Marco Aime Tra gioco e sport: cosa li divide, cosa li accomuna Secondo incontro in preparazione al tema della settima edizione di Pistoia - Dialoghi sull’uomo: “L’umanità in gioco” (27-28-29 maggio 2016). Incontro con gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado giovedì 18 febbraio 2016, ore 11.00 - Teatro Manzoni, Pistoia Marco Aime insegna Antropologia culturale all’Università di Genova. Ha condotto ricerche sulle Alpi e in Africa Occidentale (Benin, Burkina Faso, Mali). Oltre a numerosi articoli scientifici, ha pubblicato favole per ragazzi, saggi e testi di narrativa, tra cui: Le radici nella sabbia (EDT, 1999 e 2013); La macchia della razza (elèuthera, 2012); Il primo libro di antropologia (2008), Il dono al tempo di Internet (con A. Cossetta, 2010), L’altro e l’altrove (con D. Papotti, 2012) per Einaudi; Verdi tribù del Nord (Laterza, 2012); African graffiti (Stampalternativa, 2012); Gli specchi di Gulliver (2006), Timbuctu (2008), Il diverso come icona del male (con E. Severino, 2009), Gli uccelli della solitudine (2010), Cultura (2013) per Bollati Boringhieri; I piccoli viaggi di Beppe Gulliver (Emi, 2014); All’Avogadro si cominciava a ottobre (Agenzia X, 2014); L’oltre e l’altro (AA.VV., Utet, 2014); Etnografia del quotidiano (elèuthera, 2014). La fatica di diventare grandi. La scomparsa dei riti di passaggio (Einaudi, 2014); Je so' pazzo. Pop e dialetto nella canzone d'autore italiana da Jannacci a Pino Daniele (Visconti Emiliano, 2014); Tra i castagni dell'Appennino. (Utet, 2014); L’arte della condivisione (AA.VV.,Utet, febbraio 2015); Senza sponda (Utet, 2015). Sull’argomento Il gioco, già nel momento in cui intendiamo definirlo ci crea qualche problema. Infatti, quando pensiamo ai giochi nel loro insieme, generalmente intendiamo qualcosa che rimanda a momenti di divertimento o di relax. Fino qui tutto bene, se però cominciamo a scavare un po’ di più, ci accorgiamo che in quella categoria che abbiamo definito “giochi” rientrano molte pratiche assai diverse tra di loro. Un problema simile a quello che ci si pone di fronte alla categoria “arte”, e non a caso Alexander Alland per descrivere un ambito non facile da delimitare afferma: «l’arte è un gioco con la forma, che produce una trasformazione-rappresentazione esteticamente felice». Nella maggior parte delle lingue parlate non esiste neppure un termine equivalente ad arte. In molti casi quella che noi chiamiamo arte è inglobata nella religione, nella struttura sociale, nel lavoro. Peraltro si tratta di un vocabolo dallo spazio semantico quanto mai ampio e variegato: cosa fa sì che un brano di Miles Davis, un’opera di Shakespeare, un dipinto di Van Gogh, un balletto classico, una scultura di Michelangelo, un romanzo di Garcia Marquez e un film di Fellini appartengano a una stessa categoria, che definiamo arte? Allo stesso modo possiamo chiederci, come mai accomuniamo sotto la stessa definizione di gioco pratiche come calcio, tennis, scacchi, rugby, pugilato, poker, basket, dama, videogames, ma anche i giochi dell’infanzia con i giocattoli vari e quelli di gruppo degli adolescenti, e così via. Il grande filosofo Ludwig Wittgenstein, risolse il problema utilizzando l’espressione “somiglianza di famiglia”: potremmo dire che tutte queste attività hanno in comune la capacità di creare piacere e divertimento. Ma non solo. Il gioco in realtà ha delle implicazioni molto importanti nella nostra vita. Per esempio, nella costruzione del genere. È bene qui fermarci un istante per comprendere la distinzione tra sesso e genere. Ogni società umana è composta da maschi e da femmine, riconoscibili non solo dalle loro caratteristiche anatomiche, ma anche da una serie di elementi culturali (abbigliamento, comportamento, ruolo sociale, status) che traducono il sesso, dato naturale, in genere. Infatti, gli individui nascono sì sessuati, ma non dotati di genere. Questo deve essere costruito sulla base di modelli sociali condivisi e accettati che sono diversi da società a società. «Nessuno nasce uomo, la virilità te la puoi guadagnare solo se sei in gamba, solo se hai il coraggio». Queste parole dello scrittore americano Norman Mailer mettono in evidenza due temi fondamentali per l’antropologia: il primo è che non basta essere anatomicamente foggiati in un certo modo per essere considerati «uomini», il secondo che l’essere uomo è legato a un concetto che solitamente definiamo con il termine virilità. L’essere biologicamente maschi non significa per forza essere automaticamente considerati uomini. Si può dire che è un dato necessario, ma non sufficiente e lo stesso vale per le donne, anche se in forma diversa. Non a caso è importante distinguere il sesso dal genere: il primo è legato all’anatomia e pertanto relativamente immutabile, anche se con apposite operazioni è possibile farlo, ma si tratta di casi minoritari e perlopiù appannaggio del mondo occidentale benestante. Il genere, invece, è piuttosto una categoria simbolica, il prodotto di una costruzione culturale, un’icona sociale che porta con sé delle implicazioni morali. Quante volte si è sentito dire a un ragazzino: «non piangere, comportati da uomo» oppure «non fare la femminuccia» oppure a una ragazza: «sembri un maschiaccio». Frasi che vogliono indicare una via verso quello che è ritenuto il comportamento giusto, socialmente accettato. Se però è necessario ribadirlo, significa che, ancora una volta, ci troviamo di fronte a un dato che non è naturale, ma culturale. Un individuo è femmina o maschio per nascita, diventa donna o uomo per costruzione. La costruzione del genere inizia fin dall’infanzia, quando vengono indicati pratiche o giochi diversi a seconda del sesso. I bambini, infatti, vengono vestiti in modo diverso dalle bambine in modo da rendere chiara l’appartenenza al genere. Anche il trattamento è diverso e i bambini risponderanno a tali distinzioni, comportandosi in modo differente. Nella nostra società alle bambine si danno le bambole, con le quali simulano l’attività materna, mentre i maschietti spesso giocano con armi giocattolo, automobiline e o videogames fortemente competitivi e spesso anche violenti. Il gioco può essere puro divertimento, ma certi giochi comportano anche una competizione tra chi li pratica. Ci sono, infatti, giochi che si fondano sulla gara, sulla rivalità tra i partecipanti. Si potrebbe dire che spesso i giochi simulano la battaglia o la guerra, basti pensare all’importante ruolo che avevano i giochi olimpici nell’antica Grecia: sublimare nella competizione sportiva gli impulsi guerreschi, evitando il vero scontro. Competizione sì, però all’interno di regole ben determinate. Ciò che distingue una competizione sportiva da uno scontro o da un confronto non organizzato sta proprio nelle regole. Un incontro di pugilato è diverso da una scazzottatura tra due individui arrabbiati l’uno con l’altro, perché i pugili devono rispettare certe regole condivise (non colpire sotto la cintura, né dietro il capo, eccetera), così come due schermitori sportivi, pur simulando uno scontro bellico, sottostanno a certe regole, che in battaglia non sono previste. Uno scacchista non muove i pezzi dove vuole, ma secondo certe regole e un giocatore di bridge ha un certo numero di carte in mano ben determinato. Subentra ora un’altra distinzione, che però come quella generale di gioco, non appare facile da definire: quella tra gioco e sport, dove per giochi questa volta intendiamo quelli competitivi. Competitivi sono il calcio, il basket, il tennis, la pallavolo, il motociclismo e il ciclismo, ma lo sono anche gli scacchi, il gioco delle carte, i videogames e il sudoku. La competizione dunque non è sufficiente a distinguere il gioco dallo sport: ciò che determina la differenza sta nell’azione fisica. Chiamiamo sport una qualsiasi attività di competizione tra due persone o tra due squadre che si basa essenzialmente sull’esecuzione di una serie di azioni e di movimenti fisici e con applicazioni di regole condivise. Bene, siamo riusciti a distinguere sport da gioco, con tutto il rispetto non si può dire che giocare a dama o a scala quaranta richieda un grande impegno fisico, però se prestiamo attenzione al linguaggio corrente, ci accorgiamo che diciamo gioco del calcio, ma non chiamiamo gioco il ciclismo, né l’atletica leggera, è gioco il tennis, ma non lo sci. Quindi dobbiamo dedurre che nell’ambito che definiamo sportivo, esiste un’ulteriore distinzione fra gioco e sport o meglio, che non tutti gli sport sono considerati gioco, come possiamo vedere da alcuni esempi riportati qui sotto: Giochi Calcio Basket Rugby Tennis Pallavolo Hockey Baseball Sport Ciclismo Atletica Nuoto Sci Canottaggio Pattinaggio Ginnastica Tuffi Lotta Pugilato Cosa fa allora di uno sport un gioco sportivo? Entrambi prevedono un impegno fisico, entrambi sono caratterizzati da regole condivise, creano entrambi spettacolo, divertimento e passione in chi li segue. Perché allora chiamiamo l’uno gioco e l’altro sport? Dove sta la differenza? La risposta non è semplice e forse non è mai assoluta, ogni volta che cerchiamo di formulare una risposta esaustiva, scopriamo che qualcosa sfugge alla regola generale. Per esempio, il sociologo francese Roger Caillois suggerisce una prima distinzione, quella tra competizione (agon in greco da cui agonismo) e caso, fortuna (alea in latino. Celebre la frase di Cesare “alea iacta est” tradotta con “il dado è tratto”). La competizione comporterebbe un confronto il cui esito dipende solo ed esclusivamente dalle capacità e dalle abilità del o dei partecipanti, senza che la fortuna possa influire sul risultato. Questo sarebbe caratteristico dello sport, mentre nel gioco subentrerebbe una certa dose di casualità, di sbilanciamento tra fortuna e sfortuna. In questo senso possiamo dire che il vincitore di una finale olimpica dei 100 metri o di un Tour de France sale sul podio grazie alle sue gambe e ai suoi polmoni. È primo perché comunque ha impiegato un po’ meno tempo degli altri a percorrere lo stesso spazio. Al contrario non sempre in una partita di calcio o di rugby vince chi gioca meglio, se per meglio si intende migliore dal punto di vista spettacolare. Questa suddivisione può essere vera in parte, ma se andiamo a ben vedere non sempre regge: infatti si può vincere il Tour de France anche grazie alla caduta dell’avversario più forte o una gara di staffetta per un errore nel cambio dell’altra squadra. Inoltre, tra gli sport figurano anche: pattinaggio artistico, tuffi, ginnastica e in parte il pugilato (se si esclude il ko) i cui risultati sono legati al giudizio di una giuria e non certo a un dato oggettivo, ma influenzabile da molti fattori. Detto questo è però vero che in quelli che chiamiamo giochi, il caso non solo è previsto, ma quasi sempre è voluto. Ogni gioco sportivo prevede delle regole che non solo determinano un comportamento corretto, ma servono a rendere più “casuale” la pratica. Prendiamo il basket, il palleggio serve a rendere più complicato e meno sicuro (e quindi più spettacolare) l’avanzamento della palla. Se un giocatore afferrasse il pallone e corresse sotto canestro sarebbe difficile arrestarne la corsa se non con mezzi brutali. Costretto a palleggiare si sottopone al rischio (alea) di vedersi sottrarre la palla. A poter afferrare l’ovale sono i giocatori di rugby, ma qui la regola dice che l’avversario ti può bloccare fisicamente (entro certi limiti) e che i passaggi possono solo avvenire all’indietro. Un gesto innaturale, che rende più aleatorio il gioco. Che dire poi dell’innaturalità del calcio, che prevede di determinare traiettorie esatte di un oggetto sferico, colpendolo con i piedi, che di certo non sono fatti per quello? L’incertezza e il rischio di sbagliare stanno alla base del gioco calcio. Si potrebbe dire lo stesso della palla da baseball da colpire con una mazza o di quella da tennis da respingere oltre una rete con una racchetta. C’è sempre una forte dose di incertezza, che i grandi giocatori sanno ridurre al minimo. Come abbiamo visto ogni classificazione troppo precisa finisce per farsi sfuggire qualcosa. Sembra proprio che la categoria dei giochi sia fatta per essere lasciata un po’ indeterminata, senza chiederle di essere troppo precisa, pena la perdita di qualche pezzo. Insomma, come dire che anche certe categorie linguistiche e culturali in fondo sono una sorta di gioco. Consigli di lettura per approfondimento: Per gli insegnanti e gli studenti si consiglia la lettura del racconto Il rigore più lungo del mondo, tratto da libro Pensare con i piedi di Osvaldo Soriani (Einaudi, 2007)