione spiritualistica è l’esaltazione del
concetto di ethos della musica alla quale era attribuito un particolare valore emotivo. Come nell’ideale greco della “kalokagathia”, l’estetica e l’etica si incontrano felicemente nella musica. L’armoniosa bellezza delle
opere di Francesco Celso, creata attraverso il linguaggio dei suoni, è
espressione del mondo interiore del compositore, della sua bontà d’animo
e della sua onestà morale.
Altra faccia della stessa medaglia è poi la “giovinezza” che il Maestro
ha manifestato sino a tarda età: l’energia, il buon umore, il sorriso contagioso e la voglia di tenersi sempre in movimento. Tornato a dare lezione
dopo la rottura del femore, agli allievi che si offrivano di aiutarlo a spostarsi, insistendo per fare tutto da solo, rispondeva con la battuta spiritosa: “Datemi un punto da appoggio e vi solleverò il mondo”.
Dalla giovinezza alla soglia dei cento anni, non passava giorno che egli
non dedicasse una buona mezzora ai suoi esercizi ginnici mattutini: “il
movimento corporeo vivifica, favorisce la circolazione sanguigna, ridesta lo slancio ritmico e l’ispirazione musicale”.
Questa intuizione rimanda ad un’affermazione di Jaques-Dalcroze,
secondo il quale “il dinamismo fisiologico dell’essere umano può esprimersi in
formule ritmiche” musicali, idea confermata anche da Edgar Willems, il
quale asseriva che “è soprattutto attraverso il movimento del corpo che si può
prendere coscienza del valore plastico del ritmo musicale come pure delle sue
13 L. D’Agata. Rivista Logos, anno 1992, pag. 28-29-30.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
71
diverse possibilità agogiche”.14 In altre parole, Celso era un inconsapevole
sostenitore di quella che, alla fine degli anni ’80, fu definita “l’originaria
gestalt tra suono- ritmo- movimento”.15
Una forte influenza ha esercitato sul suo pensiero il contatto con la
disciplina dello yoga, studiata e praticata per anni. In un primo momento il Maestro si era accostato a tale antichissima tecnica orientale perché
attratto dalla possibilità di provare nuove forme di rilassamento corporeo.
Divenuto padrone della tecnica passò ad un livello mentale, più avanzato, quello della vera e propria meditazione. Attraverso l’immobilità del
corpo otteneva un rallentamento del dinamismo della mente, regolando
minuziosamente la durata delle fasi dell’inspirazione e dell’espirazione
focalizzava il pensiero più sul ritmo e sul suono interiori che su quelli
muscolari e corporei. Le vibrazioni, immaginate e reali (ovvero della
respirazione), risvegliavano echi positivi sulla psiche.16
Francesco Celso era un uomo “giovane nello spirito”, riservato ma
incredibilmente capace di donare serenità a chiunque entrasse in casa sua,
non perdette mai l’entusiasmo nei confronti della vita e della musica.
Manteneva sempre vivo l’interesse verso il mondo della cultura e della
gestione politica della cosa pubblica, compartecipando con attenzione alle
sorti della sua indimenticata Acireale.
Come ricorda anche il professor Antonio Pagano, nonostante il Maestro
vivesse ormai a Catania, della sua città natale “lamentava accoratamente certi
oblii da portare a un preoccupante scadimento dei veri valori dello spirito”.
Fra le gravi dimenticanze da lui spesso indicate, vi era in primo luogo
quella relativa allo storico Teatro Bellini di Acireale, divorato misteriosamente da un incendio nel 1952 e, malgrado retorica e promesse, mai risorto dalle sue ceneri.
Francesco Celso esponeva il suo pensiero con naturale mansuetudine,
senza cadere mai in aspre critiche o impulsive polemiche. In nessun caso
ha proferito parole di disprezzo verso alcuno o ha cercato di metterlo in
ombra pur di emergere: era una uomo di rara onestà intellettuale e rettitudine morale. Il suo pudore e la sua riservatezza gli hanno impedito di
raggiungere la giusta notorietà e di ottenere quei riconoscimenti che altri,
più spregiudicati di lui, hanno raggiunto invece facilmente, ma con meno
merito. Noncurante dei calorosi consensi della critica, egli rimaneva indifferente e mai si mosse per cercare di sfruttare il momento favorevole, anzi,
quasi come Franz Schubert, egli evitava la folla e si rifugiava nel suo salot-
14 Edgar Willems, L’orecchio musicale, vol. I, Edizioni G.Zanibon Padova, pag
69-70.
15 L. M. Lorenzetti, Psicosomatica e Musicoterapica. Assisi, 1984.
16 André van Lysenbeth, I miei esercizi di yoga. Ed. Mursia.
72
Rosanna Furnari
to per intrattenersi solo insieme a pochi amici fidati.
Mi piace riportare di seguito una commossa lirica dell’amico - poeta
professor Tommaso Papandrea, che tratteggia un chiaro profilo della personalità di Francesco Celso. La poesia è tratta dalla raccolta “Stagione finale Jonica” del 2007, pubblicata un anno dopo la scomparsa del Maestro.17
Ricordo di Francesco Celso
“Amico mio Francesco
Com’eran dolci i nostri incontri:
si parlasse dei tempi andati
e dei recenti, tanto diversi;
delle vecchie solidali amicizie, o d’altro
- soprattutto di musica e d’arte quei conversari li tengo a mente
eran per me lezioni.
Mi risento vuoto, al momento.
Mi ha privato la sua morte
dell’amico più caro e buono.
Inondava di serenità il suo sorriso
e il suo giudizio – anche in politicaargomento che suol suscitare
animosità e incontrollati rancori
era più incline alla giustificazione
che alla condanna ...
Come si fa a condannare?
Era d’età maggiore della mia;
ma si mantenne d’animo fermo e costante
fin presso la morte.
Giovane, lo collaborai – a sua richiestanella sceneggiatura d’un racconto
delle “Mille e una notte”
e di poi gli scrissi il libretto
dell’opera che mise in musica
e per la cui realizzazione lottò
fino all’ultimo respiro
benché convinto della fine dell’ “opera”
e del suo congelamento.
“Vivrà come memoria l’opera
17 Tommaso Papandrea Stagione finale Jonica Edizioni A & G 2007, pag. 136
– 137 (per gentile concessione).
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
73
al modo stesso
del teatro d’arte e di prosa
da Eschilo a Sheaskespeare e oltre ...”
La palma oggi è del cinema
e della televisione.
Risucchiano ormai da tanti anni
i migliori artisti di prosa ...
E il mondo non si ferma ...
- aggiungeva- è ancora in cammino.
La Parolmelodia
All’inizio del Novecento, le mutate condizioni sociali, la pressione tecnologica dovuta all’evoluzione dei mezzi di diffusione sonora, lo sfruttamento del linguaggio cantato nel circuito commerciale, avevano determinato una nuova, inconsapevole tendenza nel gusto musicale del pubblico,
che si rivolse alla musica contemporanea “leggera”, manifestando atteggiamenti a volte snobistici nei confronti della musica colta.
Nel corso della sua lunga vita, Francesco Celso è stato testimone attento del processo di evoluzione della canzone in Italia: a partire dalle interpretazioni delle sciantose degli anni Venti o dalle canzoni dell’avanspettacolo negli anni ’40, passando dalla letteratura propagandistica del regime fascista allo sbarco americano del jazz e del rock and roll, per giungere alla trasmissione televisiva Canzonissima ed al Festival di Sanremo. Le
riflessioni del Maestro su questo argomento, un breve saggio dal titolo
“Canto e parolmelodia”, furono pubblicate nel 1995, dall’Accademia di
Scienze, Lettere e Belle Arti degli “Zelanti e dei Dafnici” di Acireale, della
quale egli era membro in qualità di socio corrispondente.
Elemento distintivo della Musica leggera rispetto a quella colta è la
rinuncia alle doti vocali, a favore di una interpretazione quasi parlata che
pone in primo piano solo il testo. Per indicare questo tipo di vocalità il
Maestro aveva coniato un personale neologismo: la parolmelodia.
“Dacché la scienza ha fornito all’uomo il modo di amplificare la sua voce, per
mezzo dei microfoni e degli altoparlanti, si fa una grande confusione fra il canto
lirico (operistico e da concerto) e quello della cosiddetta canzone moderna, che
accoppia anche essa la parola alla melodia; e poiché questo accoppiamento non ha
ancora un nome specifico, per differenziarlo da quello lirico, l’ho chiamato
Parolmelodia.”18
18 Miscellanea Acese. B 80 n° 21. Biblioteca dell’Accademia degli Zelanti e
Dafnici di Acireale 1995, pag. 413.
74
Rosanna Furnari
Questo tipo di vocalità “disimpegnata”si fonda, nella maggior parte
dei casi, su un approccio istintivo ed empirico della vocalità o, in ogni
caso, su uno studio non classico, è dunque costretta ad avvalersi di mezzi
artificiali per ottenere l’amplificazione della voce.
“Il canto lirico, perché venga ben percepito a distanza, non ha bisogno di
mezzi artificiali, perché la natura ha dato all’uomo i suoi risonatori, che saputi
utilizzare sono sufficienti. Mentre non è così per la parolmelodia che, essendo
insufficiente allo scopo, deve ricorrere ai mezzi meccano - elettrici.”
La parolmelodia non è una pratica di emissione nuova o specifica del
XX secolo ma una consuetudine naturale ed istintuale piuttosto antica,
che ha coinvolto vasti strati sociali nel corso della storia: “Le origini della
parolmelodia si perdono nella notte dei tempi. I primi uomini che cominciarono a
cantare, lo fecero certamente senza le parole e su qualche semplice ritmo, come si
può rilevare dal canto dei selvaggi. Poi, con l’avanzare della civiltà e lo sviluppo
dell’arte, appresero ad unire le parole al ritmo. Così si giunse ai primi aedi greci
che narravano, sempre in parolmelodia, i fatti mitologici e quelli degli eroi. Non
si ha notizia del canto nelle contemporanee civiltà egizia e assiro - babilonese, che,
senza dubbio non avevano maggiore sviluppo di quella greca. Un impulso più
accentuato si ebbe, invece, fra gli Israeliti e i primi cristiani che cantavano in coro.
Nel medioevo, i trovatori e cantastorie diffusero sempre più, il canto individuale, mentre quello corale, si affermò soprattutto con il canto gregoriano.”
Solo alla fine del 1500 si perviene ad una intuizione che consente di
aprire nuove frontiere al canto: “Così si giunse fino al sedicesimo secolo, verso
la fine del quale qualche cantante, dotato della facilità di abbassare la laringe e di
situare il velo pendulo e la lingua in un certo modo, si accorse che la voce veniva
amplificata, perdendo le qualità di quella parlata, per acquistare, invece, quella di
un sonoro strumento, che poteva scandire la parola e conservare un certo volume.
Tale strumento, portato in seguito alla perfezione, nei suoni e nelle infinite sfumature richieste dai testi poetici dei melodrammi, e quello che ha dato e da tuttora lustro alla lunga serie dei grandi artisti del canto lirico. Da quanto è stato
detto, si può rilevare che in tutto il tempo antico, nel Medioevo e nella prima parte
dell’età moderna, si è fatto uso soltanto della parolmelodia, perché ancora non era
stato scoperto il modo di usare lo strumento voce”.19
Seguono a questo punto affermazioni piuttosto radicali che potrebbero risultare più o meno condivisibili e suscitare commenti polemici: “Ma
è bene, però, far rilevare la immensa differenza che corre fra i due modi di cantare. Anzitutto, il canto lirico (sostenuto sempre da una musica molto più complessa, raffinata ed espressiva), può arrivare a commuovere profondamente, mentre la
19 Miscellanea Acese. B 80 n° 21. Biblioteca dell’Accademia degli Zelanti e
Dafnici di Acireale 1995, pag. 413-414
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
75
parolmelodia (accompagnata da musica di genere popolare) ignora al novanta per
cento la commozione. Negli ultimi tempi, si è voluto nobilitare il testo delle canzoni, introducendogli lo scopo sociale; e se esso, talvolta si eleva alquanto, è sempre accompagnato dalle solite ingenue e primitive melodie, che ne tolgono tutta la
loro efficacia espressiva. Inoltre, mentre la parolmelodia esistette soltanto nella
parte media della voce, il canto lirico, invece, spazia fra le profonde note dei bassi
e quelle acutissime dei soprani leggeri, cioè, per tutta la gamma della voce umana.
Poi, va ancora notato che la rapidità dei suoni, nel canto lirico, può arrivare ad
altissime velocità, sia staccandoli, che legandoli e che i singoli suoni possono
giungere a fortissima intensità, senza essere deformati dai microfoni, cosa che è
impossibile al canto parolmelodico, che è costretto a servirsi di essi per la debolezza dei suoni. È poi quasi impossibile che una canzone, concepita per il canto lirico, possa adattarsi per la parolmelodia, alcuni “cantautori” ci si sono provati, ma
essendo stati costretti dalle esigenze vocali odierne, ad abbassare il tono delle canzoni e marcarne il ritmo con l’infernale batteria jazz, ne hanno deformato completamente il senso artistico originale, riducendoli a stucchevoli e noiosi”.
Fra le due tipologie di canto, quella lirica e la parolmelodia, bisogna
ricordare quella intermedia e sui generis derivata dalla pratica della
castrazione. Le reminescenze scientifico-mediche del Maestro spiegano
l’origine di quel particolare tipo di conformazione laringea.
“Un caso a parte è quello dei Musici del Sei e del Settecento: la loro castrazione faceva sviluppare molto il loro corpo, ma la loro laringe non subiva l’alterazione della muta, sicché rimaneva nella dimensione che aveva nell’infanzia e, quindi produceva i soli suoni che dal contralto vanno al soprano”.20
“Ma dato che essi, insieme con il corpo avevano sviluppato anche i polmoni e
il diaframma, la loro voce acquistava una potenza straordinaria, che, unita alla
lunghezza dei loro fiati, poteva gareggiare con il suono degli strumenti d’ottone,
superandoli per le qualità sonore ed espressive e per la tenuta dei suoni. Dato che
la voce “ impostata” per il canto lirico ebbe origine in quel periodo, si presume,
che parte dei musici cantasse in canto lirico e in parte in parolmelodia, ma poiché
tutti avevano dedicato la loro vita al perfezionamento della loro professione, tutti
erano in grado di modulare la loro voce, fin nelle più piccole sfumature.”
Una valutazione critica è riservata anche alle forme di musica leggera
tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’operetta, il Varietè, il
caffé - concerto: “Gli esecutori dell’operetta (oggi quasi scomparsa) e quelli della
canzone italiana e napoletana di una volta, poiché non avevano fatto studi severi, né teorici né vocali, sbagliavano spesso nelle intonazioni e nel tempo ma conservavano una certa voce, come qualità, espressività e volume. I macchiettisti,
20 Miscellanea Acese. B 80 n° 21. Biblioteca dell’Accademia degli Zelanti e
Dafnici di Acireale 1995, pag. 415.
76
Rosanna Furnari
usavano ed usano ancora la parolmelodia”.
La conclusione del brano suona quasi come affettuosa esortazione alla
nuove generazioni nel considerare l’impostazione lirica sotto una luce
nuova: essa rappresenta un valore aggiunto, capace di donare uno spessore qualitativamente nuovo alla voce che ripaga del tenace e lungo impegno. L’arte deve essere il fine dello studio e la tecnica uno dei mezzi per
raggiungerlo. L’esercizio puramente tecnico ed il virtuosismo vocale rendono solo risultati fittizi, non artistici: “Da quanto si è detto, risulta che la più
antica e diffusa forma di canto è la parolmelodia, ma dato che per trasformare la
voce nel meraviglioso strumento con la parola occorre un lungo studio, comprendente esercizi di respirazione, intonazione, di agilità, di estensione, senza contare quelli complementari di solfeggio, di pianoforte, di arte scenica, di storia della
musica,ecc…; a pochi è concesso di raggiungere le vette dell’arte vocale.”21
Il didatta della vocalità
Disse un giorno Richard Strauss ”la voce umana è lo strumento più
bello, ma, anche il più difficile da suonare”. Dello stesso parere era il
Maestro Celso. Mentre studiava composizione a Palermo Francesco si era
avvicinato al mondo della lirica ed aveva ampiamente fruito della lezione
della signora Ester Mazzoleni, insegnante di Sara, sua sorella maggiore,
cantante lirica. La Mazzoleni, (Sebenico, 12 marzo 1883 – Palermo, 17
maggio 1982) costituiva una prosecuzione del tipo di soprano ottocentesco, drammatico d’agilità, valido esempio di soprano Falcon, dalla limpida e fluente dizione. Aveva esordito nel 1906 al teatro Costanzi di Roma
nel ruolo di Eleonora del Trovatore di Verdi ed aveva inaugurato l’Arena
di Verona con l’Aida nel 1913, ma si era presto ritirata dalle scene, nel
1925, per trasferirsi a Palermo, avendo sposato un gentiluomo del capoluogo siciliano.22
Fu, dunque, docente di canto al Conservatorio di Palermo tra il 1929 e
il 1953 e durante gli anni ’30 anche Sarina Celso, che quale aveva debuttato nel 1916 a soli sedici anni nello storico Teatro Bellini di Acireale, seguì
numerosi corsi di perfezionamento con la signora Mazzoleni, divenendone l’allieva prediletta. Francesco fece tesoro di quegli insegnamenti.
Nella sua lunga attività d’insegnante egli ha avviato alla carriera artistica più di due generazioni di cantanti: moltissimi i coristi del teatro mas-
21 Miscellanea Acese. B 80 n° 21. Biblioteca dell’Accademia degli Zelanti e
Dafnici di Acireale 1995, pag. 416.
22 Grande Enciclopedia della musica lirica, Longanesi & c. periodici. Volume
III.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
77
simo Bellini di Catania che si sono formati alla sua scuola. Per questa sua
sorprendente longevità didattica il Maestro Celso è stato definito dal professor Aldo Mattina “decano degli insegnanti di musica e bel canto”.23
Alcuni degli allievi, come il soprano Lucia Aliberti, i mezzo soprano
Patrizia Patelmo e Lidia Tirendi, il basso Francesco Palmieri ed i tenori
Alfio Gemmellaro ed Enzo Isaja, sono in carriera anche all’estero, altri si
sono ritirati per raggiunti limiti d’età, altri ancora vivono un po’ in ombra,
magari perché esercitano professioni estranee all’ambito artistico e canoro. Ciascuno ricorda di essersi accostato a lui in completa libertà e serenità, senza alcun timore di essere giudicato, né tanto meno di essere umiliato o inibito.
Il suo ruolo, la sua età e la sua esperienza non lo rendevano superiore,
non lo collocavano in una posizione di preminenza rispetto all’allievo. La
sua grande semplicità gli aveva fatto scegliere un atteggiamento paritario
nei confronti degli alunni anzi direi paterno, affettuoso. Un giorno, durante una chiacchierata dopo la lezione, il Maestro, allargando le braccia, mi
disse: “per me voi alunni siete tutti come dei nipoti!”
Le sue lezioni non erano fredde e sbrigative: il suo sorriso era accogliente, la battuta spiritosa sempre pronta, l’aneddoto puntuale, i consigli preziosi, gli esempi pertinenti.
Dagli allievi egli esigeva uno studio accurato e costante, ma era in
grado di non farne avvertire il peso. Era sempre disposto ad evidenziare
i piccoli tratti positivi o quei minimi progressi tecnici, talora sottovalutati
o addirittura ignorati dallo stesso allievo.
Il critico musicale catanese Angelo Munzone, ha avuto modo di affermare, durante il discorso tenuto al Teatro Bellini in occasione dei festeggiamenti del centesimo compleanno del Maestro Celso, definito “grande
professionista”, che un suo bel pregio è stato quello di essere “insegnante
intellettualmente onesto nel sapere scegliere con cura gli allievi più promettenti
senza illudere nessuno”.24
La testimonianza della più celebre tra le ex- alunne di Francesco Celso,
Lucia Aliberti, soprano di fama mondiale, dalla voce nobile e perfetta,
musicista e compositrice, sintetizza in poche parole la grandezza del
Maestro: “L’ho conosciuto qualche anno prima che mi diplomassi in canto. Con il
Maestro è stata una collaborazione artistica. Oltre che apprendere e ragionare
sulla tecnica vocale studiavo con lui anche la composizione. Quando io lo incontravo, il Maestro mi dedicava, quasi sempre, tutti i pomeriggi e la sera facendo sempre
la pausa del thè e biscottini. Una volta il Maestro esordì dicendo a mio padre che
23 Aldo Mattina. Il personaggio , 23/8/1990.
24 Santo Privitera. Francesco Celso, cent’anni vissuti suonando, Giornale di
Sicilia, 17/06/2003.
78
Rosanna Furnari
avrebbe dovuto trovare un accomodamento a casa sua perchè io non volevo mai
andarmene. Il Maestro mi chiamava «Lucietta» e ripeteva: devi andare, è tardi.”25
“Oltre ai nostri unici ed irripetibili incontri musicali parlavamo di storia, di
cultura e molto di religione perchè il Maestro aveva una grande fede e delle idee
molto personali. Io custodisco gelosamente un regalo che egli mi fece: un contenitore molto particolare con dentro una corona in madreperla. Mi fece dono anche
di alcuni suoi libri, alcuni suoi scritti e sue foto dedicate a me”.
E continua: “Personalità poliedrica, unica, uomo di grande e rara cultura
unita ad una grande umiltà oltre che profonda saggezza, amava ed insegnava,
innanzitutto, la disciplina sia nella vita che nel lavoro. Personalizzava il suo
insegnamento didattico cercando di capire quali fossero i reali mezzi (qualità e
limiti ) degli allievi.”26
Il Maestro non emetteva giudizi definitivi sull’esatta classificazione del
registro vocale degli allievi se non con estremo scrupolo e cautela giacché
conosceva bene i limiti fisiologici della voce umana ed era in ogni caso
rispettoso delle soggettive caratteristiche timbriche. Era fermamente contrario a quei canoni didattici che, imponendo un modello assoluto di
suono, snaturano e standardizzano la fisionomia vocale del singolo cantante, memore del fatto che tre diversi, prestigiosi insegnanti avevano
definito il registro vocale della sorella Sara in tre modi rispettivamente
differenti: da mezzosoprano, in poco tempo, quella voce era stata classificata da contralto ed infine da soprano drammatico!
Il Maestro aveva trasfuso le sue conoscenze dello yoga sulla attività
musicale e didattica. Era convinto che un musicista e, più specificatamente un cantante lirico, potesse trarre notevoli giovamenti da una tale forma
di rilassamento. Le emozioni negative (paura, insicurezza, agitazione)
infatti, provocano su chi non è pienamente in grado gestirle, un respiro
superficiale ed irregolare ed il fastidioso effetto della gola serrata. Un
costante esercizio di autocontrollo rende, invece, un respiro più ampio e
regolare e, rilassando glottide e corde vocali, contribuisce a migliorare la
qualità della voce stessa.
Un primo passo necessario alla corretta impostazione della voce era
quello di sgomberare la mente dai tanti pensieri per concentrarsi sull’ascolto del proprio corpo.
Il controllo del respiro permette di distendere tutta la fascia della
muscolatura respiratoria interessata (intercostale, diaframmatica ed
addominale).27
25 Testimonianza della Signora Lucia Aliberti del 29/04/2008.
26 Testimonianza della Signora Lucia Aliberti del 29/04/2008.
27 Prassi esecutiva. Enciclopedia della musica UTET, Il lessico, volume II, pag
740 - 742.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
79
Come ricorda anche la signora Lucia Aliberti: ”il Maestro mi suggeriva,
inoltre, di imparare a respirare senza pensare di dovere respirare, ovvero con
naturalezza”.
L’accenno allo sbadiglio e l’ammorbidimento della lingua sul fondo
della bocca determinano il rilassamento della glottide, delle mascelle e
delle corde vocali, fattori che influiscono notevolmente sulla qualità della
voce.28
Con pazienza illimitata il Maestro attendeva che l’allievo compisse
consapevolmente il passaggio dalla respirazione istintiva e fisiologica a
quella tecnica, che consente di ottenere il massimo rifornimento di aria.
La formazione vocale dell’allievo cominciava da un lavoro propedeutico basato principalmente sulla semplice emissione del suono puro, sul
quale si innestava l’acquisizione della tecnica vera e propria che mira alla
equalizzazione dei registri.
Il bel suono deve essere sempre naturale e morbido, senza presentare
sforzi o durezze, soprattutto nella zona degli acuti dove facilmente si
tende allo stridore metallico; viceversa, nelle zone gravi, la voce non deve
apparire sorda o cupa.
Il sussidio didattico di cui il Maestro si avvaleva era il metodo tecnico ottocentesco di Manuel Garcia, contenente svariati esercizi ed intitolato “Traitè complet du chant”, pubblicato nel 1847, che egli aveva approfondito con personali riflessioni e conoscenze mediche.29
Se del metodo del Garcia aveva assunto il classico “attacco sul colpo di
glottide”, dall’altro lato ne aveva superato l’enfatica distinzione fra i tre
registri di risonanza (petto, falsetto, testa) poiché era convinto che esista
una certa debolezza fra l’estremo suono grave ed il primo dei medi e fra
l’ultimo medio ed il primo degli acuti ma essa si può risolvere semplicemente attraverso un potenziamento della respirazione ed il rilassamento
dell’apparato fonatorio.
Il didatta acese e quello spagnolo (nato a Madrid nel 1805 e morto a
Londra nel 1906) erano stranamente accomunati da alcune coincidenze:
balza immediatamente agli occhi la loro longevità (il primo visse quasi
103 anni ed il secondo 101), entrambi esercitarono una intensa attività
didattica, l’uno in casa, liberamente, l’altro come docente dell’Accademia
Reale di musica di Londra. Come il Garcia, anche Celso compose un’opera metodologica, i Vocalizzi – Lieder, che, pur non avendo grandi dimensioni, rappresenta, comunque, un sussidio didattico validissimo nella
sfera del canto contemporaneo. Impostata correttamente l’emissione delle
vocali, occorreva anche lavorare sulla intelligibile pronuncia delle parole
28 La Voce. Enciclopedia della musica UTET, Il lessico, volume II, pag 750-753.
29 Vocalizzi. Enciclopedia UTET, Il Lessico, volume II.
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Rosanna Furnari
così come sulle varie tecniche, oggi pressoché dimenticate, del picchiettato, del martellato e sull’effetto del vibrato che il Maestro definiva “la cornice della voce”.
La Signora Lucia Aliberti serba ancora il prezioso suggerimento del
Maestro: “Egli insisteva maggiormente sulla necessità ed imprescindibilità di
fare tutti i giorni per 10 minuti solo esercizi di tecnica vocale non dimenticando di iniziare dalla tessitura più bassa.”
Esercizi e vocalizzi erano integrati subito con facili arie, antiche e
moderne che egli accompagnava personalmente al pianoforte, cosa che
continuò a praticare fino all’età di 96 anni. In taluni casi si avvaleva della
collaborazione della sorella Francesca o lasciava suonare gli alunni che ne
erano in grado offrendo loro “consigli anche su come accompagnare la voce
tenendo conto che nel belcanto la voce ha il tema armonico melodico”.30
Due lunghe pile di spartiti incorniciavano il suo antico pianoforte: lì
era possibile trovare di tutto, in un “disordine organizzato”, dal brano più
popolare alle rarità, dai pezzi d’opera alle sue personali trascrizioni.
Il Maestro si occupava anche dell’educazione alimentare degli allievi,
raccomandando di non trascurare gli alimenti proteici ed i carboidrati.
Molto efficaci erano poi i suoi rimedi casalinghi contro il mal di gola.
La sua azione didattica non si fermava solo alla corretta impostazione
della tecnica vocale ma inglobava anche l’educazione emotiva del futuro
cantante. Prima raccomandazione era dunque quella di ottenere, anche
nei momenti di evidente defaillance della voce, una certa impassibilità
nelle espressioni del viso ed un sicuro portamento da grandi divi.
Sorridendo il Maestro mi esortava spesso a “rendere la faccia di carta vetrata, adatta ad accendere i cerini!”
Vorrei riportare, infine, il ricordo commosso del celebre soprano Lucia
Aliberti: “Tengo a sottolineare che ho avuto la fortuna di incontrare un genio che
ha segnato la mia vita artistica e umana e con il quale ho sempre mantenuto i
contatti fino a qualche giorno prima che morisse. Egli rappresentava per me una
certezza; con lui mi consigliavo sempre e in qualsiasi momento di difficoltà egli
mi stava sempre vicino; mi ha sempre sostenuta con rigorosità ed incredibile dolcezza.”31
Il compositore e le opere
Lo stile compositivo del Maestro Francesco Celso è frutto di un attento studio alla costante ricerca di nuovi mezzi espressivi, eclettico crogiuo-
30 Testimonianza della Signora Lucia Aliberti del 29/04/2008.
31 Enciclopedia di Catania, Trincale Editore, volume II.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
81
lo cui convergono il sano classicismo, l’influsso dell’Impressionismo, il
gusto per le ardite sonorità e l’irrequietezza tonale. In completa autonomia rispetto alle dispute teoriche ed ideologiche avanguardistiche o dodecafoniche, la sua opera mostra un certo rinnovamento che è però modellato sulla traccia compositiva del primo Novecento.
Decisiva fu la mediazione fra tanti elementi eterogenei da parte del
paterno maestro di composizione Antonio Savasta (Catania 22 agosto
1874 - Napoli 2 luglio 1959), la cui solida formazione lo condusse, a soli 17
anni, a vincere il concorso per la cattedra di armonia in un istituto di
Firenze e nel 1915 ad insegnare al Conservatorio di Napoli, subentrando
proprio al suo maestro Nicola D’Arienzo nella cattedra di composizione.
Il Savasta fu invitato a ricoprire la mansione di direttore del Regio
Conservatorio “Vincenzo Bellini” a Palermo dal 1926 al 1938, destinato a
lasciare un segno decisivo nella scuola musicale siciliana dei primi anni
Cinquanta del Novecento. Il suo magistero, infatti, avrebbe formato oltre
al Maestro Celso anche altri conosciuti musicisti isolani quali Sangiorgi,
Santonocito, Gargiulo, Longo, Pilati e Francesco Pastura, di origini catanesi, noto più come musicologo e critico.
Punto di forza della produzione e della lezione del Savasta fu l’assimilazione della lettura impressionista di Debussy senza dimenticare mai le
origini etnee. Non a caso i titoli delle sue due opere liriche fanno un esplicito riferimento alla sua terra natale: il nome di Vera e soprattutto il mito
di Galatea, ricavato dalle Metamorfosi di Ovidio, sono il simbolo della
città di Acireale.32
Tali opere ebbero un immediato successo e furono diffuse in Italia dalla
radio Rai, quando ancora la televisione non era conosciuta. “Vera” fu rappresentata al Teatro Massimo Bellini di Catania il 27 marzo del 1913 e
“Galatea” nel 1920, per andare poi in scena nei maggiori teatri lirici del
tempo.
Grazie al Maestro Savasta Francesco Celso conobbe ed approfondì il
linguaggio debussiano, prestando moltissima attenzione al trattamento
timbrico: la voce di ciascuno strumento era considerata come valore assoluto e non mezzo materiale, pertanto, per la sua funzione evocativa, andava usata nella sua purezza. Probabilmente il fascino nei confronti dell’elemento orientaleggiante, carico di mistero e sensualità, trae origine proprio
dallo studio delle opere di Debussy. Tracce del suo stile, impostato sull’uso di scale per toni interi, pentafoniche ed esatonali ed il gusto per
l’arabesco saranno chiaramente ravvisabili nelle composizioni di Celso.
Altra roccaforte dell’insegnamento savastiano fu l’attenzione nei confronti del mondo dell’opera lirica. Pur non avendo intrapreso la carriera
32 Storia della musica Edizioni Garzanti. La musica contemporanea. Vol. X.
82
Rosanna Furnari
di cantante lirico, Francesco aveva fatto tesoro delle nozioni apprese
durante i corsi di canto principale e canto gregoriano quando era studente di composizione a Palermo, facendosi un’idea limpida della voce
umana nella varietà dei suoi registri ed indagandone con precisione i
punti di debolezza e di forza. La sua produzione vocale, cameristica ed
operistica vede come diretti antecedenti alcuni tra i rappresentanti della
giovane generazione di operisti della penisola, orientati, nella prima metà
del Novecento, al rinnovamento dell’opera italiana.
Ci si riferisce a Riccardo Zandonai, con il suo stile ricco di coloriture
orchestrali, preziosità di timbri e largo uso di cromatismi, a Francesco
Cilea (che Celso aveva conosciuto personalmente tramite la sorella Sara)
e soprattutto ad Ottorino Respighi, compositore al quale il Maestro fu
legato da stima oltre che professionale anche personale. Possiamo individuare alcuni punti di contatto tra il pensiero e lo stile compositivo di
Francesco Celso e quello di Ottorino Respighi.
Innanzitutto entrambi hanno condiviso quella atmosfera spiritualistica, lontana, però, dagli estremi nazionalistici dannunziani, che considerava la musica come “espressione delle profonde aspirazioni ad una vita
più pura e disinteressata”.33
Un altro elemento comune emerge, inoltre, dalla doppia natura,
modernista e restauratrice, che lascia coesistere il gusto per gli innovativi
impasti timbrici (soprattutto nei lavori sinfonici) con la volontà di non rinnegare mai la tradizione vocale italiana.
Il Maestro Celso aveva rinunciato ai plateali codici dell’opera verista
italiana: gli sfoghi lirici passionali e le esasperazioni delle tensioni vocaliche che sfociavano nel parlato, nel riso amaro o nel grido. Piuttosto, egli
aveva ben assimilato i modelli teatrali francesi delle opera- lirique ed
opera- comique di Jules Massenet e George Bizet. Del primo compositore,
che aveva esordito proprio sotto il segno dell’orientalismo, apprezzava
maggiormente la capacità di far convivere l’intimismo sentimentale ed il
melodismo con lo spettacolare, il pittoresco ed il meraviglioso.
Per quanto riguarda Bizet, Celso era letteralmente ammaliato dalle
opere “Les pecheurs de perles”, ambientata nell’isola di Ceylon e “Carmen”, per la brevità e nitidezza delle idee musicali, per la scelta tipicamente francese di timbri orchestrali puri, per la sintassi avanzata, oltre
che per l’esotismo e l’insinuante “coloeur locale” spagnolo.
Come ricorda l’amico Tommaso Papandrea, Francesco ascoltava sempre incantato l’aria di Josè, tratta dalla Carmen, intitolata “Le fleure que
tu m’avais jetée” ( Il fior che avevi a me tu dato).34
33 G. Bizet. Enciclopedia della musica UTET. Le biografie, pag. 540.
34 Rimskij- Korsakov. Enciclopedia della musica UTET. Le biografie, pag. 360.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
83
Per quel che concerne l’orchestrazione, il Maestro acese si ispirò sempre al modello rappresentato dalla lezione di Rimskij – Korsakov, alle sue
sonorità caratterizzate da un forte languore orientale, un acceso colorismo
ed una possente vitalità ritmica.
La predilezione nei confronti della musica sinfonica russa lo fece orientare, inoltre, verso un genere di sviluppo tematico di tipo paratattico, non
deduttivo come quello di filiazione tipicamente germanica.35
Anche lo stile compositivo di Maurice Ravel fu per Celso fonte di ispirazione e di riflessione. Analogo risulta il modo di gestire la composizione con ordine e misura risolvendo gli accordi dissonanti come se fossero
consonanti ed alternando sonorità piene e ritmi forti con melodie struggenti e malinconiche.
Entrambi i compositori sono accomunati, poi, da un certo pudore aristocratico, dalla riservatezza tipica dell’artista che vive del solo lavoro di
libero professionista, senza ricoprire incarichi o legarsi a società o scuole.
Più di tutto risalta la loro affinità di pensiero. Ravel scrisse un giorno:
“Ho sempre pensato che un compositore deve mettere sulla carta ciò che
sente e come lo sente, liberamente e senza tener conto dello stile del
momento. La grande musica deve sgorgare dal cuore”.36
Il Maestro Celso maturò in un modo del tutto personale l’eredità trasmessa da quello che Alfredo Casella aveva definito “Impressionismo
franco-russo” e l’arricchì aprendosi agli intervalli dissonanti, agli accordi
non legati tra loro, alle incursioni extratonali, al colorismo, manifestando
chiaramente la volontà di emancipare il proprio linguaggio, senza cadere
mai nell’artificiosità.37
Nonostante il suo stile compositivo si muova spesso nell’ambito di una
tonalità allargata, si mantiene fedele a quelle che Giacomo Puccini aveva
chiamato “le insuperabili leggi della natura dell’orecchio” ovvero i centri
tonali d’attrazione.
Senza screditare mai il lavoro di quei colleghi che esploravano le
nuove vie dell’Avanguardia (vedi, per esempio, il conterraneo Sangiorgi)
il Maestro Celso manifestò chiaramente una certa diffidenza nei confronti della dodecafonia schoenberghiana, delle sperimentazioni fonematiche
e della tecnica dello Sprechgesang.
A tal proposito la professoressa Vera Pulvirenti, docente di pianoforte
al Conservatorio “F. Torrefranca” di Vibo Valentia, puntualizza: “Lo stile
di Francesco Celso è schivo da orpelli ed esibizionismi di presunta innovazione
musicale, avulso da falsi tentativi di musica atonale, come quella dei costruttori
35 Il mondo della musica. Edizioni Garzanti. Volume II.
36 Storia della musica Edizioni Garzanti. La musica contemporanea. Vol. X.
37 Testimonianza della Professoressa Vera Pulvirenti del maggio 2008.
84
Rosanna Furnari
o ingegneri della musica, con i loro tentativi così azzardati da confondere e travisare la vera origine della musica e privarla della cosa più importante ovvero la
sensibilità musicale.”
“Il Maestro aveva una capacità di sentire il suono dal di dentro, di analizzarlo fino al cuore, quasi possedesse una lente di ingrandimento per vedere, o meglio,
sentire le sfumature che esso emanava. Il suo modo di pensare i suoni e la loro
architettura ha sempre avuto un unico scopo, quello che lui stesso esponeva dicendo «tutta la musica propriamente detta deve agire sulla sensibilità umana con
l’alternarsi di tutte le infinite sensazioni che le varie combinazioni degli intervalli producono», precisando che «il valore di una musica dipende dalla qualità e dall’intensità delle sensazioni prodotte da essa». Qui riportava l’esempio della differenza che sta tra un intervallo comunemente detto maggiore e le sue caratteristiche e uno detto minore con le sue differenze”.38
Il carattere delle sue composizioni è immagine della sua personalità:
essendo pudico, riservato, restio e contrario a qualsiasi sfoggio del proprio io, lasciò che le sue più intime emozioni rimanessero delicatamente
celate tra i righi musicali, senza alcuna ostentazione affettata.
Per gli svariati riflessi mobili e cangianti delle opere di Francesco
Celso, mi sento di definire il suo come lo stile dell’ “iridescenza”.
La sua copiosa produzione annovera un numero altissimo di composizioni per le quali risulta difficile anche tentare di stilare una cronologia,
essendo prive di datazione. Purtroppo, la gran parte di esse non è mai
stata eseguita pubblicamente e rimane ancor oggi manoscritta, non catalogata anzi pressoché negletta.
La produzione vocale - Le Liriche Cinesi
Per risalire alla genesi delle “Liriche Cinesi” occorre fare un passo
indietro nella storia di padre Gabriele Allegra (nato a S. Giovanni La
Punta, in provincia di Catania, il 26/12/1907 e morto ad Hong Kong il
26/1/1976 ), amico del Maestro Celso e di suo padre. Il frate, missionario
della parola di Dio nel lontano Oriente, era partito alla volta di una Cina
alquanto inquieta nel 1931 ma ritornò in Italia nel 1939 e vi rimase per
circa un anno e mezzo.39
Padre Gabriele era poliglotta, sacerdote dalla cultura sconfinata: conosceva perfettamente le lingue antiche del Mediterraneo ma una volta a
Pechino cominciò a parlare e scrivere correttamente anche il cinese lette-
38 P.Leonardo Anastasi, Profilo spirituale di P.G.M. Allegra,Tipografia Don
Gaunella, Roma, 1988, pag.184.
39 A.Sciacca. Nota introduttiva a Stagione finale Jonica. Edizioni A& G.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
85
rario, tanto da concepire e realizzare la titanica idea di una integrale traduzione della sacra Bibbia.
Il frate era anche un infaticabile lettore di opere profane cinesi che gli
occorrevano per comprendere meglio la mentalità dei paesi del Sol
Levante. Si dedicò, così alla traduzione di alcuni libri fra i quali il poema
elegiaco “Li Sao”(Incontro al dolore). Egli sapeva bene quanto un compositore sia alla costante ricerca di temi accattivanti, spinto dall’esigenza di
trovare sempre nuove fonti d ispirazione, pertanto provvide a tradurre in
italiano e spedire al Maestro Celso da Roma Appio, il 12 maggio 1940, un
soggetto originale: si trattava di quattro liriche popolari profane, estratte dalla raccolta di antiche poesie cinesi detta “Fonte della poesia antica”.
Francesco Celso musicò in breve tempo i nuovi testi consegnando, nello
stesso anno, quattro bei componimenti da camera per canto e pianoforte.
L’estensione vocale dei brani appare chiaramente medio-alta ed è indicata, di conseguenza, per un registro di voce mezzosopranile o anche di
soprano drammatico.
Il brano dal lungo titolo “La vedova ad un mezzano che le propone
nuove nozze” è un componimento poetico di autore ignoto, molto antico,
da far risalire probabilmente al 200 a. C.; si tratta di un topos tra le forme
letterarie cinesi, ovvero di un Pai-Leu, monumento commemorativo dedicato alle vedove caste. Il testo illustra la decisa volontà di una donna, che
ha ancora il cuore lacero e sanguinante per la morte del marito, di rimanere sola nel suo nido poiché esso era stato preparato solo per lei e l’amato scomparso.
La donna attende dunque con determinazione e fermezza la morte che
giungerà a portare gioia alla sua anima stanca come un lieto cinguettare
di creature alate.
Giacché si tratta di una traduzione di un testo artistico cinese, la struttura metrica è ben lontana da quella tipica della tradizione poetica italiana in rima; la composizione, consistente in quattro strofe, ciascuna composta da versi lunghi, vicini alla prosa, spinse il compositore a variare le
forme classiche della scrittura musicale. Il Maestro fece ricorso, pertanto,
a frequenti cambi di tempo, soprattutto in corrispondenza del passaggio
alle strofe successive: da un iniziale 4/4 si spostò ad un 2/4, toccando il ?,
per concludere, tornando al tempo d’inizio. Nonostante i continui cambiamenti, la lirica mantiene sempre il carattere grave ed elegiaco, sostenuta anche dall’accompagnamento scarno del pianoforte che si anima leggermente solo nell’ultima quartina per enfatizzare l’invito della vedova al
mezzano affinché desista dal suo proposito.
Il secondo brano, intitolato “Amori d’autunno”, è attribuito all’imperatore Ou della dinastia Han e risale al 150 A. C. Contrariamente a quanto il titolo potrebbe far pensare non si tratta di un canto che esalta tristemente la caducità della vita ma di un inno che celebra la natura e l’amo-
86
Rosanna Furnari
re. Nella cultura e nelle tradizioni dei paesi del Sol Levante, soprattutto
quelle della Cina Meridionale, patria del poeta – sovrano, la stagione
autunnale viene considerata come la più bella perché prepara la natura al
suo ridestarsi. Mentre il vento leggero spande per l’aria profumi di
magnolia e lascia cadere lentamente le foglie gialle, il pensiero di una fanciulla corre all’amato, che non riesce a dimenticare. Il canto si erge leggiadro su un accompagnamento pianistico fatto di leggere sestine di semicrome.
Il Maestro Celso ebbe una doppia gioia nel veder premiate queste due
liriche in diverse occasioni: vinse il concorso bandito dalla rivista “Musica
d’oggi” nel 1941, la “Mostra di musica contemporanea” di Palermo nel
1941 e il concorso di musica da camera nel 1942 con l’esecuzione finale,
come concerto premio, nella sala Scarlatti del Conservatorio di Palermo.
Verso la fine degli anni Novanta il Maestro, ormai anziano, ebbe la
possibilità di ritornare al convento di San Biagio in occasione di una manifestazione organizzata per celebrare le virtù eroiche del frate ispiratore
delle sue “Liriche Cinesi”, nel corso della quale serata vennero eseguite le
sue composizioni.
L’Abù Hassan
Sul finire della Seconda Guerra Mondiale, tra il 1945 ed il 1946,
Francesco Celso si rivolse alla realizzazione del suo più grande desiderio,
la composizione di un’opera lirica. Faceva parte della sua cerchia di amici
più intimi il giovane poeta Tommaso Papandrea, suo vicino di casa, allora ancora studente universitario di lettere classiche presso la facoltà di
Lettere e Filosofia di Catania.
Nonostante Papandrea fosse più giovane di circa venti anni rispetto al
Maestro aveva il pregio di mantenere la sua stessa linea di condotta,
mostrandosi in pieno accordo con il suo mondo culturale e morale.
Apparteneva ad una antica famiglia acese che aveva sempre “coltivato
l’arte con quell’atteggiamento che si serba al sacro”.40
Egli era votato non solo alla poesia ma anche alla musica ed all’arte
figurativa: aveva, infatti, cominciato a studiare anche canto sotto la guida
di Sara Celso. Francesco si rivolse all’amico Tommaso perché potesse trovare un soggetto conforme alla sua aspirazione: desiderava, infatti, un
argomento affascinante, fiabesco ed esotico.
Il giovane Papandrea, dopo una breve ricerca in casa, trovò subito i
quattro volumi della collezione Einaudi contenente la raccolta ufficiale
40 G. Bizet. Enciclopedia della musica UTET. Le biografie, pag. 540.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
87
delle “Mille e una notte”, prima versione integrale dall’arabo, nella traduzione di Francesco Gabrieli; poiché però nessuna delle trame proposte
aveva suscitato particolare entusiasmo nel Maestro, il poeta gli mostrò
infine l’unico racconto che non compariva nell’antologia in suo possesso.
Si trattava di una novella spuria, direttamente tradotta dal francese,
inclusa in un fascicolo mensile pubblicato dalle Edizioni Nervini. Questa
storia piacque molto al giovane operista e nonostante l’amico librettista
glielo sconsigliasse, in quanto stava cimentandosi per la prima volta nel
genere operistico, obiettivo e traguardo di Francesco Celso era quello di
creare uno spettacolo grand- operistico, dai numerosi atti, dalle coreografie sfarzose, dalle scene d’effetto, con ampi balletti e qualche passo comico.
Stabilita la “fabula”, ovvero l’intreccio, Tommaso si impegnò subito
nella sceneggiatura e l’opera fu intitolata “Abù Hassan o Il Dormiglione
risvegliato”.
La struttura dell’opera dissolve le forme standardizzate e gli stereotipi
metrici verdiani, proponendo una serie di episodi che si susseguono in
una sorta di “prosa musicale”. Nel testo, dunque, mancano i convenzionali numeri chiusi, le strofe isometriche, le reiterazioni verbali ed i tradizionali comici giochi di parole e il libretto è chiaro ed efficace; del resto il
Maestro aveva scelto, molto saggiamente, un soggetto operistico “ideale”,
in cui è presente un’azione senza antefatti e tutta la trama può essere
comunicata sul palcoscenico. Rispetto alla fonte il librettista, uomo di lettere, ha abilmente aggiunto minime varianti, diversi interventi del coro,
posti all’inizio del secondo atto, alla fine del terzo atto e nel concertato
finale ed ha mantenuto il “luogo topico” della burla finale. Originale è
l’aggiunta della canzone - filastrocca del “Cavallino” che apre il III atto,
cantata dal Califfo nei pressi dell’abitazione di Abù.
Le scene, sette in tutto, sono caratterizzate, in genere, da rapidi scambi di battute lapidarie; il linguaggio dell’ “Abù – Hassan è raffinato ed elegante e non cade mai nella retorica mentre i personaggi stereotipati della
favola orientale sono abilmente trasfigurati in caratteri umani, ritratti con
i loro naturali pregi e difetti. Il Califfo, ad esempio, malgrado rimanga vittima della piccola burla da parte di Abù, è pur sempre un dignitario abile
ed astuto, che ricorre a vari travestimenti per poter controllare di persona
il grado di ordine nella sua città; egli è dunque ben lungi dal classico cliché del cosiddetto buffo caricato. Zobeida, la Sultana, è una donna risoluta, fedele ma non eccessivamente sottomessa al marito, capace anche di
sfoderare le docili arti femminili per ottenere i suoi fini.
Quantunque il soggetto rechi in sé i germi di possibili implicazioni di
carattere sociale, religioso e politico, le figure dei protagonisti non si presentano politicizzate. Abù Hassan appartiene ad un ceto sociale notevolmente inferiore in confronto a quello del Califfo, tuttavia nell’opera non si
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Rosanna Furnari
assiste al trionfo del potente sul debole, del nobile sul plebeo, anzi, alla
fine della vicenda, il giovane mercante riesce scaltramente a collocarsi in
una posizione paritaria rispetto a quella del suo Signore, affermando la
propria libertà e dignità umana.
L’opera consiste in una piacevole storia sentimentale - comica, ambientata nella città di Bagdad, al tempo in cui regnava il Califfo Harun al
Rascid.
Questi i protagonisti e le loro vocalità:
Abù
tenore
Il Califfo
baritono
Il Gran Visir Giafar
basso
Il medico
basso
Mesnur, favorito del califfo
basso
Fatima, favorita della Sultana
soprano
Zobeida, Sultana
mezzo-soprano
Schemnelziar
soprano
Nuzhat
mezzo-soprano
Atto I. Una sera, il Califfo, di ritorno da un giro in incognito per la città,
vede sul ponte affacciato sul fiume Tigri, Abù Hassan, figlio di un mercante di stoffe e accetta l’invito di fermarsi un po’a casa sua. Riconosciuti il
buon cuore e la sincerità del giovane, che gli esternava il desiderio di
poter vivere da Califfo almeno per un giorno, decide di accontentarlo e, a
sua insaputa, lo fa addormentare versando una polverina nel vino e lo fa
condurre nella sua sfarzosa Corte. Una volta a Palazzo, Abù si desta e
crede di avere una visione, ma, giacché tutti gli si prostrano innanzi con
naturalezza, presto comincia a convincersi della realtà della sua nuova
esistenza, pertanto va assumendo gradatamente il tono confacentesi al
suo altissimo grado.
Atto II. Al Principe –Abù viene presentata la sua Sultana che altri non
è se non la dama di compagnia di Zobeida, moglie del vero Califfo.
Fatima appare come una meravigliosa creatura ed Abù riconosce il lei la
misteriosa donna dei suoi sogni.
Insieme i due assistono ad un leggiadro ballo in cui le danzatrici spargono fiori per la grande sala.
Atto III. Mentre Zobieda, la Sultana, lamenta la sua solitudine, chiede
a Fatima il motivo della sua tristezza. La sua favorita, da qualche giorno,
ha perduto la fame e piange anche la notte: è, in poche parole, innamorata. Le notizie sul conto di Abù sono causa di un grande sconforto per
Fatima in quanto il giovane, al risveglio dallo stravagante scherzo, non
avendo più riconosciuto la madre, l’aveva stretta violentemente alla gola,
per cui era stato condotto all’ospedale. Il Califfo, divertito, si reca a far
vista al povero Abù, il quale, risentito, gli racconta di aver ricevuto in
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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ospedale dure sferzate sulle spalle per rinsavire. Mal celando il riso, il
Gran Commendatore dei credenti lo invita a Palazzo per concludere
degnamente lo scherzo impietoso. Giunto alla reggia, Abù riconosce
Mesnur e poi lo stesso Califfo, nei panni del mercante di Mussul.
Per ripagarlo delle beffe e dei maltrattamenti subiti, il gran Signore gli
conferisce la carica di suo Consigliere personale, a condizione, però, che
non si innamori mai.
Atto IV. L’ultimo atto si apre con il felice incontro tra Fatima e Abù, un
duetto ricco di luminose ed appassionate immagini poetiche che descrivono il rinverdirsi della speranza grazie all’amore. L’idillio è presto
adombrato dalla promessa di non innamorarsi mai, fatta da Abù al suo
Signore. Lo scaltro mercante riesce però a trovare un espediente per gabbare il suo Padrone e svela il suo piano all’innamorata, decisa a collaborare. Poco dopo tutta la reggia risuona di lamenti e Fatima, scarmigliata,
grida che Abù si trova in fin di vita. Intanto che un medico tenta di rianimare il finto moribondo, tutti i cortigiani gli si stringono intorno ed il
Califfo, commosso, gli concede di esaudire l’ultimo desiderio. Il giovane
astuto chiede di poter abbracciare Fatima. Giunta la fanciulla, Abù balza
in piedi fra lo stupore generale e abbraccia la sua innamorata implorando
il perdono. Il suo signore, irremovibile, vorrebbe punirlo severamente, ma
la Sultana Zobeida intercede per i due giovani presso il marito, ottenendo indulgenza.
L’opera termina con una spiritosa morale pronunciata dal medico:
“Che se Amor sa far morir, sa pur far risuscitare”.
Il Maestro Celso si mise subito a musicare il primo atto dell’Abù, per
dedicarsi poi ai successivi, man mano che gli venivano consegnati dall’amico Papandrea, il quale, nel frattempo, si era laureato e dedicato all’insegnamento. L’opera fu portata a termine prima del 1950. In completa
autonomia rispetto alle dispute teoriche ed ideologiche del primo
Novecento, l’opera mostra un certo rinnovamento che è però modellato
su precisi omaggi, soprattutto russi e francesi. L’ambientazione esotica
non costituisce una novità nell’ambito operistico. Nel corso dell’Ottocento
era in voga la moda letteraria della “Turquerie”, fatta di trame che giocavano sulla diversità di caratteri, usi e costumi, rispetto a quelli occidentali.
Il gusto “turchesco” offriva alla musica la possibilità di usare varie percussioni ed un linguaggio vocale vivace e stravagante in cui abbondavano note extratonali, cromatismi ed acciaccature. “L’Entfrung aus dem
serail” di W. A. Mozart o “L’italiana in Algeri” di Gioacchino Rossini ne
sono un esempio. Anche in tempi più recenti, l’opera francese aveva fatto
abbondante ricorso al filone esotico. Ci si riferisce, in particolare, alle
opera – comique “Les pecheurs de perles” e “Carmen”di George Bizet,
alla opera- lirique “Le Mage” di Jules Massenet, ambientata in Persia e
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Rosanna Furnari
caratterizzata dalla presenza di protagonisti pagani e cristiani contraddistinti da stili musicali diversi.41
Rispetto ai suddetti modelli, che rientrano nel genere dell’opera –
comique e prevedono l’alternanza di parti recitate con parti musicali, il
Maestro scelse per l’Abù Hassan una forma, tipicamente italiana, tutta
cantata.
L’ Abù Hassan è segnato, nondimeno, dall’impronta rimskiana dell’orchestrazione. Tra l’altro, non ritengo si tratti di una casuale coincidenza il
fatto che anche il compositore russo Rimskj Korsakov si fosse ispirato ad
un racconto tratto dalle “Mille e una notte” durante la stesura della sua
Suite per orchestra intitolata “Seherazada”.42
La dimensione esotica dell’opera, tuttavia, non coincide con il puro folklore locale, ma si manifesta come “colore immaginario” che trascende
tutti i luoghi comuni del passato consentendo nuove definizioni armoniche e timbriche.
Francesco Celso fu un “cantore nato”, non un compositore che si limitasse ad adattare la musica alle parole; grazie alla capacità di immedesimazione psicologica con il significato letterario, la sua mente assimilava il
testo poetico e ricreava la parole in musica.
L’andatura musicale delle scene combacia perfettamente con i dialoghi
dei personaggi, con il tempo dei sentimenti che li animano, senza ristagni
o divaricazioni. Il fluire del declamato melodico, pervaso dall’elaborazione motivica dell’orchestra, è punteggiato, qua e là, da momenti emozionali isolati. La scrittura orchestrale dell’Abù consta di fitte trame, contraddistinte da una chiarezza persino schematica, ma anche da una grande
complessità sintattico-armonica. Lo dimostra, ad esempio, la “Danza
Orientale”, ovvero il balletto situato alla fine del II atto, composto da una
serie di ben 14 brevissime sezioni, tutte diverse tra loro, che mostrano, in
un agile continuum sonoro, tutta la gamma agogica, dal “dolcemente cullante” al “tempestoso”. Qui la sinuosità delle numerose melodie orientaleggianti è accompagnata da “grappoli di accordi” e scandita da studiate
dissonanze, fittissimi cromatismi e ritmi vivaci, gioiosamente esuberanti
che ricordano, talora, l’incisiva modernità di Prokof’ev. Bisogna tuttavia
puntualizzare che questo gusto per gli urti sonori non sconfina mai nella
sospensione vera e propria della tonalità.
Per quanto concerne l’aspetto canoro, quella di Abù Hassan, il protagonista, costituisce l’unica parte dell’opera affidata al registro vocale di
tenore. A questo personaggio sono richieste buone doti anche di interpre-
41 J. Massenet. Enciclopedia della musica UTET. Le biografie, pag. 708-710.
42 N. Rimskj-Korsakov. Enciclopedia della musica UTET. Le biografie, pag.
360.
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te che vanno dal comico al sentimentale, dal tono sarcastico dell’episodio
”Conosco ben l’amore” che sfocia in una risata sprezzante, alla inflessione sentimentale e languida del duetto posto all’inizio del IV atto.
Degno di nota è anche il bellissimo monologo di Zobeida, mezzosoprano, in cui, attraverso immagini simboliche, la Sultana confida malinconica la sua solitudine. Ella lo fa con voce sommessa, nel registro medio acuto ed anziché aprirsi nel forte verso l’acuto, malgrado la tensione emotiva, decresce estinguendosi dolcemente nel piano.
Il brano potrebbe apparire a prima vista molto semplice, tuttavia esso
è costellato da continue alterazioni momentanee, che producendo modulazioni ai toni lontani, ne rendono l’esecuzione particolarmente impegnativa. L’accompagnamento orchestrale è ricco: leggeri e veloci arpeggi ai
bassi si accompagnano alle terzine degli archi nella sezione centrale per
animarsi poco dopo in un crescendo di tremoli che sostiene il canto nel
culmine del pathos. Il monologo è caratterizzato, inoltre, da incalzanti
cambiamenti di tempo; nello spazio di sole 31 battute si susseguono ben
tre passaggi: da un Adagio in ? e poi in 4/4 ad un Largo in 2/2 per concludere in un Lento.
Questo procedimento del discorso musicale rientra perfettamente
nella tecnica dei cambi di accentuazione tipica del Novecento, nata dall’influsso di culture musicali etniche ed extraeuropee. Rispetto ad altri
compositori coevi, tuttavia, Francesco Celso non provoca mai senso di
smarrimento ritmico poiché nelle sue composizioni è sempre possibile
avvertire un ordine nelle pulsazioni isocrone ed il riconoscimento delle
cellule binarie e ternarie è sempre esplicito.
Nel 1951, un anno più tardi dalla conclusione della stesura dell’opera,
il maestro Celso decise di partecipare con l’Abù al Concorso Musicale
Internazionale per direttori d’orchestra indetto dal Teatro alla Scala, per
ricordare i cinquanta anni della morte di Giuseppe Verdi e si adoperò
subito per spedire la sua partitura a Milano.
Nonostante l’Opera fosse stata esaminata ed apprezzata da molti
esperti, il concorso venne superato da un direttore di origini argentine,
non iscritto nell’elenco dei partecipanti, che aveva musicato un libretto
scritto da Salvatore Quasimodo. Quella vincita suscitò una certa sorpresa,
in quanto il famoso poeta siciliano ricopriva, in quegli anni, la carica di
docente di drammaturgia per l’appunto presso il Conservatorio di
Milano.43
Stranamente, poi, lo stesso vincitore, il direttore sudamericano, entusiasta dell’Abù Hassan, si preoccupò di far giungere da Buenos Aires le
scenografie per un probabile allestimento dell’opera.
43 Testimonianza del Professor Tommaso Papandrea del 17 / 04 / 2008.
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Rosanna Furnari
Oltre alla partitura completa per orchestra il Maestro Celso scrisse
anche tutte le riduzioni per canto e pianoforte, al fine di agevolare lo studio da parte dei cantanti. L’opera fu in primo luogo sottoposta al saggio
giudizio di Antonio Savasta sul finire del 1952, che la esaminò subito e
rispose con una missiva del 27 dicembre dello stesso anno. Di seguito il
testo integrale:
“Caro Maestro,
ho letto la sua opera Abù – Hassan per canto e piano, e sono lieto di comunicarle che mi è sinceramente piaciuta. In essa la musica, per il suo colore simpaticamente orientale, aderisce perfettamente all’ambiente del libretto, e lo stile,
quantunque abbastanza moderno, si mantiene strettamente equilibrato, senza
mai trascendere a certe stravaganze armoniche, tanto preferite da moltissimi
moderni per nascondere la povertà della loro inventiva. Sono sicuro che la partitura per orchestra, che non conosco ancora, sarà ugualmente interessante, e perciò le auguro che possa figurare presto nel cartellone di un importante teatro.
Congratulazioni e saluti cordiali
Antonio Savasta”
In un secondo momento l’opera fu esaminata anche dai Maestri Franco
Mannino, Carlo Frajese e Vincenzo Davico, che la apprezzarono e lodarono vivamente e nel 1953 il M° Ottavio Ziino, direttore del Conservatorio
di Santa Cecilia a Roma, telefonò personalmente a Francesco Celso dicendogli che sarebbe stato lieto di dirigere la prima esecuzione dell’opera,
tanto ne era rimasto colpito. Nel 1980 l’opera sembrava essere in procinto
di un imminente allestimento scenico proprio al Teatro di Catania ma,
nonostante il Maestro si fosse premurato a fare stampare tutta la partitura, la promessa cadde subito nel vuoto.44
Nel 1998 una copia della partitura fu inviata anche al Maestro Riccardo
Muti che, favorevolmente colpito dalla bellezza della struttura armonica
e melodica dell’opera, aveva inviato una lettera di risposta a Celso promettendogli che, una volta restaurato il Teatro alla Scala (in quegli anni
chiuso per lavori), lo avrebbe invitato personalmente a Milano per prendere parte alla prima. Ricordo perfettamente il giorno in cui, seduto
davanti al suo pianoforte, il Maestro mi lesse quel foglio con un pizzico di
emozione. Anche in quel caso, però, sopraggiunsero problemi che vanificarono il sogno. Durante gli ultimi anni della sua vita poi il Maestro, consapevole che la scrittura orchestrale dell’Abù Hassan fosse alquanto
impervia, aveva maturato l’idea di procedere ad uno “sfoltimento” dell’opera che potesse facilitarne l’esecuzione ma tuttavia non riuscì a concretizzare quell’intento, essendo ormai troppo anziano.
44 V. Pulvirenti. Il ricordo di un’allieva. Akis , 4/ 3/2006.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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Nonostante Francesco Celso avesse dedicato l’impegno più assiduo
alla sua opera lirica, attese per più di cinquanta anni quello che egli stesso, spiritosamente, definiva il “varo”, ma invano.
La produzione sacra
La profonda fede e religiosità che i genitori avevano saputo instillare
nell’animo del piccolo Francesco, così come di tutti i figli, avevano fatto sì
che, quasi naturalmente, essi si accostassero alla chiesa con devozione.
Non bisogna dimenticare che Gabriele Celso, padre del Maestro, era così
in confidenza con un sacerdote della curia di Agrigento, Monsignor
Gerlando Maria Genuardi, da cogliere subito il suo suggerimento e trasferirsi dalla sua città natale ad Acireale. Proprio in quegli anni il monsignore agrigentino fu nominato primo Vescovo della nascente Diocesi di
Acireale.
L’abitazione acese dei Celso si trovava di fronte alla chiesa di San
Camillo de Lellis, sotto la giurisdizione della parrocchia Cattedrale
“Maria Santissima Annunziata” e tutta la famiglia frequentava assiduamente quel prezioso gioiello barocco.
Il professor Antonio Pagano, vicino di casa ed amico del Maestro, definì Francesco “cappuccinoto” di Via Galatea, a rimarcare il fatto che egli
visitasse spesso la parrocchia di Santa Maria degli Angeli, retta in passato dai Frati Francescani Cappuccini.45
La vicinanza a quel luogo, ancora così intriso di francescanesimo,
determinò nel Maestro anche una certa familiarità con la figura del “poverello di Assisi” e la meditazione sulla vita e sulla spiritualità di san
Francesco, predicatore dell’umiltà, lasciò un chiaro segno sul suo carattere, che si distinse sempre per la grande modestia e la saggia semplicità,
che si tradussero poi in segno grafico: è impossibile dimenticare il meraviglioso quadro fissato alla parete dello studio raffigurante San Francesco
d’Assisi, immerso nella contemplazione della creazione.
Altro elemento da non sottovalutare nella formazione spirituale di
Francesco Celso fu il suo contatto con il padre francescano Gabriele
Allegra, appartenente all’Ordine dei Frati Minori, che, tra un periodo di
missione in Cina e l’altro, sostava ad Acireale nel convento di S. Biagio.46
Il frate, anima in costante “colloquio con Dio e la Vergine Maria”, già
45 Antonio Pagano. I cento anni del M° F. A. Celso. Biblioteca Zelantea.
Acireale, 2003.
46 Umberto Castagna , Un apostolo della Cina alle soglie del terzo millennio,
Arte tipografica , Napoli 2002, pag. 11.
94
Rosanna Furnari
Servo di Dio per l’eroicità delle sue virtù e per la sua generosa carità verso
i lebbrosi, ebbe un breve rapporto epistolare con il Maestro.
Francesco intrattenne, poi, una sincera amicizia anche con il vescovo
Monsignor Ferdinando Cento, Nunzio Apostolico e poi Cardinale, letterato, giurista e filosofo, oltre che grande uomo di Chiesa.47
La religione rappresentò dunque per il Maestro una regione della propria esperienza umana dalla quale attingere seri contributi all’arte. La sua
produzione sacra non è dunque copiosa ma è tuttavia significativa ed
annovera, in primo luogo, una Messa composta nel 1962, dedicata non a
caso a Papa Giovanni XXIII e premiata ad un concorso di composizione a
Palermo. Questa fatica musicale si può inserire in quel filone di fioritura
della musica sacra, inaugurato, all’inizio del Novecento da Lorenzo
Perosi. Quest’ultimo, allontanandosi dalla tradizione polifonica tipicamente palestriniana, non aveva disdegnato l’impronta per così dire operistica nel musicare i soggetti liturgici, rappresentati con aperta cantabilità.
Nella Messa in questione è incontestabile la matrice lirica. Altro brano da
menzionare è l’ “Ave Maria” per coro a cappella, nata qualche anno più
tardi, breve Larghetto nella tonalità di re maggiore, composto per quattro
voci dispari che, di fatto, sono cinque nella parte iniziale giacché la linea
melodica del soprano si sdoppia.
Piena di intensa religiosità è l’ “Ave Maria” per voce e pianoforte in si
maggiore, composta il 21 dicembre 1965, dedicata ed inviata al Papa. Si
tratta di un brano di piccole dimensioni ma di grande e traboccante commozione. All’inizio la melodia, affidata alla voce, è calma e serena, in un
secondo momento si anima e muta il carattere. Particolarmente in corrispondenza delle concitate invocazioni ”Ora pro nobis peccatoribus” la
musica crea una forte tensione emotiva in cui, nell’implorare aiuto dalla
Vergine Santissima, Celso fa toccare con mano il vuoto, il nulla di cui è
fatta la creatura umana di fronte al suo Creatore. Il forte anelito dell’anima non si effonde verso l’acuto con un’emissione forte ma decresce, rassegnato, sul “Così sia” per dissolversi serenamente tra le ultime note del
pianoforte.
Rientra, secondo me, a pieno titolo, fra le opere sacre, il poemetto per
pianoforte, intitolato “Verso il Golgota”. Giacché manca la data di composizione, da una prima mia analisi del manoscritto evinco che si tratti di
una delle ultime fatiche del Maestro e che, per questo, faccia meglio trasparire la sua esperienza esistenziale del dolore e la personale riflessione
sul “tanathos”. Forti immagini sinestetiche dominano questo brano dalla
straordinaria efficacia evocativa, che mi piace definire come un “lungo
47 Alfio Fichera, Cronache e memorie, vol.I e II, Accademia Zelantea, I.T.E.S.
Catania.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
95
attraversamento sonoro” degli stati emozionali del divino martire del
Calvario. Qui Celso ha concepito una musica che può essere percepita da
tutti i sensi: l’iniziale iterazione di piccole cellule, l’una cromatica al basso
e l’altra diatonica alla mano destra, sovrapposte scientemente, trascina
l’ascoltatore nel vortice caotico degli scherni, degli insulti e delle grida
rivolti a Gesù, condannato a morte. Il ritmo puntato della mesta melodia
orientaleggiante, pare riprodurre plasticamente il passo stentato e stanco
del Cristo schiacciato dal peso della croce e dei peccati dell’umanità. La
marcata accentuazione, in corrispondenza di una progressione ascendente, rende visivamente lo sforzo della salita. Giunti nel luogo della crocifissione, una inaspettata e chiarissima melodia, fatta di doppi tremoli in
chiave di violino, pare avvolgere la croce gloriosa. La luce vivissima che
il suono promana illumina l’oscurità più recondita dell’intimo, invade il
cuore di una serena consolazione e lo proietta verso l’eternità.
In virtù dei messaggi religiosi contenuti in queste opere sacre, il santo
Padre Giovanni Paolo II elargì una speciale benedizione pontificia al
Maestro Celso, in occasione del suo centesimo compleanno, impartita per
mano dell’arcivescovo metropolita di Catania Monsignor Salvatore Gristina, “ulteriore dono del Signore e segno della mano della Provvidenza
nella sua operosa esistenza”.
La musica leggera
Alla fine degli anni Cinquanta Francesco Celso si cimentò anche nel
genere vocale della canzone leggera: le sue tre canzoni slow “Sempre”,
“L’hai voluto tu”e “Dove sarà”, concepite come genere d’intrattenimento
per far svagare e sognare il pubblico, senza alcuna velleità estetica, vanno
collocate sotto la denominazione di musica leggera. Bisogna subito specificare, tuttavia, che si tratta di una produzione di prima qualità, per nulla
assoggettata alla standardizzazione imposta dalle ragioni di mercato e
che, pertanto, non vivendo, come altri, di una “creatività riflessa”, presenta una personale impronta.
L’elegante carattere delle canzoni slow deriva dai rapporti dinamici
tenuti dal compositore con il genere del melodramma, filtrato attraverso
il patrimonio tramandato dall’operetta, la romanza da camera e la canzone napoletana. In altre parole, la piccola produzione in questione rientra
nel genere della musica leggera per il sentimentalismo e per la facilità
d’ascolto, ma se ne distanzia, allo stesso tempo, giacché non si sottomette
alla prevedibilità di determinate formule musicali.
Il sottotitolo di canzone “slow” lascia intendere una certa simpatia, da
parte dell’autore, per il genere americano delle songs. Infatti, nella formula d’accompagnamento pianistico delle tre canzoni, s’intravede qualche
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Rosanna Furnari
traccia del ritmo sincopato americano, soprattutto nei ritornelli che si presentano poliritmici, caratterizzati dalla simultaneità di ritmi contrastanti,
alternati tra il canto ed il pianoforte. Minimi accenni alla forma musicale
americana si riscontrano pure nella ripetuta aggiunta di terze e settime
minori alla scala diatonica. Sotto l’aspetto melodico, invece, Celso rivela
chiaramente di non essersi lasciato travolgere dalla moda del jazz d’oltre
oceano.
Tema principale delle tre canzoni è l’amore, mostrato in tutte le sue
sfumature. Ad esempio, il testo della canzone “Dove sarà”, scritto da G.
Musmeci, narra di un amore nato da un fugace incontro alla stazione ferroviaria, che, alla partenza del treno, lascia già un vuoto incolmabile nel
cuore dei due giovani, costretti a separarsi.
La canzone intitolata “Sempre”, è un giuramento d’amore e di fedeltà
per tutta la vita, mentre, al contrario, “L’hai voluto tu” descrive il risentimento di un giovane, abbandonato dalla sua innamorata che non riesce
più a perdonare l’infedeltà subita e congeda la ragazza, in seguito ravveduta, con le parole “…un dì ti ho amato tanto, ora non ti amo più!...”.
La forma del brano “Dove sarà” (come delle altre canzoni slow) è quella classica della canzone A – B – A’: preceduto da una breve introduzione
del pianoforte il ritornello è costituito da un periodo binario in cui le frasi,
antecedente e conseguente, sono melodicamente e ritmicamente affini; la
melodia, estremamente orecchiabile, presenta momenti di intensità, come
quello in corrispondenza della frase “Per sempre questo cuore suo resterà”. La sezione centrale, di dimensioni pressoché uguali rispetto al ritornello, varia nell’accompagnamento pianistico che è accordale e presenta
numerose modulazioni ai toni vicini. Qui il carattere della linea melodica
si fa più discorsivo ed i valori si dimezzano in confronto a quelli precedenti. La coda finale, lunga 7 battute, prevedeva una conclusione nel registro medio, in un secondo momento è stato aggiunto un acuto giacché il
brano è divenuto appannaggio delle voci liriche sia tenorili che sopranili.
Con la canzone “Dove sarà” Francesco Celso vinse il concorso di musica leggera al quale aveva partecipato in qualità di autore, nascosto sotto
lo pseudonimo di Antonio Palella, creato adottando il cognome materno
preceduto dal suo secondo nome. Come testimonia Salvatore Piro, primo
alunno di canto del Maestro, si trattava dell’unico “Festival della canzone” programmato ad Acireale dal comitato organizzatore della manifestazione “Il più bel Carnevale di Sicilia”. La competizione si svolse presso il
Teatro Maugeri nell’inverno del 1957 e portò nella bella cittadina barocca
importanti nomi del mondo della canzone melodica italiana di allora
quali il celebre direttore d’orchestra Maestro Nello Segurini ed i cantanti
Rosalba Lori, Luciano Benevene ed Arturo Testa.
A questi ultimi si richiedeva l’esecuzione delle dodici canzoni finaliste,
sottoposte poi al giudizio di una seria commissione di tecnici, composta,
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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tra l’altro, dai maestri acesi Cristina e Fiorini oltre che dal pubblico presente in sala.
La sorte volle che ad interpretare il pezzo di Celso - Palella fosse proprio Arturo Testa. Dotato di una bella voce baritonale, pur avendo studiato canto lirico, egli era passato a quello leggero nel 1956 e si esibiva già in
trasmissioni radiofoniche.48
Alla fine “Dove sarà” fu proclamata canzone vincitrice e dopo qualche
giorno Francesco Celso uscì allo scoperto per donare, come ricordo e
segno di gratitudine, una medaglia d’oro ciascuno al maestro Segurini e
ad Arturo Testa.
L’esperienza acese portò molta fortuna al giovane cantante, visto che
dopo due anni, nel 1959, riuscì a classificarsi secondo ad un Festival ben
più prestigioso, quello di Sanremo, con la canzone “Io sono il vento” ed
ottenne ottimi piazzamenti anche nelle successive sue quattro presenze.
Fra le canzonette melodiche leggere, ma libera dalla denominazione di
slow, compare pure quella intitolata “Cinesina di Shangai”, dal testo frizzante e gradevole. Già a partire dalle prime note dell’introduzione, affidata al pianoforte, emerge la capacità del maestro Celso di ricreare perfettamente lo stile musicale tipico cinese. Si odono quasi i rintocchi delle campane della pagoda, ottenuti con accordi costruiti sulla scala pentafonica,
che non a caso era la scala cinese arcaica, usata per le melodie sacre del
tempio. Chiarissima è l’insistenza sui caratteristici intervalli di quarta
nella linea melodica del ritornello così come nei bicordi dell’accompagnamento pianistico della strofa intermedia.49
L’unico elemento occidentale del brano si può individuare nel ritmo
sincopato che fa capolino, di tanto in tanto, al basso.
I Vocalizzi-Lieder
Francesco Celso incarnò il tradizionale modello di maestro - compositore che aveva dominato nel campo della didattica vocale dal Seicento alla
fine dell’Ottocento, che accompagnava l’evoluzione degli stili compositivi unendo la fantasia poetica alla sapienza pedagogica e tecnica.
Dopo la pubblicazione dei “Vocalizzi nello stile moderno” del 1920,
raccolta di brani firmati da vari autori italiani del Novecento, si era creato un vuoto nell’ambito tecnico- vocalistico. Le nuove forme proposte più
tardi da Stockhausen o da Bussotti, diretti contemporanei di Celso, sche-
48 Musica leggera. Arturo Testa. Il mondo della musica, Edizioni Garzanti.
Volume II.
49 Musica cinese. Il mondo della musica, Edizioni Garzanti. Volume I.
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Rosanna Furnari
mi ideografici da variare aritmicamente e dinamicamente, apparivano
troppo approssimative e dispersive.
Il maestro Celso così, da scrupoloso insegnante quale era, aveva avvertito l’esigenza di comporre una raccolta contemporanea di vocalizzi destinata agli allievi diplomandi in canto lirico, ad uso dei Conservatori di
Musica, alla quale volle dare una veste originale, quella dei “Vocalizzi –
Lieder”. Si tratta di una raccolta dalla forma innovativa che coniuga
l’esercizio tecnico, stimolo al virtuosismo esecutivo, con il profondo contenuto compositivo e la cantabilità del genere del Lied. Come i “Lieder
ohne worte” (Lieder senza parole) di Mendelssohn, i “Vocalizzi – Lieder”
non musicano testi poetici (i poeti simbolisti affermano che l’arte non è
tenuta a dire tutto, ma deve lasciare all’immaginazione ed al sentimento
dell’esecutore e dell’ascoltatore la possibilità di definirsi) e i titoli che precedono i singoli brani non si propongono di svelare né il fine né il punto
di partenza delle intenzioni del compositore ma vogliono offrire semplicemente una chiave di comprensione per l’interprete attraverso l’evocazione di qualche immagine su cui possa liberarsi la sua immaginazione. Il
lavoro è costituito da nove esercizi da cantare su vocali, che mirano a perfezionare, soprattutto sotto il profilo stilistico, l’allievo giunto ad un livello avanzato di studio.
Mentre nei vocalizzi tradizionali ottocenteschi il pianoforte sosteneva
armonicamente e ritmicamente il canto, riproducendo talora in maniera
fedele la linea melodica, nei vocalizzi contemporanei si richiede alla voce
un notevole impegno nel mantenere la giusta intonazione rispetto all’esecuzione del pianoforte, cui è affidato un ruolo autonomo e comprimario
che sarebbe troppo riduttivo considerare di puro accompagnamento.
Tale genere di esercizi esige altresì una notevole precisione da parte
dell’esecutore anche in considerazione dei numerosi cromatismi, delle
continue modulazioni, che creano uno sfondo armonico piuttosto vago e
compromettono frequentemente la stabilità tonale. Anche l’assenza di
esercizi specifici sugli abbellimenti tradizionali (appoggiature, mordenti o
gruppetti) rientra nel disegno dell’autore di approfondire le nuove tendenze tecnico-vocali novecentesche, che mirano a superare gli stilemi belcantistici dell’Ottocento. Componente costante del ciclo dei Vocalizzi è
l’architettura tripartita, contenente una sezione centrale dalla fisionomia
chiaramente distinta che condensa in pochissime battute trascoloranti
modulazioni.
Apre la raccolta un maestoso “Oriente”, in re maggiore, dedicato allo
studio dei grandi intervalli di ottava, brano adatto per i registri di soprano o tenore visto che si mantiene su una tessitura acuta. Se per un verso il
pezzo non presenta troppe difficoltà tecniche e vocali, essendo privo di
passi di agilità o di acuti notevoli, per un altro esso costringe l’allievo ad
affrontare il disegno melodico in dissidio con il pianoforte.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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Il secondo esercizio, intitolato “Favoletta”, in sol maggiore, è un sintetico Lento per il medium della voce dal cullante ritmo in 12/ 8, quasi da
barcarola, che insiste sull’esatta esecuzione degli intervalli di semitono e
richiede una perfetta intonazione della sezione centrale oltre che un serio
studio metrico- ritmico, vista la presenza di numerosi gruppi irregolari. Il
brano successivo è intitolato “Elegia”, in sol minore, suddiviso nei rapidi
momenti Lento - Mosso - tempo I. Il vocalizzo, dall’estensione medioacuta in tempo 3/2, presenta nella prima parte uno studio sugli intervalli di terza maggiore e minore. La sezione centrale consente di approfondire lo studio del suono “filato”, ottenuto calibrando l’intensità dell’emissione del fiato dal piano al fortissimo, passando per tutti i livelli intermedi.
Il quarto brano è l’andantino, intitolato “Indovinello”, in La maggiore
e in tempo binario 2/4. Si tratta di un esercizio propedeutico all’agilità che
propone quartine di semicrome a breve distanza tra loro. Come preannuncia lo stesso titolo “Scioglilingua”, in la minore, il quinto tra i vocalizzi, pretende uno studio impegnativo del trillo attraverso l’esecuzione di
incalzanti terzine di crome a distanza di tono tra loro. Lo studio, indicato
per l’agilità dei soprani leggeri, ha una tessitura abbastanza acuta. Un
esercizio sul legato della voce è il numero 6, che ha per titolo “Barcarola”,
in mi bemolle maggiore. Questo andante assai calmo, in tempo 6/8, consente uno studio sull’emissione dei suoni e sulle sfumature che vanno dal
pianissimo al mezzoforte. Esso va assimilato attenendosi scrupolosamente alle indicazioni dell’autore. Un tempo di marcia si ha nel settimo brano,
intitolato “Soldati”, consigliato per l’agilità nei registri di voce acuta.
Risulta piuttosto faticoso evitare imperfezioni nell’intonazione di questo
brano in quanto la melodia, affidata alla voce, deve sovrapporsi ad un
marcato accompagnamento pianistico che segue una propria linea, basata su figurazioni di crome puntate alla mano sinistra e di quartine di semicrome alla destra, le quali sembrano richiamare il passo pesante dei militari.
Il numero 8, denominato “Idillio romantico”, in la bemolle maggiore, è
uno studio sulla capacità di interpretazione, dal dolce all’appassionato.
Esso presenta numerose indicazioni agoniche e dinamiche nonché frequenti cambi di tempo. Multiforme è anche la scrittura del pianoforte.
L’ultimo brano è l’allegro in 12/8 intitolato “Primavera”, che prevede un
fitto accompagnamento del pianoforte fatto di veloci sestine alla mano
destra e, nella sezione centrale, di arpeggi fluenti suddivisi su entrambe
le mani. La tessitura è piuttosto acuta e consente una doppia soluzione sul
finale: un acuto per i registri vocali più alti o un suono facilmente accessibile alle voci intermedie.
Tra le innumerevoli pagine composte da Francesco Celso questa raccolta, di alta fattura e chiara utilità didattica, è l’unica, insieme al Trio in
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Rosanna Furnari
sol minore, ad avere il pregio di essere stata pubblicata, grazie ad alcuni
sponsor e consegnata al maestro come dono proprio durante i festeggiamenti nel giorno del suo centesimo compleanno. Auspico, pertanto, che
tutti i docenti di canto presso i Conservatori ed i Licei Musicali d’Italia
possano adottare presto questo nuovo sussidio tecnico.
Le Liriche da Camera
Fanno parte della produzione cameristica anche i pezzi per canto e pianoforte. Ricorderemo in particolare le liriche “Così il giorno ed
Odysseus”, composta alla ammirabile età di 98 anni. Il testo poetico di
“Così il giorno” è tratto da una delle raccolte giovanili di componimenti
del poeta Tommaso Papandrea che, come ricorderemo, si era già cimentato con successo nell’attività di librettista sotto esplicita richiesta del
Maestro.
Nel genere della poesia Papandrea rivela la sua vera vocazione, che si
distingue per lo scavo psicologico, la contemplazione della natura, la
nostalgica rievocazione del passato. Il linguaggio, che risente dell’assimilazione dei grandi poeti del Novecento, è fresco ed essenziale (la raccolta
in questione, intitolata “Nascono le foglie”, vinse non a caso nel 1951 il
premio nazionale E. G.A. I. “Città di Pistoia”).
Francesco Celso aveva avuto il privilegio di poter visionare la silloge
dell’amico poeta prima che andasse in stampa e fu colpito, fra una ventina di liriche, proprio dall’ultima, uno splendido inno all’amore intitolato
“Così il giorno”. E’ lecito pensare che la predilezione per tale brano fosse
nata dal ricordo ancora vivo nel cuore di Francesco di una giovane signorina acese per la quale egli provava un particolare sentimento, costretta a
seguire i familiari lontano dalla Sicilia.
Negli anni Ottanta il maestro Celso decise di musicare questo testo così
intenso: rispetto all’originale furono esclusi solo due versi al fine di creare una struttura quasi tripartita, più funzionale alla composizione musicale. L’immensità del sentimento descritto dal poeta pervade panicamente la ridente natura siciliana e la musica ne oggettivizza la bellezza sonoramente senza scadere nella composizione paesaggistica. Il maestro ottiene in questo brano un perfetto isomorfismo fra le immagini poetiche sinestetiche ed il contenuto musicale facendo ricorso a quelle che il professor
Salvatore Ivan Emma, docente di Storia ed Estetica della Musica all’ISSM
“Vincenzo Bellini” di Caltanissetta, ha definito “luci sonore”.50
50 S. Ivan Emma, Francesco Celso, Una vita per la musica. Casa Editrice
Novecento.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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All’inizio il canto discende scuro al grave evocando l’atmosfera onirica della notte. Nella sezione centrale la melodia ripercorre i luoghi visitati dal poeta con un effetto di anafora, impreziosita da impreviste modulazioni ed un graduale crescendo che intensificano il pathos. La terza parte
conclude con uno slancio verso l’acuto in corrispondenza delle parole
“con ali e braccia di desiderio”. L’interpretazione di questo brano esige
una tenace preparazione tecnica, ritmica e nell’intonazione da parte del
cantante, in quanto, soprattutto la sezione centrale, è contraddistinta da
uno sfondo sonoro piuttosto ambiguo dal punto di vista tonale.
Alle soglie del 2000, il maestro Celso diede vita al suo ultimo lavoro,
una lirica per canto e pianoforte intitolata “Odysseus”, su testo tratto
dalla raccolta di versi scritta dall’ex- allievo, il basso Francesco Palmieri,
di origini calabresi. La pagina fu eseguita in prima assoluta al Teatro
Rendano.
La linea melodica di questa brevissima lirica, maestosa ed enfatica,
predilige il registro medio – acuto della voce ed alterna sezioni di agilità
al declamato. Nella seconda delle due quartine del testo, la musica raffigura nitidamente il fluttuare con “nere navi” fra le “acque oscure” del
“fondo degli abissi” attraverso un momento di indeterminatezza tonale,
dovuta ad audaci cromatismi che rievocano intensamente l’Agitato introduttivo del poemetto per pianoforte “Verso il Golgota”. Con la ripresa
delle prime cinque battute della strofa iniziale il brano viene riportato alla
tonalità d’impianto e l’originaria atmosfera, dalla forte intensità luminosa, sfocia, contrariamente alla prassi consueta del compositore, in uno
stentoreo ed ottimista crescendo. L’incantevole “Odysseus” sembra,
secondo me, suggellare il lungo iter artistico e compositivo di Francesco
Celso con un chiaro messaggio di speranza: nonostante le incomprensioni e le avversità “come un tempo partirem, torneremo a navigar… contro
tutto, contro il mondo!...”
Mi piace inserire in questo paragrafo anche quella che reputo la più
apprezzabile tra le tante trascrizioni, per canto e pianoforte, di brani celebri, realizzate dal Maestro Celso.
Si tratta dell’aria più celebre dell’autore russo Alexander Alexandrovich Alyabiev (1787– 1851), intitolata “Le rossignol” (“L’Usignolo”). Il
brano, ricco di colore tipicamente caucasico, è stato oggetto nel corso dei
secoli scorsi di notevoli rielaborazioni per le più svariate compagini
orchestrali. Il compositore acese elaborò personali e virtuosistiche cadenze del brano, secondo lo stile del belcanto, ricche di abbellimenti ed agili
volate ed il pezzo è tuttora ricordato dal soprano Lucia Aliberti come
“un’aria brillante con grandi effetti vocali e con un impiego orchestrale
imponente”.
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La musica strumentale
Nonostante Celso fosse un profondo ammiratore delle opere strumentali di Ottorino Respighi e di Rimskj-Korsakov restò irrevocabilmente
attratto dal repertorio pianistico e vocale. Il numero dei suoi lavori orchestrali, infatti, appare piuttosto esiguo rispetto alla quantità di pezzi scritti
per pianoforte o ancora da camera, essendo costituito unicamente da un
poema sinfonico e da una Suite per grande orchestra.
Il poema sinfonico, del 1950, è “I Malavoglia”, ispirato all’omonimo
romanzo verista dello scrittore siciliano Giovanni Verga: la scelta del soggetto, quasi programmatico, si inserisce sulla scia della valorizzazione
dell’elemento locale intrapresa dal maestro Antonio Savasta nelle sue
opere. Il lavoro si suddivide in tre movimenti: “La festa di San Giovanni”,
che si apre con una affascinante barcarola siciliana, “La Provvidenza di
Padron Ntoni” ed il finale denominato “Epilogo”.
Il maestro Celso continuò ancora nel filone della musica sinfonica componendo, verso il 1955, la “Suite Americana Azteca” per grande orchestra,
anch’essa quasi programmatica, costituita da cinque schizzi sinfonici intitolati “Western”, “Wiig-waam”, “Lungo il Missouri”, “Notturno Azteco”,
“Cuzco”. Nel 1966 la Suite approdò al Teatro Bellini di Catania con
un’esecuzione affidata alla direzione del maestro Carlo Frajese.
Il critico catanese Michele La Spina scrisse che questo lavoro “risente
degli echi del precedente poema sinfonico I Malavoglia” ed “offre ottimi
argomenti ai sostenitori della universalità del pentagramma”. Il giornalista dell’epoca Lino Caruso firmò un articolo sul Giornale di Sicilia a proposito dell’opera sinfonica del maestro, del quale si riporta uno stralcio:
“si avvale di materiale folkloristico senz’altro ampiamente descrittivo. Esercita
sul pubblico una immediata comunicativa e rivela, da parte del compositore, una
sensibilità delicata, una ricerca raffinata di mezzi espressivi ed una fantasia quanto mai feconda, elementi, questi, che hanno permesso al musicista di creare pagine assai interessanti, rese con uno strumentale ricco ed appropriato”.51
La musica da camera
La grande abilità di Francesco Celso nella composizione è evidente
soprattutto nel campo cameristico. Essa comprende tutte le formazioni
polistrumentali, dalle più piccole, del duo, alle combinazioni più nutrite
del quintetto o sestetto.
51 Il giornale di Sicilia , 27/12/ 1966.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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La ricca produzione si distingue per il costante impiego di forme dalle
piccole dimensioni, basate sul ciclo ternario ABA’ e per il perfetto equilibrio costruttivo che distribuisce il materiale tematico con un procedimento dialogico tra gli strumenti. Il tutto viene impreziosito da una sapiente
varietà timbrica e dalla tipica iridescenza del suo stile compositivo. Colpisce la grande meticolosità del maestro nel segnare sui manoscritti le precise arcate: avendo studiato per anni violino e violoncello, Celso aveva
piena conoscenza dei differenti caratteri che possono essere impressi al
suono, a seconda dei diversi movimenti dell’arco sulla corde.
La produzione cameristica annovera numerose composizioni per violino e pianoforte, fra le quali è degno di nota il “Canto di Primavera”,
composto nel 1948 e l’ “Andante Elegiaco”, costruito su un preludio in do
minore di J. S. Bach. In questo caso, l’originale pezzo del grande compositore tedesco, tratto dalla raccolta dei “12 Piccoli Preludi”, mirabile successione di accordi arpeggiati, dal carattere impetuoso, ben si adoperava
a fare da “canto dato” sul quale innestare una nuova, patetica melodia.52
Nell’ “Andante Elegiaco” il preludio bachiano rimane pressoché invariato ad eccezione del tempo, volutamente dilatato da Celso ( l’allegro
moderato cede infatti il passo ad un andante mesto) per dare maggior
spazio al librarsi della “profonda malinconia” della nuova linea melodica, affidata alla voce del violino, chiamato ad ottenere, tra l’altro, impalpabili ed acutissimi suoni. Una tale operazione non appare affatto nuova
nell’ambito compositivo se guardiamo alla popolare “Meditation” di
Charles Gounod, costruita sul I Preludio del “Clavicembalo ben temperato” di J. S. Bach.
Fra le abbondanti opere per violoncello ricordiamo la “Sarabanda”,
sua prima composizione, del 1919, la “Romanza” in re bemolle minore e
le Sonate per violoncello e pianoforte in re minore e in fa maggiore, scritte nel 1937, grazie alle quali il maestro Celso ottenne il primo premio al
Concorso “Musica d’oggi” di Palermo.
Da menzionare sono pure la “Sonata per archi” del 1940, un “Preludio
in Sol Minore” per violino, violoncello e pianoforte (unico lavoro cameristico ad essere stato pubblicato) ed il “Quintetto in Fa” per archi e pianoforte. Molte di queste composizioni cameristiche furono eseguite all’EIAR
ed alla RAI, altre furono selezionate per le esecuzioni di “Musica
Contemporanea” negli anni 1933, 1937, 1940 e 1941.
Il “Quartetto in Do minore”, composizione giovanile del 1945, per trio
d’archi (violino, viola e violoncello) e pianoforte, rappresenta un raro caso
di quartetto composto nel Novecento giacché pochi musicisti furono
52 J. S.Bach. 23 pezzi facili per pianoforte. Edizione Ricordi.
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Rosanna Furnari
disposti a scrivere per questa formazione in quegli anni a causa di oggettive difficoltà di elaborazione. Il lavoro venne eseguito alla presenza del
Maestro stesso presso il Teatro Bellini di Catania il 24 maggio 1992 dalla
pianista acese Vera Pulvirenti e dai solisti dell’Orchestra dell’E.A.R Teatro
Bellini, a conclusione della stagione concertistica mattutina domenicale
del Teatro Massimo (1991-1992), dedicata ogni volta ad uno o più autori
di spicco.
Mi piace ricordare, a tal proposito, una frase tratta da un articolo comparso in quella occasione su una testata giornalistica siciliana: “il cuore
antico di Acireale, battendo più forte del solito, colmerà la distanza e sarà lì a scaldarsi e a gioire, come quello di un ragazzo al primo appuntamento d’amore”.53
Il Quartetto in questione si presenta come una tra le composizioni più
complesse della produzione di Francesco Celso. Nonostante la denominazione faccia esplicito riferimento alla tonalità di do minore, è ardito poter
affermare che si tratti di un pezzo davvero tonale.
Una determinazione tonale risulta estremamente difficoltosa, vista la
presenza, già alle prime battute di un arpeggio affidato al pianoforte, su
un accordo di re settima, che passa immediatamente a un accordo di nona
minore sul si bequadro, eseguito da tutti gli strumenti. Durante il primo
tempo, la frase iniziale viene ripresa altre quattro volte, con piccole
varianti e punteggiata da diversi episodi armonicamente agitati.
Il secondo movimento, un “Andante elegiaco” affida l’incipit al pianoforte che esegue un accordo di Re minore per cedere il passo all’assolo
appassionato del violoncello accompagnato da melodie discendenti.
Il terzo tempo è un “Allegro con fuoco”, strutturato come una sorta di
classico rondò. Visto il tema esposto dal violino nella tonalità di do maggiore, questo movimento si presenta come quello più prossimo al sistema
tonale di tutto il Quartetto.
Durante gli anni Novanta Francesco Celso seguì con grande apprensione le notizie relative alla guerra nella vicina ex Jugoslavia; in particolare rimase profondamente impressionato dal contenuto di un reportage
televisivo che mandò in onda la cruda scena di un bambino dalla gamba
completamente dilaniata da una bomba che, rimasto solo, si guardava
intorno in cerca di aiuto. Da questa forte impressione drammatica scaturirono due pezzi struggenti, la Sonata per violino e pianoforte intitolata
“Sarajevo 94” e la sonata “Nostalgia” per pianoforte a quattro mani;
entrambi i pezzi paiono accomunati da una analoga figurazione nell’accompagnamento pianistico, echeggiante la marcia sfiancata dei soldati.
“Sarajevo 94” è una pagina intensa, dedicata al violinista Uto Ughi, origi-
53 E. Catania. La festa a Catania.La Sicilia, 23/ 05/ 1992.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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nario di quella zona; qui la melodia dolcissima e disperata, affidata al violino, pare elevarsi a tratti verso il cielo, alla ricerca di una spiegazione a
tanto dolore.
“Nostalgia” nasce da un malinconico rimpianto per il periodo in cui si
viveva al riparo da scellerate lotte e discriminazioni razziali; in questa
sonata il ricorrente avvicendamento tra le quattro mani genera una melodia rasserenante, seppur dolorosa.
Nel 1996, il Maestro compose anche un Quintetto per archi e pianoforte, espressamente dedicato al gruppo strumentale cameristico tutto al
femminile delle “Quinquies Domina”, fondato dalla pianista Vera
Pulvirenti. Questo lavoro si distingue per le ardite sonorità oltre che per il
fitto intreccio degli strumenti che dialogano tra loro in un ricamo di voci.
Le composizioni per pianoforte
La produzione pianistica di Francesco Celso è frutto dell’assimilazione
eclettica dei grandi classici da Bach a Chopin, da Brhams a Liszt, dell’impiego di ritmi popolari, senza rifiutare nella scrittura e nelle indicazioni di
fraseggio sfumato, un Impressionismo alla maniera di Debussy, dai colori raffinati e dalle armonie distese, basate sul sistema esatonale e sulle
scale orientali. La sua immaginazione, più che strettamente strumentale
ovvero legata all’elaborazione drammatica dei temi, era preminentemente vocale, sottomessa alla bellezza sensuale della melodia di ampio respiro.
Il maestro Celso compose brani pianistici di vario tipo affrontando con
maggior efficacia le semplici architetture e le strutture più piccole. Le sue
composizioni sono brevi, con esposizioni essenziali, racchiuse in poche
battute; costruite su una idea principale, sono generalmente alternate ad
una sezione centrale di carattere contrastante. Le melodie sono fluide,
esposte senza indugiare mai in stucchevolezze o esagerare in ornamenti.
Le frasi cristalline nascondono passaggi difficili che solo un pianista veramente capace può suonare con disinvoltura.
Pietra di paragone della sua difficile scrittura pianistica era la sorella
Francesca, valentissima pianista nonché arpista, dall’abilità tecnica ed
espressiva non comune.
La musicista si era diplomata a soli 16 anni al Regio Conservatorio di
Napoli con i nomi storici più illustri del pianismo italiano del Novecento.
Interprete impeccabile dei brani più virtuosistici del repertorio pianistico,
aveva una ferrea memoria ed una lettura a prima vista perfetta. Fu proprio lei la principale ed infaticabile ambasciatrice delle composizioni per
pianoforte di Francesco sin dai tempi dei concerti organizzati dalla Croce
Rossa in favore dei combattenti della Prima guerra Mondiale.
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Rosanna Furnari
Abitualmente coinvolgeva i migliori allievi nell’intensa attività concertistica, come testimonia, ad esempio, il concerto pomeridiano realizzato alla
biblioteca Zelantea di Acireale il 23 aprile del 1972.54
La pianista non perse mai occasione per far conoscere i pezzi scritti dal
fratello Francesco: anche nel giorno del suo novantesimo compleanno, il 31
luglio 1986, durante il concerto tenuto proprio da lei al circolo musicale
“Santo Nocito” di Catania, non mancò l’esecuzione di un “Improvviso”
pieno di impeto composto dal fratello Francesco.
I pezzi per pianoforte del compositore acese si presentano notevolmente difficili sotto il profilo tecnico. A tal proposito la professoressa Vera
Pulvirenti ricorda che una volta chiese al Maestro “se avesse composto
qualcosa di più accessibile, tale da poter essere letta ed eseguita a prima
vista, senza essere messi in difficoltà” ed “egli, con la sua risata argentina,
un po’ tra il sornione e, nello stesso tempo, bonario, non offensivo, rispose
che scriveva in base alla bravura della sorella Francesca, la quale, essendo
nata per la musica e per il pianoforte, in particolare, godeva di una prima
vista formidabile!”.
Tra le composizioni di Francesco Celso per pianoforte solo ricordiamo
Elegie, Notturni, Valzer, Preludi, Studi, Berceuse, Mazurke, Fogli d’album,
Toccate, Sonate ed Improvvisi. I Notturni mostrano tutta l’ampiezza della
sua intensità poetica ed hanno un carattere riflessivo e meditativo. Negli
Improvvisi e nei Preludi egli ebbe modo di mettere in luce lo spirito salottiero che era proprio, fatto di eleganza e liricità. Questo carattere emerge
chiaramente, ad esempio, dal “Canto del ruscello”, una composizione dalle
dimensioni ridotte, ideata per il pubblico raffinato e sentimentale della sua
“casa delle muse”. La musica, condensata in pochi righi, non pretende di
descrivere un luogo fisico, ma registra delle impressioni, rievoca sonorità e
sentimenti. Il titolo guida semplicemente la fantasia dell’ascoltatore lasciandogli, tuttavia, la facoltà di immaginare i particolari secondo la propria ispirazione. Un leggero sfondo sonoro, fatto di sestine arpeggiate, affidate alla
mano sinistra, sembra riprodurre l’ostinato mormorio delle acque.
Il motivo sereno, che emerge sulle onde, è proposto due volte, inframmezzato, nella parte centrale, da una brevissima digressione modulante. Il
tema iniziale sembra riapparire nuovamente nella sezione finale, ma muta
subito aspetto e gli arpeggi cedono il passo a delicati trilli che si estinguono
su un rallentando ed un diminuendo. Qui, alla mano sinistra non viene affidato solo il compito del sostegno armonico, ma una vera e propria parte
espressiva che esige un tocco non appesantito.
Fra gli Studi, in cui spesso affiora l’impronta chopiniana, compaiono
anche alcune composizioni di tecnica trascendentale, omaggio al grande
54 Memorie e rendiconti. Accademia degli Zelanti e dei dafnici, Acireale, 1972.
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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Franz Liszt. Questi pezzi sono un’opera d’importante valenza didattica, che
mette a dura prova il pianista perché vanno oltre il semplice studio meccanico. Il maestro Celso, tuttavia, prese le distanze dagli atteggiamenti esibizionistici del virtuosismo impressionante, essendo maggiormente incline
alla interiorizzazione ed alla razionalizzazione.
Tra i brani per pianoforte sono da annoverare il piccolo poema pianistico intitolato “Il campanile della montagna”, dai toni agresti e dal variopinto fraseggio, l’ “Antica Aria del Nord - Notturno ungherese”, che ricorre a
ritmi popolari magiari, la Sonata in Sol minore, composta nel 1935.
In alcuni lavori i punti di contatto con la tradizione Ottocentesca sono
più apparenti che reali. Ad esempio, nella “Berceuse” in fa maggiore, fatta
eccezione per l’iniziale, tipico accompagnamento cullante, la sostanza
musicale appare tutt’altro che romantica.
Il motivo, di sapore raveliano, è ricchissimo di modulazioni piuttosto
ardite;.inaspettata è senz’altro la parte centrale del pezzo in cui fanno capolino, su un basso di sestine arpeggiate, vivaci terzine di sapore chiaramente cinese, fatte di intervalli simultanei di quarte, appartenenti alla scala pentatonica.55
Palesi riverberi impressionistici si concretano, poi, negli eleganti disegni
di “Aria antica” o di “Preludio in La minore”.
Una passeggera avventura futurista è rappresentata invece dal pezzo
intitolato “Il telefono è occupato”. Da menzionare anche la Sonata per solo
pianoforte dedicata da Celso al maestro Franco Mannino che, nel riceverla,
ebbe per lui parole di elogio e commozione, sorpreso dalla sua longevità
artistica e compositiva.
Un capitolo a parte, ma davvero cospicuo, è costituito dalle trascrizioni
e trasposizioni in tonalità diverse rispetto all’originale, di arie sacre, profane o di canzoni leggere, pensate e realizzate espressamente per gli amici
della “casa del glicine” e per gli allievi affinché nessun registro vocale
potesse privarsi del piacere di cantare il pezzo preferito.
Ricordiamo pagine come “Vaga luna” di V. Bellini, i “Wiegenlieder” di
Max Reger, W.A. Mozart o Brahms, la fantasia spagnola “Granada” di Agustin Lara ed altri brani.
Tra le trascrizioni per pianoforte è opportuno comprendere quella della
“Suite Americana Azteca” così come quella dell’opera “Abù Hassan”.
Infine, ritengo giusto citare in questa sede anche l’unica “Sonata per
organo” del maestro Celso, una delle poche composizioni novecentesche
dedicate ad un genere che nel corso del XX secolo pareva aver perduto
parte della sua antica importanza; la composizione è frutto della solida
55 Musica cinese. IL Lessico.Enciclopedia della musica UTET. Volume I, pag.
560-561.
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Rosanna Furnari
conoscenza della tecnica organistica appresa durante gli anni di studio al
Conservatorio di Palermo.
Le composizioni più note
Liriche da camera
- Quattro Liriche cinesi per soprano e pianoforte. 1940
La vedova ad un mezzano che le propone nuove nozze
Amori d’autunno
- Così il giorno per soprano e pianoforte. 1980
- Odysseus per basso e pianoforte. 2000
Opere liriche
- Abù Hassan o Il dormiglione risvegliato, commedia lirica in 4 atti. 1950
Opere didattiche
- 9 Vocalizzi. Lieder, pubblicati nel 2003
Opere sacre
-
Messa in onore del Papa Giovanni XXIII. 1962
Ave Maria per coro a cappella. 1965
Ave Maria per soprano e pianoforte. 1965
Poemetto pianistico Verso il Golgota
Musica leggera
- Canzoni slow. 1957
Dove sarà
L’hai voluto tu
Sempre
- Cinesina di Shangai
Musica sinfonica
- Poema sinfonico in tre movimenti “I Malavoglia”. 1950
- Suite Americana Azteca in 5 schizzi sinfonici. 1955
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
Musica da camera
- Sonate per violino e pianoforte
Andante elegiaco
Canto di primavera. 1948
Sarajevo ’94. 1994
- Sonate per violoncello e pianoforte
Sarabanda. 1919
Sonata in Re minore. 1937
Sonata in Fa maggiore. 1937
- Trii
Preludio in Sol minore per violino, violoncello e pianoforte
- Quartetti
Quartetto in Do minore per trio d’archi e pianoforte. 1945
- Quintetti
Quintetto in Fa
Quintetto per le Quinquies Domina. 1996
- Sestetti
Produzione pianistica
- Sonate
Sonata dedicata a Franco Mannino
Sonata in Sol minore. 1935
- Mazurke
- Notturni
Notturno ungherese
- Elegie
- Valzer
- Preludi
Preludio in La minore
- Improvvisi
Il canto del ruscello
- Berceuse
Berceuse in Fa
- Fogli d’album
- Studi
- Poema pianistico “Il campanile della montagna”
- Pezzi a quattro mani
Nostalgia. 1994
- Sonata per organo
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Rosanna Furnari
Francesco Celso dai “Vocalizzi”
Francesco Celso. Maestro di musica e di vita
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Il M° Francesco Celso e il soprano Rosanna Furnari
Rosanna Furnari
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DAL GIAPPONE E DALLA CINA PER STUDIARE
AL BELLINI DI CALTANISSETTA
Due studenti stranieri studieranno all’Istituto superiore di studi
musicali “Vincenzo Bellini” di Caltanissetta durante il prossimo anno
accademico: si tratta del soprano Junko Mashima, 24 anni, proveniente da Okayama (Giappone) , e del baritono Lixiang Yu, anche lui ventiquattrenne, cinese, originario di Anhui, che ha scelto di studiare in
Italia nell’ambito del “Progetto Turandot”, frutto della cooperazione in
materia di istruzione e formazione tra Italia e Cina.
Soddisfazione è stata espressa dal M.° Gaetano Buttigé, direttore
dell’ISSM Bellini, per la presenza a Caltanissetta dei due musicisti stranieri, che frequenteranno il triennio accademico di canto sotto la guida
del mezzosoprano M° Tiziana Arena nell’istituzione musicale della
Provincia Regionale di Caltanissetta, divenuta nel tempo vero e proprio punto di riferimento per tutti i giovani musicisti siciliani.
Laureata in canto in Giappone, al Kunitachi College of Music,
Junko Mashima studia pianoforte a Catania – dove vive già da qualche anno - sotto la guida di uno dei maestri che collaborano con il tea-
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tro Bellini di Catania ed ha scelto di perfezionarsi in canto nel capoluogo nisseno. Lixiang Yu, invece, ha scelto di partecipare al progetto
“Turandot” per le arti, la musica e il design, promosso dagli accordi
intergovernativi stipulati tra il Miur, Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, ed il suo omologo cinese, progetto che permette ogni anno a numerosi studenti di accedere alle istituzioni accademiche italiane di Alta formazione artistica e musicale (Afam), esattamente come accade per il progetto “Marco Polo” che consente, invece, agli studenti cinesi di accedere alle università italiane.
Conferma così la sua vocazione di istituzione musicale di riferimento per il territorio non solo provinciale e regionale, aperta all’internazionalizzazione, l’ISSM Bellini di Caltanissetta, oggi inserito proficuamente all’interno di una rete di contatti internazionali con numerose istituzioni musicali europee grazie ai progetti Erasmus, realizzati in
partenariato con il Conservatorio di musica di Malaga (Spagna), il
Conservatorio di musica di Vigo (Spagna), il Joseph Haydn
Konservatorium di Eisenstadt (Austria), l’Università di Malta di
Msida (Malta), l’Istituto politecnico di Castel Branco (Portogallo),
l’Accademia musicale “Paderewski” di Poznan (Polonia), che ha ospitato nei mesi scorsi uno studente del Bellini di Caltanissetta, il pianista
Nicolò De Maria.
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IL CONCERTO IN ONORE DI SANTA CECILIA
L’Istituto Superiore di Studi Musicali “Vincenzo Bellini” di
Caltanissetta ha reso omaggio alla santa patrona dei musicisti con il
concerto di Santa Cecilia, proposto nella cappella dell’istituto in corso
Umberto in occasione della ricorrenza della festa della santa patrona
dei musicisti. Applauditi protagonisti dell’appuntamento musicale,
che ha visto un pubblico attento e numeroso, gli artisti della classe di
canto del mezzosoprano Tiziana Arena, che hanno anche proposto
alcuni movimenti scenici delle opere da cui erano tratte le arie da essi
interpretate, grazie alla preparazione scenica curata dal soprano
Floriana Sicari. Si sono dunque esibiti Li XiangYu (baritono), Chiara
Sferlazza (soprano), Irene Capodici (mezzosoprano), Giuliana
Consiglio (soprano), Klizia Prestia (soprano), Manuel Scarano (tenore), Salvatore Terrazzino (baritono), Laura Macrì (soprano) e gli allievi
del primo anno Martina Coppola, Ruben Bonsangue, Mario Schillirò,
Francesca Bongiovanni, Evelin Leone (coristi ne “La Traviata” di
Verdi).
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Un concerto che ha proposto ottime interpretazioni del repertorio più
amato dal pubblico, da “Le nozze di Figaro” di Mozart al “Matrimonio
segreto” di Domenico Cimarosa, dal “Tancredi” di Rossini a tante altre
celeberrime arie da opere di Puccini, Gounod, Donizetti, Verdi, compreso il “Brindisi” da “La Traviata”. Proposti anche apprezzati “camei”
dedicati ad Astor Piazzolla (“Oblivion” nella versione italiana con il
testo di Alba Fossati) e ad Agustìn Lara (“Granada”) ed un gustoso
intermezzo dedicato alla musica da film con uno dei brani più noti del
film “Sister Act”.
Ad accompagnare i cantanti sono stati il pianista Vincenzo
Indovino (che ha curato anche la realizzazione delle parti per gli strumentisti) e Ivana Calabrese (oboe), Emilio Campo (flauto), Giuseppe
D’Urso (clarinetto), Leonardo Latona (fagotto), Vincenzo Ferrante
Bannera (corno).
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Istituto Superiore di Studi Musicali “V. Bellini”
CALTANISSETTA
ORGANI ISTITUZIONALI
Consiglio di Amministrazione
Avv. Giuseppe Iacona
Dott. Michele Cucciniello
Dott.ssa Laura M. Bonaffini
M° Gaetano Buttigè
M° Angelo Licalsi
Sign. Giuseppe D’ Urso
- Presidente
- Provincia Regionale Caltanissetta
- Provincia Regionale Caltanissetta
- Direttore Istituto
- Rappresentante dei Docenti
- Rappresentante degli Studenti
Consiglio Accademico
M° Gaetano Buttigè
M° Giuseppe La Marca
M° Paolo Miceli
M° Alberto Maida
M° Angelo Palmeri
M° Fabrizio Puglisi
M° Gaudenzio Ragusa
Sig.na Claudia Ottaviano
Sig.na Melania Galizia
- Direttore dell’ Istituto/Presidente
- Docente
- Docente
- Docente
- Docente
- Docente
- Docente
- Studentessa
- Studentessa
Collegio dei Revisori
Dott. Giovanni Grotta
Dott. Agostino Falzone
- Presidente, Rappresentante Ministero Economia
e Finanze
- Componente, Rappresentante Ministero Università
e Ricerca
118
Nucleo di Valutazione
Geom. Giuseppe d’Antona- Presidente
Dr. Giancarlo Iacomini - Componente
Dr. Guido Sorignani
- Componente
Consulta degli Studenti
Angela Aquilina
Yasmine Caruso
Nicolò De Maria
Melania Galizia
Claudia Ottaviano
- Presidente
- Segretaria
- Componente
- Componente di diritto
- Componente di diritto
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Docenti e Insegnanti
Insegnamenti
Docenti
Accompagnamento pianistico
Canto
Chitarra
Clarinetto
Clarinetto
Contrabbasso
Corno
Fagotto
Flauto
Esercitazioni Corali
Esercitazione Orchestrali
Musica d’ insieme per Fiati
Musica d’ insieme per Archi
Musica da camera
Oboe
Poesia per Musica e drammaturgia Musicale
Pratica e lettura pianistica
Pratica e lettura pianistica
Pianoforte
Pianoforte
Pianoforte
Pianoforte
Pianoforte
Pianoforte
Pianoforte
Strumenti a Percussione
Storia della Musica
Teoria dell’armonia e Analisi
Teoria, Ritmica e percezione musicale
Teoria, Ritmica e percezione musicale
Teoria, Ritmica e percezione musicale
Teoria, Ritmica e percezione musicale
Teoria e tecnica dell’ interpretazione scenica
Tromba
Tromba
Viola
Violino
Violoncello
Camilla Beatrice Licalsi
Tiziana Arena
Renato Pace
Paolo Miceli
Angelo Gioacchino Licalsi
Francesco Mercurio
Rino Baglio
Angelo Valastro
Lucrezia Vitale
Ezio Spinoccia
Angelo Licalsi
Angelo Licalsi
Michele Mosa
Michele Mosa
Angelo Palmeri
Ezio Spinoccia
Alberto Maida
Calogero Di Liberto
Gaetano Buttigè
Magda Carbone
Giuseppe Fagone
Giuseppe La Marca
Enrico Maida
Fabrizio Puglisi
Daniele Riggi
Claudio Scolari
Ivan S. Emma
Angelo Pio Leonardi
Lea Cumbo
Francesco Gallo
Gaetana Pirrera
Gaudenzio Ragusa
Floriana Sicari
Vincenzo Buscemi
Gioacchino Giuliano
Samuele Danese
Raffaello Pilato
Vadim Pavlov
Finito di stampare nel mese di gennaio 2014
dalla Tipografia Lussografica di Caltanissetta