dal desiderio “per sé” al dono “per l`altro”.

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ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE
“B. NICCOLÒ STENONE” - PISA
COLLEGATO CON LA FACOLTA’ TEOLOGICA DELL’ITALIA CENTRALE
“Il mio amato è mio e io sono sua” (Ct 2,16)
DAL DESIDERIO “PER SÉ”
AL DONO “PER L’ALTRO”.
Una lettura della relazione di coppia dal Cantico al Genesi,
in prospettiva fenomenologica.
Esercitazione per il Magistero in Scienze Religiose
Autore: Sandro SPAGLI
Relatore: prof. Roberto FILIPPINI
PISA 2009
INDICE
Introduzione. La questione dei rapporti uomo-donna nella società di oggi
e la prospettiva biblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1.
Pag.
2
“Io sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me” (Ct 7,11).
La forza dell’eros, tra pulsione e aspirazione.
1.1.
1.2.
1.3.
2.
Eros avvelenato? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Una premessa antropologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il desiderio: tra istinto e ricerca dell’altro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Parole e Immagine – “Fare dei due uno solo” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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17
18
24
33
Ambiguità del carnale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
“Tutti e due erano nudi .. e non provavano vergogna” (Gn 2,25) . . . . . »
Lo “splendore del corpo” attraverso la poetica del Cantico . . . . . . . . . . . »
Parole e Immagine – Qualità dello sguardo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
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39
46
54
“Tu sei bella, amica mia… terribile come un vessillo di guerra” (Ct 6,4)
Lo sguardo sul corpo dell’altro, tra vergogna e ammirazione.
2.1.
2.2.
2.3.
3.
“Prendeteci le volpi che devastano le nostre vigne in fiore” (Ct 2,15)
Le difficoltà e le ambiguità del rapporto amoroso.
3.1.
3.2.
3.3.
4.
Amore minacciato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Nella “notte dell’assenza” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Una lettura “fenomenologica” dei gesti amorosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Parole e Immagine – Celebrazione di un gesto . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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56
61
67
74
“Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6)
L’incompiutezza dell’amore umano come esperienza di trascendenza.
4.1.
4.2.
Il mistero dell’amore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La forza dell’amore oltre il limite creaturale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Parole e Immagine – L’amore epifania del trascendente . . . . . . . . . .
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79
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91
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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95
Conclusioni
1
INTRODUZIONE
La questione dei rapporti uomo-donna nella società di oggi e la prospettiva biblica.
“E’ o non è legittimo il considerare l’atto carnale come atto d’amore o anche
semplicemente come unione?”.
Da questa domanda, forse un po’ sorprendente ed in apparenza scontata,
prende le mosse un’ampia e articolata ricerca condotta dallo studioso cattolico
francese Xavier Lacroix sulla dimensione antropologica e spirituale dell’amore1.
Perché, verrebbe da chiedersi, l’atto sessuale tra uomo e donna non
dovrebbe essere considerato come una “unione”? Forse l’uomo e la donna non
sono fatti l’uno per l’altra? Anche partendo dal linguaggio comunemente usato,
un uomo e una donna che si incontrano sessualmente, si “uniscono”, stabiliscono
una “relazione”, difficilmente useremo un termine come “accoppiamento” che
richiama piuttosto la riproduzione sessuale tra gli animali.
Eppure, in un’epoca di forti trasformazioni sociali e culturali che interessano
l’Occidente all’inizio del terzo millennio, riteniamo, come il Lacroix, che la
domanda abbia oggi, almeno da un punto di vista antropologico, un fondamento e
una sua giustificazione.
Perché? Cosa ci induce a pensarlo?
Uno sguardo sulla cultura dei contemporanei
Partendo dall’osservazione dei fenomeni sociali, dalle rilevazioni statistiche
e dagli studi sociologici cosa osserviamo?
X. LACROIX, Il corpo di carne. La dimensione etica, estetica e spirituale dell’amore. EDB, Bologna 2001, p. 24. Il
Lacroix prende le mosse dal suo personalismo cristiano per analizzare il tema della relazione amorosa, nelle
sua correlazione tra “relazione-legame-alleanza”. Lo fa in una prospettiva fenomenologica, tesa ad
evidenziare i fondamenti antropologici del legame di coppia. Questa ricerca, molto ampia e documentata, ha
ispirato molte delle considerazioni sviluppate lungo i vari capitoli e sarà pertanto sovente citata in questo
lavoro.
1
2
In primo luogo, possiamo dire di vivere in un tempo caratterizzato da una
crescente instabilità coniugale, con un forte aumento delle separazioni coniugali e
dei divorzi, un contestuale calo dei matrimoni con aumento delle convivenze e
delle unioni libere. La tendenza si riscontra con una certa costanza in tutti i paesi
sviluppati o in via di sviluppo; gli studi evidenziano che ad un maggior livello di
benessere economico e sociale corrisponde una maggiore fragilità dei legami di
coppia e di famiglia.
Verrebbe da chiedersi: la famiglia tradizionale, come l’abbiamo sin qui conosciuta, è
diventata un istituto superato, tipico delle civiltà pre-moderne?
In secondo luogo, prendendo atto delle mutazioni demografiche e
dell’evoluzione del costume, osserviamo come le legislazioni degli Stati tendano
sempre più ad assumere un atteggiamento “neutrale” rispetto alle scelte
individuali, non ritengono più così fondamentale la protezione accordata
all’istituto matrimoniale, privilegiando piuttosto i diritti dei singoli e le loro scelte,
a discapito dei riflessi sociali che, un tempo, si poteva dire “insiti” nel legame di
coppia, ed oggi non più così evidenti o rilevanti.
Anche qui diviene lecita la domanda: Lo Stato non deve occuparsi della vita
sentimentale degli individui?
In terzo luogo è la stessa evoluzione culturale e del pensiero, le quali
forniscono l’orizzonte ideologico nel quale si iscrivono i fenomeni sociali, a
legittimare il porsi della domanda iniziale. In ambito filosofico, ormai da vari
secoli, l’interesse speculativo sviluppatosi a partire dalla domanda sull’essere ha
diretto gradualmente la sua riflessione sul soggetto, poi al modo in cui si conosce
fino ad arrivare al modo di interpretare: l’approdo della filosofia moderna ha
rinunciato ad ogni velleità metafisica od ontologica e si è attestata sostanzialmente
sul piano dell’ermeneutica, senza riuscire oltre tutto a stabilire dei criteri ultimi e
oggettivi in base al quale interpretare i fenomeni che non siano quelli desunti dal
contesto storico-culturale in cui viene a trovarsi.
3
Anche ciò che un tempo pareva saldamente ancorato a dei fondamenti oggettivi,
quali ad esempio quelli desumibili dalla natura, pare incapace di sottrarsi a questa
nuova weltanshauung, alla nuova “visione antropologica” per la quale “tutto è
cultura”: il matrimonio, la differenza sessuale e la vita di relazione tra uomo e
donna sono tra questi.
Possiamo dire che il tema della differenza e il rapporto tra i sessi è quello
che è stato più fortemente investito dalle trasformazioni culturali.
I progressi tecnologici e scientifici hanno consentito operazioni un tempo
impensabili come la fecondazione artificiale, che permette la nascita in vitro di un
essere umano, prodotto dall’unione di uno spermatozoo ed una cellula uovo
opportunamente congelati.
Le scoperte tecnologiche nel campo biomedico
pongono inevitabilmente forti problemi dal punto di vista etico poiché
costringono a fare i conti con la possibilità di alterare i meccanismi e i significati
profondi che hanno fin qui accompagnato la specie umana.
La semplice
affermazione secondo cui “con i progressi della scienza la sessualità non è più
indispensabile alla riproduzione” ci dà l’idea di quanto possano essere investiti e
alterati quei significati un tempo considerati fine principale del legame coniugale2.
Anche il linguaggio, impregnato delle nuove terminologie concettuali, è
particolarmente rivelatore della metamorfosi dei significati che si vogliono
introdurre
con
le
trasformazioni
culturali.
Basti
pensare
al
termine
“eterosessuale” introdotto in contrapposizione ad “omosessuale” per indicare un
diverso modo di esprimere l’”orientamento sessuale” dell’essere umano. Oppure
Constatazione dello studioso francese M. GODELIER, citato in X. LACROIX, In principio la differenza.
Omosessualità, matrimonio, adozione. Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 81. Cfr. invece l’orientamento del
Magistero in tema di comportamenti sessuali espresso da PAOLO VI nell’enciclica Humanae vitae: «la Chiesa
insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita […] Tale dottrina,
più volte esposta dal Magistero,è fondata sulla connessione inscindibile (…) tra i due significati dell’atto
coniugale: il significato unitivo ed il significato procreativo» (nn. 11,14).
2
4
il curioso termine “omoparentalità” coniato per sostituire il termine “genitori” che,
fino ad ora, designava due persone di sesso opposto3.
Si direbbe che il dibattito culturale, nella società occidentale, sia fortemente
polarizzato dal concetto di “uguaglianza”, per il cui raggiungimento, perseguito
con accanimento talora ossessivo, si sacrifica tutto ciò che richiama la “differenza”.
E’ una caratteristica che colpì anche A. de Tocqueville, il noto storico
francese, nel suo famoso ritratto della democrazia americana:
«Gli uomini non stabiliranno mai un'eguaglianza che li soddisfi ... Quando
l'ineguaglianza è legge comune della società, le ineguaglianze più marcate non
colpiscono l'occhio; quando tutto è quasi a un medesimo livello, le più lievi
spiccano abbastanza per ferirlo. Sicché il desiderio di eguaglianza diventa
sempre più insaziabile quanto più l'eguaglianza è completa»4.
Dopo 150 anni dalle analisi di Tocqueville il problema è evidentemente ancora sul
tappeto se vi sono studiosi moderni, come il Lacroix, i quali annotano che
«quando l’idea di uguaglianza diviene un’idea fissa, ovverosia quando invade
l’intero ambito del discorso, diviene totalizzante e cancella l’idea di differenza»5
Un esempio significativo di questa nuova “neolingua”, introdotta in particolare dalle organizzazioni gay per
modificare i significati delle relazioni familiari, è rappresentato da un opuscolo dell’APDPLG (associazione
francese dei genitori e futuri genitori gay e lesbiche) il quale elenca sette termini per designare i ‘genitori’:
«Patrigno/matrigna: persona che, pur non avendo partecipato al progetto parentale, si comporta come un
genitore nei confronti del bambino. - Cogenitore: a seconda del contesto, può designare l'insieme dei
protagonisti di un progetto di coparentalità o semplicemente i partner dei genitori giuridici. - Madre per conto
terzi: donna che porta in grembo il figlio di un uomo che ne è il padre; può essere o no la madre biologica del
bambino. - Genitore biologico: sinonimo di genitore genetico. - Genitore legale: colui che ha un legame di filiazione secondo le norme giuridiche. - Genitore sociale: genitore che, pur comportandosi come tale, non è un
genitore giuridico. Si tratta di un patrigno/matrigna, di un secondo genitore o di un cogenitore. - Secondo
genitore: in presenza di un solo genitore legale, si tratta del partner omosessuale del genitore legale che
partecipa all'educazione del bambino». Riportato in X. LACROIX, In principio la differenza, cit., p. 82. Viene
spontaneo chiedersi come farà il bambino ad orientarsi in un simile labirinto…
4 A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, citato in R. HUGHES, La cultura del piagnisteo. La saga del
politicamente corretto, Adelphi, Milano 1994, p.28.
5 LACROIX, In principio la differenza, cit., p. 49. La questione dell’uguaglianza e delle connesse
“discriminazioni” è all’origine della nascita del fenomeno del c.d. “politicamente corretto”, una tendenza, che
si registra più forte negli Stati Uniti che in Europa, che tende a sterilizzare, soprattutto nel linguaggio, le
differenze che possono nascere dalle diversità tra le persone di ordine fisico, etnico, sessuale, di opinione, di
status sociale, ecc.
3
5
Se quindi, per ritornare alla domanda da cui siamo partiti, l’uomo e la
donna che si incontrano nella “carne”, non esprimono più un’unione, non
esprimono cioè una complementarità, un legame che integra e allo stesso tempo
trascende le loro differenze; se esprimono soltanto uno dei possibili “orientamenti
sessuali”, se l’esercizio della sessualità rimane pressoché ad una dimensione
ludica, di gratificazione della sfera emotivo-affettiva, se questo è, allora è evidente
che, con una logica concatenazione di pensiero, anche gli istituti che per secoli
hanno protetto quel legame, che gli hanno riconosciuto preminenza sociale,
entreranno presto o tardi in crisi.
Il matrimonio quindi non esprimerà più l’unione che manifesta il patto tra
un uomo ed una donna, ma, nella visione egualitaristica che livella le differenze,
verrà in qualche modo “neutralizzato”, reso accessibile a tutti coloro che
esprimono un certo “orientamento sessuale” e che decidono di contrarre un “patto
di convivenza”6.
Il supporto ideologico di questa nuova riscrittura della differenza sessuale è
costituito dalla cosiddetta gender theory, la “teoria del genere”, che ha preso vita
dal movimento femminista nel solco delle teorie marxiste-freudiane di fine anni
’60 che predicavano la “rivoluzione sessuale”. Secondo questa teoria il “genere”
sessuale (gender) viene giudicato una costruzione psico-socio-culturale e pertanto
svincolato dal “sesso” (sex) biologico.
Il “genere” è una costruzione sociale,
soggetta alla variabilità delle culture, indipendente dal sesso biologico. Di
conseguenza, uomo e maschile potrebbero riferirsi sia a un corpo femminile sia a
uno maschile, così come donna e femminile, sia a un corpo maschile sia a uno
Sono ormai diversi i Paesi europei che hanno introdotto nelle proprie legislazioni l’istituto del matrimonio
‘sessualmente neutro’. In Svezia il progetto di legge per modificare il matrimonio in questo senso, recita in
uno dei suoi articoli: “il matrimonio è l’unione celebrata da un ufficiale di stato civile fra due persone dello
stesso sesso o di sesso opposto che abbiano entrambe diciotto anni”. Anche in Italia si è arrivati a mettere in
discussione il dettato costituzionale e le norme del Codice civile riguardanti il matrimonio. E’ del 3 aprile
2009 l’ordinanza del Tribunale di Venezia che solleva un conflitto di fronte alla Corte Costituzionale,
ipotizzando la violazione di ben quattro principi costituzionali a fronte di una sistematica lettura del Codice
civile contraria al matrimonio tra persone “di orientamento omosessuale”. Si legge nell’ordinanza che
«nell’ipotesi in cui una persona intenda contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, il Tribunale non individua
alcun pericolo di lesione di interessi pubblici o privati di rilevanza costituzionale».
6
6
femminile. La gender theory, mirando quindi ad una decostruzione dei generi
sessuali, ne mette in discussione la distinzione stessa. La sessualità maschile e
femminile, a lungo considerate un destino naturale, divengono un’opzione
individuale la quale, servendosi dei notevoli progressi acquisiti dalla tecnoscienza
biomedica, può così rivendicare un proprio diritto all’autodeterminazione
dell’identità sessuale.
Ma c’è di più.
Dopo aver riscritto le differenze di genere, i rapporti
parentali ed il matrimonio, la nuova visione antropologica ha aperto in Occidente
un altro fronte sul delicato destino della famiglia: quello della poligamia. Sul tema
si è cominciato a discutere apertamente, senza tabù, negli Stati Uniti, il paese
frontiera delle libertà individuali; giornali e TV discutono del tema registrando
pareri favorevoli che non sono soltanto quelli delle comunità mormone e
musulmane7. Nel 2006 una delle serie TV di maggior successo (il settimanale
“People” l’ha ribattezzata “miglior serial dell’anno”) è quella intitolata “Big love”,
dove il protagonista, un mormone dell’Utah, vive apparentemente felice con le sue
tre mogli e i suoi sette figli.
Il dibattito rimbalza anche in Europa dove il poliedrico pensatore francese Jacques
Attali introduce il termine “poliamore” e, in un articolo ripreso dal Corriere della
Sera, tratteggia con positività un futuro nel quale diventerà legale e socialmente
accettato avere più relazioni sentimentali simultanee8.
In generale, i moderni fautori del cosiddetto “relativismo etico”, che siano
consapevoli o meno, ci spingono a considerare queste trasformazioni come delle
“evoluzioni”, quasi come delle conquiste: la dissociazione del matrimonio e della
riproduzione, una parentalità che separi il biologico dall’educativo sono gli
Commentando la serie televisiva “Big love” sul New York Times, John Tierney ha sostenuto che la poligamia
non rappresenta una minaccia per la società americana. Un altro noto commentatore, Charles Krauthammer,
sul Washington Post, ha provocatoriamente lanciato la proposta in chiave omosessuale chiedendosi: “che
differenza essenziale ci sarebbe tra il matrimonio di due e il matrimonio di tre uomini”?
8
J. ATTALI, “Monogami, siamo l’ultima generazione”, in Corriere della Sera, 13 settembre 2005.
7
7
approdi inevitabili, i fattori di novità cui ci condurrebbe inevitabilmente lo
sviluppo delle relazioni nella post-modernità.
L’uomo e la donna diverranno sempre più “estranei” a se stessi, incapaci di
intrecciare relazioni stabili e durature?
In realtà, quello che taluni interpretano come un’evoluzione culturale o
addirittura, in termini darwiniani, un’ulteriore tappa del cammino della specie,
altri potrebbero invece considerarlo come un processo di decomposizione e di
crisi. Noi propendiamo per la seconda ipotesi.
In questa sede non ci arrischiamo ad affrontare una discussione sulle
evoluzioni storico-culturali e/o le degenerazioni del rapporto tra i sessi nel
contesto della società in cui viviamo; ci porterebbe troppo lontano e richiederebbe
ben altre competenze. Questi brevi accenni al quadro culturale di riferimento ci
servono solo per capire il contesto nel quale oggi si intrecciano e si sviluppano i
legami amorosi, con quali aspettative, con quali promesse, con quali valenze
simboliche, oggi l’uomo e la donna si cercano, si trovano, si amano.
Se, per dirla con il noto sociologo Zygmunt Bauman, viviamo nell’epoca
dell’”amore liquido”, dove “desiderio e amore si escludono a vicenda”, dove
anche le relazioni subiscono il modello dello shopping, mosse cioè dal desiderio di
“togliersi delle voglie” è altrettanto vero, per dirla con lo stesso autore che
“oggigiorno quello delle ‘relazioni’ è l’argomento sulla bocca di tutti, ed
evidentemente l’unico gioco cui valga la pena di partecipare, nonostante i noti
rischi che comporta”.9
Z. BAUMAN, Amore liquido, Laterza, Bari 2007, p. VII. Bauman sviluppa qui una riflessione sulla precarietà
delle relazioni amorose nel contesto moderno: «anziché riferire la propria esperienza in termini di ‘rapporti’ e
‘relazioni’, uomini e donne parlano sempre più spesso (aiutati e spalleggiati dagli esperti consulenti) di
connessioni, di ‘connettersi’ o di ‘essere connessi’. Anziché parlare di partner, preferiscono parlare di ‘reti’.
Che meriti ha il linguaggio della connettività rispetto a quello delle relazioni? […] ‘Rete’ suggerisce momenti
in cui si è in contatto intervallati a periodi di libera navigazione. In una rete le connessioni avvengono su
richiesta e possono essere interrotte a proprio piacimento. Una relazione “indesiderata ma indissolubile” è
esattamente ciò che rende il termine “relazione” così infido. Una “connessione indesiderata”, per contro, è un
ossimoro: le connessioni possono essere e sono interrotte ben prima che inizino a diventare invise» (p. XI).
9
8
Quello della relazione è, per molti aspetti, il problema del vivere moderno,
la “scommessa”, potremmo dire parafrasando Pascal, dalla quale non si può
prescindere.
Come riconosce anche E. Fromm, nel suo ancora attuale saggio L’arte d’amare,
«l’uomo – di qualsiasi età e civiltà – è messo di fronte alla soluzione di un eterno
problema: il problema di come superare la solitudine e raggiungere l’unione».10
Nel contesto moderno, secondo Lacroix, «la sfida da raccogliere consiste nel
coniugare l’idea di uguaglianza con quella di differenza»11, uguaglianza come pari
dignità di fronte alle leggi, ma allo stesso tempo riconoscimento della differenza
come argine al livellamento degli individui e delle coscienze.
La prospettiva biblica
La prima e immediata realtà chiamata ad affrontare questa sfida è quella
della relazione uomo-donna. E qui balza agli occhi, con immediata suggestione,
tutta la complessità e l’intreccio di significati che, da secoli, ci propone
l’esortazione biblica:
Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie
e i due saranno una sola carne. (Gn, 2,24).
Questo versetto non cessa ancora oggi di interrogarci su questo “mistero”:
come possono i due diventare uno, come è possibile realizzare l’unità nella
diversità, come può un’unione diventare un legame, anzi in termini biblici, una
“alleanza”?
E tuttavia, anche nella “liquidità” delle relazioni, lo stesso Bauman riconosce che di queste non si può fare a
meno.
10 E. FROMM, L’arte d’amare, Il Saggiatore, Milano 1984, p. 22
11
LACROIX, In principio la differenza, cit., p. 51
9
Come abbiamo accennato poc’anzi, nel pensiero della post-modernità
l’interrogativo rimane senza risposta, poiché si ritiene che questa unione sia,
sostanzialmente, irrealizzabile se non in termini di pura aspirazione o, in termini
“romantici”, di anelito alla “fusione” comunque mai compiuta.
La modernità sembra esprimere una visione sostanzialmente pessimista
sulla relazione tra i sessi: il rapporto o è idealizzato (e se ne subiscono le
conseguenze delle aspettative disilluse) oppure non esce da una dinamica
conflittuale, incapace di trovare una sua armonia.
Tuttavia, come sa chiunque viva il matrimonio con una certa profondità,
l’unione dell’uomo e della donna nella carne esprime una tensione, spesso
difficilmente
spiegabile,
che
trascende
le
irriducibili
individualità
che
compongono la coppia. Pur nei limiti dell’esperienza carnale, nella fragilità della
condizione umana, i due avvertono che tra loro si instaura qualcosa di profondo,
si realizza una metamorfosi del proprio sentire esistenziale, si scopre una
dimensione che porta all’uscita dalla propria “egoità” verso nuovi approdi
dell’autocoscienza.
Interessanti, a questo proposito, le affermazioni di uno dei padri della psicanalisi
moderna, Carl Gustav Jung, frutto dei suoi studi sull’analisi dei sogni:
«Se si stanno analizzando delle persone sposate o delle persone che hanno un
rapporto strettissimo anche se non è un matrimonio, non ci si può limitare a
trattare la loro psicologia come un fattore a sé stante... ed è estremamente
difficile districare dal rapporto le proprietà personali. Si scopre
invariabilmente che la cosiddetta psicologia individuale, in un caso del
genere, è spiegabile soltanto partendo dal presupposto che in quella mente
stia funzionando contemporaneamente un altro essere umano; in altre parole,
è la psicologia di un rapporto, e non la psicologia di un individuo isolato. È
difficilissimo persino isolare le parti che spettano agli individui da quelle che
spettano al rapporto. Soltanto a fatica, quindi, possiamo considerare un sogno
del genere come una sua proprietà: il sogno è anche, nella stessa misura, di
sua moglie. La psicologia di lui è in quella di lei e quella di lei in quella di lui,
e ogni sogno che ognuno di loro ha è, più o meno, un'espressione del rapporto. E come se un essere umano che si trova in un rapporto psicologico molto
intimo non avesse più due gambe, due braccia e una testa, ma quattro gambe,
quattro braccia, due teste e due vite. L'individuo è permeato dalla sfera
10
psicologica del partner, e quindi ne è direttamente permeato l'intero problema
di vita»12.
Uno dei padri della psicanalisi sembra qui confermare quanto già amavano
ripetere i moralisti cristiani con l’espressione “l’unione dei corpi è l’espressione
dell’unione dei cuori”, dove cuore, non rivela l’organo biologico o la sede di un
superficiale sentimentalismo, ma, nel suo significato prettamente biblico, parla
della profondità della persona, di ciò che è più intimo con tutta la gamma dei vari
sentimenti.
Anche sul piano puramente antropologico, pur in mezzo a tutti i limiti e alle
difficoltà dell’esperienza umana, è possibile raccontare l’esperienza della relazione
come un’avventura, un viaggio della coscienza, come un percorso che muove dal
“desiderio-per-sé” all’apertura all’altro, al “dono-per-l’altro”.
Dal mondo dei “fenomeni” a quello del “mistero”
Nella prospettiva biblica, l’unione dell’uomo e della donna, mediata
dall’unione carnale, manifesta una nuova realtà che la Bibbia esprime nei termini
di “immagine e somiglianza” di Dio. Per la Bibbia, l’unione intima dell’uomo e
della
donna
manifesta
una
comunione
talmente
profonda
da
vedervi,
misteriosamente, una scintilla della rivelazione divina: è l’essere stesso di Dio, in
quanto “mistero di comunione” che si rivela nell’amore umano, anche se questo lo
riproduce nella fragilità e nella debolezza della carne13.
C.G. JUNG, Analisi dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino 2003, citato in, “Jung, quell’opera d’arte chiamata
sogno”, Corriere della Sera, 12 giugno 2003.
13
Dal Genesi al Cantico, dalle esortazioni dei Profeti ai detti dei Sapienziali, dagli scritti paolini del NT fino
all’Apocalisse la Scrittura si serve spesso del paradigma dell’amore umano per rendere comprensibile il
mistero del Dio-comunione. Per una ampia panoramica delle citazioni bibliche sull’argomento si rimanda al
fondamentale studio esegetico di Gianfranco Ravasi sul Cantico dei Cantici: G. RAVASI, Il Cantico dei Cantici.
Commento e attualizzazione, EDB, Bologna 1992, in particolare nella Premessa riguardante il “Cantico biblico”
(pp. 60ss).
12
11
Se nel contesto moderno, la relazione uomo-donna è il luogo delle massime
aspirazioni e delle massime frustrazioni, del lirismo e della competizione,
dell’amore mistico e del puro piacere sensuale, delle carezze e delle violenze,
apparentemente incapace di uscire da una invalicabile separatezza, nella
prospettiva biblica questa può rappresentare, pur con tutte le sue fragilità, un vero
e proprio “luogo teologico”, una realtà orientata alla manifestazione del mistero
divino, il paradigma per la conoscenza del “Dio che è amore” (1 Gv 4,8.16)14.
L’antropologia cristiana accetta fino in fondo la sfida della complessità, una
complessità, come nota Giorgio Campanini, «che deriva dall’esigenza di conciliare
ciò che appare in qualche modo irriducibilmente contraddittorio, appunto la
compresenza di unità e dualità, di identità e di differenza»15
Con questo studio proveremo quindi, per quanto ci è possibile, a indagare il
tema della relazione amorosa, muovendoci nella prospettiva biblica e tentando di
coniugarla con le acquisizioni della fenomenologia contemporanea sui temi
dell’eros e della corporeità.
Già altri, ovviamente, hanno compiuto questa fatica e con ben altra competenza, in
primis Papa Giovanni Paolo II, che con le sue “catechesi del mercoledì”, ha
dedicato un’ampia parte del suo insegnamento catechistico ad approfondire,
attraverso principalmente una lettura del Genesi e del Cantico dei Cantici, i
La teologia sacramentaria tradizionale ci direbbe forse che l’espressione “luogo teologico” è da usare più
propriamente per la relazione uomo-donna che trova il suo fondamento nel matrimonio, poiché è qui, come la
Chiesa insegna da sempre, che l’amore può compiutamente svilupparsi nella fecondità e nella responsabilità
che gli impegni assunti richiedono. Noi usiamo qui l’espressione in un senso più largo, quella che vede
nell’incontro dell’uomo e della donna la possibilità di aprirsi ad un orizzonte di senso più vasto, verso un
“mistero” capace di trascendere le singole individualità. E’ del resto la prospettiva del Cantico dei Cantici, sul
quale ci soffermeremo in queste pagine.
15
G. CAMPANINI, Il Sacramento antico. Matrimonio e famiglia come “luogo teologico”, EDB, Bologna 2000, p. 96.
In proposito nota giustamente il Campanini come «molti limiti della teologia morale cattolica – specialmente
nell’ambito dei rapporti fra uomo e donna e della sessualità in generale – conseguono alle insufficienze e alle
carenze di un’antropologia in passato poco attenta ai temi della corporeità e pertanto attraversata da
tentazioni riduttivistiche e talora incline a una sorta di fuga in un “soprannaturale” di cui si coglievano in
modo insufficiente i legami con una natura che appariva, a mano a mano che la cultura dell’uomo si
approfondiva, sempre più complessa e problematica» (ivi, p.91)
14
12
risvolti etici ed antropologici dell’amore umano, proprio partendo da una visione
della persona umana nella sua realtà globale di corpo, psiche e spirito16.
Noi ci muoveremo su questa scia, prendendo come pista di lettura il
Cantico dei Cantici, questo splendido poema biblico dell’amore umano-divino: la
coppia del Cantico verrà messa in diretta relazione con la coppia del Genesi le
quali, come due fuochi dell’ellisse, struttureranno la nostra riflessione, che avrà un
risvolto principalmente fenomenologico.
Non ci soffermeremo in questo studio sugli sbocchi “sacramentali” della relazione
amorosa: quelli del matrimonio e della verginità “per il Regno”17.
Ci fermeremo, per così dire, sulla “soglia del mistero”, affrontando alcuni nodi
essenziali della relazione amorosa tra uomo e donna: l’eros e il desiderio della
carne, il fascino del corpo e la sua dimensione simbolica, le difficoltà e le
ambiguità del rapporto amoroso e cercheremo infine di evidenziare come questo
rapporto, pur nella sua incompiutezza, è capace di trascendersi, di aprirsi ad un
ordine di “senso”, ad un “oltre” che, anche se non gli si volesse riconoscere un
esplicito richiamo religioso, assume tuttavia i connotati del “mistero” e la forma
del “dono”.
In questo percorso ci aiuteremo anche con l’ausilio di immagini le quali, insieme
alle parole, si incaricano di dischiuderci altri orizzonti di conoscenza e di senso. Al
termine di ogni capitolo, l’immagine di un’opera artistica (una scultura, un
dipinto, ecc.) ci aiuterà a cogliere più in profondità il tema oggetto della
riflessione.
Quelle catechesi sono state raccolte in un ampio volume (GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò.
Catechesi sull’amore umano. Città Nuova, Roma 1985) che costituisce ancora oggi un contributo teologico e di
pensiero importante per chi si cimenta con questi temi.
17
Sul matrimonio mi sono già cimentato in uno studio sui suoi “fondamenti biblici” proprio per questo
Istituto di Scienze Religiose “b. N. Stenone”, con una tesina discussa in occasione di corsi opzionali. Lo scritto
è agli atti dell’ISSR di Pisa. Una copia su file è possibile rinvenirla anche nella sezione testi del sito web della
Scuola di Formazione Teologica della diocesi di San Miniato, (www.scuoladiteologia.org ).
16
13
Un approccio esegetico ai brani biblici è indubbiamente richiesto per questo
lavoro, ma non sarà un commento al testo quello che ci accingiamo a fare. Per
questo rimandiamo innanzitutto al fondamentale lavoro di Gianfranco Ravasi, al
suo monumentale commento e attualizzazione del testo del Cantico che, ad oggi,
risulta il lavoro più ammirato e ‘saccheggiato’ da tutti i commentatori ed esegeti
del poema biblico.
Anche noi, ovviamente, non potevamo esimerci dal farvi
riferimento, nella spiegazione letterale di quei passi che ci introducono al tema di
riferimento. Nella comprensione del testo biblico abbiamo tenuto presente anche
un altro lavoro, quello di Roberto Filippini, al quale la Conferenza Episcopale
Italiana ha affidato l’incarico di tradurre il testo ebraico per la nuova traduzione
della Bibbia CEI, nuova versione che, per l’uso liturgico, è entrata in vigore nel
dicembre 2007. Da quella fatica Filippini ha tratto un volumetto, uscito peraltro in
sordina e per iniziativa di Comune e Diocesi di Piombino18, con un pregevole
commento ed abbellito da immagini che accompagnano il testo evocandone il
simbolismo erotico.
Sia Ravasi che Filippini hanno letto e commentato il testo senza perdersi nei
meandri delle interpretazioni allegorico-mistiche o scadendo in una pura allusività
erotica-sensuale, ma hanno privilegiato quella lettura simbolica che assume e
riconosce la pregnanza del testo ed il suo significato letterale, ed è capace di
dischiuderne il senso ulteriore, più profondo, appunto “simbolico” come del resto
è tipico di ogni realtà che ha a che fare con l’amore ed i sentimenti.
Oggi questo tipo di lettura del testo, frutto delle ricerche e delle acquisizioni
storico-letterarie delle scienze bibliche, pare la più scontata ma chi si avvicina al
testo ed alla sua storia, sa come nei secoli questo sia stato ‘vittima’ delle più
svariate
interpretazioni,
da
quelle
allegorico-misticheggianti
a
quelle
letteralistiche-poetico-erotiche, generalmente influenzate dal pensiero dominante
in merito alla sessualità ed alla relazione uomo-donna. Si potrebbe dire quasi che
18
Roberto FILIPPINI, Il Cantico dei Cantici, Comune di Piombino 2002.
14
si contemplava la coppia del Cantico prevalentemente alla luce della vicenda di
Adamo ed Eva, alla luce cioè della natura decaduta e peccaminosa dell’umanità.
Oggi, una nuova antropologia cristiana, una corretta riscoperta della corporeità e
della sessualità, ci consentono di dire, con più chiarezza che in passato, che non
possiamo leggere di Adamo ed Eva senza metterli in relazione agli amanti del
Cantico, ovvero, in termini teologici, che la caduta non offusca la bellezza del
progetto originario di Dio che ha, nonostante tutto, voluto redimere la fragilità
dell’amore umano facendolo segno e strumento di un Amore più grande19.
Nelle considerazioni di ordine antropologico, siamo debitori all’approccio
fenomenologico della filosofia personalista, nella quale ci riconosciamo.
Gran
parte delle riflessioni qui riportate si rifanno, indirettamente, ai fondamentali
contributi di pensatori come Emmanuel Mounier, Jean Guitton, e più
recentemente Virgilio Melchiorre, Xavier Lacroix, Jean-Luc Marion, Giorgio
Campanini20. Nelle riflessioni sul corpo e sulla relazione mi sono imbattuto anche
nei lavori di altri pensatori non credenti, da Erich Fromm a Zygmunt Bauman a
Umberto Galimberti, i quali svolgono considerazioni che in molti aspetti
convergono con l’approccio personalista21.
In ultimo, ricordo, ancora una volta, il fondamentale contributo dato da Giovanni
Paolo II al tentativo di coniugare la tradizione di pensiero cristiana con le moderne
acquisizioni della fenomenologia; ponendo al centro del suo itinerario catechetico
In proposito sottolineiamo le parole di Giovanni Paolo II, pronunciate in una delle sue catechesi sull’amore
umano: «L’ethos evangelico e cristiano nella sua essenza teologica è l’ethos della redenzione […] anzi,
un’ethos della redenzione del corpo. La redenzione diviene, a un tempo, la base per comprendere la
particolare dignità del corpo umano, radicata nella dignità personale dell’uomo e della donna. La ragione di
questa dignità sta alla radice dell’indissolubilità dell’alleanza coniugale» (GIOVANNI PAOLO II, Uomo e
donna lo creò, cit., pp. 386-387)
20
Di Lacroix e Campanini abbiamo già citato i rispettivi lavori, di Virgilio Melchiorre cito i fondamentali
contributi acquisiti anche per questo lavoro: V. MELCHIORRE, Metacritica dell’Eros, Vita e Pensiero, Milano
1977 e V. MELCHIORRE, Corpo e Persona, Marietti, Genova 1987.
21
Interessante, anche se talvolta un po’ ridondante, il lavoro di Umberto Galimberti sul corpo (U.
GALIMBERTI, Il Corpo, Feltrinelli, Milano 1983) consultato per questo lavoro.
19
15
la relazione uomo-donna, non come momento casuale, bensì centrale e decisivo
del progetto di Dio.
Questa consapevolezza, corroborata anche dalla personale esperienza
matrimoniale, mi ha spinto a scrivere su questo argomento.
16
Capitolo 1.
“Io sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me” (Ct 7,11).
La forza dell’eros, tra pulsione e aspirazione.
1.1.
Eros avvelenato?
Papa Benedetto XVI ha dedicato la prima enciclica del suo pontificato al
tema dell’amore cristiano; svolgendo, in apertura del documento, una riflessione
sulla relazione tra eros e agape si pone una domanda:
«La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell'amore
che si esprime attraverso la parola agape, denota indubbiamente nella novità
del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della
comprensione dell'amore. Nella critica al cristianesimo che si è sviluppata con
crescente radicalità a partire dall'illuminismo, questa novità è stata valutata in
modo assolutamente negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche,
avrebbe dato da bere del veleno all'eros, che, pur non morendone, ne avrebbe
tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una
percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci
rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di
divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una
felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino? Ma è veramente così? Il
cristianesimo ha davvero distrutto l’eros?»22
La domanda che il Papa si pone è ovviamente retorica: con l’incedere del
teologo e con metodo filosofico, egli vuol mettere in evidenza le obiezioni per poi
poterle confutare attraverso un argomentato ragionamento.
Il tema che Benedetto XVI propone alla riflessione dei fedeli, in questa sua
prima enciclica, è l”amore”, segnatamente “l’amore di Dio per noi “che «è
22
BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Deus est caritas, 2006, n. 3
17
questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi
siamo noi»23.
Il Papa dà alla riflessione sull’amore una precisa caratterizzazione – l’amore
cristiano, l’amore-di-Dio-per-noi – ma è consapevole che sul tema dell’amore,
correttamente inteso, si giocano i destini dell’umano nella sua relazione con il
Divino24.
Nietzsche e, prima di lui i pensatori illuministi, hanno ripreso e rilanciato
accuse che sono risuonate più volte al cristianesimo del passato: quelle di aver
stravolto il significato dell’amore, di aver scisso l’anima dal corpo, il naturale e lo
spirituale, o, per usare le parole stesse di Benedetto XVI, di essere stato un
“avversario della corporeità”.
La sublimazione dell’amore avrebbe offuscato eros, associandolo alle pure
pulsioni del corpo, visto a sua volta come legato a ciò che è caduco, materiale,
carnale e, in ultima istanza, veicolo di peccato.
1.2.
Una premessa antropologica
Non v’è dubbio che, in seno al cristianesimo fin dai primordi, si siano
sviluppate correnti di pensiero tendenti alla svalutazione del corpo e della
“carnalità” viste come contrapposte all’anima e allo Spirito. Ma il cristianesimo ha
ibidem, n. 2
«Al riguardo, ci ostacola innanzitutto un problema di linguaggio. Il termine “amore“ è oggi diventato una
delle parole più usate ed anche abusate, alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti. Anche se il tema
di questa Enciclica si concentra sulla questione della comprensione e della prassi dell'amore nella Sacra
Scrittura e nella Tradizione della Chiesa, non possiamo semplicemente prescindere dal significato che questa
parola possiede nelle varie culture e nel linguaggio odierno». Ibidem.
La testimonianza dell’amore cristiano, liberata da ogni luogo comune, pregiudizio o erronea tradizione, è una
delle preoccupazione pastorali più forti dell’attuale Papa. Scrivendo ai giovani, ad esempio, egli ribadisce che
«Dio ha un progetto di amore sul vostro futuro di coppia e di famiglia ed è quindi essenziale che voi lo
scopriate con l’aiuto della Chiesa, liberi dal pregiudizio diffuso che il cristianesimo, con i suoi comandamenti
e i suoi divieti, ponga ostacoli alla gioia dell’amore ed impedisca in particolare di gustare pienamente quella
felicità che l’uomo e la donna cercano nel loro reciproco amore» (BENEDETTO XVI, Messaggio per la XXII^
GMG. 01/04/2007)
23
24
18
fronteggiato queste tendenze che già erano profondamente radicate nella filosofia
e nella cultura occidentale, tendenze dualistiche e gnostiche che dai greci, in
particolare con Platone, in avanti hanno esercitato un profondo influsso sulla
concezione della corporeità e della sessualità25.
Basti pensare al “mito degli androgini”, racconto primordiale della
creazione dell’uomo, individuato anche nelle Upanishad della religione indù e che
Platone riprende e mette in bocca ad Aristofane.
L’androgino, mito della
perfezione originaria, era descritto come una
«figura umana che era, nella sua totalità, rotonda: dorso e fianchi formavano
un cerchio ininterrotto. Quattro erano le mani; d’egual numero le gambe; i
volti due, sul collo rotondo perfettamente simili. La testa invece, per ambedue
i volti opposti, unica...»
La nostra condizione sessuale risulta invece da un castigo divino verso gli uomini,
allora completi, che tentarono di scalare il cielo per vincere gli dèi:
«Avendo parlato così tagliò gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per
seccarle o come si taglia un uovo con un capello; e ogni volta che ne aveva
tagliato uno, ordinava ad Apollo di rigirare il volto e la metà del collo dalla
parte del taglio, perché vedendo così il suo taglio l’uomo diventasse più umile,
e gli comandava di guarire il resto. Apollo rigirava dunque il volto e,
raccogliendo da tutte le parti la pelle su ciò che oggi si chiama il ventre, come
si fanno delle borse a cinghia, lasciava soltanto un orifizio e legava la pelle nel
centro del ventre: è ciò che si chiama ombelico»26.
In questo racconto ci viene ricordata l’etimologia della parola “sesso” che,
in latino, si apparenta al verbo secare, tagliare. Come sottolinea il Lacroix, «il sesso
Un recente volume, scritto da due studiose, una laica e una cattolica, si propone di fare giustizia di molti
luoghi comuni ereditati in merito al rapporto tra cristianesimo e sessualità: Margherita PELAJA - Lucetta
SCARAFFIA, Due in una carne, Chiesa e sessualità nella storia, Laterza, Bari 2008. In particolare la Pelaja, storica
di impostazione laica, ha ribadito in un’intervista che l’intento del libro era proprio quello di fugare molti
luoghi comuni sulla presunta sessuofobia della Chiesa e di evidenziare il contributo positivo fornito dal
cristianesimo nella comprensione della corporeità. Cfr. “Chiesa e sessualità, parla la storia”, La Repubblica, 31
ottobre 2008.
26
PLATONE, Simposio, citato in LACROIX, Il corpo di carne, cit, pp. 248-249.
25
19
è dunque il luogo di un taglio, di una incompletezza e, diciamolo, di una ferita.
Essere sessuati è essere separati non soltanto dall’altro come partner, ma dalla
propria origine e dall’essere duplice da cui siamo usciti. In questa condizione
appare il desiderio, che il mito interpreta come desiderio di ‘fondersi’ [...] di
ritornare alla condizione primitiva che era quella di una totalità e di una
completezza, simbolizzata dalla forma sferica degli umani nella loro primitiva
condizione. L’espressione popolare “la mia metà” attesta la permanenza di questa
rappresentazione [...] e Freud stesso ricorre a questo mito per illustrare la tesi
secondo la quale l’istinto sessuale deriverebbe dal ‘bisogno di reintegrazione di
uno stato anteriore’».27
C’è da dire che Platone riprendendo il mito dell’androgino, lo arricchì a sua
volta di ulteriori significati, penetrando nella profondità dell’eros e cercandone la
vocazione ultima. Anche per Platone, “ciascuno continua a cercare la metà che gli
corrisponde”, eppure la sua ricerca è essenzialmente protesa al ritrovamento
dell’uno, oltre ogni diversità ed ogni finitezza.
«Si cominci a cercar bellezza in forme sensibili ed in una sola persona, ma poi
si abbandoni ogni singolarità pensando che, nelle diverse sembianze, appare
un’unica bellezza e si amino tutti i bei corpi abbandonando l’amore di un solo
come piccola cosa e degna infine di poco conto; si consideri quindi che la
bellezza delle anime è superiore a quella dei corpi e si salga via via dall’amore
degli uomini virtuosi a quello delle leggi, sino al grande amore dell’unica
scienza dell’Essere che è e non diviene, che non perisce e non s’accresce e non
diminuisce».28
La scala ascetica di questa ricerca dell’Uno ha affascinato, com’è noto, anche
molti scrittori cristiani, che, nel tentativo di inculturare il cristianesimo nel mondo
greco-romano, si rifecero in qualche modo alle categorie di pensiero della filosofia
Ibidem.
PLATONE, Convito, citato in MELCHIORRE, Metacritica dell’eros, cit., p. 72. Nell’”amore per tutti i bei corpi”
Platone compie, com’è noto, anche una rivalutazione della pederastia: “a torto s’afferma che sono svergognati.
Non per concupiscenza, ma spinti da indole forte e ardita, da valore e da virile audacia, intensamente amano
il loro simile. Questi soli, quando lo sviluppo è ormai completo, si dimostrano uomini davvero volgendosi alla
vita politica...”. PLATONE, Convito, ibidem.
27
28
20
greca e in questo Platone esercitò un forte influsso.
Anche se nell’ascetismo
platonico non è dato ravvisare un vero e proprio disprezzo della carne tuttavia nei
suoi scritti già alberga, come nota Melchiorre, la «ricorrente tentazione dell’anima
occidentale: l’affrancamento dal sensibile, in quanto il sensibile è determinatezza,
singolarità».29
In verità è proprio contro questa tendenza a ”separare” che si rivolge
l’insegnamento biblico! Se quella della sessualità è, per molti aspetti, almeno in
occidente, una storia di “separatezze” (la carne dallo spirito, il corpo dall’anima, la
fecondità dall’affettività, il principio del piacere dalle esigenze etiche, ecc.) il
pensiero giudeo-cristiano ha cercato di contrapporre una visione unitaria, dove
l’Uno non ha i confini impalpabili del Perfetto e dell’Immutabile, ma anzi si fa
corpo e sangue, dove il “Verbo si fa carne”, assumendo la natura umana perché
questa potesse sperimentare sempre di più quella divina.
Il primo banco di prova di questa differenza sta proprio nella originale
visione antropologica del pensiero biblico.
Al mito dell’androgino, dell’originale completezza umana andata perduta,
il Genesi contrappone invece la completezza ritrovata del maschio e della
femmina.
Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un
aiuto che gli sia simile». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di
bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere
come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno
degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a
tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò;
gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto.
Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la
condusse all'uomo. Allora l'uomo disse:
29
Ibidem.
21
«Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa.
La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata tolta». (Gn 2, 18-23)
Se taluni studiosi e commentatori hanno voluto vedere delle assonanze nei due
miti della creazione umana (la carne “richiusa” al posto della costola richiama
l’ombelico di Platone, mentre alcuni midrash vedono in ish e issha le due parti
simmetriche dell’Adam) le dissonanze sono tali da dare un orientamento diverso al
racconto biblico.
Il Lacroix elenca alcuni significati ultimi, i quali meritano una sintetica
sottolineatura anche in questo contesto:
1.
Se nel mito greco la separazione è una punizione e un decadimento,
nel racconto biblico è immediatamente un beneficio. Dio crea separando (il
cielo dalla terra, le acque, dalla terraferma, ecc.), ma in questa separazione crea
ordine dove prima invece regnava la confusione e il caos. Il v. 18 fa capire che
la singolare unità, o la solitudine, non era buona per l’uomo agli occhi di Dio.
Ed è proprio di fronte alla donna che l’uomo eromperà nel suo grido di giubilo:
«Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa»! (v.23).30
2.
il Signore Dio crea l’uomo e la donna con due atti differenti. La
donna è fatta al di fuori dell’uomo; non vi è alcun accenno all’uomo e la donna
come “metà di un tutto”, ma ciascuno è un soggetto intero separato, che si
completa «come si completano due totalità».31
3.
Nel mito, sempre per punizione i volti sono rivolti l’uno verso l’altro,
dalla parte del taglio, mentre all’inizio erano da due parti opposte.
Nel
racconto biblico invece essi sono posti da subito uno di fronte all’altro. L’unità
e la differenza è espressa dall’essere uno-di-fronte-all’altro, in uno sguardo di
relazione.
Emmanuel Levinas sottolinea che «l’esistenza separata avrà presso i giudei un valore maggiore dell’unione
iniziale». E. LEVINAS, Difficile liberté, citato in LACROIX, il corpo di carne, cit. p. 250
31
E. LEVINAS, ibidem.
30
22
Nel racconto di Aristofane, l’unità appartiene al passato. E’ perduta e
4.
il desiderio è desiderio di ritorno. Nel racconto biblico invece non c’è alcuna
nostalgia di uno stato anteriore, ma al contrario apertura ad un futuro nuovo.
L’annuncio del v. 24 parla di unità futura (i due “saranno”...) che non abolisce
la differenza:
«Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie e i due saranno una sola carne». (v. 24)
L’importanza di questo versetto nella comprensione dell’antropologia biblica è
fondamentale: ci basti sapere che Gesù riporterà ad esso (“in principio”, cf. Mt
19,4ss) il fondamento della indissolubilità del matrimonio mentre Paolo (anche se
nel diverso contesto della relazione con le prostitute) vi coglierà l’affermazione
dell’impegno di tutta la persona nell’unione carnale (cf. 1 Cor 6,16).
Come intendere l’espressione «una sola carne»? Designa principalmente l’unione
carnale oppure in senso più largo annuncia l’alleanza coniugale sancita col
matrimonio?
I commenti e le interpretazioni su questo versetto sono state innumerevoli lungo i
secoli. Il noto biblista Maurice Gilbert, propone di comprenderlo alla luce del
versetto precedente («Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie
ossa») ed argomenta, al termine di un lungo studio su questo versetto, che
l’espressione designa l’unità della coppia in tutta la sua ampiezza, «unità di due
esseri corporei in tutta la dimensione che può assumere l’unione dell’uomo e della
donna; certamente l’unione carnale non è esclusa, ma non è questa che viene
considerata al primo posto»32.
Il termine ebraico usato nel testo è basar il quale, letteralmente, viene tradotto con
“carne”, ma, come ci informano gli esegeti, il termine non viene praticamente mai
usato nell’Antico Testamento per designare l’unione carnale.
32
M. GILBERT, Una sola carne, citato in LACROIX, il corpo di carne, cit. pp. 254-255
23
In sintesi possiamo dire allora, con il Lacroix, che «l’espressione designa prima di
tutto l’unione di due persone nella loro totalità, unione di due storie o, potremmo
dire per rispettare la sfumatura di passività implicata dalla parola basar, di due
destini»33
1.3.
Il desiderio: tra istinto e ricerca dell’altro.
Fatta
questa
(breve)
premessa
sull’orientamento
fondamentale
dell’antropologia biblica con i racconti della creazione dell’uomo, ritorniamo alle
considerazioni dal quale siamo partiti e ci poniamo una domanda: se l’uomo e la
donna sono “fatti l’uno per l’altra”, se tale è il progetto divino su di loro, perché
nella realtà le cose sono andate così diversamente?
Perché la storia della
corporeità è stata in buona parte, come abbiamo accennato, una storia di
“separatezza” invece che un cammino di “unità” e di “armonia”?
C’è da dire che anche l’autore biblico aveva davanti a sé una realtà difficile
quanto alle relazioni di coppia; le violenze, le sopraffazioni, le disuguaglianze, il
predominio degli uomini sulle donne erano sotto i suoi occhi. Questa durezza
delle relazioni, fondate sulla violenza e il potere, l’autore biblico la trasfonderà nel
noto racconto della “maledizione”, dove la vita assume il sapore amaro della
sofferenza, del dolore, della morte, in contrapposizione all’armonia che regnava
tra gli esseri umani prima del peccato:
Alla donna [il Signore Dio] disse:
«Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli.
Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà».
All'uomo disse:
33
ibidem.
24
«Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti
avevo comandato: “Non ne devi mangiarne”, maledetto il suolo per causa
tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi
produrrà per te e mangerai l'erba dei campi.
Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché non ritornerai alla terra,
perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!».(Gn 3, 1619)
La nuova traduzione CEI ha tolto il “sia” dalla maledizione che il Signore
pronuncia sulla terra, un’omissione che non è soltanto letterale (in ebraico il verbo
essere è sempre omesso) ma assume un valore teologico.
Se infatti quel “maledetto sia il suolo per causa tua...” della vecchia traduzione
sembrava attribuire direttamente al Signore la volontà di condannare o maledire,
adesso il testo può essere più correttamente interpretato come “maledetto (ormai) il
suolo per causa tua...” (cf. Gn 4,10-11). Come sottolinea il gesuita biblista Francesco
Rossi De Gasperis, nel commentare questo versetto, «l’intervento e la sentenza del
Signore Dio nei confronti del serprente, della donna e dell’uomo, lungi dall’essere
una ‘condanna’ o una ‘maledizione’ (Il Signore è ‘benedetto e unicamente
benedicente’) è una dichiarazione che sanziona la condanna che le creature,
peccando, si sono già inflitte, e la maledizione in cui sono già incorse. E’ una divina
dichiarazione che, insieme, avverte i peccatori e rivela loro tutto lo spessore e le
conseguenze distruttive del peccato commesso, del quale essi – pur rimanendone
responsabili – non hanno potuto pesare tutta la malizia diabolica»34
L’autore del racconto biblico è cosciente che la realtà che ha di fronte è
devastata, i rapporti sono “inquinati”, prevaricatori. La relazione della donna con
l’uomo è espressa dal v. 16 in maniera icastica:
«Ormai il mondo-giardino è diventato un deserto. E’ questo, infatti il mondo reale con cui il popolo della
Bibbia deve fare i conti e di fronte al quale l’autore del racconto genesiaco si è posto, fin dall’inizio il problema
dell’origine del ‘male’ presente intorno a lui». F. ROSSI DE GASPERIS, Prendi il libro e mangia. Dalla creazione
alla terra promessa, EDB, Bologna 1997, pp. 25-26.
34
25
«Verso tuo marito sarà il tuo istinto (tešuqah), ed egli ti dominerà»
Qui la potenza dell’eros è espressa in termini di desiderio disordinato, di
bramosia della carne, appunto di concupiscienza. Il disordine delle relazioni è
raffigurato come una ricerca spasmodica non soltanto carnale, ma anche di
protezione e di sicurezza che l’uomo soddisferà esercitando sulla donna il
dominio datogli dalla sua forza fisica e dalla sua natura, meno emotiva e più
razionale.
Secondo Ravasi, «l’autore jahvista vede innanzitutto nei dolori del parto (cf.
Is 26,17) un segno della disarmonia che corre nella relazione della coppia: la
donna, nella visione semitica, diventa tale proprio col partorire ed è proprio lì che
si rivela il male, lo squilibrio, lo squarcio introdotto dal peccato, attraverso il segno
delle doglie. L’altro dato che rivela lo spezzarsi del rapporto uomo-donna dopo il
peccato tocca esplicitamente la relazione sessuale. Prima del peccato essa era
rappresentata come dialogo e unione; era la continua e magica scoperta di essere
“una carne sola”, di essere l’uno nell’altra, di essere in comunione profonda di vita
(cf. Gn 2,23). Ora, invece, tutto è retto dall’istinto, dalla pulsione, dalla tešuqah
appunto, a cui si accompagna il possesso brutale del maschio nella donna: il verbo
“dominare” (mšl) in ebraico è usato per i potenti, i re e i tiranni»35.
Molti pensatori, anche cristiani, in passato sono ricorsi a versetti come
questo per dare una giustificazione teologica alla “instabilità emotiva” femminile
ed alla “superiorità” maschile, ciò che di conseguenza fondava la prevalenza del
marito sulla moglie nel rapporto di coppia e del “pater familias” nel contesto
familiare e sociale.
Eppure vi è un altra parola biblica a fare da contraltare a questa visione
amara dell’eros:
35
RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 594.
26
«io sono del mio amato e il suo desiderio (tešuqah) è verso di me» (Ct, 7,11)
E’ la donna che parla, la giovane Sulammita protagonista del Cantico dei
Cantici, che erompe nel suo grido di appartenenza all’amato. Un acuto che più
volte risuona nel poema biblico36, ma che qui ha una sfumatura diversa,
teologicamente e antropologicamente pregnante.
Come nota Filippini nel suo
commento, «la frase è modificata nel secondo membro: dopo “io appartengo al
mio amato” non troviamo infatti il più scontato “e lui appartiene a me” ma “..e il
suo desiderio è su di me”. La donna è sempre più certa dell’amore che prova,
cresciuto e maturato nel tempo ed ancor più certa di essere amata, anzi di essere
amata con accesa passione e desiderio intenso».37
Il Cantico dei Cantici annuncia una nuova parola sull’amore umano, rivela
la possibilità di un amore non inquinato da un eros corrotto, ma anzi arricchito
dalla purezza di un desiderio che, pure acceso e intenso, realizza una comunione
più profonda.
Una passione che già erompe fin dall’inizio del poema:
«Mi baci coi baci della sua bocca!» (Ct 1,2)
dove la donna esprime l’ansia per l’incontro, la “fame” dell’amato, la ricerca del
suo respiro 38.
In Ct 2,16 la giovane dice: “il mio amato è mio e io sono sua” e in 6,3: “io sono del mio amato e il mio amato
è mio”. La nuova versione CEI riprende per intero la traduzione di Ravasi, mentre Filippini, forse con più
attinenza letterale al testo, traduce “appartengo al mio amato”. Il significato tuttavia non ne viene alterato.
37
FILIPPINI, Il Cantico dei Cantici, cit., pp. 83-84
38
Commenta Filippini che “baciare, posare le proprie labbra su quelle dell’altro è in certo qual modo
ricollegarsi col primo modo di entrare in contatto con la realtà, per conoscerla sentendone il sapore e la
consistenza, ma anche per nutrirsene, per unirvisi, per viverne. Il bacio non è mai estraneo alla voracità, ma
anche all’accoglienza e al dono. Esprime sempre un senso di fusione». FILIPPINI, Il Cantico dei Cantici, cit., p.
51.
36
27
E’ interessante notare che proprio lo stesso termine ebraico usato in Genesi
3,16 (tešuqah) per individuare la pulsione sessuale, il desiderio concupiscente, qui è
usato per indicare l’attrazione reciproca dei due amanti39.
Come nota Ravasi, «il poeta del Ct, raccogliendo quel raro vocabolo da Gn 3,16
vuole riportare la tešuqah al suo significato primordiale e creativo di “desiderio”
tenero e appassionato, sanando la degenerazione in “istinto” e “pulsione”40. [...] E’
significativo anche notare che in 7,11 avviene un altro mutamento rispetto a Gn
3,16. Là era la tešuqah della donna a tendere verso l’uomo, quasi in un bisogno di
sottomissione a cui non poteva sottrarsi; ora è la tešuqah dell’uomo ad essere
orientata verso la donna che la desidera e attende. C’è, quindi, una prospettiva
più “femminile” che, però, si risolve in un appello all’armonia, in un incontro di
parità perché la donna ha già dichiarato di appartenere al suo uomo»41.
La tešuqah biblica esprime quindi, paradossalmente, la dinamicità e la
fondamentale
ambivalenza
dell’eros
umano,
continuamente
sospeso
tra
“pulsione” e “aspirazione”, tra ricerca del piacere e aspirazione alla comunione,
tra desiderio della carne e armonia dello spirito.
Sappiamo che, in passato, l’intreccio di “pulsione” e “aspirazione” è stato
più spesso percepito come un contrasto che dilania il cuore umano, una lotta tra
l’uno, identificato con Eros, e l’altro, associato ad Agape, dove entrambi si
contendono ferocemente il campo, cercando di dissociarsi.
Il maggior interprete, nel cristianesimo occidentale, di questa lotta interiore
è stato senz’altro Agostino, che nel suo capolavoro, le Confessioni, narra, nel
Lo stesso termine lo ritroviamo in Gn 4,7 dove Jahvè dice a Caino: «se non agisci bene, il peccato è
accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo desiderio (tešuqah), ma tu dominalo».
40
«Entrambi i testi – Gn 3,16 e Ct 7,11 – parlano dell’istinto sessuale come qualcosa di donato da Dio, voluto
da Dio; ma, mentre là l’impulso della donna verso l’uomo appare come un’arma sospetta nella mano
dell’uomo, qui la consapevolezza di essere così ardentemente desiderata da lui serve soltanto all’aumento
della compiacenza di sé della donna». RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit, p. 595
41
ibidem. Filippini accosta questa dichiarazione di reciproca appartenenza degli amanti ad una nota
esortazione di S. Paolo: “Siate sottomessi gli uni agli altri” (Ef 5,21). Un accostamento che non è poi così
paradossale, poiché il metro di giudizio è sempre l’amore.
39
28
travaglio della propria esperienza di conversione, la sua lotta tra la carne e lo
spirito42.
Oggi possiamo dire che Genesi 3,16 e Cantico 7,11 rappresentano due
atteggiamenti emblematici dell’esperienza amorosa, due fuochi di un ellisse nel
quale si spande la storia delle relazioni tra uomo e donna.
Il desiderio sessuale ha in sé una forte carica “pulsionale” e non può non
averla, poiché, così come avviene nelle specie animali, l’attrazione verso l’altro
sesso è necessaria alla riproduzione della specie.
Tuttavia l’essere umano si
differenzia dalle specie animali proprio per il fatto che non c’è in lui un istinto
sessuale predeterminato. I comportamenti sessuali umani non sono rigidamente
determinati dai periodi fecondi e infecondi, come negli animali, ma sono anch’essi
orientati dal desiderio, a sua volta condizionato dalla libertà.
«Propriamente parlando, non c’è istinto sessuale nell’uomo. Nessuna condotta
dell’uomo è il risultato di un semplice meccanismo corporeo. Tutti i nostri gesti
partecipano a modo loro a questa unica attività di spiegazione e significazione che
siamo noi-stessi»43.
Questa affermazione di Merleau-Ponty, sulla cui analisi
convengono psicologi, sessuologi e fenomenologi moderni, evidenzia che le
condotte sessuali umane non possono essere comprese solo come sequenze
comportamentali di un concatenamento automatico di riflessi.
Illuminante, a questo proposito, la riflessione del Lacroix:
Il grande filosofo cattolico francese Jean Guitton, acutamente rileva che «sant’Agostino non sarebbe stato
tanto imitato e amato se l’anima e la carne latine non si fossero riconosciute in lui. In Agostino avevano
concorso ad acutizzare al massimo la divisione tra carne e spirito quel suo temperamento sensuale, quella
parte manichea della sua vita in cui aveva canonizzato la propria natura, la lettura di san Paolo, l’esperienza
di una conversione quasi improvvisa, l’opposizione a Pelagio, il monaco bretone pieno di ottimismo, che, pur
ammettendo il conflitto tra la carne e lo spirito, credeva che per eliminarlo bastassero la volontà e l’ascesi. A
causa di tante circostanze concomitanti, cui si dovrebbe aggiungere il fascino di una natura scavata
dall’amore, sant’Agostino ebbe la sorte di diffondere per così dire una nube luminosa, nella quale visse il
Medio Evo e che nel secolo XVI si trasformò in pioggia temporalesca. Nella mentalità di Agostino la carne e lo
spirito apparivano come due regni contrapposti, e l’uomo sembrava lacerato tra due costrizioni e due
attrattive. La libertà consisteva nello scegliere tra queste o piuttosto nel registrare la spinta più forte. La storia
di questo conflitto sarà la storia dell’agostinianesimo, latente nella tradizione occidentale. Quante
deformazioni derivate dalla deformazione iniziale!». Jean GUITTON, L’amore umano, Rusconi, Milano 1989,
pp. 56-57.
43
M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, citato in LACROIX, il corpo di carne, cit., p. 212.
42
29
«Come concepire, per esempio, la relazione fra eccitazione, desiderio ed
emozione? Il punto di vista più banale consisterebbe nel porre l'eccitazione al
primo posto, con una determinata situazione (visiva, tattile, olfattiva...) che
suscita nell'organismo dei processi, ormonali per esempio, che saranno causa
di concupiscenza, che sarà interpretata in termini di desiderio e provocherà
infine un turbamento soggettivo chiamato emozione. E se invertiamo la
prospettiva? Se l'emozione fosse per prima? Se all'inizio ci fossero la
profondità di uno sguardo, la qualità di una presenza, la forza di una parola
che accompagna la grazia di un volto? Una simile vicinanza o rivelazione
susciterebbe allora una emozione, cioè un turbamento affettivo globale di
tutto il soggetto, soggetto carnale e sessuale, attraverso il corpo del quale
l'emozione si traduce e si esprime come desiderio. L'eccitazione genitale sarà
allora la manifestazione sessuata e sessuale di questo turbamento. Dalla prima
alla seconda sequenza, la relazione fra il desiderio e l'eccitazione è passata
dall'ordine della causalità a quello dell'espressione»44.
Il punto di vista che l’autore esprime è quello di ripensare in maniera
”trasversale” la relazione tra il carnale e lo spirituale, dove eros e agape non sono
rigidamente dissociati ma si ricongiungono, in un’unità dinamica, nel “soggetto
incarnato”.
Se il desiderio fosse, in ultima istanza, compreso come effetto, come risultato di un
bisogno, o dell’istinto, delle forze pulsionali che ruolo giocherebbe allora la libertà
nella costruzione dell’io? L’uomo sarebbe veramente libero oppure determinato
alla fine dai meccanismi delle sue pulsioni? Certe teorie freudiane del desiderio e
del piacere, come sappiamo, hanno condotto a pensare l’uomo come condizionato
in profondità dalle sue pulsioni45.
L’accentuazione dell’opposizione tra la
LACROIX, il corpo di carne, cit., p. 213.
Emblematica in proposito la definizione che Freud dà del desiderio nella Interpretazione dei sogni:
«l’immagine mnesica di una certa percezione rimane associata alla traccia mnesica dell’eccitazione risultante
dal bisogno. Non appena questo bisogno sopravviene di nuovo, si produrrà, grazie al collegamento che è stato
stabilito, una mozione psichica che cercherà di reinvestire l’immagine mnesica di questa percezione e anche di
rievocare questa percezione, cioè di ristabilire la percezione della prima percezione: una simile mozione è ciò
che chiameremo desiderio; il riapparire della percezione è il compimento del desiderio». S. FREUD,
L’interpretazione dei sogni, citato in LACROIX, Il corpo di carne, cit., p. 214. Bisogna dire in effetti che, Freud,
non fu un “determinista”, credeva che la ragione potesse esercitare un ruolo nella moderazione delle forze
pulsionali. In Il disagio della civiltà (1929) afferma, in modo chiaramente ‘illuministico’ che l’ideale “sarebbe
una comunità che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione”. Tuttavia l’approccio
freudiano alla sessualità ha suscitato e continua a suscitare un vasto dibattito scientifico. Victor Frankl, il
grande psicologo fondatore della logoterapia, qualificherà la teoria freudiana del desiderio come
44
45
30
coscienza e il corpo, (o tra l’”io e “questo”, per dirla con il Lacroix) ci riconduce
però nel dualismo dal quale ci vorremmo liberare:
«“io” sarà collocato dalla parte della coscienza e “questo” dalla parte del
corpo. A meno che l’”io” non venga percepito come emanazione del “questo”
e non si risolva finalmente in lui: ritorno al monismo»
monismo ovvero, una visione puramente materialistica dell’uomo, il quale si
risolve nei suoi bisogni.
La storia però si incarica di dimostrarci che l’uomo non si realizza nel puro
soddisfacimento dei suoi bisogni, anche dei più raffinati. Il desiderio, che ha in sé
indubbiamente, come abbiamo visto, una carica pulsionale, vuole ricercare una
integrazione propriamente umana, integrato cioè o integrabile in una relazione fra
persone degna di questo nome.
Lo psicologo Victor Frankl arriva alla conclusione che:
«Non sono le pulsioni che muovono la persona: al contrario, attraverso gli
istinti, è sempre la persona che fa udire la sua voce. Gli istinti umani sono
sempre già personalmente orientati».
Certo, può accadere, che il dinamismo spirituale non si sviluppi, che la libertà non
venga esercitata e il soggetto resti dominato dalle forze oscure, che Frankl
qualifica come “istinti”, ma
«ogni volta che l’uomo si lascia condurre dai suoi istinti, si lascia precisamente
condurre, cioè abdica in quanto essere libero per essere assolto in quanto
essere determinato, cosa che è caratteristica del modello di comportamento
tipicamente nevrotico: l’abdicazione di un io in favore del ciò».46
“monadologia”: «E’ come se l’uomo non esistesse che per soddisfare i suoi bisogni, cioè, in fin dei conti, sé
stesso».
46
V. FRANKL, La psicoterapia e la sua immagine dell’uomo, citato in LACROIX, Il corpo di carne, cit., pp. 217-218.
31
Il desiderio allora, più che bisogno è “domanda, richiamo, grido”. E’ movimento
verso l’altro, non verso un oggetto, ma verso un soggetto, ricerca di una persona,
verso l’altro-da-sé; per dirla ancora con il Lacroix, il desiderio non parte da un
“corpo somatico verso un altro corpo somatico per prolungarsi nella soggettività,
ma va da un soggetto carnale ad un altro soggetto carnale”.
In un passo del Cantico, la giovane Sulammita esprime plasticamente
questo “grido”, in cui racchiude il suo intenso desiderio verso l’amato, verso tutta
la sua persona; dopo aver contemplato lo splendore del corpo dell’uomo,
soffermandosi poeticamente sui particolari, prorompe in un’esclamazione che
sembra voler abbracciare tutti i dettagli in uno sguardo unitario:
“Lui tutto è il desiderio stesso!” (Ct 5,16)47
L’amato è la sintesi di tutto ciò che si può desiderare e tutto il suo essere
costituisce, per usare le parole di Ravasi, l’”ipostasi” del desiderabile, in una
“esperienza magica di totalità, di abbandono, di unione, in cui si percepisce la
persona dell’amato come la personificazione della dolcezza e del desiderio”48.
Giunti a questo punto, possiamo aprire un altro capitolo per scoprire un altro
attore fondamentale della relazione: il corpo.
La nuova versione CEI riprende alla lettera la traduzione del versetto che ne dà Filippini: «Egli è tutto
delizie!». Anche se in questa versione, non trascolora il significato del gusto e della carnalità dell’incontro,
tuttavia si avverte meno, rispetto alla versione del Ravasi, quella sfumatura di senso del “grido”, del
“richiamo” del desiderio che vuol raggiungere tutta la persona a cui abbiamo fatto riferimento.
48
RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 467. In termini spirituali, ci verrebbe da accostare questa ricerca
dell’amata nella persona dell’amato, all’esortazione appassionata di Paolo che annuncia il suo ritorno a
Corinto, in quella comunità che tanti affanni gli ha procurato, scrivendo: “Ecco, è la terza volta che sto per
enire da voi, e non vi sarò di peso, perché non cerco i vostri beni, ma voi” (2 Cor. 12,14).
47
32
Parola e Immagine
Constantin Brancusi, Il bacio, 1908 (Museo d’arte di Craiova)
“Fare dei due uno solo”
L’anelito alla fusione, riprodotto dalla scultura di Brancusi, ricorda da vicino il
mito degli androgini, archetipo dell’unione come totalità ritrovata.
Il bacio
appassionato annulla la distanza e fa dei due una cosa sola. L’abbraccio amoroso,
per la sua forma elementare e astratta, vi appare in tutta la sua potenza, ma anche
in tutta la sua ambiguità. Le braccia che uniscono le due figure richiamano un
lungo serpente che sembra avvinghiare più che unire. Gli amanti sono chiusi l’uno
tra le braccia dell’altro. La distanza è abolita, così come la differenza sessuale; le
figure perdono i loro connotati, diventando specularmente geometriche, divenendo
anzi un solo volto di fronte. Abolendo la dualità non aboliscono la vita? C’è posto
fra loro per lo sguardo, il respiro, il movimento?
33
Secondo il mito arcaico, gli amanti muoiono nelle braccia l’uno dell’altro. E’ forse
un caso che su questo tema Brancusi abbia realizzato un monumento funerario
(monumento funerario a Tanossa Gasserskaia, 1910; cimitero di Montparnasse, Parigi)?
34
Capitolo 2.
“Tu sei bella, amica mia… terribile come un vessillo di guerra” (Ct 6,4)
Lo sguardo sul corpo dell’altro, tra vergogna e ammirazione.
2.1.
Ambiguità del carnale.
Nel descrivere, nel capitolo precedente, alcune caratteristiche del desiderio,
la sua forza pulsionale e ascensionale, abbiamo detto che esso è fondamentalmente
ricerca non soltanto di un corpo somatico, ma di un soggetto incarnato.
Il desiderio carnale è un desiderio di “incarnazione” dell’altro, di una
conoscenza intima che si spinge fino alla ricerca dell’intimità sessuale. In senso
biblico, infatti, il “conoscere” è associato proprio all’incontro sessuale, e ciò lascia
intendere che la relazione si esprime, simbolicamente, in un rapporto
profondamente incarnato ed esperienziale.
Se il carnale va al di là del somatico, il suo significato va oltre la pura
oggettività: è indissociabile da termini come piacere, sofferenza, brivido, tepore,
appetito, ferita, sangue, nutrimento. Esso ha «una portata ontologica: nella carne
dell’altro è il suo essere stesso che è saggiato, accolto».49
Tuttavia, se pensiamo alla carnalità non possiamo non associarla alla sua
componente di fragilità e di debolezza: essa è “insieme personale e impersonale,
risplendente e oscura, afferrabile e sfuggente ad ogni presa, trascendente e
immanente”. Nella carne si rivela la presenza dell’altro, ma in essa vi può essere
anche oggettivato:
«Paradosso del desiderio, che tende verso l’altro come soggetto ma
anche verso un al di là di questa soggettività; non tende solo all’incontro,
49
LACROIX, Il corpo di carne, cit., p. 57
35
tende anche a perdersi, a smarrirsi, a provare ciò che E. Lévinas chiama
“l’ultramaterialità esorbitante” della carne dell’altro [...]. La carne ha così uno
statuto intermedio fra la materialità della cosa e la spiritualità della persona
[…]. Non siamo molto lontani dalla polisemia del termine biblico basar,
tradotto con carne, fortemente segnato dalla connotazione di debolezza e
dipendenza, di accoglienza della vita e di vulnerabilità all’appetito divoratore,
fra la “carne della mia carne” riconosciuta con un grido di gioia (Gn 2,23) e la
carne divorata…».50.
L’altro può essere quindi oggettivato nella materialità del suo corpo, nella
sua mera “carnalità”, ma anche nella “idealizzazione” del corpo o nella sua
“neutralizzazione”.
Sembra che mai come in questo tempo, il corpo sia stato
oggetto di grande attenzione. Mai come nelle nostre società (almeno quelle
occidentali sviluppate) il “ben-essere” del corpo è oggetto di cure, attenzioni,
spese: sport, ginnastica, jogging, sauna, fitness, chirurgia estetica, igiene,
massaggi, pulizia, eleganza, comodità, trattamenti di ogni genere, tutto concorre
alla modellazione del corpo secondo i canoni del tempo51.
Un’attenzione al corpo che sa di venerazione; ma il corpo venerato è spesso
un corpo idealizzato, che mette in sordina tutto ciò che ricorda le sue dimensioni
Ibidem, pp. 58-59. Nel suo film “La Carne” (1991), definito di genere grottesco, il regista Marco Ferreri mette
bene in evidenza, a mio avviso, l’aspetto di vulnerabilità della carne all’”appetito divoratore”, rappresentato
in senso paradossale dall’istinto cannibalesco del protagonista Paolo (interpretato da Sergio Castellitto) il
quale conosce la giovane Francesca (l’attrice Francesca Dellera che esprime bene la fisicità e l’opulenza del
corpo) con cui intreccia una relazione all’insegna della “voracità sessuale”. La loro relazione intima non
esprime un dialogo, non mira alla conoscenza dell’altro, né tanto meno sfocia in un legame ma si abbandona
appunto all’appetito divoratore; difatti i due si isolano dal mondo (si rifugiano in una spiaggia isolata a sud di
Roma), regrediscono fino all’accoppiamento animalesco (arrivano a fare l’amore nella cuccia del cane di lui) e
giunge fino all’epilogo della fusionalità istintiva: di fronte al tentativo di Francesca che gli comunica la sua
intenzione di interrompere la relazione e tornare in città, Paolo trascinato da un desiderio di fusione totale con
lei, non vede altra alternativa che fare a pezzi quel corpo bianchissimo e voluttuoso di donna per mangiarselo
in riva al mare davanti al sole.
51
In un articolo di una rivista femminile francese si legge:
«Prima di dissimulare i vostri corpi sotto le gonne newlook dell’inverno 1988, spolverate, lustrate, rassodate,
ma con dolcezza. Tre novità sono essenziali: Pulite a fondo la pelle, eliminando le cellule morte. Piccoli granelli
translucidi in una crema dolce alla camomilla che ha un effetto assorbente grazie al caolino [...]. Rassodate
facendo di tanto in tanto una cura di tre settimane con un gel idroalcolico. A base di caffeina non penetrante e
di siero albuminico che rende elastica la pelle, si applica soprattutto sulle zone rilassate [...]. Idratate tutti i
giorni, perché il corpo è meno ricco di ghiandole sebacee e di lipidi del viso, particolarmente a livello
dell’addome, delle gambe e dei piedi. Regioni da privilegiare con questo fluido insieme “captatore” e
“serbatoio” d’acqua, che fa brillare la pelle come le piume dell’anatra» (Le Point, 15 ottobre 1988, riportato in
LACROIX, Il corpo di carne, cit., p. 47, n. 51).
50
36
propriamente fisiche (rughe, peli, grasso, canizie, ecc.) legate al tempo e
all’invecchiamento.
Un corpo che può essere anche “neutralizzato”, cioè reso indifferenziato,
banalizzato, dove la stessa differenza sessuale non è più percepita come il segno di
una irriducibile alterità, ma relativizzata, collocata sul piano di altre differenze. E’
ciò che spesso notiamo sulle pedane delle sfilate di moda, dove gli stilisti giocano
a confondere i sessi femminilizzando l’uomo o maschilizzando la donna52.
Infine il corpo può essere reso una macchina da piegare alla moderna e
accanita
competizione
sportiva,
con l’uso
di
sostanze
dopanti
oppure
standardizzato e medicalizzato dalla scienza biomedica, con stimolazioni e
trattamenti che sconfinano nell’accanimento senza vie d’uscita.
Sullo sguardo che “medicalizza” il corpo il filosofo Umberto Galimberti ha parole
condivisibili:
«Intermediaria tra la vita e la morte, la malattia, nella sua ambivalenza
di prolungamento della vita e di anticipazione della morte, è diventata
l’oggetto specifico di quel sapere medico che è nato quando, contrapponendo
la vita alla morte, ha interrotto l’ambivalenza del loro scambio simbolico
nell’equivalenza generale della salute. Allora il corpo del malato, da soggetto
delle sedute sciamaniche e delle pratiche pre-scientifiche, è diventato supporto
di quella nuova realtà, la malattia, che il sapere medico ha prodotto come
oggetto specifico della sua applicazione. Per questo lo sguardo medico non
incontra il malato ma la sua malattia, e nel suo corpo non legge una biografia
ma una patologia, dove la soggettività del paziente scompare dietro
l’oggettività di segni sintomatici che non rinviano a un ambiente, a un modo
di vivere, a una serie di abitudini contratte, ma a un quadro clinico, dove le
differenze individuali che si ripercuotono nell’evoluzione della malattia
«La moda è una dea creatrice che può permettersi di parlare di corpi mal fatti perché ha l’onnipotenza di
rettificarli, attraverso quella serie di artifici che allungano, assottigliano, gonfiano, ingrossano, diminuiscono,
affinano, fino a trasformare il corpo reale nel corpo ideale della cover-girl che non esprime il corpo di nessuno,
ma quella forma pura, quella sorta di tautologia dove il corpo non dice di sé, ma dell’indumento che indossa.
Questa onnipotenza della moda diffonde, in chi la segue, un senso di potenza illimitata e di euforia, perché
immerge in uno stato di innocenza in cui tutto è per il meglio e nel migliore dei modi». GALIMBERTI, Il corpo,
cit. p. 208
52
37
scompaiono in quella grammatica di sintomi con cui il medico classifica le
entità morbose, come il botanico le piante»53.
Il corpo manifesta una “biografia”, una storia personale. E’ il luogo della
memoria, della memoria più profonda. Conserva tracce talvolta invisibili, ma reali
di tutto ciò che la persona ha vissuto, ricevuto, provato. “Il corpo è il luogo di
registrazione della dimensione indelebile di ogni atto umano”.54
Il corpo oggettivato è un corpo che rimane “separato” o nella sua
materialità o nella sua idealizzazione, incapace di entrare in relazione.
Il corpo comunica allora la profondità di una storia solo con il soccorso del
“simbolico”55.
Come, secondo Max Scheler, la nudità è salvata dal disgusto per mezzo
del pudore, l’atto carnale non è forse salvato dalla laidezza per mezzo di una
certa qualità dello sguardo?56
Il corpo saggiato, venerato, divorato è salvato nella sua essenza dallo sguardo che
è capace di coglierne in profondità il senso, la sua storia. E’ lo sguardo che è
capace di cogliere il valore della bellezza. La bellezza è rivelazione della persona
quando il corpo è percepito a partire dal volto e questo a partire dallo sguardo.
Allora questo non è spettacolo, non è venerato come idolo, ma è “irradiazione
della presenza”, l’esteriorità non è ostacolo, ma è rivelazione dell’interiorità57.
Anche nudo, il corpo sarà rivestito dalla qualità dello sguardo che si posa su di lui.
GALIMBERTI, Il corpo, cit., p. 95
“L’azione è indelebile”, afferma il filosofo Maurice Blondel (citato in LACROIX, Il corpo di carne, cit., p. 50).
55
«Come luogo della revisione psicologica, il corpo parla simbolicamente, non nel senso in cui la psicoanalisi
parla dei simboli per ribadire un’altra separazione, quella tra conscio e inconscio […], ma nel senso di abolire
la barra che ha separato l’anima dal corpo, inaugurando la “psico-logia”. Abolire la barra significa mettere
insieme, sym-bàllein. Proponendosi come simbolo, il corpo abolisce la psicologia come storicamente s’è pensata
in Occidente, la sradica dalle sue radici storiche, che sono poi quelle metafisiche e idealistiche, e così la
costringe a pensarsi contro sé stessa». GALIMBERTI, Il corpo, cit., p. 24.
56
LACROIX, Il corpo di carne, cit., p. 60
57
Per dire di questa irruzione di una luce che non è materiale, Emmanuel Levinas usa il termine di “epifania”.
53
54
38
“Casto” sarà lo sguardo accessibile a questa bellezza. Lungi dall’essere
asessuato (eros interviene sempre nella percezione della bellezza) lo sguardo
casto sopporta la distanza e rispetta l’alterità (che non si riduce alla
differenza). Percepisce il corpo come personale ed espressivo prima di
percepirlo come oggetto del desiderio. Casto è lo sguardo che percepisce il
corpo a partire dal suo volto. La castità è libertà o, più precisamente, libertà di
fronte al desiderio58
2.2.
“Tutti e due erano nudi .. e non provavano vergogna” (Gn 2,25).
La capacità di percepire il corpo come espressione della persona, o la sua
“bellezza” si pone in relazione alla qualità dello sguardo. Il corpo ha sì un suo
“linguaggio”, ma è suscettibile di essere accolto, ammirato, oggettivato a seconda
dello sguardo con cui entra in relazione.
La difficoltà che noi abbiamo nel posare uno sguardo innocente su di un corpo
nudo è segno, per dirla con il Lacroix,
«…dell’accesso al pudore, cioè al senso dell’intimità, ma anche dei limiti
dell’unificazione in noi del desiderio e della libertà»59
Questa esperienza dello sguardo umano sulla nudità originaria è espressa nella
Bibbia nel fondamentale racconto jahvista della creazione dell’uomo e della donna
e nello sviluppo successivo alla rottura dell’alleanza con il Creatore.
Dopo il grido di gioia dell’uomo per la creazione della donna (Gn 2,23) e
l’esortazione a formare insieme una “carne sola” (Gn 2,24) il racconto biblico si
sofferma su un particolare che apparentemente sembrerebbe secondario:
Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.
(Gn 2,25)
58
59
LACROIX, Il corpo di carne, cit., p. 76
Ibidem, p. 77
39
Potremmo dire che l’uomo e la donna vivono, nello stato originario, in una
relazione di piena fiducia, di piena accettazione di sé tale che la nudità non
infonde loro alcun sentimento di paura, di timore, di vergogna.
Giovanni Paolo II, in una delle sue catechesi del mercoledì sui racconti della
creazione, afferma in proposito:
«Nello stato dell’innocenza originaria, la nudità non esprimeva carenza, ma
rappresentava la piena accettazione del corpo in tutta la sua verità umana e
quindi personale. Il corpo, come espressione della persona, era il primo segno
della presenza dell’uomo nel mondo visibile. In quel mondo, l’uomo era in
grado, fin dall’inizio, di distinguere se stesso, quasi individuarsi — cioè
confermarsi come persona — anche attraverso il proprio corpo. Esso, infatti,
era stato, per così dire, contrassegnato come fattore visibile della trascendenza,
in virtù della quale l’uomo, in quanto persona, supera il mondo visibile degli
esseri viventi (animalia). In tal senso, il corpo umano era dal principio un
testimone fedele e una verifica sensibile della «solitudine» originaria
dell’uomo nel mondo, diventando al tempo stesso, mediante la sua
mascolinità e femminilità, una limpida componente della reciproca donazione
nella comunione delle persone. Così, il corpo umano portava in sé, nel mistero
della creazione, un indubbio segno dell’«immagine di Dio» e costituiva anche
la specifica fonte della certezza di quell’immagine, presente in tutto l’essere
umano. L’originaria accettazione del corpo era, in un certo senso, la base
dell’accettazione di tutto il mondo visibile . E, a sua volta, era per l’uomo
garanzia del suo dominio sul mondo, sulla terra, che avrebbe dovuto
assoggettare (cfr Gen 1, 28)60.
L’essere umano è pienamente integrato nel suo corpo, nel contesto biblico del
racconto esso esprime la sua identità profonda.
Ma, dopo la rottura della relazione della creatura con il Creatore, simboleggiato
dal divieto infranto di mangiare dall’albero del Bene e del Male, avviene anche
una rottura radicale della relazione dell’uomo con la donna, finanche con il loro
stesso corpo.
la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e
desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne
60
GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, cit., p. 127
40
diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono
gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e
se ne fecero cinture.
Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno
e l'uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo
agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: «Dove
sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché
sono nudo, e mi sono nascosto».
Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell'albero di
cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu
mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Il Signore
Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha
ingannata e io ho mangiato» […]
Il Signore Dio fece all’uomo e sua moglie tuniche di pelli e li vestì. (Genesi 3,613.21)
La rottura dell’alleanza rende la creatura incapace di vivere fino in fondo la sua
identità profonda, il suo essere a “immagine di Dio”.
La rottura non solo
introduce lo squilibrio nel proprio corpo (“….e conobbero di essere nudi”), ma rompe
anche l’armonia con l’altro, con la donna, accusata dall’uomo di essere la
responsabile del misfatto, una responsabilità di cui, indirettamente, l’uomo
incolpa anche il Creatore (“… la donna che tu mi hai messa accanto” ).
Giovanni Paolo II a proposito della vergogna della nudità derivata dalla rottura,
così commenta:
«Le parole “ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (Gen 3,
10) testimoniano un radicale cambiamento di tale rapporto. L’uomo perde, in
qualche modo, la certezza originaria dell’«immagine di Dio», espressa nel suo
corpo. […] Attraverso queste parole viene svelata una certa costitutiva frattura
nell’interno della persona umana, quasi una rottura della originaria unità
spirituale e somatica dell’uomo. […] In tal senso la vergogna originaria del
corpo («sono nudo») è già paura («ho avuto paura»), e preannunzia
l’inquietudine della coscienza connessa con la concupiscenza. […] La
concupiscenza, ed in particolare la concupiscenza del corpo, è una minaccia
specifica alla struttura dell’autopossesso e dell’autodominio, attraverso cui si
forma la persona umana»61.
61
Ibidem, p. 130
41
Il Papa arricchisce il commento teologico al testo biblico di uno spessore
fenomenologico che ancora oggi stupisce per la sua profondità e complessità.
In un altro passo, introduce così il tema del pudore:
«Il cuore umano serba in sé contemporaneamente il desiderio e il pudore. La
nascita del pudore ci orienta verso quel momento in cui l’uomo interiore, «il
cuore», chiudendosi a ciò che «viene dal Padre», si apre a ciò che «viene dal
mondo». La nascita del pudore nel cuore umano va di pari passo con l’inizio
della concupiscenza, in particolare della concupiscenza del corpo. L’uomo ha
pudore del corpo a motivo della concupiscenza. […]. Il significato biblico e
teologico del desiderio e della concupiscenza differisce da quello usato nella
psicologia. Per quest’ultima, il desiderio proviene dalla mancanza o dalla
necessità, che il valore desiderato deve appagare. La concupiscenza biblica,
come deduciamo da 1 Gv 2, 16, indica lo stato dello spirito umano allontanato
dalla semplicità originaria e dalla pienezza dei valori, che l’uomo e il mondo
posseggono «nelle dimensioni di Dio». Appunto tale semplicità e pienezza del
valore del corpo umano nella prima esperienza della sua mascolinitàfemminilità, di cui parla Gen 2, 23-25, ha subito successivamente, «nelle
dimensioni del mondo», una trasformazione radicale. E allora, insieme con la
concupiscenza del corpo, nacque il pudore.
Il pudore ha un duplice significato: indica la minaccia del valore e al tempo
stesso preserva interiormente tale valore. Il fatto che il cuore umano, dal
momento in cui vi nacque la concupiscenza del corpo, serbi in sé anche la
vergogna, indica che si può e si deve far appello ad esso, quando si tratta di
garantire quei valori ai quali la concupiscenza toglie la loro originaria e piena
dimensione»62.
Lo sguardo inquinato dalla “concupiscenza” che si posa sul corpo suscita nell’altro
una reazione di difesa, il “pudore”, che serba in sé, dice Giovanni Paolo II, un
sentimento di vergogna. La nudità non esprime più la perfetta “comunicabilità”
del linguaggio del corpo, ma diventa invece motivo di separazione e di
incomunicabilità:
«questa vergogna che, secondo la narrazione biblica, induce l’uomo e la donna
a nascondere reciprocamente i propri corpi ed in specie la loro
differenziazione sessuale, conferma che si è infranta quella capacità originaria
di comunicare reciprocamente se stessi, di cui parla Gen 2,25. Il radicale
62
Ibidem, p. 131
42
cambiamento del significato della nudità originaria ci lascia supporre
trasformazioni negative di tutto il rapporto interpersonale uomo-donna. […]:
come se il corpo, nella sua mascolinità e femminilità, cessasse di costituire
l’«insospettabile» substrato della comunione delle persone, come se la sua
originaria funzione fosse «messa in dubbio» nella coscienza dell’uomo e della
donna. Spariscono la semplicità e la «purezza», dell’esperienza originaria, che
facilitava una singolare pienezza nel reciproco comunicare se stessi.
Ovviamente, i progenitori non cessarono di comunicare a vicenda attraverso il
corpo e i suoi movimenti, gesti, espressioni; ma sparì la semplice e diretta
comunione di sé connessa con l’esperienza originaria della reciproca nudità.
Quasi all’improvviso, apparve nella loro coscienza una soglia invalicabile, che
limitava l’originaria «donazione di sé» all’altro, in pieno affidamento a tutto
ciò che costituiva la propria identità e, al tempo stesso, diversità, da un lato
femminile, dall’altro maschile»63
Giovanni Paolo II rilegge in profondità l’episodio biblico, ne delinea i fondamenti
teologici e fa appello al carattere comunicativo e simbolico della corporeità.
Il corpo, nella condizione originaria, era capace di comunicare l’”immagine di
Dio” iscritta in esso, ma dopo la caduta, a motivo della concupiscienza, lo sguardo
non è più capace di cogliere quel “linguaggio”.
Giunti a questo punto, potremmo chiederci: possiamo considerare questa
incapacità come radicale, oggettiva, ontologica oppure, nell’ambivalenza simbolica
del corpo, questa rimane una possibilità?
Nella prima ipotesi possiamo comprendere la repulsione di certe correnti di
pensiero, che, stabilendo una vera e propria identità fra caduta originale e
decadimento sessuale, vedevano annidati nella corporeità, di per sé, i pericoli della
concupiscenza e del disordine sessuale.
Alla luce dell’esperienza fondamentale dell’ambivalenza simbolica del
corpo, come dicevamo all’inizio del capitolo, crediamo invece che lo sguardo vive
nella concreta possibilità, dell’espropriazione del suo significato. Come afferma
giustamente Virgilio Melchiorre, «il vissuto intenzionale del corporeo non è mai
63
Ibidem, p. 132
43
nel senso della mera soggettività o della mera oggettività: ad un tempo del mio
corpo posso dire nel senso dell’essere e nel senso dell’avere: “sono il mio corpo”
ma anche “io ho il mio corpo”»64, cioè a dire che vivo nel corpo e mi comprendo a
partire da questo ma che, al fine, io sono più del corpo stesso.
Emmanuel Mounier chiarisce bene questo concetto, affermando a proposito del
pudore:
«Il pudore è il sentimento che la persona ha di non essere esaurita nelle sue
espressioni e di non essere minacciata nel suo essere da chi prenda la sua
esistenza manifesta per la sua esistenza totale. Il pudore fisico non significa
che il corpo sia impuro, ma che io sono infinitamente più del corpo guardato o
preso. Il pudore dei sentimenti significa che ognuno d’essi mi limita e mi
tradisce. L’uno e l’altro pudore significano che io non son il balocco né della
natura né d’altri. Io non son confuso dall’essere questa nudità, o questo
personaggio, ma dal non sembrare che questo».65
Il corpo comunica simbolicamente un senso che trascende la pura corporeità.
Certo, nota giustamente Melchiorre che la «possibilità della scissione che è
inscritta nella duplicità simbolica del nostro esserci non implica ontologicamente
l’inevitabile, ma ha alle spalle un’eredità ed in tal senso una necessità storica»66, è
cioè una “condizione” di cui l’umano avverte tutta la pesantezza. E tuttavia la
decadenza non è ontologicamente iscritta nella corporeità. Lo ribadisce anche
Giovanni Paolo II in un’altra delle sue catechesi sul racconto biblico:
«La spiegazione di questa vergogna non va cercata nel corpo stesso, nella
sessualità somatica di entrambi, ma risale alle trasformazioni più profonde subite
dallo spirito umano. Proprio questo spirito è particolarmente conscio di quanto
insaziabile esso sia della mutua unità tra l’uomo e la donna. E tale coscienza,
per così dire, ne fa colpa al corpo, gli toglie la semplicità e purezza del
significato connesso all’innocenza originaria dell’essere umano. In rapporto a
MELCHIORRE, Corpo e persona, cit., p. 44
E. MOUNIER, Il personalismo, citato in MELCHIORRE, Corpo e persona, cit., p. 46, n. 24.
66 MELCHIORRE, Corpo e persona, cit., p. 48. Melchiorre cita in proposito anche un brano di Bonhoeffer il
quale, nell’Etica, afferma che quando nell’amore «si cerca lo sguardo dell’altro, c’è qualcosa di nostalgico; in
ogni caso è il doloroso tentativo di tornare all’unità perduta superando, con una decisione cosciente o con un
appassionato abbandono, la vergogna che è segno della separazione». Ibidem.
64
65
44
tale coscienza, la vergogna è un’esperienza secondaria: se da un lato essa
rivela il momento della concupiscenza, al tempo stesso può premunire dalle
conseguenze della triplice componente della concupiscenza67. Si può perfino
dire che l’uomo e la donna, attraverso la vergogna, quasi permangono nello
stato dell’innocenza originaria. Di continuo, infatti, prendono coscienza del
significato sponsale del corpo e tendono a tutelarlo, per così dire, dalla
concupiscenza, così come cercano di mantenere il valore della comunione,
ossia dell’unione delle persone nell’«unità del corpo»68.
Giovanni Paolo II sembra qui attribuire alla “vergogna” lo stesso significato del
“pudore”. Anche se i termini sembrano equivalersi, sottolineiamo invece, con
Melchiorre, che sussiste uno scarto tra i due significati; rileva infatti acutamente il
filosofo personalista che
«se si nota bene, la vergogna insorge non all’origine del pudore, ma quando il
pudore ha già dimesso ogni difesa; la vergogna nasce da un evento già
compiuto, mentre il pudore è un’oscillazione angosciosa che vive nella
possibilità e precede ogni compimento; la vergogna vive nella colpa, il pudore
sostiene ed invoca una positività e vive solo nella possibilità della colpa».69
Senza addentrarsi qui in una sottile disamina dei sentimenti, ci preme sottolineare
tutta la complessità di significati sottesi alla corporeità, la quale in ultima analisi
comunica un senso che la trascende solo in forma simbolica.
Ma nella Bibbia, all’”opacità” dell’esperienza sessuale dei progenitori fa da
controcanto la “solarità” del duetto amoroso degli amanti del Cantico: proprio con
i “canti del corpo” il Cantico dei Cantici raggiunge le vette più alte della poetica
dell’amore.
Riferimento alla “triplice concupiscenza” di 1 Gv 2,16 (“concupiscenza della carne, degli occhi e superbia
della vita”) già citata altrove da Giovanni Paolo II.
68 GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, cit. p. 138
69 MELCHIORRE, Corpo e persona, cit., p. 48. La lingua tedesca e inglese invece non distinguono fra vergogna
e pudore, usando lo stesso termine per l’una e l’altro (scham, shame).
67
45
2.3. Lo “splendore del corpo” attraverso la poetica del Cantico.
Nel nostro sguardo “fenomenologico” sul corpo abbiamo considerato la sua
dimensione ambivalente, il suo esprimere la differenza e l’unità, il suo essere
difficilmente “oggettivabile” o “soggettivabile” (“io sono il mio corpo”, ma anche
“io ho un corpo”) e la sua capacità simbolica di esprimere un linguaggio che parla,
per usare le parole di Giovanni Paolo II, attraverso la “mascolinità e la
femminilità”.
A questo proposito il Papa parla anche di una vera e propria
“teologia del corpo”, cioè della sua capacità di rivelare l’uomo e, allo stesso tempo,
di rivelare Dio; nel momento in cui lo costituisce come persona, il corpo lo
costituisce «come essere che anche in tutta la corporeità è “simile” a Dio».70
Per
Giovanni Paolo II quindi il problema antropologico si intreccia strettamente con
quello teologico:
«la teologia del corpo, che sin dall’inizio è legata alla creazione dell’uomo a
immagine di Dio, diventa, in certo modo, anche teologia del sesso, o piuttosto
teologia della mascolinità e della femminilità che, nel libro della Genesi, ha il
suo punto di partenza»71
Il Papa sviluppa quindi una nuova visione antropologica sui temi della corporeità
e della sessualità, là dove, per molto tempo, una certa teologia morale tradizionale
aveva insistito sul problema dei mezzi piuttosto che quello dei fini, o se vogliamo
sulla sfera dei comportamenti, piuttosto che quella dei valori.
Il discorso sulla “teologia del corpo” si esprime, come anche il Papa fa, attraverso
una rilettura del Cantico dei Cantici, dalla sua ricchezza letteraria e simbolica che
integra, in qualche modo, la verità antropologica delineata dal Genesi.
70
71
GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, cit. p. 60
Ibidem.
46
Il corpo che i progenitori rivestono per coprire la nudità di cui si vergognano, qui
è ammirato e descritto con sovrabbondanza di immagini, di sensazioni, di
profumi, di allusioni. Il corpo, soprattutto quello femminile, è percorso dallo
sguardo in termini estatici e poetici, è inno di lode, segno ed incarnazione della
bellezza stessa.
Ecco come lo sguardo innamorato dello sposo percorre, per usare le parole di
Ravasi, “il pianeta vivo e affascinante del corpo della sua donna” e come, a sua
volta, la donna descrive l’incanto del corpo affascinante dell’amato:
Lo sposo:
Quanto sei bella, amata mia, come sei
bella!
Gli occhi tuoi sono colombe,
dietro il tuo velo.
Le tue chiome sono come un gregge di
capre,
che scendono dal monte Gàlaad.
I tuoi denti come un gregge di pecore
tosate,
che risalgono dal bagno;
tutte hanno gemelli,
e nessuna di loro è senza figli.
Come nastro di porpora le tue labbra
la tua bocca è piena di fascino;
come spicchio di melagrana la tua
tempia
dietro il tuo velo.
Il tuo collo è come la torre di Davide,
costruita a strati.
Mille scudi vi sono appesi,
tutte armature di eroi.
I tuoi seni sono come due cerbiatti,
gemelli di una gazzella,
che pascolano fra i gigli.
Prima che spiri la brezza del giorno
e si allunghino le ombre,
me ne andrò sul monte della mirra
e sul colle dell'incenso.
Tutta bella sei tu, amata mia,
e in te non vi è difetto. (Ct 4,1-7)
La sposa:
L’amato mio è bianco e vermiglio,
riconoscibile fra una miriade.
Il suo capo è oro, oro puro,
i suoi riccioli sono grappoli di palma,
neri come il corvo.
I suoi occhi sono come colombe
su ruscelli d’acqua;
i suoi denti si bagnano nel latte,
si posano sui bordi.
“Le sue guance sono come aiuole di
balsamo dove crescono piante
aromatiche,
le sue labbra sono gigli
che stillano fluida mirra.
Le sue mani sono anelli d’oro,
incastonati di gemme di Tarsis.
Il suo ventre è tutto d’avorio,
tempestato di zaffiri.
Le sue gambe, colonne di alabastro,
posate su basi d’oro puro. Il suo aspetto
è quello del Libano, magnifico come i
cedri.
Dolcezza è il suo palato; egli è tutto
delizie!
Questo è l’amato mio, questo l’amico
mio, o figlie di Gerusalemme. (Ct 5,1016)
47
Giovanni Paolo II commenta così questo incontro, alla luce della sua teologia del
corpo:
«Perfino un’analisi sommaria del testo del Cantico dei Cantici permette di
sentire in quel fascino reciproco il linguaggio del corpo. Tanto il punto di
partenza quanto il punto d’arrivo di questo fascino — reciproco stupore e
ammirazione — sono infatti la femminilità della sposa e la mascolinità dello
sposo nell’esperienza diretta della loro visibilità. Le parole d’amore,
pronunciate da entrambi, si concentrano dunque sul corpo, non tanto perché
esso costituisce per se stesso sorgente di reciproco fascino, ma soprattutto
perché su di esso si sofferma direttamente ed immediatamente
quell’attrazione verso l’altra persona, verso l’altro «io» — femminile o
maschile — che nell’interiore impulso del cuore dà inizio all’amore.
L’amore inoltre sprigiona una particolare esperienza del bello, che si accentra
su ciò che è visibile, sebbene coinvolga contemporaneamente la persona
intera. L’esperienza del bello genera il compiacimento, che è reciproco»72.
La lettura simbolico-sacramentale del Cantico fatta propria dal Papa non è
stata in passato molto praticata. Sappiamo bene le ritrosie, i pudori ed il disagio
con cui molti teologi, biblisti, religiosi hanno affrontato queste pagine, dense di
richiami erotici; non così i mistici che invece si sono abbeverati a questo poema,
traendo spunto per una contemplazione spirituale del rapporto d’amore, applicato
sovente allo Sposo-Cristo e alla Sposa-Chiesa.
Da un punto di vista esegetico, possiamo riassumere in tre i principali
orientamenti di interpretazione del testo.
L’orientamento allegorico è il filone più antico e tradizionale, dove appunto la
realtà dell’amore umano diveniva solo il pretesto per entrare nell’estasi del
rapporto d’amore tra Dio e l’anima o tra Cristo e la Chiesa od anche tra Dio e il
suo popolo. Per usare le parole di Salvino Leone, è “il più tranquillo” poiché “non
turba le coscienze messe a disagio dal tenore sensuale di certe immagini e si
72
Ibidem, p. 414
48
inserisce molto bene nell’ormai assodata allegoria matrimoniale dell’amore di
JHWH per il suo popolo”73.
L’interpretazione allegorica più antica risale alla prima esegesi ebraica, in
particolare alcuni indizi li ritroviamo già alla fine del I sec. negli apocrifi Vita di
Adamo e IV libro di Esdra74. Il vertice dell’interpretazione allegorica rabbinica va
piuttosto ricercato nei Targum, parafrasi aramaica del testo biblico, i quali, nel
Cantico, identificavano un itinerario simbolico delle tappe storico-salvifiche di
Israele, spinto a volte fino ad un vero e proprio delirio di immagini simboliche che
identificavano nella sorella piccola Abramo, nei due seni Mosè e Aronne, nel
giardino chiuso le coppie coniugate, ecc75.
Anche in ambito cristiano, da Origene ai Padri della Chiesa a San Bernardo,
sono molti gli esempi di questo tipo di lettura; sul brano sopra citato, in particolare
sul v. 3, riportiamo un esempio di commento allegorico, condito di preoccupazioni
morali, fatto da un padre domenicano del XIII secolo, Umberto da Romans:
«Della sposa di Cristo si dice giustamente: Come nastro di porpora le tue labbra,
poiché, come il nastro stringe un’abbondante capigliatura, così le labbra della
sposa di Cristo devono evitare parole superflue e avere un sigillo che chiude
la bocca come la Vergine gloriosa di cui, nel Vangelo, non si leggono che sette
parole e tutte edificatorie»76.
Anche in tempi più recenti, un maestro della spiritualità come Divo Barsotti non si
è mai stancato di proporre il filone allegorico-spirituale come quello più adatto per
la comprensione del Cantico. Commentando infatti il duetto amoroso degli sposi
S. LEONE, Eros e Amore. Una rilettura biblica a fondamento di un nuovo orizzonte etico, Bonomi, Pavia 1996, p.
46.
74 Nel primo si legge di Adamo che, prima di essere cacciato dal Paradiso chiede quattro degli aromi
menzionati in Ct 4,14; nel secondo il popolo di Dio è designato come “vigna, giglio, colomba”. Cf. LEONE,
Eros e Amore, cit., p. 47.
75 «Quanto è lontana da questa serena bellezza l’interpretazione targumica che nei capelli della donna vede i
“piccoli”, i “poveri, deboli, miseri”, “il popolo della terra”, secondo una liberissima allegoria». RAVASI, Il
Cantico dei Cantici, cit., p. 351.
76 Umberto DA ROMANS, predica alle religiose di clausura, citato in RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 356
73
49
del cap. VII, che ripropone un’ulteriore “canto del corpo femminile”, il Barsotti
afferma:
«È proprio il carattere anche troppo sensuale di questo quinto poema [i capp.
VII-VIII] che esige una interpretazione spirituale. Gli altri poemi avrebbero
potuto essere ispirati da Dio nel loro senso letterale, perché Dio ha voluto
anche l’amore umano e lo ha santificato. Ma è difficile accettare che possa
essere ispirato questo quinto poema, se non lo si interpreta in un senso tipico e
spirituale, in quanto vuol significare precisamente l’unione di Israele con Dio e
conseguentemente dell’anima col Verbo.
Alcuni versetti sono sconcertanti per una loro crudezza. E già col commento di
questi versetti siamo sforzati ad entrare in un piano di interpretazione
allegorica.
La donna che è amata, non può essere altro che la terra di Israele e il suo
popolo. Lo sposo è Jahwe, che inizia l’elogio della sposa che ama,
rassomigliando la sua amica, la sposa, a Tirza e a Gerusalemme. […] Il popolo
che Dio ama, è il popolo di Israele che ritorna ad essere uno nell’èra
messianica, come era stato uno al tempo di David. Tutte le promesse di Dio
fatte a Israele annunciavano che Egli non soltanto avrebbe richiamato da
Assur e da Babilonia i deportati, ma annunciavano che Israele e Giuda si
sarebbero riuniti e avrebbero formato di nuovo un solo regno e una sola
nazione.
La sposa non è solo Gerusalemme e non è Tirza, ma è Tirza e Gerusalemme
insieme a significare precisamente la riunione del regno di Israele con Giuda,
che si sarebbe compiuta nel tempo messianico, quando anche si sarebbe
compiuta la nuova e definitiva alleanza, o meglio quando l’alleanza di Dio col
suo popolo avrebbe avuto la sua consumazione»77.
Il secondo orientamento, decisamente moderno, è quello naturalistico-erotico,
il cui comune denominatore è dato dal fatto che il Cantico “significa esattamente
ciò che dice”, cioè un poema erotico. Pur tra diverse sfumature, questa lettura
esclude deliberatamente ogni significato religioso, esasperando spesso l’esegesi in
chiave pansessualista. Questo tipo di esegesi che si affanna a ricercare ovunque
significati erotici può rivelarsi tuttavia non meno artificiosa di un’interpretazione
esasperatamente allegorica78.
D. BARSOTTI, Meditazione sul Cantico dei Cantici, Queriniana, Brescia 1980, pp. 142-144.
Lo stesso Guido Ceronetti, considerato, a torto, il principale esponente di questo orientamento, sembra
riconoscere che l’esegesi letterale deve spiccare il salto verso una realtà Altra: “la lettura in chiave erotica del
Cantico è la più sicura, ma non ha senso se il letto degli amanti non è illuminato da una piccola lampada che
77
78
50
Il terzo orientamento, quello simbolico, è quello che ci appare più attendibile
e suggestivo, avvalendosi della categoria interpretativa del “simbolo” come via
alla comprensione profonda del testo. Simbolo, da intendersi “in senso tecnico
come l’adozione di una realtà nel suo valore primario, immediato e concreto con
un’apertura a potenzialità ulteriori”79 ciò che lo differenzia da “segno” il quale può
indicare un’altra realtà in via convenzionale e immediata (es. le parole di una
lingua, un cartello stradale, ecc.).
Nel contesto letterale del poema viene quindi descritto un amore vero,
appassionato, pieno che nell’attuarsi realizza, simbolicamente, l’amore tra Dio e il
suo popolo, tra Cristo e la sua Chiesa.80
Anche noi ci siamo ricollegati a questo orientamento, attraverso la magistrale
lettura che ne dà il Ravasi il quale, ponendosi sulla scia di Giovanni Paolo II,
rilegge appunto il Cantico in un’ottica simbolico-sacramentale, arricchendo e
ampliando l’interpretazione del Papa con tutta la sua poliedrica capacità
comunicativa e la sua profondissima conoscenza linguistica e culturale81. Secondo
il Ravasi,
«Il corpo è sempre più nel Ct un grande strumento di comunicazione
spirituale. Lo è non in forma allegorica, attraverso la ricerca esasperata di
metafore morali o mistiche, ma in forma autenticamente simbolica per cui
ogni dimensione concreta acquista significati ulteriori di vita, di tenerezza, di
amore, di dialogo»82.
ne rischiari, attraverso i trasparenti amori, il Nascosto”. G. CERONETTI, Il Cantico dei Cantici, citato in
LEONE, Eros e Amore, p. 48
RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 163.
«E’ proprio questa paradossale “assenza di JHWH”, questa immanente e carnale umanità la chiave di
lettura del testo, la via che dal visibile conduce all’invisibile, rivelando, nella realtà umana, il disegno e
l’attuazione del volere divino. […] Un filo invisibile lega allora il racconto di Gn 2,17 a Ef 5,21 e il raccordo
passa proprio attraverso il Ct: dalla prima Alleanza della Creazione alla nuova Alleanza in Cristo attraverso la
quotidiana realizzazione dell’alleanza coniugale». LEONE, Eros e Amore, cit., p. 49.
81 Non per caso, verrebbe da dire, l’attuale Papa, Benedetto XVI, ha chiamato il Ravasi in Vaticano,
nominandolo presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura.
82 RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 356.
79
80
51
Nel linguaggio amoroso del Cantico, l’elemento centrale rimane quindi il
corpo nel suo valore di segno simbolico. Un esempio di questa lettura calda e
appassionata dell’esperienza del corpo è il commento di Ravasi al v. 5 che merita
di essere riportato un po’ più diffusamente, sorvolando sugli aspetti meramente
esegetici:
«Il ritratto in miniatura della donna che il poeta ha iniziato a disegnare dagli
occhi e dai capelli col v. 5 giunge al petto, ai «due seni». […] La
rappresentazione dei seni della donna è realizzata con tenerezza e delicatezza.
Mobili e perfettamente gemelli, rimandano a una coppia di cerbiatti che
balzano, pieni di vitalità, su un campo di gigli: la tunica col suo colore diventa
in questo modo l’ambito nel quale i seni liberi della donna si muovono
seguendo i movimenti del busto. Un erotismo delicato, appena accennato, che
non conosce volgarità, insistenze, malizie ma neppure ipocrisie. Un erotismo
che si affiderà solo all’allusività più sobria quando, come vedremo nel v. 6, si
giungerà a rappresentare anche la sessualità della donna».
Più oltre, al termine del v. 6, là dove si prefigura allusivamente l’abbraccio
desiderato dell’amato con la sua donna, tratteggia così la scena:
«Egli la stringe a sé sentendone i seni, con gioia ed ebbrezza, aspirandone il
profumo. Nella freschezza dell’alba tutte le reazioni e le emozioni si caricano
di trasparenza e di liberta serena, è come varcare le soglie di un mondo
misterioso, è un viaggio nel pianeta incantevole dell’intimità. […]
Tutto il corpo è ora posseduto visivamente e tattilmente ma anche
spiritualmente in un dialogo perfetto, in un’esperienza di bellezza assoluta e
intatta, in un’intensità che è fisica e spirituale e che attua il detto di Gn 2 24
secondo cui «i due saranno una carne sola». E’ solo l’incapacità a vivere e a
rispettare la corporeità, sono gli eventuali atavici complessi a far considerare
una simile interpretazione, così coerente e spontanea, come “oscena”»83
Anche Filippini commenta questo passo sulla scia dell’interpretazione simbolica:
83
Ibidem, p. 360-363.
52
«In questi capitoli centrali del Cantico l’erotismo raggiunge il suo acme, ma
quanto più la poesia scende nei misteri della carne, tanto più si fa mistico il
senso “altro” della lettera e lo spirito bacia il Totalmente Altro che non può
essere colto se non per speculum in aenigmate (1 Cor 13,12)»84.
Dato il valore simbolico del corpo nell’antropologia biblica, l’intreccio tra le due
dimensioni (corporea e spirituale) è inestricabile e rifugge da ogni tentazione
dualistica. L’esclamazione finale dello sposo al v. 7 (“Tutta bella sei tu, amata mia, e
in te non vi è difetto”) abbraccia quindi la totalità dell’essere, a partire dal segno
della corporeità.
L’itinerario del Cantico non vuole costruire un “ritratto di membra
avvinghiate in un amplesso né un’eterea raccolta di anime”, ma un percorso
simbolico che fa perno sulla corporeità e sulla relazione d’amore per scoprirvi ed
esaltare un Oltre un Altro trascendenti. Nel corpo infatti, per riprendere ancora
l’interpretazione del Ravasi, «si intrecciano le tre grandi esperienze dell’autentica
relazione umana: la sessualità con la sua fisicità e istintività, l’eros che è tenerezza,
bellezza e passione e infine l’amore, l’ahavah che è donazione reciproca totale e
assoluta, quella che nel Nuovo Testamento sarà espressa con la parola greca
agàpe».85
Nel percorso che abbiamo intrapreso, dobbiamo però passare anche
attraverso la fase “drammatica” dell’amore, là dove vivono la sue ambiguità ed
oscurità, i suoi slanci e le sue chiusure, dove riemerge la sua radicata
“ambivalenza”.
84
85
FILIPPINI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 69
G. RAVASI, “Il Cantico dell’amore”, in Corriere della Sera, 28 marzo 2007.
53
Parola e Immagine
Qualità dello sguardo
Il corpo femminile è una delle immagini
preferite dagli artisti per evocare l’idea
della bellezza.
greca,
i
Come nella classicità
pittori
del
Rinascimento
raffigurano il corpo femminile secondo i
canoni delle proporzioni armoniche. Il
Giorgione, Venere, 1508 (Gemaldegalerie Dresda)
nudo evoca una bellezza “oggettiva”,
maestosa, giovane, armonica, raffigurata in pose plastiche e immersa spesso nel
fascino di una natura “paradisiaca”. La “Venere dormiente” del Giorgione è un
esempio di quest’arte che invita lo spettatore ad una pura contemplazione estetica.
La bellezza raffigurata da Rembrandt nella sua Betsabea (nella realtà l’amante
dell’artista,
Hendrickje
Stoffels,
l’umile serva che ha consolato la
sua vedovanza), non proviene ai
nostri occhi dalla sua conformità ai
canoni della bellezza classica e
nemmeno dall’originalità della sua
posa. Non risparmia di mettere in
mostra imperfezioni e difetti fisici.
Essa tuttavia trasmette, attraverso
un sapiente dosaggio di colori, luci
e
Rembrandt, Betsabea, 1665 (Museo del Louvre Parigi)
ombre,
un
effetto
realistico
attraverso cui emana una forte
carica di umanità.
54
E’ una bellezza che proviene dalla qualità dello sguardo che si posa su questo
corpo nudo, resa sensibile dalla luce dorata che rinvia ad una profondità, rievocata
dall’ombra che la circonda.
Il dipinto fu aspramente criticato dai contemporanei del pittore a causa della
rappresentazione del nudo, giudicata troppo realistica e lontana dalle armonie
della bellezza classica a cui erano abituati. Ma, lungi dall’essere impudico, questo
nudo è una celebrazione della carne, preziosa agli occhi sensibili del pittore
amante. Nessuna parte del corpo in particolare cattura lo sguardo, che invece si
mostra sensibile alla “globalità” della sua presenza. Il corpo intero diventa volto,
ci guarda quanto noi lo guardiamo.
55
Capitolo 3.
“Catturateci le volpi che devastano le nostre vigne in fiore” (Ct 2,15)
Le difficoltà e le ambiguità del rapporto amoroso
3.1.
Amore minacciato.
L’amore, come del resto tutte le esperienza della vita, si incarna con le sue
luci e le sue ombre. Raccontare le gioie e le tristezze dell’amore è stata l’impresa
ardita di folle di narratori, di poeti, di artisti, di santi e di mistici, ma anche uomini
e donne comuni i quali, anche se sprovvisti di talenti particolari, hanno saputo
cogliere in questa esperienza fondamentale, un qualcosa della verità dell’essere.
In Occidente, come abbiamo accennato nei capitoli precedenti, la storia
dell’amore si è sviluppata come una storia di conflitti e di “separazioni”: tra il
corpo e l’anima, tra la carne e lo spirito, tra il sentimento e la ragione, tra l’onore e
la passione o addirittura tra il matrimonio (considerato la “tomba dell’amore”) e la
libera convivenza.
Ancora oggi, la modernità non può fare veramente a meno di raccontare
l’amore in tutte le sue forme e in tutti i suoi linguaggi, con una evidente
predilezione per le storie più tormentate. Film e romanzi d’amore invadono la Tv
e il Cinema, canzoni d’amore, libri che raccontano storie d’amore sono i nostri
preferiti passatempi.
Se in passato si manteneva un certo riserbo sui particolari,
facendo appello alla fantasia, oggi l’attenzione, grazie ad un uso sempre più
sofisticato dei mezzi di comunicazione di massa, si accende nel raccontare ogni
dettaglio, nella precisione del realismo, nella “messinscena” del corpo, quale
potente catalizzatore di emozioni: c’è una vera e propria “industria” dell’amore
56
che lavora per esaltarlo, ma che in realtà spesso lo mercifica e ne fa un oggetto di
consumo al pari di altri beni.
Una storia come quella di Abelardo ed Eloisa, emblematica per i risvolti che
hanno coinvolto anche la coscienza cristiana del tempo86, oggi verrebbe recepita e
tradotta per il grande pubblico nel genere della “fiction”, dove il realismo e
l’elemento trasgressivo avrebbero probabilmente la meglio sul racconto della
complessità dei sentimenti e dei valori in gioco.
Tuttavia la potenza dei mezzi moderni - i quali, va detto, possono svolgere
anche un ruolo positivo nello sviluppo della comunicazione e della conoscenza87 non cancella il problema del pervertimento che, storicamente, l’eros e le relazioni
Eloisa, giovane allieva di Abelardo, chierico e brillante insegnante di teologia nella Parigi degli inizi del XII
secolo, lo ama di un amore dolce ed assoluto (tanto da chiamarlo «il mio Unico ») ed è da lui ricambiata. Essa
non ha mai rinunciato, pur nel ritiro claustrale, alla integralità ed alla profondità del suo legame, ma tuttavia
continua ad accettare dalla morale corrente la convinzione che l’amore per Dio sia del tutto eterogeneo
rispetto a quello per il proprio sposo. E, con un vigore che non sembra pari alla convinzione, essa finisce col
chiamare peccaminosa ed illusoria la sua trascorsa unione con Abelardo. Significativa in proposito una delle
sue lettere: «i piaceri dell’amore che insieme abbiamo conosciuto sono stati tanto dolci che non posso né
odiarli n dimenticarli. Dovunque vada, li ho sempre davanti agli occhi e il desiderio che suscitano non mi
lascia mai. Anche quando dormo, le loro fallaci immagini mi perseguitano. Persino durante la santa Messa,
quando la preghiera dovrebbe essere più pura, i turpi fantasmi di quelle gioie si impadroniscono della mia
anima e io non posso fare altro che abbandonarmi ad essi e non riesco nemmeno a pregare. Invece di piangere
pentita per quello che ho fatto, sospiro rimpiangendo quello che ho perduto» (Lettere d’amore, p. 190) in
MELCHIORRE, Metacritica dell’eros, cit. p. 108.
87 Mentre scriviamo, da pochi mesi è uscito nelle sale cinematografiche, uno stupefacente film della DisneyPixar, dal titolo Wall.e, candidato all’Oscar quale miglior film d’animazione. Il protagonista è un robot
spazzino, Wall.e, che vive sulla terra abbandonata dagli uomini e sommersa dai rifiuti, il quale si innamora di
un altro robottino Eve (dalle forme più “femminili”), inviato sulla terra da un astronave umana per cercare
forme di vita al fine di ricolonizzare il pianeta. Tra i due robottini si sviluppa una storia d’amore, creata con
grande maestria e tecnica d’animazione, nella quale i due sembrano “una sorta di Adamo ed Eva che si
innamorano in un Eden ormai andato in rovina e al quale, grazie al loro amore, offrono una seconda
opportunità”. Il regista del film, Andrew Stanton, in un’intervista ha addirittura dichiarato: “Ciò che
realmente mi interessava era l’idea che la cosa più umana dell’universo fosse una macchina perché è
interessata a scoprire che cosa significhi vivere più che le persone vere e proprie. Il più grande comandamento
che Cristo ci ha dato è quello di amare, ma questa non è sempre la nostra priorità. Questa premessa è per
dimostrare ciò che intendo dire: l’amore irrazionale sconfigge la meccanica programmazione del mondo.
Questi due robot stanno provando a superare le loro direttive essenziali, le finalità per le quali erano stati
programmati, per sperimentare l’amore”. Cit. in A. SPADARO, “Wall.e. Un film d’animazione alla ricerca della
verità dell’uomo”, in “La Civiltà Cattolica”, n. 3802, p.382. E’ un esempio di come l’uomo non abbia perso la
capacità di inventare storie, racconti poetici, con mezzi espressivi nuovi, per narrare la grande realtà
dell’amore.
86
57
d’amore hanno subito lungo i secoli (quella di Abelardo ed Eloisa ne è solo un
drammatico esempio).
Anche nella Bibbia, l’amore tra Dio e il suo popolo viene sovente raffigurato
prendendo a prestito immagini dell’amore umano, soprattutto nella dimensione
drammatica.
Da Osea a Baruc, passando per Isaia, Geremia e Ezechiele, si
ripropone uno schema fondamentale dell’Antico Testamento: la comunità,
solitamente
rappresentata
dalla
capitale
Gerusalemme
(spesso
con
una
personificazione poetica), viene presentata come sposa, e Dio come sposo. La città
bella è una ragazza, la città feconda e accogliente è una madre. Il Signore la prende
in sposa esigendone amore e fedeltà. In molti casi, lo sviluppo è una storia di
amore, infedeltà e riconciliazione.
Osea ci parla di un amore suo malgrado; di uno sposo innamorato e tradito,
che vorrebbe cessare di amare per non soffrire più, e non ci riesce; e torna a
corteggiare l’infedele per riconquistarla alla fedeltà. Isaia parla di una città un
tempo fedele, poi adultera, più tardi purificata dolorosamente, infine e di nuovo
fedele: «ti chiamerai città fedele» (cfr. Is 1, 21-26). Is 5, 1-7 usa la vigna per un canto
d’amore in chiave simbolica: il vignaiolo ha fatto tanto per essa ed essa ha risposto
con uva selvatica. Geremia inserisce il tema di un amore carnale, quasi animalesco,
in un’ampia liturgia o requisitoria penitenziale (Ger 2-3). Ezechiele narra una
lunga storia d’amore e disamore, di infedeltà e conversione (Ez 16). Il DeuteroIsaia, il profeta dell’esilio che incorpora il suo canto nel libro di Isaia, canta
l’infedeltà, il rifiuto temporaneo, l’amore duraturo, la riconciliazione generosa (Is
49 e 54).
Anche nel duetto amoroso degli amanti del Cantico, si insinuano ombre
minacciose e disarmonie. In un canto a due voci, dove entrambi invocano il
partner nel contesto di una incipiente primavera, lo sposo esclama:
58
Alzati, amica mia,
mia bella, e vieni, presto !
Perché, ecco, l'inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n'è andata;
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nella nostra campagna.
Il fico sta maturando i primi frutti
e le viti in fiore spandono profumo.
Alzati, amica mia,
mia bella, e vieni, presto!
O mia colomba,
che stai nelle fenditure della roccia,
nei nascondigli dei dirupi,
mostrami il tuo viso,
fammi sentire la tua voce,
perché la tua voce è soave,
il tuo viso è incantevole.
Prendeteci le volpi,
le volpi piccoline
che devastano le vigne:
le nostre vigne sono in fiore. (Ct 2,11-15)
L’esclamazione del v. 15 sembra interrompere bruscamente la scena
paradisiaca dei vv. precedenti, generando un’incrinatura che evoca bagliori di
paura88. Cosa rappresentano le “volpi” che devastano “le vigne”?
Secondo Filippini
L’amore non è perenne armonia solare e il cuore percepisce la presenza di
ombre scure. Le vigne sono minacciate dalle piccole volpi che le possono
danneggiare e persino distruggere: è dunque necessario catturarle, con una
battuta di caccia o qualche ingegnosa tagliola. Così l’amore che è sempre sotto
la minaccia di qualche predatore, ma anche dei piccoli malintesi e delle
incomprensioni fra gli amanti, va difeso con cura, avvedutezza e coraggio.
Infatti per taluni commentatori il versetto è considerato come troppo avulso dal contesto, di difficile
interpretazione e deve considerarsi quindi un’infelice inserzione redazionale. Secondo il Ravasi invece, pur
considerandolo di origine secondaria, esso si inserisce bene nel contesto, evocando una scena dal forte
contenuto simbolico. Cf. RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., pp. 263-264
88
59
Se poi è l’amore divino che va custodito, le volpi piccoline che teme l’amata
possono diventare le classiche infedeltà all’alleanza o i piccoli tradimenti o le
sottili suggestioni del Nemico89
Anche il Ravasi, con maggiore eloquenza esegetica, così commenta il brano
La scenetta ha un suo valore simbolico, come l’aveva l’immersione dell’intero
quadro nello splendore della primavera. Certo, la vigna in fiore, come si fa
sospettare in 1,6 e 8,11-12, può essere un simbolo del corpo e della bellezza
dell’amata: essa è tutta vita, freschezza, floridezza e profumo. Contro di essa
può attentare qualche pericolo, incarnato dalla volpe-sciacallo. Contro la
purezza dell’amore si scatena la forza della violenza; come su una vigna i
predatori fanno scempio, così il male può colpire l’isola beata dell’amore90.
L’allusione alla vigna era già ritornata in Ct 1,6 per evocare la bellezza della
giovane minacciata da chi non sa accoglierne il valore.
«I fratelli vogliono che lei lavori, che produca o renda, anche se questo deve
costarle la candida bellezza della carnagione; anche se il lavoro non le
permette di curarsi: «e alla vigna mia non posso più badare» (1,6). Deve
restare esposta alle intemperie, agli sguardi avidi del sole, che va annerendo il
suo biancore: «irritati con me, i fratelli miei mi misero a bada delle vigne»91
Turbamento e violenza entrano in scena anche con le guardie le quali, facendo
onore al loro servizio, dovrebbero proteggere la bellezza inerme. Lo fanno nel
corteo nuziale (cf. Ct 3,7-8), ma altre sentinelle sono infedeli al loro compito: in un
caso ignorano le richieste della giovane (Ct 3,3), in un altro si mostrano aggressive
arrivando a percuotere e ferire la ragazza, forse scambiata per una prostituta sulla
quale sarebbe stato facile scaricare le proprie voglie
FILIPPINI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 61
RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 263.
91 Luis Alonso SCHÖKEL, Il Cantico dei Cantici. La dignità dell’amore, Piemme, Casale Monferrato 1990, p. 54.
Alla fine del poema i fratelli impareranno a proteggere la bellezza minacciata della loro sorella minore (Ct
8,8).
89
90
60
“mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città;
mi hanno percossa, mi hanno ferita,
mi hanno tolto il mantello le guardie delle mura” (Ct 5,7)92.
3.2.
Nella “notte dell’assenza”
Nelle sue scene “impressionistiche”, il Cantico alterna lo splendore del giardino e
della campagna ai notturni oscuri, carichi di attesa e di sconcerto. Si direbbe che
“il timore non è completamente cancellato dall’abbraccio d’amore, la comunione
non è mai del tutto perfetta ed esige una continua purificazione che la aiuti a
superare i momenti oscuri e le crisi”93
Pensiamo alla scena descritta al capitolo 5, evocativa della presenza-assenza
dell’amato che provoca nella ragazza un turbamento interiore:
Mi sono addormentata, ma veglia il mio cuore.
Un rumore! La voce del mio amato che bussa:
«Aprimi, sorella mia,
mia amica, mia colomba, mio tutto;
perché il mio capo è madido di rugiada,
i miei riccioli di gocce notturne».
«Mi sono tolta la veste;
come indossarla di nuovo?
Mi sono lavata i piedi;
come sporcarli di nuovo?».
L’amato mio ha introdotto la mano nella fessura
E le mie viscere fremettero per lui.
Mi sono alzata per aprire al mio amato
e le mie mani stillavano mirra,
«La sobrietà del testo lascia sospesa ogni specificazione: è la storia di una violenza tracciata con poche
pennellate cupe. Tutt’intorno si stende il manto nero della notte, sotto il quale si consumano tante infamie. La
rappresentazione riflette un’amara catena di violenze, di stupri, di prevaricazioni, di ingiustizie. Ma lo fa
senza indulgere ai particolari, abbozzando un quadro essenziale e stilizzato». RAVASI, Il Cantico dei Cantici,
cit., p. 439. Interessante anche il commento dello Schökel: «[le guardie] non arrivano a più perché lei riesce a
fuggire. Ma resta lo spavento, il sussulto della paura. Perché ci sono altri modi di spogliare, con lo sguardo
morboso, o triviale, o sprezzante, o altri modi di ferire, anche senza le mani, solo con gli occhi lascivi. Come
quelli che gridavano e incitavano, riferendosi alla matrona Gerusalemme: “Denudatela, denudatela fino alle
fondamenta” (Sal 137,6)». SCHÖKEL, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 54
93 RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 415
92
61
fluiva mirra dalle mie dita
sulla maniglia del chiavistello.
Ho aperto allora all’amato mio,
ma l’amato mio se n'era andato, era scomparso.
Io venni meno, per la sua scomparsa.
L'ho cercato, ma non l'ho trovato,
l'ho chiamato, ma non m'ha risposto.
mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città;
mi hanno percossa, mi hanno ferita,
mi hanno tolto il mantello le guardie delle mura
Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
se trovate l’amato mio,
che cosa gli racconterete?
Che sono malata d'amore! (Ct 5,2-8)
L’uomo, mosso dal suo ardente desiderio d’amore, si muove nel cuore della notte
e va a trovare la sua amata. Essa non si aspetta quest’arrivo e reagisce con un
“fremito delle viscere”, cioè con un forte turbamento interiore. Ma il suo è un
turbamento di gioia, la ragazza prova un’emozione al solo pensiero dell’incontro.
Per usare le parole di Ceronetti, «le sue cavità femminili mugghiano il desiderio
finalmente ricambiato e il cuore batte forte».94 Le sue parole però appaiono fredde
all’amato che ha fatto sentire la sua voce e sta cercando di entrare. Nel cuore
dell’uomo scende un gelo interiore al pari di quello esteriore della notte.
Nonostante ciò tenta di forzare la porta che lo divide dal suo amore, ma alla fine si
allontana senza emettere parola.
Queste scene, come possiamo immaginare, hanno suscitato svariate
interpretazioni. Da quelle della tradizione allegorico e moralistica, per le quali «la
ritrosia capricciosa della donna è bastata per farvi ricamare una serie di
interpretazioni morali sulla tiepidezza e sul peccato dell’anima o di Israele nei
confronti dello sposo divino» fino a quelle di esplicito taglio erotico che nei
Citato in FILIPPINI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 76. Il noto scrittore Guido Ceronetti ha tradotto e
commentato il Cantico in chiave soprattutto sensuale-erotica, come un’inno al desiderio erotico e alla
corporeità (cf. Cantico dei Cantici, a cura di G. CERONETTI, Adelphi, Milano 1975); la sua finezza letteraria
sconfina talvolta in immagini ardite che Ravasi, ad esempio, cita spesso quasi in contrapposizione alle scene
“disincarnate” proposte dalle letture allegorico-spiritualistiche.
94
62
termini dei versetti vuole intravedere un chiaro ‘doppio senso’ sessuale. Tanto per
fare un esempio, la “mano” sarebbe un eufemismo per rimandare al fallo, (in
modo simile al vocabolo “piede”, talvolta usato in questa accezione), la “fessura”
della porta diventa una metafora per indicare la vagina, ottenendo così una
rappresentazione del coito, mentre le “viscere” della donna diverrebbero l’utero e
l’emozione dell’amata sarebbe un’eccitazione sessuale!»95
La scena potrebbe intendersi anche in senso più immediato e spontaneo:
«forse più per vezzo che per pigrizia, la ragazza si fa desiderare mostrandosi
indifferente. […] Ella oppone una resistenza che appartiene al gioco d’amore, che
conosce queste schermaglie. Esse sono il sale dell’amore ma talvolta possono
degenerare nell’incomprensione, nella gelosia: non per nulla subito dopo si fa
strada l’assenza, l’allontanamento, il silenzio»96.
Ma, in chiave simbolica, questo esitare della giovane potrebbe rivelare una
paura nascosta: quella di donarsi. Commenta in proposito Filippini:
L’amato è fuori della porta, cade il sereno e i riccioli del suo capo sono bagnati
di rugiada. È proprio la sua voce quella che supplica la sua “colomba” di
aprire, chiamandola tammatì “mia perfezione!” o come preferisco tradurre
“mio tutto!”, dato che tmm è radice che indica integrità, pienezza,
completezza. Ma lei indugia, è già nel letto, svestita, già si è lavata i piedi e
non vuole sporcarli di nuovo: un vezzo da schermaglia amorosa o un istante
di oscurità in cui si affaccia la paura di darsi? “La piena risposta alle esigenze
dell’amore non emerge ancora. La notte tenebrosa vince sulla luce
dell’Amante”97.
«Al di là della banalizzazione dell’insieme e della volgarità dell’esplicitazione, questo crittogramma erotico
avrebbe poco senso all’interno del racconto della nostra sezione, legato al tema dell’assenza. Certo, l’intimità
che l’uomo desidera ha in sé anche una dimensione fisica secondo l’unità psico-somatica dell’antropologia del
Ct. Ma non può essere quella così brutale proposta dalla lettura “erotica”, come la rappresenta anche
recentemente il citato Ceronetti che riesce a temperarla solo attraverso la sua prosa barocca e la fluidità dei
suoi asserti ma che talora la fa esplodere in modo insensato («l’Anima amante di Dio si masturba in
solitudine, sognando che l’Amato è vicino», p. 68!). In realtà si tratta di un ricamo fine di allusioni, tessuto
però su una trama chiara ed immediata: in questo velare e far balenare sta la bellezza e la forza della poesia».
RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., pp. 431-432.
96 Ibidem, p. 428
97
FILIPPINI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 76
95
63
Questa scena sembra far emergere quelle che potremmo definire le “sfasature”
dell’amore. Spesso i tempi dell’uno non coincidono con i tempi dell’altro, si
vivono ritmi diversi; l’uno può dichiararsi pronto, l’altro ha bisogno ancora di
tempo, non vuole rischiare, ha paura di concedersi totalmente. Non sono soltanto
sfasature biologiche (legate alle necessità dell’organismo), ma anche affettive,
psicologiche, spirituali.
Il grande filosofo personalista Jean Guitton ha scritto, sull’amore umano,
delle pagine di notevole acume psicologico.
Il suo percorso è filosofico e
antropologico, attento alla dimensione trascendente dell’amore.
Sulle difficoltà
dell’amore, scrive:
Poiché l’amore non si ottiene con mezzi che possiamo padroneggiare e ha
bisogno, per essere mantenuto vivo, della presenza dell’altro, è quasi
inevitabile che tra due persone unite ci siano disarmonie e, come si dice tanto
opportunamente, dissensi. A partire dal momento in cui il nostro essere non è
più concentrato con altrettanta forza nell’immagine idealizzata dell’altro (se
trascuriamo di sublimare l’amore e di farlo servire per un’opera più grande),
allora lo spirito diventa più sensibile ai piccoli disaccordi di cui fino ad allora
neppure si accorgeva. […] D’altra parte, poiché l’amore si conserva con la
proiezione dell’immagine, la presenza costante crea delle difficoltà, se tale
immagine non è continuamente rinnovata dall’anima e anche con qualche
artificio. Il fatto è che qualsiasi sentimento deve adattare un essere mutevole a
un altro essere ugualmente mutevole e quindi bisogna che anche
l’adattamento sia mutevole. Perché l’amore resista inalterato o addirittura si
elevi e si ricarichi, è bene che sia sottomesso a vincoli di tempo e di luogo, a un
alternarsi di partenze e ritorni, a scoperte successive, addirittura a crisi
inoffensive: ci pensa la vita quotidiana e, nei primi tempi, anche la civetteria.
L’istinto della donna sa che per attirare bisogna dare l’impressione di fuggire;
bisogna respingere e insieme dire, come la Sulamita, ritorna.98
Nell’episodio del “notturno”, la ragazza, a causa della sua “civetteria” o della
sua immaturità, si sente assalita dalla delusione per l’assenza dell’amato. Tuttavia
non si ferma a lamentarsi e a recriminare, non si insinuano sentimenti di amarezza
98
GUITTON, L’amore umano, cit. pp. 80-81.
64
o di gelosia, non si lascia vincere dall’orgoglio, si lancia invece alla ricerca
dell’amato nel cuore della notte, con audacia e libertà. E’ una ricerca che continua
a parlarci della tensione costante tra presenza e assenza, tra amore e desiderio 99.
Nella vita quotidiana delle relazioni amorose, queste tensioni sfociano
spesso, purtroppo, in vere e proprie crisi, in dissensi che talvolta portano alla
distruzione dell’amore, alla sua patologia.
Scrive ancora in proposito Guitton:
Perché un sentimento possa continuare a vivere, bisogna variarlo quanto più è
possibile senza spezzarne l’unità. Ecco perché da sempre l’amore (umano e
divino), quando rischia di intiepidirsi nella monotonia della presenza, sembra
ritrovare la sua giovinezza nella separazione. Infatti le sofferenze che derivano
da una prolungata lontananza costituiscono un fondamento comune che non
rischia di essere reso opaco dal disaccordo, oltre al fatto che l’assenza
ripristina l’immagine ideale e rende più sicura l’unione delle volontà. La gioia
principale dell’amore infatti non è tanto l’unità dell’essere interiore, quanto
quella condivisione costante, quel ritorno dei nostri pensieri in noi stessi dopo
essere passati attraverso l’altro, quella circuminsessione di cui è davvero
impossibile stabilire l’origine. Ma non appena un incidente, un granello di
polvere, un ritardo vengono a turbare quel ritorno dei nostri pensieri, ecco che
l’amore entra in uno stato di tormento, tanto più grave in quanto la
dissonanza proviene da un essere che ci è intimo100.
Come ben sappiamo il “granello di polvere” può diventare un macigno che
ostacola o blocca irrimediabilmente la crescita della relazione.
L’amore può talvolta tramutarsi in odio, e ciò avviene più facilmente del suo
contrario101. Così come può assumere sovente una deviazione verso il servilismo,
caratterizzato da un desiderio inconscio di farsi dominare102.
Questa tensione tra “presenza e assenza” si coglie anche nella nota parabola evangelica delle vergini sagge e
delle vergini stolte in Mt 25,1ss.. Nell’attesa dello sposo che verrà nel momento inaspettato ritroviamo
l’orientamento di fondo che il Cantico sembra trasmetterci con la scena del “notturno”: in amore occorre
essere sempre pronti.
100 Ibidem.
101 «Il dolore che ci è procurato da un nemico è dolce a paragone di quello che viene dall’amato. […] L’odio è
anche più lucido perché l’amore vede le persone quali non saranno mai, mentre l’odio le vede spesso quali
sono nel segreto e nella vergogna». Ibidem, p. 82
99
65
Una delle difficoltà più comuni dell’amore è la gelosia, forse la più
frequente. La gelosia, di per sé, può essere una conferma del carattere esclusivo e
indivisibile dell’amore. Già in precedenza abbiamo visto, parlando del desiderio
(v. sopra, par. 1.3), come l’amore implichi un sentimento di appartenenza,
simboleggiato, nel Cantico, dall’esclamazione che più volte ritorna sulle labbra
della donna: “il mio amato è mio e io sono sua”. Sempre secondo il Cantico, l’amore
non è soltanto “forte come la morte”, ma anche geloso: “tenace come gli inferi è la
gelosia” (Ct 6,8), traducono alcune versioni.103 E non c’è da stupirsi di ciò poiché
anche JHWH si definisce un “Dio geloso” (cf. Es 34,6ss), un tema ribadito in
contesto nuziale, nonché anti-idolatrico (cf. Dt 32,16.21, Zc 1,14-15, Ez 16; anche
Paolo in 2 Cor 11,2) ma soprattutto in riferimento al possesso che JHWH rivendica
nei confronti di Israele, popolo di sua proprietà (segullah).
Come già dicevamo, la gelosia è espressione del desiderio e della sua
ambivalenza, capace cioè di evocare l’esclusività dell’amore e la voglia di
appartenenza, ma anche un desiderio di “appropriazione” dell’altro, che nasconde
un istinto fusionale il quale nega, in radice, la reciproca “alterità”. La gelosia
possessiva è incapace di vivere la dimensione della distanza, vive nel culto
dell’immagine dell’altro come proiezione dell’immagine di sé, ed ha paura che
altri possano accedervi o possedere quest’immagine104.
«Questo spiega perché certe coppie siano inseparabili, anche se uno dei due soffre a causa dell’altro. Non è
raro trovare due persone unite dalla reciprocità dei difetti. Chi inconsciamente ama picchiare avrà la tendenza
a sposare una persona cui piace essere picchiata. I pazzi si attraggono e si ammaliano. Il tiranno ama la
schiava, il carnefice cerca la vittima. Inversamente, chi ama essere vittima cerca il carnefice. Ecco perché
vediamo il leoncello sposare l’agnella, il serpente affascinare la colomba e Alceste preso al laccio da una
civetta, come se ognuno volesse precipitarsi nella propria disgrazia». Ibidem, p. 84
103 Filippini, e la nuova versione CEI, mantengono al v. 8 il tradizionale “tenace come gli inferi è la passione”,
altri biblisti (Colombo) scelgono “ardore” al posto di passione, mentre Ravasi opta per “inesorabile come lo
Sheol è la Gelosia”. Quest’ultimo motiva la scelta precisando che «se a livello divulgativo e pastorale
accettiamo la resa “passione amorosa”, in un’opera più rigorosa preferiamo conservare quella “gelosia” che
nella Bibbia ha acquistato un suo preciso statuto semantico”. Anche Giovanni Paolo II, in una delle catechesi
sul Cantico, si sofferma sulla gelosia, usando questo termine nella traduzione del v. 8. Cf GIOVANNI
PAOLO II, Uomo e donna lo creò, cit. p. 431ss. Per un approfondimento esegetico del termine, si rimanda al già
citato lavoro del RAVASI (Il Cantico dei cantici, pp. 656-657).
104 «Caratteristica di questo sentimento è di far girare in tondo il soggetto dentro una sorta di cerchio da cui
non può evadere, poiché la gelosia si nutre dei minimi particolari e ne trova sempre. […] Si capisce allora il
supplizio del geloso. E’ nell’impossibilità di ricostruire la propria unità interiore, poiché la proiezione non si
102
66
Il sentimento della gelosia si può pervertire in altre forme, la più paradossale
delle quali è la gelosia invidiosa.
[la gelosia invidiosa] Potremmo chiamarla il “complesso di Caino”. E’ un
sentimento che allo stesso tempo ammira e distrugge. Può essere che i dolori
più segreti abbiano alla loro base qualche forma di gelosia di questo genere.
Non si odia tanto il male che provoca la sofferenza, quanto il bene che non si
può avere. Non si soffre tanto a causa degli altri, quanto per la propria
debolezza. E in fondo si detesta solo se stesso. Mettiamo che io, persona
mediocre, viva con un essere infinitamente buono. I suoi gesti di amicizia
possono sembrarmi rimproveri inespressi. É doloroso essere fatti oggetto di
bontà e di amore quando non si ha in sé un ugual grado di bontà e di amore.
Si sente allora il bisogno di tiranneggiare per rabbia o per disperazione.105
Già da queste brevi “pennellate” sulle difficoltà e le ambiguità delle relazioni
amorose, possiamo capire quanto è ampia la gamma dei sentimenti, delle
emozioni, dei condizionamenti che possono oscurare o deturpare l’amore. Per
riprendere l’immagine del Cantico, possiamo dire che sono molte le forme sotto le
quali si nascondono le “volpi”che devastano la “vigna”.
Senza addentrarci in un’indagine sui sentimenti umani, che ci porterebbe
lontano e richiederebbe ben altre capacità di analisi, in primis di tipo psicologico,
ci vorremmo tuttavia soffermare sui gesti che esprimono l’amore e che sono
suscettibili di esprimere la verità di un senso oppure il suo contrario.
3.3.
Una lettura “fenomenologica” dei gesti amorosi
«In che modo il senso perviene ai gesti?» si chiede il Lacroix, nel suo percorso di
riflessione fenomenologica sui gesti dell’amore. La domanda è pregnante per
capire se vi è un punto di ancoraggio della ragione per discernere i significati
compie più; così, non solo non si sente più unificato, ma per di più ha l’impressione che un altro gli abbia
rubato la sola persona che avrebbe potuto farlo felice». GUITTON, L’amore umano, cit. p. 82
105 Ibidem, pp.82-83.
67
desunti dalla fede.
Se cioè si può passare dal “descrittivo” al “prescrittivo”,
dall’antropologico al teologico, basandosi sulla osservazione degli atti e dei loro
effetti.
Lungo la riflessione che abbiamo portato avanti in queste pagine, abbiamo
sostenuto o fatto capire, che lo sguardo fenomenologico non può non muovere
dall’evidenza della realtà, ma che al fine non si può esaurire in essa.
La piena
comprensione dei fenomeni non si ferma alla loro manifestazione visibile, ma
interroga anche l’intenzione, il senso a partire da uno sguardo capace di coglierlo.
Come il corpo non si esaurisce nel “carnale”, come il desiderio va oltre l’istinto, il
linguaggio amoroso si nutre di gesti che esprimono un significato, una verità che
tuttavia non vi è puramente estrinseca.
Gesti come accarezzare, abbracciare, penetrare non possono significare qualsiasi
cosa: il loro significato non dipende solo dall’intenzione del soggetto ma anche
dalla struttura oggettiva del corpo, delle membra e degli organi: la mano
articolata-articolante, il braccio capace di avvolgere, forma e durezza del pene,
forma e ricettività attiva della vagina... Senza parlare qui delle sedimentazioni
di senso e delle valorizzazioni psicoaffettive di questo corpo che è nella sua
interezza memoria vivente di una storia. I gesti e le membra che li supportano
se non proprio di significati «già dati», sono caricati almeno di potenzialità di
senso. Sono anche suscettibili di verità o di menzogna. Non sono dunque
estranei alla problematizzazione etica106.
Ogni atto umano, quindi, è “significante”, ha in sé una potenzialità di senso. Il
problema fenomenologico è quindi strettamente intrecciato con quello etico.
Il pensiero moderno, come sappiamo, è decisamente allergico a riconoscere un fine
intrinseco al corpo ed ai suoi gesti, rifugge da qualsiasi finalismo che può
contraddistinguere,
invece,
le
interpretazioni
teologiche.
Tuttavia,
anche
rimanendo su un piano puramente antropologico, non possiamo non riconoscere
che ogni condotta umana è, almeno potenzialmente, portatrice di senso, contiene
106
LACROIX, il corpo di carne, cit. p. 118
68
un irriducibile significato. Se il semplice gesto di alzare la mano o di sedersi ha un
senso, quanto più ne avrà quello di carezzare o abbracciare.
Occorre che la comunicazione si traduca nel gesto, nel sorriso, in un certo
atteggiarsi dei corpi, in certe sfumature degli occhi e delle labbra: allora ciò
che viene messo in questione è già la concreta realtà dei soggetti, la loro
determinatezza e la loro più personale prospettiva.107
Prendiamo, ad esempio, la carezza.
La carezza, come afferma giustamente il
Lacroix, non è “soltanto un momento intermedio per giungere alla tappa ulteriore
dell’unione o accrescere l’intensità del godimento. E’ già un atteggiamento nei
confronti dell’altro. Il soggetto che accarezza è nella sua carezza, nella sua
mano”108.
Nella carezza è implicata tutta la persona, non soltanto il movimento delle mani,
ma il respiro, lo stesso sguardo, il corpo in tutta la sua apparente esteriorità. Per
dirla con Sartre, “il desiderio si esprime con la carezza come il pensiero con il
linguaggio”109.
Nella carezza si profila quasi un desiderio di “incarnazione” dell’altro, una
sollecitazione ad entrare in contatto con lo spessore della sua presenza.
Melchiorre ne fa emergere gli aspetti di “seduzione”
La carezza è seduzione, nel significato radicale e non ancora negativo del
termine: un condurre con sé verso di sé (secum ducere) un convincere l’altro a
seguirmi nella direzione che io rappresento.110
E tuttavia nella carezza io faccio esperienza anche “del carattere insieme
accessibile e inaccessibile dell’altro”:
MELCHIORRE, Corpo e persona, cit., p. 110
LACROIX, il corpo di carne, cit. p. 88
109 J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, cit. in MELCHIORRE, Corpo e persona, cit., p. 111
110 Ibidem.
107
108
69
nel momento stesso in cui mimo l’appropriazione, io provo che l’altro è
irraggiungibile. L’altro è vicino, sotto la mia mano e pur tuttavia sempre al di
là di ciò che io posso afferrare. Pur vicinissimo, resta all’orizzonte. L’incontro è
lì, già dato, ma è anche sempre futuro…111
Nella carezza sperimentiamo in sostanza l’ambiguità e i chiaroscuri che già
abbiamo incontrato a proposito del desiderio. La carezza è promessa di un
incontro, di una incarnazione dell’altro e al tempo stesso percezione della
distanza, è contatto carnale e tentazione di appropriazione o di dominio. Il toccare
è anche un toccarsi, l’accarezzare è anche accarezzarsi grazie all’altro. Il gesto
esprime inevitabilmente un’intrinseca ambivalenza.
Lo stesso si può dire dell’abbraccio. Abbracciare è accogliere, circondare,
proteggere, ma potrebbe essere anche catturare, avvinghiare, incorporare l’altro
nel mio proprio spazio. E’ un gesto di tenerezza, ma la stretta può trasmettere
violenza e desiderio di abolire ogni distanza.
Consideriamo anche il bacio.
Posare le labbra sul corpo dell’altro è, in
qualche modo, conoscerlo secondo un modo originario, come il bambino che, fin
dai primi mesi, usa la bocca per conoscere le cose intorno a lui.
Ma il bacio –
ricorda Edgar Morin – “simboleggia una comunione o una simbiosi dell’anima. Il
bacio non è soltanto il condimento di tutti i films occidentali, è l’espressione
profonda di un amore che erotizza l’anima e rende mistico il corpo”.112
Eppure il bacio non è estraneo all’appetito, anzi alla voracità: talvolta può
arrivare fino al morso
«Chi non sa che nel trasporto dell’amore umano si vorrebbe quasi mangiarsi,
divorarsi, incorporarsi l’un l’altro in tutti i modi; e, come diceva quel Poeta,
LACROIX, il corpo di carne, cit. p. 88
E. MORIN, Les Star, cit. in LACROIX, il corpo di carne, cit. p. 96. Forse è per questo che quando baciamo
appassionatamente chiudiamo gli occhi: lo sguardo dell’altro imporrebbe quella distanza che invece il bacio,
nella sua ricerca “fusionale”, tende ad annullare. Avvertiamo allora che nel bacio ad occhi aperti c’è una
contraddizione del significato del gesto?
111
112
70
quasi afferrare con i denti quello che si ama per possederlo, per nutrirsene, per
unirvisi, per viverne?»113
L’ambivalenza
dei
gesti
raggiunge
il
vertice
nella
penetrazione
e
nel
raggiungimento dell’orgasmo.
Penetrare è prima di tutto essere accolto, nella parte più intima di sé, dalla
parte più intima dell’altro. Appare qui ancora l’ambivalenza: questo atto può
essere violenza, effrazione, presa di possesso, come può essere risposta,
ospitalità, dono. È sempre, poco o molto, l’uno e l’altro. Ciascuno dei due
partner è, d’altro canto, accolto e accogliente, avvolto e avvolgente, donatore e
ricevente. Fra l’uomo e la donna si manifestano insieme differenza e
reciprocità.114
I fattori anatomici determinano qui più che altrove il significato della differenza
sessuale e dei gesti corporei.
La donna, a motivo della sua conformazione
sessuale, sembra essere più inclusiva, più “accogliente” dell’uomo, il quale, a
motivo del suo “penetrare” è intrusivo, concentrato, tendente alla conquista e al
dominio, inteso anche in senso intellettivo. “Nella donna – scrive J. Guitton - il
sesso è più diffuso, sparso e presente dappertutto, a differenza dell’uomo dove il
sesso è concentrato, come un esercito che combatte su un solo punto del fronte.
L’uomo ha degli organi sessuati, la donna ha piuttosto un sesso organico: i ritmi
delle stagioni, dei mesi, dei giorni, si iscrivono nel suo corpo, mentre lasciano
l’uomo abbastanza indifferente. La pubertà, la menopausa trasformano la donna,
essa fa parte del cosmo e del suo respiro molto più dell’uomo.
Se l’uomo è
essenzialmente atto, la donna è soprattutto natura”.115
Nell’incontro dell’intimità sessuale si realizza una forma particolare di
“conoscenza”, là dove il linguaggio fatto di parole è sotto scacco, non riesce più ad
J.B. BOSSUET, Meditazioni sui Vangeli, cit. in LACROIX, il corpo di carne, cit. p. 95. Cf in proposito anche
sopra cap. 2, nota n. 52
114 Ibidem, p. 97
115 Guitton si dilunga nelle descrizione delle caratteristiche dei due sessi, sulle loro qualità e sull’ontologie
delle loro differenze, spesso con immagini letterarie. Per un approfondimento del tema si rimanda ancora al
suo studio sull’amore umano: GUITTON, L’amore umano, cit. pp. 98-103.
113
71
esprimerne appieno il significato. Nel godimento orgasmico, la relazione oscilla in
maniera impressionante fra il “tutto” e il “nulla”, tra la fusione e la separazione,
fra “l’intimità più radicale e il malinteso in cui ciascuno resta prigioniero di sé
stesso”. All’estasi mutua fanno da contraltare le pulsioni aggressive che possono
sfociare in vera e propria violenza.
Nel raggiungimento dell’orgasmo sono implicati fino al parossismo gli
ambivalenti significati dell’atto umano. Verrebbe quasi da dire che qui,
nell’intimità sessuale, la relazione amorosa disvela significati profondi: gioco,
tenerezza, attenzione e piacere reciproco oppure freddezza, aggressività, volontà
di potenza, incapacità ad accogliere, sopraffazione, ecc.
Anche la nascita di un figlio, può rappresentare una svolta, un’apertura
inaspettata, una “breccia” aperta nell’egoismo a due, ma talvolta può rivelarsi non
il frutto dell’amore, bensì l’esasperazione del conflitto o dell’aggressività latente.
Nella realtà, fra i due estremi – perseguimento egoista della voluttà e donazione
totale di sé – esistono tutta una gamma di significati entro cui spesso si colloca
l’atto umano. La sorgente del senso non è unica, né puramente oggettiva né
puramente soggettiva, né pura natura né pura cultura.
Nonostante la loro irriducibile ambiguità, la dinamica del desiderio e della
tenerezza
può
essere
compresa,
potenzialmente,
come
movimento
di
decentramento e di passaggio dal “per-sé” al “per-l’altro”.
L’orientamento, allora, non potrà venire altro che da una “alterità”. Il senso, cioè,
non può essere percepito nella cosa in sé, ma in relazione all’altro
72
«Il Desiderio degli Altri, da noi vissuto nella più banale esperienza quotidiana,
è il movimento fondamentale, il trasporto puro, l’orientamento assoluto, il
senso»116
I gesti, per sé incompiuti e ambigui, disvelano un senso alla luce di un contesto di
relazione, sono fecondi sé ed in quanto sono apertura all’altro. Potremmo dire
meglio, con il Lacroix, che “non si dà senso senza trascendenza, senza rapporto
con l’alterità”.
Possiamo adesso aprire l’ultimo capitolo di questo percorso: la scoperta che
nell’incompiutezza di ogni relazione umana, a maggior ragione per quella
amorosa, è aperta la via per il trascendimento, per un’esperienza di incontro con
l’Altro.
E. LEVINAS, Totalità e infinito, citato in LACROIX, il corpo di carne, cit. p. 126. La riflessione di Levinas,
filosofo di origine ebraica, segna uno snodo nello sviluppo del pensiero occidentale, da secoli avvolto nella
dimensione dell’io. Levinas rimette al centro l’ontologia del soggetto, inteso come un “io-per-l’altro”. Come
afferma Bruno Forte, «è la relazione che sta sempre al centro dell’interesse di Levinas: non il chiuso mondo del
soggetto, né l’inafferrabile mondo dell’Altro, ma il loro rapporto, in forza del quale il soggetto è inquietato e
attirato verso un esodo da sé senza ritorno e l’Altro gli si mostra nel suo possibile, impossibile avvento,
nell’atto del suo dirsi tacendo e svelarsi velandosi. E il linguaggio della rivelazione, così come esso è inteso
nella grande tradizione ebraico-cristiana, dove la dialettica fra l’identità e la Trascendenza è compresa nei
termini dell’alleanza fra l’esodo umano e l’avvento divino, sempre asimmetrica a favore dell’assoluto primato
di Dio, che è — oltre ogni idea e misura — l’Altro liberamente veniente a noi». B. FORTE, L’Uno per l’Altro. Per
un etica della trascendenza. Morcelliana, Brescia 2003, pp. 156-157.
116
73
Parola e Immagine
Rembrandt, La sposa ebrea, 1665 (Rijksmuseum, Amsterdam)
Celebrazione di un gesto.
Questo splendido quadro di Rembrandt ci dice quanto i gesti siano eloquenti e
allo stesso tempo si prestino a varie interpretazioni.
Il dipinto raffigura un uomo
che stringe a sé una donna in un abbraccio molto intimo, che sembra suggerire un
legame amoroso tra i due. In realtà il proprietario del dipinto, nel 1834, identificò il
soggetto come un Augurio di compleanno rivolto dall’uomo alla donna. Il successivo
proprietario, invece, un collezionista di Amsterdam, identificò la donna come una
sposa ebrea (da qui il titolo del quadro) adornata dal padre di una collana.
L’abbraccio che i due si scambiano sarebbe un gesto di congedo per l’imminente
matrimonio di lei. Ma l’intimità del gesto non si addice proprio ad un rapporto
paterno. L’uomo poggia dolcemente la mano sinistra sulla spalla della donna,
senza stringerla a sé, mentre tocca con la destra il suo seno. Lei risponde alla
74
carezza con un tocco lieve della mano che sembra trattenere e incoraggiare questo
gesto. La mano destra si appoggia sul ventre, quasi un presagio o un attesa di
fecondità. I volti dei due, anche se immersi nella stessa luce, sono diversi. Quello
della donna, più concentrato e rivolto verso l’interno, esprime l’interiorizzazione
di questo momento. Quello dell’uomo, inizialmente più contratto, sembra
distendersi. Nella pesantezza dei tessuti si coniugano l’ombra e la luce: il visibile e
l’invisibile si compenetrano. Fra i loro corpi, passa un ombra che rende sensibile la
distanza che li separa, una distanza che conferisce al gesto tutto il suo valore.
Tutta l’atmosfera della scena evoca il rispetto e la tenerezza che fanno di un gesto
semplice un avvenimento autentico.117
Due noti storici dell’arte, Irving e Marylin Lavin hanno pubblicato un recente studio sul quadro di
Rembrandt, conducendo l’indagine proprio attraverso una rilettura del Cantico dei Cantici. Gli autori
affermano che anche il grande pittore olandese subì il fascino del poema biblico, il quale fu da lui interpretato
nell’alveo della concezione ebraica e protestante dell’unione matrimoniale. Anche questo dipinto risente, in
qualche modo, di questa influenza. Cf. Irving LAVIN, Marylin ARONBERG LAVIN, Rembrandt, la sposa ebrea,
Panini, 2006.
117
75
Capitolo 4.
“Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6)
L’incompiutezza dell’amore umano come esperienza di trascendenza
4.1.
Il mistero dell’amore
L’anonimo autore del libro dei Proverbi, contemplando la scena del mondo, si
chiede stupito:
Tre cose sono troppo ardue per me,
anzi quattro, che non comprendo affatto:
la via dell'aquila nel cielo,
la via del serpente sulla roccia,
la via della nave in alto mare,
la via dell’uomo in una giovane donna. (Pro 30,18-19)
L’autore si interroga sui misteri dell’aria, della terra, dell’acqua, sulle azioni degli
esseri viventi negli elementi naturali, ma, al di sopra di questi, c’è qualcosa che,
semplicemente non comprende: la “via” dell’uomo nella donna.
L’immagine poetica è assai suggestiva, dato che si coinvolgono nel paragone gli
elemento fondamentali del cosmo, ma mentre i primi tre elementi sono omogenei
(cielo, terra, mare), nel quarto caso il termine assume un significato
profondamente diverso, descrivendo l’attrazione tra i sessi, che rimane qualcosa di
molto misterioso agli occhi del sapiente.
Anche l’autore di Gn 2 aveva cercato, a suo modo, di “raccontare” questo mistero,
parlando della creazione dell’uomo e della donna, dello stupore dell’incontro,
della grandezza della loro vocazione: chiamati a diventare “una carne sola”, a
immagine e somiglianza di Dio stesso.
Paolo parla a questo proposito di un “mistero grande”, nel noto passo di Ef 5,31-32
76
Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due
formeranno una carne sola.
Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!118
Il Cantico dei Cantici canta da par suo il mistero dell’amore umano: ne proclama
l’essenza nella sua forza invincibile, nella perfezione infinita, nella sua
trascendenza, in quell’archetipo supremo che Gn 2 aveva abbozzato nel suo
racconto, che Gesù stesso aveva riproposto119 e che Paolo rileggerà in seguito in
chiave teologico-sacramentale.
Nel noto passo del capitolo 8, quasi al termine del poema, la donna eleva il suo
canto alla potenza invincibile dell’amore:
Chi sta salendo dal deserto,
appoggiata al suo amato?
Sotto il melo ti ho svegliato;
là, dove ti concepì tua madre,
là dove ti concepì colei che ti ha partorito.
Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l'amore,
tenace come il regno dei morti è la passione:
le sue vampe son vampe di fuoco,
una fiamma divina!
Le grandi acque non possono spegnere l'amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell'amore, non ne avrebbe che disprezzo (Ct 8,5-7)
Nell’accostamento dell’amore alla forza degli elementi naturali sembra di ritrovare
qualcosa della riflessione del sapiente del libro dei Proverbi: l’amore è un mistero
che non si inquadra nell’ordine naturale, ne sconvolge gli equilibri, ne trascende la
Paolo inserisce l’amore coniugale nel progetto salvifico di Dio, lo innalza al grande amore che Cristo nutre
per la Chiesa. L’«una sola carne» della Genesi acquista un significato più profondo; detto in termini teologici,
acquista una natura “sacramentale”: il legame viene esteso al mistero di Cristo e della sua Chiesa, legame che
viene presentato ai mariti come un modello delle relazioni coniugali con le proprie mogli.
119 Cf. Mc 10,1-12; Mt 19,1-9
118
77
comprensione: l’amore è forte come la morte, la passione tenace come lo Sheol120, le
sue vampe sono come il fuoco, le grandi acque non possono travolgerlo; le
ricchezze al suo confronto non hanno valore.
Commenta Filippini:
«L’amore è l’esperienza drammatica ed esaltante del superamento della
propria identità solitaria nel miracoloso incontro con l’altro, alla ricerca di una
nuova identità di comunione ed armonia. Il grido lancinante che invoca e
insieme esige imperiosamente, “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo
sul tuo braccio” è il segno della decisione irrevocabile della donna di perdersi e
ritrovarsi nell’amato, definitivamente. Il sigillo di metallo o di pietra per farsi
identificare (Gen 41,42; Ger 22,24) e per autenticare i documenti (Es 28,10) era
portato dal proprietario sempre con sé, come anello al dito, o saldato sopra un
bracciale, oppure appeso al collo, magari ad una catenina che lo faceva cadere
sul cuore. La donna chiede dunque di non separarsi mai dal suo uomo, ma
ancor più chiede di essere la sua identità, intima a lui più della sua interiorità.
È disposta a identificarsi in lui e domanda che reciprocamente, lui la stampi
sul suo cuore e la ponga come sigla di ogni suo pensiero e di ogni sua azione.
Diventare “una sola carne” è il progetto della coppia genesiaca che qui viene
ripreso nella simbolica del “sigillo”: l’intelligenza, la volontà, l’affettività, la
personalità intera dell’uno si fondono con il mondo personale dell’altro, tanto
da poter parafrasare, “non sono più io che vivo, ma è l’altro che vive in me” (cf Gal
2,20)».121
Siamo qui giunti come al vertice dell’esperienza amorosa. La donna vuole
ora esprimere la donazione totale che sigilla per sempre l’amore.
Mossa dal
desiderio dell’altro, dalla tensione per la ricerca e dall’estasi per l’incontro,
passando per le tenebre dell’assenza, l’amata esprime ora il suo impetuoso anelito
di vicinanza e di unità.
La vecchia traduzione CEI faceva pronunciare le parole
del brano di Ct 8,5 allo sposo, in ossequio ad una antica tradizione siriaca, (“Sotto
il melo ti ho svegliata…”)
ma più correttamente è l’amata la protagonista
dell’Epilogo. Non è un caso del resto che sia la donna ad esprimere
120
121
Sulla diversa traduzione di “passione” con “gelosia”, vedi sopra al par. 3.2.
FILIPPINI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 86.
78
quest’invocazione; come afferma J. Guitton, “nell’ordine dell’amore [proprio per la
sua natura], la donna cerca più la fusione che il piacere”. 122
Ma, giunti al termine del nostro percorso, potremmo chiederci: questo
desiderio totale di fusione, di “incarnazione” dell’altro, non corre il rischio, di cui
parlavamo sopra nel Cap. 1, di una “totalità indifferenziata”, di uno smarrimento
dell’identità della persona? La simbolica del “sigillo” non potrebbe rappresentare
invece la sublimazione dell’egoistico “desiderio-per-sé”, il voler ricomprendere
l’altro nel proprio universo di riferimento, abolendone ogni distanza e differenza?
Non è un caso che il brano esprima questa tensione come una lotta tra
Amore e Morte, tra Eros e Thanatos, tra la vita e l’anti-vita. Nella descrizione
finale dell’amore evocata dall’Epilogo del Cantico, tocchiamo con mano come la
potenza dell’amore, le sue fiamme “divine”, si scontrino con il limite della
caducità, della creaturalità, del morire. Il desidero invincibile ed inestinguibile
dell’amore non è trattenuto dal limite frapposto dalla corporeità e tuttavia non
può non fare i conti con essa.
4.1.
La forza dell’amore oltre il limite creaturale.
Il filosofo francese Jean-Luc Marion ha svolto una riflessione, densa e per
molti aspetti non facile, di notevole spessore fenomenologico sull’eros e
sull’amore. Alcune sue affermazioni ci possono aiutare a mettere a fuoco questa
tensione a livello dell’umano:
«L’amante si individualizza anzitutto attraverso il desiderio, o meglio
attraverso il desiderio suo e di nessun altro. […] nulla mi appartiene più di ciò
che desidero, perché questo mi manca. Orbene quello che mi manca mi
122
GUITTON, L’amore umano, cit. p. 100
79
definisce più intimamente di tutto ciò che possiedo, perché ciò che possiedo
mi resta esteriore e ciò che mi manca mi abita; in modo che posso scambiare
ciò che possiedo, ma non la mancanza che mi possiede il cuore […]
Nato dalla pura mancanza dell’altro il desiderio dell’amante lo influenza
senza che lui stesso ne sappia davvero il motivo e neppure chi è la causa; e
questo lo individualizza a fondo. Divengo me stesso e mi riconosco nella mia
singolarità quando scopro ed ammetto infine colui che desidero; lui solo rende
manifesto il mio centro più segreto, ciò che mi mancava e mi manca ancora,
ciò la cui chiara assenza focalizzava da molto tempo a me stesso la mia oscura
presenza»123.
Da un punto di vista puramente umano, la sposa del Cantico esprime quella
tensione esistenziale che ci fa vivere come “esseri-in-relazione”. Ritorna quello
che dicevamo nel Cap. 3, ossia che non possiamo comprenderci se non a partire
dall’altro. Qui apriamo una comprensione ulteriore e diciamo, con Marion, che mi
“individualizzo a partire da una mancanza”. Il desiderio dell’altro mi abita in
profondità e rende manifesto il mio centro più segreto. Ma questa mancanza mi
abita in maniera radicale, diremmo ontologica, e il desiderio di colmarla vuole
innalzarsi sopra il limite. E’ un desiderio di “eternità”.
«L’amante si individualizza poi in virtù dell’eternità, o almeno in virtù del
desiderio di eternità. Consideriamo un fatto di cui abbiamo esperienza. Nel
momento in cui tentiamo di proferire un quasi indicibile “Ti amo” ad occhi
aperti e di fronte all’altro, oppure di farlo con le braccia strette intorno all’altro
e gli occhi sul punto di chiudersi per la forza del desiderio, sia l’amante che
l’amato, non fosse che per un momento e dopo una serie ingombrante di “altre
volte”, devono avere la convinzione, o almeno l’apparenza, o l’illusione
volontaria della convinzione che, stavolta, si tratta della volta buona, che
questa volta sarà sul serio e per sempre. Al momento di amare, l’amante non
può credere a ciò che dice e a ciò che fa se non sotto un aspetto di eternità. Sia
all’amante che all’amato serve almeno la possibile convinzione di amare
questa volta per sempre, irreversibilmente, una volta per tutte. Per l’amante,
fare l’amore implica per definizione l’irreversibilità (come in metafisica
l’essenza di Dio implica la sua esistenza)».124
123
124
J.L. MARION, Il fenomeno erotico, Cantagalli, Siena 2007, pp. 139-140
Ibidem, pp. 140-141
80
Anche Melchiorre annota con uguale efficacia
Vivere l’unità che mi è annunziata dall’altro è quindi ritrovarmi in un senso
che, mentre mi costituisce, mi trascende: ritrovarmi è quindi trascendere me
stesso, morire al mio essere per me o stabilire una distanza dal mio esserci
immediato, e proprio nella misura in cui mi porto al fondo della mia coscienza
e della mia realtà. Si è chiamato tutto questo un rapporto simbolico125.
L’esperienza dell’amore diviene allora esperienza di auto-trascendimento, ci fa
percepire, simbolicamente e realmente, una realtà che va ben oltre il dato sensibile.
Come rileva acutamente anche J. Guitton
E lecito chiedersi, con Platone, se nell’esperienza d’amore, per quanto umile
ne sia l’oggetto, per quanto furtivo il modo, per quanto basso e volgare lo
scopo, per quanto vile lo strumento, l’uomo non colga qualcosa che non è
paragonabile a nulla di ciò che la natura gli offre. […]. Come è sufficiente aver
provato una vaga emozione poetica per poter dire senza ipocrisia che si
amano i versi, così chi ama, anche se in modo imperfetto, è in grado di capire
come il mondo tangibile, che ai sensi e allo spirito sembra l’unica cosa reale,
possa essere colpito da una sentenza di non-essere, possa diventare una
apparenza grigia e stupida, semplicemente perché si sono vissuti alcuni istanti
che non hanno alcun rapporto con esso. Ecco perché chi ha sperimentato
l’amore, anche il più fisico, una volta che abbia scacciato l’egoismo dalla
propria carne, è spesso disponibile a comprendere l’amore divino126.
Sempre partendo dal Cantico, Giovanni Paolo II, in una delle sue ultime catechesi
sul poema biblico, rilegge in tutto il suo spessore antropologico l’esperienza
dell’amore come esperienza del limite aperta sull’infinito:
Il corpo cela in sé la prospettiva della morte cui l’amore non vuole
assoggettarsi. L’amore è infatti «una fiamma del Signore» che «le grandi acque
non possono spegnere», «né i fiumi travolgerlo» (Ct 8, 6-7). Fra le parole scritte
in tutta la letteratura mondiale sulla forza dell’amore, queste sembrano
particolarmente appropriate e belle. Esse dimostrano ad un tempo che cosa è
l’amore nella sua dimensione soggettiva come vincolo unificante l’«io»
125
126
MELCHIORRE, Metacritica dell’eros, cit. p. 110.
GUITTON, L’amore umano, cit. pp. 192-193
81
maschile e femminile. […] Le strofe del Cantico dei Cantici presentano l’eros
come la forma dell’amore umano in cui operano le energie della brama ed è in
esse che si radica la coscienza ossia la certezza soggettiva del reciproco
appartenersi. Al tempo stesso però molte strofe del poema ci impongono di
riflettere sulla causa della ricerca e dell’inquietudine che accompagnano la
coscienza del reciproco appartenersi. Questa inquietudine fa essa anche parte
della natura dell’eros? Se così fosse, tale inquietudine indicherebbe ad un
tempo la necessità dell’autosuperamento. La verità dell’amore si esprime nella
coscienza del reciproco appartenersi, che è frutto dell’aspirazione e della
ricerca reciproca, e contemporaneamente questa verità dell’amore si esprime
nella necessità dell’aspirazione e della ricerca che nasce dall’esperienza del
reciproco appartenersi. L’amore esige da entrambi di sorpassare, direi,
continuamente la scalea di tale appartenenza, cercandone sempre una forma
nuova e più matura127.
Ma esiste una forma “nuova e più matura” che possa appagare la sete di unità
della coppia? Anche raggiungendo sé stessi, provando gioia per l’incontro e la
reciproca vicinanza, si ha sempre l’impressione che i due continuino
incessantemente a tendere a qualcosa.
Dimmi, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare le greggi… (Ct 1,7)
Esclama la sposa all’inizio del Cantico, e lo sposo le risponde:
Se non lo sai tu, bellissima tra le donne, segui le orme del gregge… (Ct 1,8)
Questo è soltanto il preludio di quel processo di tensione e ricerca espresso più
pienamente in altri passi e di cui abbiamo fatto cenno al Cap. 3 a proposito della
dinamica della “presenza-assenza”. Un processo che rivela il volto dell’amore
sempre in ricerca e mai appagato che richiama alla mente l’inquietudine
esistenziale espressa da Agostino nelle Confessioni “ci hai fatti per Te, e il nostro
cuore non ha pace finché non riposa in Te”128
127
128
GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, cit., p. 431
AGOSTINO, Le Confessioni, Libro I, n. 1
82
Giovanni Paolo II coglie a sua volta, nei versetti del poema biblico, la verità di
questa inappagata ricerca
In tale necessità interiore, in tale dinamica di amore, si svela indirettamente
quasi l’impossibilità di appropriarsi ed impossessarsi della persona da parte dell’altra.
La persona è qualcuno che sovrasta tutte le scalee di appropriazione e
padronanza, di possesso e di appagamento che emergono dallo stesso
«linguaggio del corpo». Se lo sposo e la sposa rileggono questo «linguaggio»
nella piena verità della persona e dell’amore, giungono alla sempre più
profonda convinzione che il limite della loro appartenenza costituisce quel
dono reciproco in cui l’amore si rivela «forte come la morte», cioè risale, per
così dire, fino agli ultimi limiti del «linguaggio del corpo» per superare anche
questi limiti. La verità dell’amore interiore e la verità del dono reciproco
chiamano, in certo senso, continuamente lo sposo e la sposa — attraverso i
mezzi di espressione del reciproco appartenersi e perfino staccandosi da quei
mezzi— a pervenire a ciò che costituisce il nucleo stesso del dono di persona a
persona129
Il Papa legge in questa dimensione dell’eros continuamente in ricerca e mai
appagato, l’anelito ad integrarsi in un’altra e più profonda verità dell’amore.
Rileggendo il brano del Cantico in parallelo con l’inno paolino all’ἀγὰπη di 1 Cor
13 (“…Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’ ἀγὰπη non avrà mai
fine..”) il Papa conclude la sua riflessione sul poema biblico:
l’amore si apre qui davanti a noi, direi, in due prospettive: come se ciò in cui
l’«eros» umano chiude il proprio orizzonte, si aprisse ancora, attraverso le
parole paoline, in un altro orizzonte di amore che parla un altro linguaggio;
l’amore che sembra emergere da un’altra dimensione della persona e chiama,
invita ad un’altra comunione. Questo amore è stato denominato «agape»130.
Eccoci giunti al limite della tensione e del desiderio: qui per l’amore si aprono due
possibilità: in un eros che conosce solo l’orizzonte umano, “troppo umano", la
ricerca continua ritrova sempre e nuovamente l’incertezza, il provvisorio, il
129
130
GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, cit., p. 432
Ibidem
83
relativo, cioè al fine l’inquietudine della propria solitudine esistenziale. Oppure ha
la possibilità di aprirsi ad “un altro orizzonte che parla un altro linguaggio”.
Quest’”altra dimensione della persona” a cui allude il Papa altro non è che la vita
dello spirito, o nello Spirito. Il dinamismo dell’amore apre lo sguardo alla realtà
spirituale, a nuove e più profonde realtà della coscienza. Come nota acutamente
Xavier Lacroix
Cambiando d’orientamento, o di senso, il corpo cambia modo di essere.
Diventa spirituale entrando nel dinamismo del dono proprio della vita
spirituale. L’entrata nella vita spirituale, che è entrata nel dinamismo del dono,
è accesso a un nuovo modo di vivere il corpo. Se, secondo l’espressione di
Emmanuel Lévinas, «il donare è il movimento originario della vita spirituale»,
non siamo forse condotti a riconoscere che il donare è possibile mediante il
corpo? È così che comprendiamo la vita spirituale come modo di vivere il proprio
corpo.
Divenire spirituale è vivere il proprio corpo come donato e fatto per il dono. È
anche accettare di essere sensibili, offerti, consegnati, vulnerabili. Diventare
deboli per l’altro. Tutti questi termini hanno in comune di essere suggeriti
dalla parola «carnale». Quando il cuore di pietra diventa cuore di carne, il
soggetto diventa «tenero», da duro che era. Scoprendo la debolezza dell’altro,
cessa di nascondersi la propria debolezza. Nella tenerezza, due debolezze si
riconoscono e si confessano l’una all’altra. Due esseri si riconoscono come
«incarnati», cioè vulnerabili, vicini, offerti. Lungi dall’essere disincarnazione,
la spiritualizzazione è incarnazione.131
In una prospettiva puramente antropologica, siamo coscienti che il soffio
vitale non si confonde con il soffio spirituale.
Tra il soffio corporeo ed il
dinamismo dello Spirito vi è un salto qualitativo, una differenza sostanziale132.
E’ pur vero che, secondo la tradizione cristiana, v’è un luogo, o meglio uno
stato di vita, in cui i due punti di vista si allacciano, si determinano e si
LACROIX, Il corpo di carne, cit, p. 235
«C’è certamente continuità tra il fuoco dell’Eros umano e la fiamma dell’Agape divina; l’intuizione
dell’autore del Cantico dei Cantici non è certo ingannevole là dove dice che le fiamme dell’amore sono le
fiamme stesse di Dio. Ma perché si realizzi questa unità, bisogna che un amore superiore scenda nell’amor
inferiore e lo preceda. L’amore inferiore potrebbe forse dare il gusto, il sapore e una prima immagine
dell’amore celeste; c’è nel fervore dell’amore sensibile quasi un’ombra luminosa, ma quest’ombra non
saprebbe darsi da sé la luce. La natura non può elevarsi fino a ciò che la supera, a meno che ciò che la supera
non venga ad abitare in lei sotto forma di grazia». GUITTON, L’amore umano, cit. p. 193
131
132
84
arricchiscono scambievolmente: il matrimonio.
Nel matrimonio, così come lo
concepisce il cristianesimo, l’unione sessuale trova la sua pienezza di senso, non
solo etico, ma “teologale”. In questo “luogo”, l’unione può divenire alleanza, lì
dove la relazione assume una forma totale, irrevocabile, fondata non sul calcolo o
sull’interesse, ma sul dono.
Tuttavia, anche nel matrimonio più riuscito e fecondo, gli sposi fanno
esperienza della pienezza e allo stesso tempo dell’incompiutezza dell’amore.
L’anelito all’unità, come abbiamo detto fin qui, manifesta il limite
creaturale.
Ritorna la dinamica della “presenza-assenza”, il paradosso che
struttura ogni relazione interpersonale.
Nell’episodio del “notturno” (su cui ci siamo già soffermati, v. sopra par.
3.2), la giovane è lacerata tra il risveglio che la vuole desta e il torpore che ancora
la possiede: essa desidera ma non ha ancora la capacità di accogliere il dono
assoluto. Scrive Dietrich Bonhoeffer, che per lei «non vi è nulla di più tormentoso
della nostalgia. Dobbiamo allora semplicemente aspettare e aspettare ancora,
soffrire indicibilmente per la separazione, dobbiamo alimentare la nostalgia quasi
fino a star male, solo così conserveremo intatta, anche se in maniera molto
dolorosa, la comunione con le persone che amiamo»133.
In ogni ricerca ed analisi su aspetti dell’esistenza, anche la più rigorosa, non
bisogna dimenticare che vi è sempre posto per un altro approccio del reale, che è
quello del poeta, “custode degli infiniti volti del vivente”.
La poetessa Alda Merini ha colto e intrecciato i significati dell’amore-dono con
l’amore “eucaristico” di Cristo vissuto nella carne fino al sacrificio di sé. I suoi
versi rappresentano quasi una cifra riassuntiva di questo nostro percorso.
D. BONHOEFFER, Resistenza e Resa, citato in E. BIANCHI, Lontano da chi? Lontano da dove? Gribaudi, Torino
1978, p. 59.
133
85
« Per consolare gli uomini Gesù è venuto sulla terra,
come emanazione di Dio aveva capito che l’uomo, capolavoro divino, era così
limitato, così spoglio e così nudo che aveva bisogno di una conferma.
L’uomo aveva paura del freddo, della fame, del silenzio, dell’odio dei propri
simili. L’uomo aveva paura dei suoi cambiamenti, l’uomo aveva paura
persino dell’amore. A un certo punto Dio sollevò l’enorme coperchio di questa
grande caldaia in ebollizione che è l’amore,
e fece vedere che all’interno dell’amore c’erano vapori angelici e tanti angeli
che ne potevano uscire, ma c’era anche del sangue.
Gesù questo l’ha capito, ha fatto vedere che del sangue d’amore non aveva
paura, l’ha lasciato sgorgare dalle sue ferite, l’ha fatto vedere a tutti.
Ma io non so che cosa sia la variazione del sangue, né il colore rosso del
martirio, ma penso che tutti gli innamorati sono dei martiri,
tutti gli innamorati sono in Cristo, tutti gli innamorati sono in Dio »134.
134
A. MERINI, Corpo d’amore. Un incontro con Gesù. Frassinelli, Piacenza 2001, p. 77
86
Parola e Immagine
L’amore epifania del trascendente
«Io non ho letto la Bibbia, l’ho sempre sognata. Fin dalla mia giovinezza sono stato
affascinato dalla Bibbia. Mi è sempre sembrato e ancora mi sembra che sia la più
grande fonte di poesia di tutti i tempi. La Bibbia è come una risonanza della natura
e questo segreto ho cercato di trasmetterlo». Così Marc Chagall, celebre pittore
ebreo russo, confessava il suo amore per la Bibbia, alla quale ha dedicato molti dei
suoi dipinti. Le storie del libro sacro sono state fonte di ispirazione per l’artista che
in esso ravvedeva una particolare sintonia di arte e fede, per cui l’infinito si fa
carne, sangue, colori, armonia, vita. Tra i libri biblici che più risplendono di luce,
che più uniscono carne e spirito, c’è il Cantico. E al Cantico Chagall ha consacrato
almeno cinque oli su tela, conservati nel Museo Nazionale «Messaggio Biblico» di
Nizza, ove sono raccolte le opere del pittore vissuto per la maggior parte della sua
vita in Francia. Questi quadri sono altrettanti sguardi d’amore rivolti al Ct, nei
quali si sposano temi spirituali a motivi carnali, proprio nello spirito genuino del
testo biblico. In essi esplode la vitalità
umana unita all’abbondanza della natura;
in essi schioccano colori incandescenti
modulati sul rosa tenero e sensuale delle
carni; in essi si alleano forza e tenerezza,
immagini selvagge e scene dolcissime.
Nella prima tela, abbiamo di fronte un
dialogo gioioso tra le varie dimensioni
della
realtà:
un mondo
animato
di
presenze molteplici. La diagonale centrale (in basso gli sposi del Cantico, in alto
un’altra coppia biblica, Davide e Betsabea) unisce due emisferi della realtà, che
non sono in reciproca opposizione ma che si richiamano e si riprendono a vicenda:
87
a destra, la città di Gerusalemme (con i simboli del trono e dell’Alleanza) diventa
luogo di ricerca, di desiderio e di schermaglia amorosa (come è nel Cantico); a
sinistra, invece, si apre una porzione di universo animata e assai suggestiva (la
colomba e altri simboli della Creazione), come uno specchio appagato e armonioso
dell’altra. Siamo di fronte a una concezione dell’amore tipicamente ebraica, legata
al Patto, che fa parte dell’alleanza tra Dio e
Israele (e tra Dio e tutta l’umanità e gli
esseri viventi in generale): l’amore è realtà
creaturale.
Nella seconda tela sembra raffigurato un
sogno: una dormiente sta distesa nella
chioma di un albero coricato (la sua
posizione rievoca la celebre Venere di
Dresda del Giorgione), sopra una città
addormentata,
da
cui
una
mano
si
protende alla luna, mentre un re-poeta (Davide) si libra nell’aria; c’è un volto
maschile nella chioma dell’albero reclinato, assieme alla testa di un asinello; una
donna è accostata al tronco, alla base dello stesso albero, mentre un gregge
pascola, e le case sono come un altro gregge nella lontananza.
Il quadro è
popolato da figure dell’universo biblico e reali (la donna coricata è l’amata prima
moglie del pittore, Bella, morta prematuramente), così come i colori evocano un
simbolismo delle emozioni. L’albero, che attraversa i due mondi e ne assume
entrambi i colori ha le radici nel mondo più rosso, quello in basso: dove pascolano
le pecore, la città vive e la mano si protende nel cielo - per desiderio o in preghiera
o, perché no?, per entrambi.
88
Nella terza opera, Davide e Betsabea si fanno
da parte per introdurre la coppia del Ct: due
angeli reggono il baldacchino del rito nuziale
ebraico sullo sfondo di Gerusalemme. Le
figure degli sposi sono allungate come in
un’ascensione verso l’alto, è come se fossero
una cometa vertiginosamente trascinata da
una forza interiore.
In relazione con la
coppia slanciata verso l’alto v’è la coppia in basso a destra, bianca nella propria
intimità (bianco è il colore della nuzialità). E’ la realtà originaria, sacra già in se
stessa: l’attrazione sessuale, il legame intimo tra uomo e donna, diverso da ogni
altro. Il matrimonio lo dichiara, lo rende manifesto – ma la sacralità è già presente,
e viene dall’inizio del mondo: dalla creazione. Lasciarsi sedurre, lasciarsi attrarre,
stipulare questo legame, vivere la forza misteriosa che unisce un uomo alla sua
donna e a nessun’altra, è un atto dovuto di fedeltà creaturale.
Nella quarta tela un cavallo porta via gli sposi, offrendo loro fiori, mentre sotto il
loro volo si stende Gerusalemme con
la «torre di Davide» (Ct 4,4), che fa
festa, con la moltitudine dei suoi
abitanti. C’è un gallo appallottolato
ad arco sulla propria schiena, a
sinistra. Nella cultura yiddish, come
in tante altre, il gallo annuncia il
sorgere del sole, ed è un momento
particolarmente significativo, in cui
sono prescritte preghiere particolari. Nelle berakhot (benedizioni) del mattino, ve
n’è una a Dio “per aver concesso al gallo l’intelligenza per distinguere il giorno
dalla notte”. Il cielo, qui, è notturno o diurno? Nessuno può dirlo. E’ come se il
89
tempo stesso si trovasse, per fare festa ai due sposi, nella stessa posizione del
gallo.
Nel quinto quadro si addensano tutte le variazioni del Ct: l’amore, Davide, i
simboli dell’Alleanza, Gerusalemme che ha i contorni anche del villaggio natale di
Chagall, Vitebsk. Altre figure e
simboli popolano questo quadro,
autentico midrash figurato del poema
biblico.
Il sole fuso con la luna, forse,
rimanda all’innocente baldanza, alla
spensieratezza un po’ clownesca di
due giovani nei primi tempi del loro
matrimonio. I musici rimasti a terra
fanno segni; una sposa agita foglie e
rami, Un vecchio suona il shofar, il
corno delle feste, un braccio teso offre un libro aperto: musica, poesia, Bibbia.
Si fonde, così, in unità il mistero del divino e del quotidiano celato all’interno
dell’amore. L’amore umano diventa ordinaria epifania del trascendente.
90
CONCLUSIONI
In un recente discorso ai membri del Tribunale della Rota Romana, Papa
Benedetto XVI ha affermato, in tono preoccupato, che “corriamo il rischio di
cadere in un pessimismo antropologico che, alla luce dell’odierna situazione
culturale, considera quasi impossibile sposarsi”.135
La considerazione allarmante fatta dal Papa sembra avallare il pensiero che la
qualità delle relazioni nel mondo d’oggi, in particolare quelle tra uomo e donna,
siano arrivate ad un punto tale da ritenere pressoché un’utopia l’idea stessa di un
legame fedele ed eterno.
Sembrano confermate le previsioni di Zygmunt Bauman, di un tempo
caratterizzato da relazioni “liquide”, poco impegnative, che escludono legami
forti.
Non v’è dubbio che andremo verso un tempo in cui il matrimonio sarà
sempre più vissuto come una “vocazione” e meno come consuetudine, tradizione,
necessità del costume. Alcuni segnali sono già evidenti. Le stesse coppie che
frequentano i corsi di preparazione al matrimonio (peraltro in numero sempre
minore) sono molto spesso lontane dalla pratica della fede cristiana, sovente
scettiche sugli stessi significati teologici e sacramentali delle nozze.
Tuttavia questa disaffezione verso il matrimonio-sacramento, o verso il
matrimonio in genere come impegno per la vita, non offusca, ma anzi
paradossalmente mette ancora più in evidenza la grandezza dell’amore umano
quando è vissuto in maniera autentica nonché l’urgenza di recuperare i significati
più profondi della relazione sponsale.
135
BENEDETTO XVI, Discorso ai membri del Tribunale della Rota Romana. 29 gennaio 2009.
91
In questo c’è da raccogliere l’appello di Giorgio Campanini con l’invito rivolto ai
laici cristiani a “riappropriarsi”, in maniera lucida e consapevole della ricerca
teologica; a non far mancare il loro contributo critico e di esperienza alla
riflessione su temi di grande importanza anche ecclesiale, quali ad esempio il
matrimonio, l’amore coniugale, la famiglia136.
Il lavoro di questa breve ricerca, si pone nella scia della valorizzazione e
approfondimento dei contenuti della relazione uomo-donna, che, nella Chiesa, ha
conosciuto, soprattutto dopo il Concilio, una nuova e feconda stagione.
In questa rilettura del Cantico dei Cantici, fatta in parallelo con Genesi 2,
privilegiando una prospettiva fenomenologica, ci ha guidato l’intento di far
emergere come l’amore sia al fine la grande “analogia” per parlare di Dio, come la
Parola contenuta nel Cantico riesca a farci intuire, in maniera reale e simbolica, che
alla radice di ogni amore autentico vi è una “fiamma divina”: “là dove uomo e
donna si amano, in qualche modo si manifesta ed è presente Dio: là Dio vince la
potenza della morte”.137
Perché “L’amore forte come la morte” non rimanga solo un “aforisma da incartare
in un cioccolatino” occorre avere la consapevolezza di quanto sia, per usare le
parole di Ravasi
importante e difficile, al tempo stesso, proporre oggi questa strofa dell’inno
della donna del Ct perché essa si fonda su un concetto e un’esperienza
dell’assoluto e della durata che sono sempre più persi, ignorati, spezzati.
Eppure è decisivo ripresentarla con la sua carica di utopia perche è solo
nell’assoluto e nella totalità che l’uomo ritrova la sua originalità rispetto alla
pur grande “animalità” sessuale, alla sua fisicità e alla sua relatività
temporale. E su questa straordinaria potenzialità del suo essere che l’uomo
rivela la sua trascendenza, il sigillo del divino che è in lui; è questo che lo
tende e lo inserisce nell’eterno, strappandolo alla fine e alla morte; l’Amore è
composto anche di tempo, spazio e corpo come espressione, ma è in sé spirito,
136
137
Cf. CAMPANINI, Il Sacramento antico, cit. pp. 6-7
G. BONORA, citato in RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 662
92
vita, infinito. Il Ct è la celebrazione di questo primato dell’Amore, della sua
potenza e delle sue esigenze di assolutezza e di perfezione. In sé l’Amore è,
dunque, la parabola, il simbolo più alto e definitivo del divino, espresso in
termini effabili e umani138.
Nel percorso affrontato, che ha preso avvio dagli interrogativi posti
nell’Introduzione riguardo all’unione e alla differenza sessuale, abbiamo cercato di
analizzare aspetti essenziali della relazione uomo-donna. In essa si ritrovano
inevitabilmente tensioni, aspettative e forti aspirazioni; queste tensioni risiedono,
pur nell’”ambiguità” del carnale, nell’unità della persona, nel suo esistere come
“essere-in-relazione”, aperta all’esperienza del trascendimento.
Tra Eros e Agape v’è continuità e allo stesso tempo uno scarto fondamentale, ma
entrambe cercano di integrarsi in un’unità più profonda, dinamica, proprio come
dinamica è la dimensione dell’amore.
L’approccio fenomenologico si è incaricato di mostrare quanto l’unione
carnale sia in grado di esprimere un legame interpersonale, quanto questa
scaturisca dal bisogno fondamentale dell’uomo di amare ed essere amato. Anche
una certa filosofia di ispirazione non religiosa, come abbiamo visto, converge su
questo punto. Il punto di vista teologico ha mostrato quanto il corpo sia portatore
di senso e della ricchezza di significati simbolici iscritti in esso dal Creatore; per
usare il linguaggio paolino, esso è “tempio dello Spirito”.
In sintesi, abbiamo appurato che la teologia biblica vuole consegnarci una
visione ampia e unitaria del rapporto tra i sessi, una “antropologia del principio”
che ci consente una migliore comprensione dell’identità e della relazione tra uomo
e donna: in ciò che sono e in quello che li rimanda, ciascuno e insieme, al Creatore.
Essa ci consegna la visione di una reciprocità “asimmetrica” o, per usare le parole
di Giovanni Paolo II, una «”uni-dualità” relazionale, che consente a ciascuno di
138
RAVASI, Il Cantico dei Cantici, cit., p. 665
93
sentire il rapporto interpersonale e reciproco come un dono arricchente e
responsabilizzante»139
La “relazionalità” biblica che abbiamo fatto emergere in queste pagine non
vuole riunire due metà, come nel noto mito degli androgini, bensì intende
arricchire due persone già complete, che tendono a superarsi reciprocamente.
Non quindi due parti che danno e ricevono, con un ritorno alla pari o un gioco a
somma zero, bensì una sorta di dialettica triangolare, che innesta un movimento
non semplicemente lineare-rettilineo (io-tu, tu-io) che rischia di sfociare nella mera
contrapposizione, ma più facilmente spirale-ascendente (io-tu-io) dove l’io finale
non è più quello iniziale, perché arricchito dalla relazione e pronto a far nascere un
movimento altro, ad aprirsi ad ulteriori dimensioni dell’essere.
In questo movimento “altro”, aperto all’Amore più grande, crediamo
risiedano le speranze per un avvenire fecondo della relazione tra maschile e
femminile.
«A questa unità dei due è affidata da Dio non soltanto l’opera della procreazione e la vita della famiglia, ma
la costruzione stessa della storia». GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle donne, 29 giugno 1995, n. 8, citato in P.
VANZAN, “Gender e rapporto uomo-donna” in “La Civiltà Cattolica”, n. 3810, p. 559.
139
94
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GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Familiaris Consortio, 22 nov.1981.
PAOLO VI, Lettera Enciclica Humanae Vitae, 25 lug.1968.
d) Altri testi.
BONHOEFFER Dietrich , Lettere alla fidanzata 1943-1945, Queriniana, Brescia 1993.
HUGHES Robert, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Adelphi, Milano
1994.
MERINI Alda, Corpo d’amore. Un incontro con Gesù, Frassinelli, Piacenza 2001.
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