Psicologia sociale. Approfondimenti sul sé, sulle

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Psicologia in azione
PSICOLOGIA
APPROFONDIMENTI
SOCIALE
SUL SÉ, SULLE RELAZIONI
INTERPERSONALI E SULLE RELAZIONI INTERGRUPPO
Eugenia Scabini, Claudia Manzi
INTRODUZIONE
Noi non rimaniamo mai in sospeso nel nulla. In questa affermazione di Merleau-Ponty
è racchiusa l’essenza stessa dell’oggetto di studio della psicologia sociale. Questa
disciplina infatti si propone di mettere a tema la sostanziale interdipendenza dell’individuo con l’ambiente sociale che lo circonda e di studiare i termini e la modalità del costruirsi reciproco dell’individuo e della realtà sociale. Nelle diverse definizioni che troviamo di psicologia sociale è, infatti, ricorrente l’idea che le percezioni, le emozioni e i comportamenti dell’individuo siano influenzati dall’ambiente sociale e al contempo che i processi sociali e cognitivi non siano tra loro separati, ma al contrario intrinsecamente congiunti (Smith e Mackie, 2004). La psicologia sociale è ai nostri giorni una disciplina ben consolidata: edita giornali scientifici, promuove centri di ricerca, associazioni accademiche, partecipa a varie aree
professionali nell’ambito del mondo aziendale, dei mass media, della comunità, delle
relazioni tra gli individui e le istituzioni.
La peculiarità di questa disciplina all’interno del più ampio settore psicologico è
quella di unire gli aspetti teorici a quelli applicativi. Come giustamente fanno notare Smith e Mackie, potenzialmente tutta la ricerca condotta dalla psicologia sociale è rilevante ai fini di questioni sociali significative. Essa è dunque contemporaneamente teorica e pratica.
LA STORIA
Dalla proto-psicologia sociale alla teoria di campo
Alla storia della psicologia sociale si applica in modo appropriato la famosa citazione di Ebbinghaus (1902) “la Psicologia ha un lungo passato, ma solo una breve storia”. Gli esseri umani si sono infatti posti domande psicosociali sin da quando sono
stati capaci di pensare gli uni agli altri, ma lo sviluppo sistematico e scientifico di
queste problematiche non ha visto la luce se non verso la fine del XIX secolo
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(Brehm, Kassin e Fein, 2005). I problemi che potremmo definire psicosociali appaiono infatti, nelle epoche precedenti, come residui delle discipline tradizionali e quindi lasciati ai margini del pensiero scientifico dominante (Amerio, 1998).
Negli ultimi anni dell’Ottocento troviamo invece le prime riflessioni scientifiche che hanno per oggetto lo studio del sociale in una prospettiva psicologica,
tanto da far parlare di proto-psicologia sociale (Lubek, 2000). Ispirato dalla osservazione informale che i ciclisti ottenevano una prestazione migliore quando correvano con altri concorrenti invece che da soli, Triplett (1898) progettò un esperimento che dimostrò come la prestazione dei bambini in un compito migliorava alla
presenza di altri bambini: in altri termini, dimostrò che il sociale poteva avere
un’influenza sul comportamento dell’individuo. Questo studio, per i risultati ottenuti e per le metodologie applicate, è stato considerato da diversi autori, in un’ottica retrospettiva, il primo inconsapevole tentativo di analisi sperimentale di un
fenomeno psicosociale.
Contemporaneamente agli studi di Triplett, Gustave Le Bon (1895), colpito dal
comportamento delle folle rivoluzionarie a Parigi nel 1871, iniziò a condurre uno
studio sistematico e scientifico della folla e del comportamento individuale in essa.
Una prima metariflessione sulla disciplina si deve invece a Wundt (1900-1920),
che operò una distinzione tra la psicologa individuale e la “psicologia dei popoli”.
Lo studio della mente umana, in quanto prodotto dell’evoluzione e della storia,
doveva essere affrontato da quest’ultima, fuori dal setting sperimentale di laboratorio.
È da notare che agli albori della psicologia sociale i concetti di folla e popolo
sostituivano quello di gruppo sociale. Nell’Europa del XIX secolo, ove questi studiosi
lavoravano, l’esperienza dei gruppi sociali era molto limitata a favore di un forte
inserimento dell’individuo nella famiglia allargata (Mucchi Faina, 1983). La nascita del concetto di gruppo e, con esso, di quello di interazione tra individuo e ambiente è resa possibile dalla emigrazione di alcuni psicologi negli Stati Uniti, ove la
realtà sociale si presentava molto più organizzata e ove l’appartenenza ai gruppi
sociali era decisamente più saliente.
Le radici vere e proprie di quella che è diventata la moderna psicologia sociale
affondano, infatti, negli studi condotti da uno psicologo tedesco di origine ebrea,
che emigrò negli Stati Uniti a causa dell’avvento del nazismo: Kurt Lewin. Tra gli
anni Trenta e Cinquanta del XX secolo Lewin sviluppò la teoria di campo e con
essa alcune nozioni che sono di fondamento alla psicologia sociale.
A fronte del predominante modello comportamentista orientato alla ricerca di
“leggi” stabilite su regolarità statistiche di causalità lineare, Lewin (1951) sostenne la necessità di condurre un’analisi approfondita dei fenomeni sociali attraverso
un’ottica dinamica che analizzasse le situazioni a livello dell’interdipendenza dei
fattori che vi agivano. La teoria di campo si propone, appunto, come una teoria
orientata a fornire una comprensione scientifica dei fatti sociali, e allo stesso tempo
come un metodo di analisi delle relazioni causali fra gli eventi.
Fondamentale per l’indagine psicologica è, secondo Lewin, l’assunzione di una
prospettiva fenomenologica, ove la realtà soggettiva trova il primato su quella fisico-oggettiva. Il comportamento umano è infatti fortemente influenzato dalla rappresentazione soggettiva del mondo che l’individuo formula. Attraverso la nozione di campo, Lewin mette a tema la sostanziale interdipendenza tra i processi intrainPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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dividuali e quelli dell’ambiente ove l’individuo si trova a vivere e ad agire. Il
campo è il mondo psicologico dell’individuo e consiste in un insieme di fattori
tra loro strettamente interrelati che influenzano l’agire individuale; è la totalità
dei fatti coesistenti nella loro interdipendenza. Il campo si presenta come un insieme dinamico in quanto è un sistema dotato di energia. Ciascuno degli elementi
presenti è considerato un vettore, dotato di forza e direzione, e ogni fatto che in
esso avviene trova spiegazione nella dinamica del sistema nel suo insieme. Una
delle asserzioni fondamentali della teoria è che qualsiasi comportamento o qualsiasi mutamento entro il campo psicologico dipende dalla particolare configurazione del campo in quel dato momento, e al tempo stesso ne determina il cambiamento. Le leggi del campo, quindi, non dipendono dalle singole caratteristiche
degli elementi che lo compongono, ma dalla configurazione del campo globalmente considerato. Nello spazio di vita dell’individuo sono inclusi molti elementi, non solo la struttura cognitiva, ma anche i bisogni, i fini, le motivazioni e gli
ideali. Per spiegare il comportamento umano, inoltre, occorre focalizzarsi sia sui
fattori interni sia su quelli sociali, quali l’appartenenza a un gruppo, le risorse economiche, le norme sociali ecc. Il comportamento umano è, secondo una celebre
funzione formulata da Lewin, funzione di elementi sia individuali sia ambientali
(C = f (P, A)).
Oltre all’elaborazione del concetto di campo e, con esso, di quello di interdipendenza, e al focus sulle motivazioni oltre che sulle cognizioni, a Lewin si deve il
merito di aver posto l’attenzione sull’analisi dei gruppi. Egli per primo identifica il
gruppo come oggetto psicosociale: esso può essere letto nei termini della teoria di
campo e della interdipendenza dei soggetti che lo compongono. È celebre la sua
affermazione secondo cui il gruppo si configura come più della semplice somma
delle sue parti, e per questo ha una sua consistenza specifica, indipendente da quella dell’individuo. Conseguentemente le ricerche empiriche sui fenomeni di gruppo
devono necessariamente assumere una prospettiva allargata, che analizzi il gruppo
nella sua realtà complessa fatta di ruoli, relazioni, comunicazione, potere ecc.
Un esempio significativo di piccolo gruppo naturale è la famiglia. Tale realtà
possiede pienamente, infatti, le caratteristiche dei piccoli gruppi sociali: la forte
interdipendenza dei suoi membri, la presenza di uno scopo e un destino comune
ecc. (Scabini e Iafrate, 2003). Secondo De Grada (1999) il vantaggio del gruppofamiglia è dovuto al fatto che esso viene considerato un sistema sociale in miniatura, che offre condizioni favorevoli allo studio delle relazioni e dei processi sociali fondamentali.
Riassumendo, le principali eredità che il pensiero di Lewin ha lasciato alla psicologia sociale sono: l’attenzione all’aspetto dinamico e di interdipendenza tra gli
elementi che compongono il campo, ovvero tra individuo e ambiente; il focus sulle
motivazioni e i bisogni dell’individuo, oltre che sui suoi processi cognitivi; e la considerazione del gruppo come specifico fenomeno psicosociale, definito come una
totalità dinamica caratterizzata dall’interdipendenza dei suoi membri.
L’eredità del ricco e profondo pensiero lewiniano non è stata però raccolta immediatamente dalla psicologia sociale. Lo sviluppo successivo di questa disciplina vede
il formarsi di due scuole differenti, sia per interessi di ricerca sia per aree geografiche di appartenenza. La prima, anche in senso cronologico, è la scuola americana,
centrata maggiormente sull’analisi dei processi sociali in relazione alle dinamiche
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cognitive intraindividuali; la seconda è la scuola europea, focalizzata maggiormente sullo studio dei processi interindividuali e di interazione tra individuo e ambiente sociale. Andiamo a esaminarne le caratteristiche più salienti.
La scuola americana
Negli Stati Uniti è la Seconda guerra mondiale che fa da propellente alla nascita
e allo sviluppo della psicologia sociale, dapprima ponendo le problematiche connesse all’adattamento dei soldati alla vita nell’esercito, e poi suscitando l’esigenza
di una comprensione psicologica del genocidio e della messa in atto di comportamenti aggressivi e “inumani”. Il primo sviluppo della disciplina, tra gli anni Trenta
e Cinquanta del XX secolo, è localizzato negli Stati Uniti, anche a causa del fatto
che molti psicologi europei avevano dovuto rifugiarsi in questo Paese durante la
guerra. Le correnti filosofiche del pragmatismo e del funzionalismo, allora dominanti in tale contesto (si vedano, per esempio, James, 1907; Dewey, 1910), contribuirono all’instaurarsi del predominio, nella psicologia sociale statunitense, di
un’ottica centrata sull’individuo. Queste correnti di pensiero considerano infatti
l’uomo come avente in sé, per natura, i principi del proprio agire, a prescindere
dal contesto e dalla storia. La centratura sull’individuale della psicologia sociale statunitense viene anche fortemente incoraggiata dalle influenze della Gestalt e dal
pensiero dei fratelli Allport: come emerge chiaramente da alcune affermazioni che
Gordon dà sulla disciplina:
“Non esiste una psicologia dei gruppi che non sia essenzialmente e interamente una
psicologia degli individui. La psicologia sociale non deve essere messa in contrapposizione alla psicologia individuale” (Allport, 1924).
I principali temi affrontati dalla prima comunità scientifica di psicologia sociale
sono quindi relativi allo studio dei processi mentali come determinanti del comportamento individuale, e nello specifico all’approfondimento di fenomeni come la
dissonanza cognitiva (Festinger, 1957) e l’elaborazione delle informazioni (Neisser,
1967). Questi studi fanno da preludio alla formazione della scuola della social cognition, punta di diamante della psicologia sociale americana, che vede il suo sviluppo a partire dagli anni Settanta.
LA
SOCIAL COGNITION
Il termine social cognition viene utilizzato sia per indicare la branca della psicologia
sociale che studia i processi cognitivi implicati nelle interazioni sociali, sia come
termine ombrello che raggruppa questi stessi processi cognitivi che sono oggetto di
studio. In questo orientamento la realtà sociale viene indagata come oggetto stimolo della cognizione, che per la sua specificità rende specifico anche il tipo di
cognizione. In particolare l’obiettivo è capire come l’individuo percepisce l’ambiente
sociale che lo circonda, come elabora le informazioni che provengono dall’ambiente, come riesce a comprendere e a dar senso ai comportamenti altrui, come
arriva a un giudizio su altre persone e su se stesso.
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Agli inizi della social cognition il focus è sullo studio dei processi di attribuzione causale, ovvero sull’analisi dei processi mentali attraverso cui arriviamo a spiegare le cause di un evento sociale. I primi modelli sono di tipo normativo, ovvero prescrittivi di ciò che le persone dovrebbero fare per spiegare le cause del comportamento sociale quando hanno tempo e dati a disposizione. Il modello di individuo che emerge è quello dello scienziato ingenuo.
Visto però che raramente nella vita di tutti i giorni le persone si conformano
al modello normativo, bensì spesso commettono molti errori nelle loro spiegazioni di causalità, un successivo sviluppo di questa scuola si è focalizzato sull’analisi
e comprensione delle distorsioni che gli individui attuano nel processare e organizzare le loro informazioni: dallo scienziato ingenuo si passa così all’economizzatore di risorse cognitive. Questo modello, a differenza del precedente, ha un carattere descrittivo, in quanto prende in considerazione ciò che le persone fanno effettivamente e non ciò che dovrebbero fare. Sulla base dell’assunto fondamentale
che gli individui possiedono una capacità cognitiva limitata, i ricercatori hanno
notato che essi commettono molti errori nel giudizio e nel ragionamento sociale,
per il fatto che utilizzano diverse scorciatoie di pensiero (euristiche) ogni volta
che possono farlo. Secondo questo modello le persone preferiscono soluzioni rapide basate su un numero limitato di fatti e di indizi salienti piuttosto che soluzioni lente basate sull’esame preciso di tutti i fattori presenti nel campo cognitivo in
un dato momento.
Comune a entrambi i modelli è una concezione dell’individuo piuttosto passiva.
Se il merito del pensiero lewiniano era stato quello di evidenziare come il comportamento umano potesse essere compreso pienamente se considerato come un
intreccio di fattori cognitivi e motivazionali, veicolando una concezione di individuo come elaboratore attivo di informazioni, in questi primi modelli sviluppati dalla
social cognition questa concezione viene perduta per un eccessivo sbilanciamento
a favore dei processi cognitivi. La motivazione o i sentimenti hanno infatti un ruolo
del tutto marginale in questi paradigmi. Con il passare degli anni però gli studiosi della cognizione sociale hanno recuperato l’importanza dei fattori motivazionali.
Il modello di individuo che caratterizza la ricerca contemporanea è quello del
tattico motivato (Fiske, 1992). Il tattico motivato è un pensatore sociale che utilizza le proprie strategie cognitive sulla base dei propri scopi, motivi e bisogni resi
salienti dalle diverse situazioni che incontra. L’assunto di base è che la percezione
umana non riproduce semplicemente la realtà esterna: la ricostruisce. Il focus è
quindi sulle diverse motivazioni che influenzano i processi di conoscenza della realtà
sociale.
La scuola europea
L’idea della realtà sociale come un insieme di rapporti e azioni dotate di senso per
le persone, e l’idea che gli individui non sono solo attori passivi nel contesto sociale, ma agiscono e fanno progetti, già presenti nella prospettiva lewiniana, vengono in parte recuperate dallo sviluppo della psicologia sociale in Europa.
Nel secondo dopoguerra, infatti, l’Europa è terreno fertile per lo sviluppo di
una nuova forma di psicologia sociale che si caratterizza per la sua attenzione agli
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aspetti di interazione tra individuo e società. Figura centrale e perno dello sviluppo di questa seconda scuola di pensiero è certamente Henri Tajfel. Il suo contributo non è limitato allo sviluppo di teorie che oggi informano gran parte della
riflessione e sperimentazione psicosociale, come la teoria dell’identità sociale (vedi
sottoparagrafo “Il conflitto tra gruppi sociali”), ma determinanti sono state anche
le sue riflessioni teoriche e metodologiche sulla disciplina, che ne hanno influenzato notevolmente gli attuali destini (Contarello e Mazzara, 2000). Nello specifico Tajfel fu molto deciso nel promuovere una ricerca che tenesse conto delle
variabili sociali attive in un dato contesto, che causano e insieme sono causate
dai fenomeni psicosociali presi in esame, aborrendo quelli che egli definiva, per
riprendere il titolo di un suo famoso contributo, Esperimenti nel vuoto (Tajfel,
1972).
È in questo clima culturale che nasce, nel 1964, la European Association of
Experimental Social Psychology, associazione che ha rappresentato e rappresenta
un vero punto di riferimento scientifico per gli psicologi sociali europei. Il volume
The context of social psychology (1972), curato da Tajfel stesso, si configura come
una sorta di manifesto di questo nuovo orientamento (Palmonari, Cavazza e Rubini,
2002). In questo testo si afferma in modo deciso la necessità di sviluppare una psicologia sociale come disciplina autonoma, ponte tra la psicologia e le altre scienze sociali, e come essa debba in primo luogo e primariamente occuparsi dello studio della “produzione” dei legami sociali.
Una seconda figura di spicco per la psicologia sociale europea è certamente
Serge Moscovici. Non solo la sua produzione scientifica ha inaugurato un filone
di ricerca particolarmente fecondo, ma anche la sua metariflessione sulla disciplina ne ha segnato le sorti e gli attuali orientamenti. Per Moscovici la psicologia sociale non può essere solo una disciplina che studia i rapporti tra individuo
e società, piuttosto dovrebbe porre la sua attenzione in modo prioritario sul comportamento simbolico dei soggetti sociali, sia individui sia gruppi. Secondo questo
autore vi è un conflitto strutturale tra individuo e società, che si esprime in termini di resistenza ora al conformismo, ora alla capacità di elaborare posizioni
innovative rispetto ai paradigmi culturali dominanti ecc. La psicologia sociale si
dovrebbe concentrare sui termini di questo conflitto attraverso l’analisi dei fenomeni simbolici, dell’ideologia, della comunicazione e della cognizione, analizzati
nella loro genesi e nel loro funzionamento. Il richiamo è dunque allo studio degli
stereotipi, dei pregiudizi, delle credenze collettive, in ultima analisi delle rappresentazioni sociali. Quest’ultima dimensione è stata definita da Moscovici, a partire da alcune suggestioni già presenti nel pensiero di Durkheim, come l’elaborazione di un oggetto sociale da parte di una comunità, che permette ai suoi membri di comunicare in modo comprensibile e di comportarsi secondo uno schema
dotato di senso (Moscovici, 1963). Lo studio delle rappresentazioni sociali è luogo
di analisi privilegiata del conflitto tra individuo e società nel contesto concreto
dei rapporti simbolici esistenti tra gli stessi attori sociali (individui o gruppi) e
tra attori sociali e istituzioni. Il contributo di Moscovici, sulla definizione dei
contenuti della psicologia sociale, converge anche verso una riflessione metodologica. Secondo questo autore, lo studio delle interazioni sociali richiede di abbandonare una logica binaria definita dal rapporto io-oggetto, per abbracciare una
lettura ternaria dei fatti e delle relazioni espressa come io-altro-oggetto. Tra il
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soggetto e l’oggetto si inserisce come mediatore il sociale, attraverso i significati, le credenze collettive e le rappresentazioni che il sistema elabora e su cui l’individuo agisce e reagisce.
Le riflessioni sul metodo di analisi proprio di questa disciplina hanno continuato a segnare la produzione europea. Un apporto particolarmente fecondo è
quello di Willem Doise (1982), allievo di Tajfel e di Moscovici. Questo autore
sostiene che si possono distinguere quattro livelli di spiegazione negli studi di psicologia sociale sperimentale. Si tratta non di livelli di realtà diversi, ma di livelli di analisi differenti. Il primo livello è quello intraindividuale ed è rappresentato
nelle teorie che descrivono i processi psicologici di base attraverso cui l’individuo
percepisce, valuta e agisce nel mondo sociale. È il livello in cui si analizzano le
caratteristiche del funzionamento individuale, come cognizioni, pensieri e azioni.
Il secondo livello è interpersonale e situazionale ed è proprio delle teorie che analizzano i processi psicologici in una data situazione sociale; riguarda, in altri termini, l’influenza che l’interazione tra gli individui può esercitare sulle abilità cognitive e sul comportamento dei singoli. Il terzo livello viene chiamato posizionale,
perché considera anche la posizione che l’individuo occupa nel sistema sociale più
ampio, indipendentemente dalla situazione contingente in cui si trova ad agire. Il
quarto livello è quello ideologico e delle rappresentazioni e si occupa di come sistemi di credenze, valori, norme sociali incidono sulla vita mentale e sul comportamento dell’individuo.
Da un’analisi condotta dallo stesso Doise (1982) sugli articoli scientifici pubblicati sulle riviste di psicologia sociale fino agli inizi degli anni Ottanta, risulta che
la produzione di ricerca si è soffermata prevalentemente sui primi due livelli di analisi. Il livello della posizione e il livello delle ideologie e rappresentazioni sono stati
trascurati, soprattutto dalla psicologia sociale americana.
Sebbene queste affermazioni di Doise restino in parte, dopo circa 20 anni, ancora attuali, la psicologia sociale contemporanea ha trovato un sviluppo sempre più
ampio definendo e promuovendo variegati ambiti di ricerca, ma soprattutto
ampliando notevolmente i suoi confini geografici. Alla psicologia sociale americana ed europea si sta affiancando una nuova scuola asiatica particolarmente interessata, come vedremo, allo studio delle influenze culturali sui diversi fenomeni psicosociali.
Nei paragrafi seguenti verranno introdotte alcune tematiche di cui la psicologia sociale si è occupata. Ovviamente, per i limiti di spazio e per gli obiettivi
che questo contributo si propone, sarà impossibile proporre una revisione completa di tutte le prospettive teoriche e di ricerca che compongono, come un mosaico, il panorama della psicologia sociale. Abbiamo pertanto deciso di toccare solo
alcuni dei temi e degli ambiti di ricerca principali di questa disciplina, per illustrarne i contenuti e le principali acquisizioni. Riprendendo una classica distinzione, in questo percorso affronteremo in primo luogo gli studi che in un’ottica
psicosociale si sono occupati della conoscenza del mondo sociale e della sua rappresentazione, e nello specifico, all’interno di questo ambito, tratteremo del tema
del sé e dell’identità. Passeremo poi a illustrare gli studi sulle interazioni sociali,
e in particolare l’ambito di ricerca relativo alle relazioni interpersonali. Infine
tratteremo la psicologia dei gruppi, con particolare riferimento allo studio delle
relazioni tra gruppi sociali.
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LA COSTRUZIONE DEL SÉ E DEL MONDO SOCIALE
Questo ambito di studio affronta la questione di come la percezione, la memoria,
il linguaggio e il pensiero sono influenzati dal contesto sociale. Come ci formiamo
le prime impressioni sugli altri? In quale misura i nostri pensieri e giudizi sono
influenzati dagli stereotipi e dai pregiudizi? Come vengono processate le informazioni che abbiamo di noi stessi? Molti degli studi di questa branca hanno avuto
delle valenze applicative, sulla valutazione del personale, sul marketing ecc., ma
sono anche state di ispirazione per la definizione di politiche sociali. In questa sede
ci soffermeremo sugli studi sul sé e sull’identità.
Studi psicosociali sul sé e sull’identità
All’interno della psicologia sociale, un foltissimo corpus di studi è dedicato allo
studio dell’identità e del sé1. Allport nel 1943 aveva previsto che gli studi sul sé
avrebbero trovato un’ampia diffusione nei decenni successivi, e di fatto in seno a
questa disciplina negli ultimi decenni sono state sviluppate diverse teorie, come
la teoria dell’identità sociale, la teoria della categorizzazione del sé, la teoria dell’identità ecc., che secondo diverse prospettive, spesso complementari, hanno sviluppato un pensiero teorico e fornito molti dati di ricerca utili alla comprensione
di questa realtà.
L’identità è il prodotto dinamico di alcuni processi individuali e sociali di tipo
affettivo, cognitivo e relazionale. Non solo come conosciamo noi stessi è un fatto
intrinsecamente legato al sociale, ma anche chi siamo è il prodotto di una costante interazione tra individuo e ambiente. Per comprendere che cosa sia l’identità è
cruciale porre l’attenzione su tre aspetti: le componenti strutturali, i processi attraverso i quali le componenti strutturali dell’identità sono organizzate, e i principi
motivazionali che guidano questi processi (Breakwell, 1986). Andiamo a vedere
nello specifico ciascuno di questi aspetti.
LA
STRUTTURA DELL’IDENTITÀ
Per struttura dell’identità si intende l’organizzazione dei suoi contenuti a livello cognitivo. Il sé viene definito come l’insieme di autorappresentazioni o elementi che
riguardano la nostra persona. Le nostre autorappresentazioni, o i nostri elementi
identitari, si qualificano in base al loro livello di categorizzazione, se più o meno
inclusivi gli altri o i gruppi sociali (Sedikides e Brewer, 2001). Il primo livello (individual self) è dato dagli attributi individuali di una persona, come l’essere timido,
ottimista ecc. Il secondo (relational self) riguarda la sfera delle relazioni interpersonali, nella misura in cui le relazioni con gli altri entrano a far parte della nostra
definizione del sé, come per esempio l’essere madre di Andrea o sorella di Barbara.
Infine il terzo livello (collective self) riguarda una categorizzazione più ampia, relativa all’appartenenza a particolari gruppi sociali o collettività, come l’identificarsi
1
In questa sede ci si riferisce ai termini sé e identità come sinonimi (si veda Breakwell, 1987).
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con una nazione o una ideologia o tifare per una certa squadra di calcio. Come si
può notare da questa distinzione, le nostre interazioni con gli altri e la nostra identificazione con i gruppi sociali entrano a far parte integrante di ciò che noi siamo.
Essi sono elementi determinanti perché danno sostanza al contenuto delle rappresentazioni che abbiamo di noi stessi ed entrano a far parte a pieno dell’intreccio
che costituisce il tessuto della nostra identità.
La struttura dei diversi elementi identitari che compongono il nostro sé è gerarchica in quanto tali elementi differiscono nei termini di importanza e centralità.
Gli elementi più centrali sono quelli che al tempo stesso sono più salienti, ovvero che ricorrono maggiormente alla memoria nelle diverse circostanze della vita,
mentre quelli più periferici sono attivi solo in circostanze specifiche che ne elicitano la presenza. L’identità quindi non ha una struttura stabile e monolitica, ma al
contrario vi è una costante interazione tra le circostanze di vita in cui ci troviamo e ciò che siamo. In alcune circostanze, come per esempio in una cena tra amici,
possono essere più salienti alcuni elementi della nostra identità, mentre in altre,
per esempio al lavoro, posso risultare come più importanti altri elementi. La costellazione di schemi del sé che sono attivi in un dato momento è chiamata sé operativo (Markus e Wulf, 1987). Altri cambiamenti identitari sono invece più strutturali e definitivi e modificano la struttura gerarchica del sé. Essi avvengono primariamente in risposta a un forte periodo di transizione, come può essere la nascita
di un figlio o il pensionamento, eventi che richiedono all’individuo un lavoro di
ridefinzione della propria struttura identitaria per far posto, per esempio, a un nuovo
elemento (come l’essere padre o l’essere pensionato).
Oltre a possedere un concetto di sé attuale, gli individui si formano delle idee
di sé idealizzate: il sé normativo, che racchiude gli schemi di ciò che sentiamo
che dovremmo essere, e il sé ideale, contenente le informazioni su ciò che vorremmo essere (Higgins, 1987). È stato ampiamente dimostrato dalla letteratura
che la discrepanza tra ciò che siamo realmente e il nostro sé ideale e normativo
ha un impatto sui nostri stati emotivi. Nello specifico, una forte discrepanza tra
sé reale e normativo provoca nell’individuo degli stati emotivi di tipo ansiogeno. Viceversa, la discrepanza tra sé reale e sé ideale produce una reazione di tipo
depressivo.
Sulla struttura degli schemi identitari agiscono poi alcuni schemi chiamati regolatori del sistema: i self-construal (Markus e Kitayama, 1991). Essi differenziano la
loro regolazione del sé a seconda della cultura di appartenenza. Sono quindi fortemente influenzati dal contesto culturale. Il self-construal può essere indipendente, se regola il sé in modo da privilegiare la centralità degli elementi individuali o personali nell’identità, interdipendente, se privilegia gli elementi di appartenenza ai gruppi sociali, oppure relazionale (Cross e Madson, 1997), se privilegia gli elementi relazioni del sé. Il primo tipo di self-construal è legato alla cultura maschile dei contesti individualisti (localizzati generalmente nei Paesi occidentali), il secondo tipo è proprio delle culture collettiviste (presenti nei Paesi
orientali e africani), il terzo è tipicamente legato alla struttura dell’identità femminile. Lo studio dei self-construal è di particolare interesse in quanto si propone come l’anello di giuntura tra il culturale e lo psichico. Il self-construal, infatti, incidendo sull’identità, regola indirettamente anche le emozioni e i comportamenti dell’individuo.
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I
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PROCESSI DELL’IDENTITÀ
L’identità può essere dunque pensata come una struttura cognitiva costruita dall’individuo attraverso alcuni processi. Con il termine processi identitari ci si riferisce alle modalità attraverso cui gli individui assumono un nuovo elemento identitario e gli attribuiscono un posto nella organizzazione gerarchica, oppure modificano o eliminano elementi già esistenti (Breakwell, 1986).
Secondo Breakwell sono attivi tre processi nella costruzione dell’identità: l’assimilazione, l’accomodamento e la valutazione. Il primo processo si riferisce all’assorbimento di una nuova definizione di sé nella struttura identitaria; l’accomodamento si riferisce all’aggiustamento che avviene nella struttura preesistente dell’identità per posizionare questa nuova informazione; la valutazione è relativa
all’attribuzione di valore agli elementi che sono assimilati nell’identità. Le operazioni di assimilazione, accomodamento e valutazione sono guidate da alcune
motivazioni che definiscono quale stato finale è desiderabile ottenere tramite questi processi. Breakwell individua quattro motivi: autostima, continuità, efficacia
e distintività.
Il contesto esterno, sociale e culturale, ha un’incidenza diretta sulla costruzione
dell’identità, in primo luogo perché determina la forza che le motivazioni assumono sui processi di assimilazione, accomodamento e valutazione. In altri termini, l’influenza delle motivazioni identitarie è moderata dal significato e dall’importanza
che la cultura di riferimento attribuisce a esse. Nei contesti culturali individualisti, per esempio, si presuppone che la distintività abbia un ruolo più importante
rispetto ai contesti collettivisti. Anche il network sociale e relazionale è determinante per comprendere le differenze interindividuali all’interno di una stessa cultura nella forza che assumono i principi nei processi di costruzione dell’identità. In
secondo luogo il contesto dove l’individuo vive è responsabile anche del carattere
dinamico dello sviluppo identitario, che avviene non solo come risposta a una situazione destabilizzante o minacciante, ma anche come risultato di processi cognitivi
interni, di conoscenza di sé e confronto con il mondo circostante.
Quest’ultimo aspetto è stato particolarmente messo in luce da un modello recentemente sviluppato da Bosma e Kunnen (2001), che fornisce una visione più dettagliata sul funzionamento dell’assimilazione e dell’accomodamento. Secondo questi autori una nozione importante in molte teorie sull’identità è il carattere iterativo dello sviluppo dell’identità2. In altri termini, lo sviluppo a lungo termine nell’identità è determinato da una sequenza di processi a breve termine. La Figura 33.1
mostra un diagramma del modello.
A un microlivello, un’iterazione può essere vista come una transazione tra il
contesto e la persona, o, in modo più specifico, tra la struttura identitaria e le
informazioni che provengono dall’ambiente esterno. Questa transazione può avere
come risultato un accordo tra la struttura identitaria esistente e il contesto, oppure può avere come esito un disaccordo o un conflitto. Il conflitto avviene generalmente al livello delle motivazioni identitarie, per esempio quando il bisogno di
2
Con il termine iterativo si intende che lo stesso meccanismo viene ripetuto molte volte, e che
il punto di partenza di ogni nuova ripetizione è il punto di arrivo della ripetizione precedente.
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CONTESTO
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IDENTITÀ
TRANSAZIONE
accordo
conflitto
ASSIMILAZIONE
successo
fallimento
no
ACCOMODAMENTO
Legenda:
conferma;
sì
indebolisce;
cambia;
porta a.
Figura 33.1 Sintesi del modello proposto da Bosma e Kunnen sui processi che regolano la costruzione dell’identità.
autostima o appartenenza viene minacciato dal contesto ambientale. Quando si
determina un conflitto viene richiesta un’azione che risolva la situazione. Il conflitto è però solo il primo step verso il cambiamento dell’identità: l’individuo, infatti, generalmente mette in atto altre strategie che gli consentono di risolverlo senza
apportare mutamenti nella propria struttura identitaria. Quando ci si confronta
con informazioni che entrano in conflitto con la propria definizione di sé, si tende
infatti a risolvere il problema attraverso l’assimilazione3, ovvero cercando di cambiare la percezione o interpretazione della situazione, o, se possibile, modificando
la situazione stessa, in modo da trovare di nuovo accordo tra l’ambiente e la propria identità. Il tentativo di assimilazione solitamente viene agito dall’individuo
in modo automatico. Se l’assimilazione avviene con successo, la struttura esistente dell’identità viene confermata e non risulta necessario un cambiamento. Solo
quando l’assimilazione non ha successo il processo di accomodamento entra in
gioco. L’accomodamento richiede un adattamento dell’identità alla nuova situazione. Ciò non avviene molto facilmente. Generalmente le persone agiscono delle
forti resistenze, anche di fronte a un aperto conflitto, prima di cambiare la propria identità. In questo caso i conflitti permangono irrisolti, e la loro presenza
porta a un indebolimento della struttura gerarchica del sé che non ottiene più
3
È da notare che l’accezione con cui Bosma e Kunnen si riferiscono al termine “assimilazione”
è diversa da quella utilizzata da Breakwell nella teoria del processo d’identità.
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Psicologia in azione
conferme dall’ambiente esterno e, di conseguenza, non riesce più a offrire alla persona un senso di identità forte. Questo indebolimento apre, dopo un certo periodo di tempo, la possibilità al cambiamento.
LE
MOTIVAZIONI IDENTITARIE
Come già emerso, i processi di costruzione e cambiamento del sé risultano essere
fortemente influenzati da alcune motivazioni o bisogni.
Che cosa ci spinge a diventare designer piuttosto che psicologi, a tifare Roma o
Inter, a decidere di sposarci o di restare single impenitenti?
Moltissimi autori sono concordi nell’affermare che alcuni bisogni umani sono
alla base dei processi di scelta delle nostre componenti di identità. In altri termini, ogni persona nel costruire la propria identità cerca di soddisfare alcuni di questi bisogni o motivazioni.
In primo luogo, l’autostima. Secondo diversi psicologi sociali, infatti, nello scegliere particolari elementi per la nostra identità facciamo in modo di accrescere la
valutazione positiva di noi stessi. È questa la posizione di Tajfel e Turner (1979).
Secondo tali autori parte della nostra identità, l’identità sociale, deriva dall’identificazione che operiamo con i nostri gruppi di appartenenza, e queste identificazioni risulterebbero guidate dallo scopo di possedere una valutazione positiva del
sé. In altri termini, l’identità sociale è legata al proprio gruppo di appartenenza, ma
l’adesione a un gruppo e il permanervi sono in funzione del contributo positivo che
il gruppo dà a questa identità. Vale anche l’effetto inverso, cioè l’individuo che si
trova a far parte di un gruppo cercherà di rafforzare la caratterizzazione del gruppo
in modo che risulti soddisfacente per la sua autostima. Diverse ricerche hanno poi
dimostrato che manifestiamo maggiore attenzione e fiducia verso le informazioni
che sostengono una valutazione positiva del nostro sé; generalmente vediamo noi
stessi all’interno di un gruppo come “migliori rispetto alla media” rispetto a diverse dimensioni; quando la nostra autostima è minacciata tendiamo ad essere depressi o tristi, o mettiamo in atto tentativi energici per minimizzare i danni per la
nostra identità: qualche volta cercando di sistemare la situazione attraverso il nostro
comportamento e i nostri pensieri, e qualche volta rispondendo con ostilità verso
la fonte della minaccia (per una revisione si veda Baumeister, 1998).
Tuttavia, recentemente, molti ricercatori hanno indicato l’esistenza di altre motivazioni, oltre all’autostima, che potrebbero essere fortemente implicate nei processi di identità e nei comportamenti a essi associati.
Secondo Baumeister e Laery (1995) esiste un bisogno fondamentale nella natura umana, il bisogno di creare e mantenere almeno una minima quantità di relazioni interpersonali che siano durature, positive e significanti: il bisogno di appartenenza. L’autostima sarebbe un bisogno secondario, un termometro che indica all’individuo il grado con cui è considerato accettato o rifiutato dalle altre persone e lo
motiva di conseguenza a comportarsi in modo tale da mantenere almeno un livello minimo di accettazione da parte del prossimo. In questa prospettiva l’autostima
è considerata come uno strumento motivazionale che aiuta l’individuo a soddisfare un bisogno ritenuto più fondamentale: il bisogno di appartenenza.
Questa teoria è particolarmente interessante perché fornisce una spiegazione dell’importanza che acquista l’autostima in molti fenomeni psichici. Il modello del
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sociometro, infatti, collega direttamente l’autostima ai processi con cui normalmente le persone mantengono le loro relazioni con gli altri. Le relazioni interpersonali sono di fatto legate alla sopravvivenza per l’essere umano. Inoltre questa teoria rende conto delle diverse evidenze empiriche che attestano un legame tra appartenenza e autostima.
Secondo Snyder e Fromkin (1980), invece, l’autostima non è legata solamente
al bisogno di appartenenza, ma anche al bisogno di sentirsi unici. Il bisogno di sentirsi unici e distinti dagli altri è attestato da diverse evidenze empiriche. È stato
infatti provato che un riscontro di eccessiva somiglianza porta l’individuo a sperimentare emozioni negative; inoltre, l’eccessiva somiglianza porta l’individuo a valutare in modo più positivo esperienze alternative e originali; infine, gli individui
dimostrano di avere una maggiore attrazione verso persone a essi moderatamente
simili, piuttosto che totalmente simili o totalmente differenti.
Sull’equilibrio tra bisogno di appartenenza e distintività al livello di identità
sociale si è espressa anche la teoria della distintività ottimale. Secondo questa teoria
(Brewer, 1991), l’identificazione con un gruppo di appartenenza deriva da una tensione fondamentale tra il bisogno di riconoscimento e similitudine con gli altri e un
opposto bisogno di unicità e individuazione (p. 477). Una delle caratteristiche essenziali di questa teoria consiste nel considerare il bisogno di similarità e quello di differenza come opposti:
“l’essere troppo distinti dagli altri lascia l’individuo nel rischio di essere isolato ed allontanato dal resto del gruppo. D’altro canto una totale perdita di caratteristiche proprie a favore del gruppo non fornisce le basi necessarie per poter apprendere nel confronto con gli altri e definire meglio la propria identità […]. Di conseguenza, non si è
normalmente a proprio agio né in contesti sociali in cui si è troppo diversi dagli altri,
né in quelle situazioni in cui si appare del tutto omologati” (Brewer, 1991, p. 478).
Un’altra motivazione identitaria è stata individuata in seno alla teoria della riduzione di Abrams e Hogg (1990). Questo modello parte dalla constatazione che gli
individui sono costantemente sottoposti a un sentimento di incertezza riguardo alla
propria identità, causato dai cambiamenti sociali e di vita. Il sentirsi appartenente
a un gruppo reale e in relazione ad altri che condividono lo stesso contesto riduce indubbiamente questa incertezza. Secondo Hogg (2000)
“l’incertezza motiva l’identificazione attraverso una categorizzazione sociale di sé che
è saliente a livello cronologico e di contesto. Le persone sono motivate così ad affermare una propria identità sociale, formando nuovi gruppi, aderendo a gruppi già esistenti, e ricostruendo prototipi per cercare di dare una soluzione alla propria incertezza” (p. 233).
Un’altra motivazione che ci orienta nella costruzione dell’identità sarebbe dunque quella di dare un senso alla realtà che ci circonda.
Le motivazioni identitarie individuate in letteratura sono numerose e per certi
versi simili tra loro. Recentemente è stato proposto (Vignoles, Regalia, Manzi et
al., 2006) un nuovo modello sulle motivazioni identitarie allo scopo di integrare
le diverse teorie su questo argomento: il modello a sei motivazioni (6MM). Questo
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modello prevede che l’autostima, l’efficacia, la distintività, l’appartenenza, la continuità e il bisogno di senso siano dei principi guida dei processi identitari, e che
abbiano tutti un effetto unico e indipendente sui processi di costruzione dell’identità. L’ipotesi derivata dal modello secondo cui queste motivazioni hanno un impatto sui processi di costruzione dell’identità è stata testata dagli autori attraverso diverse ricerche empiriche. Dai risultati di questi studi è emerso che ognuna delle motivazioni presenti nel modello ha un effetto significativo sull’identità indipendente
dall’effetto delle altre.
RECENTI
LINEE DI RICERCA SULL’IDENTITÀ
Come abbiamo visto finora, la nostra identità è una realtà complessa, luogo quasi
privilegiato per osservare il continuo intreccio tra individuale e sociale. Recentemente l’attenzione degli psicologi sociali che si occupano di questi temi è stata catturata dall’analisi delle influenze culturali sul sé. L’articolo di Markus e Kitayama
dal titolo “Culture and the self: Implications for cognition, emotion, and motivation”, pubblicato nel 1991 da Psychological Review, ha fortemente messo in luce
come l’identità e le dinamiche psicologiche a essa collegate risentano di una forte
influenza da parte della cultura nella quale essa si costruisce. Come Triandis (1999)
ha recentemente puntualizzato, la ricerca psicosociale è stata dominata da una strategia etnocentrica, che ha considerato universali teorie e strumenti nati in culture e popolazioni del primo mondo; le ricerche che hanno messo a confronto culture differenti hanno mostrato la relatività delle leggi psicologiche considerate universali nella sfera occidentale. Di conseguenza l’attenzione agli aspetti culturali è
diventata una richiesta emergente nella comunità scientifica internazionale. Così
come in altri ambiti di studio, dunque, gli interessi di ricerca sul sé e sull’identità
attuali sono volti ad analizzare se e in che misura le acquisizioni della psicologia
sociale su questo tema possano essere confermate anche in contesti culturali diversi rispetto a quelli individualisti ove la disciplina si è fino a ora maggiormente sviluppata. Tutto ciò ha portato anche a un progressivo sviluppo della disciplina nei
contesti asiatici. I contribuiti teorici e di ricerca sull’identità da parte di psicologi
sociali orientali si presentano infatti sempre più come elementi sostanziali in questo contesto di ricerca (si vedano, per esempio, Kashima, Foddy e Platow, 2002;
Yuki, 2003). Gli ambiti maggiormente toccati da questa nuova prospettiva riguardano l’analisi della struttura identitaria e sulle motivazioni dell’identità, in modo
specifico sull’autostima. Di particolare interesse a questo riguardo sono i dati provenienti da alcune ricerche condotte in Giappone sulle modalità di identificazione con i gruppi e sull’autostima, ricerche che hanno messo in luce una sostanziale differenza tra il modello occidentale e quello orientale in queste dinamiche psicologiche che riguardano la formazione del livello sociale e collettivo dell’identità.
LE INTERAZIONI SOCIALI
L’area che si occupa delle interazioni sociali si focalizza sul come le persone coordinano il loro comportamento con il comportamento messo in atto dagli altri. Temi
fondamentali sono la formazione delle relazioni interpersonali, la cooperazione,
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aggressività, il comportamento prosociale. Le domande a cui risponde questa branca della psicologia sociale sono: quando le persone agiscono per interesse personale o per interesse mutuo? perché le persone sentono il bisogno di condividere le
loro esperienze con gli altri? esiste l’altruismo? ecc. In questa sede ci soffermeremo
sullo studio delle relazioni interpersonali.
Le relazioni interpersonali
Anche se lo studio delle relazioni interpersonali è piuttosto recente in seno alla
psicologia sociale, esso è di fondamentale interesse. I rapporti affettivi profondi,
infatti, sono molto importanti per il benessere personale, tanto da incidere non
solo sul tono emotivo ma anche sulla salute fisica delle persone. La ricerca sviluppata in questo ambito ha avuto una enorme fecondità applicativa, alimentando molti programmi di intervento per le scuole, per le famiglie, per gli anziani ecc.
Gli psicologi sociali si sono occupati di studiare come i rapporti con gli altri si
sviluppano e cambiano nel corso del tempo, nonché di approfondire le caratteristiche proprie di ciascun tipo di relazione umana, da quella di conoscenza, all’amicizia, all’amore, fino a giungere alle diverse forme di legame che costituiscono
la vita familiare di un individuo.
LA
GENESI DEI RAPPORTI INTERPERSONALI
Per quanto riguarda l’inizio di un rapporto interpersonale, diversi studi hanno
mostrato come una forte componente dell’attrazione tra due persone che non si
conoscono sia determinata dall’avvenenza fisica. Generalmente, infatti, ci sentiamo attratti dalle persone che consideriamo più belle, e questo determina il tentativo di interagire con esse. Inoltre le persone trovano più piacevole interagire
con persone che considerano avvenenti, anche se l’importanza che assume l’avvenenza fisica all’inizio di una relazione può variare: gli individui che hanno un
livello di automonitoraggio maggiore, vale a dire quelli che prestano maggiore
attenzione al giudizio che gli altri formulano su di loro, sono più orientati a interagire come persone fisicamente belle e attraenti e scelgono partner amorosi più
avvenenti. È stata riscontrata anche una differenza di genere sull’incidenza che
assume l’avvenenza fisica nell’interazione: gli uomini generalmente assegnano un
peso maggiore all’aspetto fisico delle persone con cui interagiscono. La cultura
segna fortemente ciò che viene considerato avvenente o meno, basti pensare a
come sia cambiato in Occidente il modello di status symbol dagli anni Cinquanta
del secolo scorso fino a oggi. La bellezza però non è tutto… sebbene ci avviciniamo più facilmente alle persone che consideriamo belle, per il consolidarsi di
un rapporto è fondamentale che ci sia un’interazione positiva. Secondo gli psicologi sociali l’interazione positiva con gli altri è fondamentale per l’individuo
perché soddisfa due bisogni considerati di primaria importanza: il bisogno di dare
un senso alla realtà, che ci rassicura rispetto all’interpretazione del mondo e della
vita, e il bisogno di appartenenza, che ci fa sentire vicini nella relazione con un
altro (vedi anche il sottoparagrafo “Le motivazioni identitarie”). Generalmente
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Psicologia in azione
ci piace interagire con chi è simile a noi proprio perché nell’interazione siamo
confermati nel senso che abbiamo dato alla realtà, e anche perché sappiamo che
è più facile piacere a chi la pensa come noi.
Ma una volta rotto il ghiaccio tra due persone… che cosa determina lo stabilirsi di una relazione?
A questo proposito sono stati formulati diversi modelli che spiegano i fattori che
intervengono sul mantenimento delle relazioni interpersonali. Secondo Homans
(1961) ciò che regola il successo nelle relazioni umane è un modello di tipo economico, basato sulla legge dello scambio. Secondo questa teoria sono tre i fattori
che determinano il mantenimento di una relazione interpersonale. In primo luogo
i profitti, ovvero un rapporto positivo tra costi, intesi come tutto ciò che viene percepito come negativo nella relazione, e benefici. In secondo luogo le alternative,
vale a dire la valutazione della propria relazione a confronto con la relazione ideale o con le norme sociali e la valutazione dei costi che una eventuale dissoluzione
comporterebbe. Infine l’investimento, ossia il tempo, lo sforzo e le risorse che gli
individui hanno posto sulla relazione stessa. Le ricerche hanno dimostrato che effettivamente i benefici sono associati alla durata della relazione, mentre i costi non
lo sono (Rusbult, 1983). Un ulteriore sviluppo della teoria dello scambio è il modello dell’equità (Adams, 1965). Secondo Adams, non è il semplice bilancio individuale tra i costi e i benefici che una persona ottiene nella relazione a determinarne la stabilità, ma occorre tenere in considerazione anche la percezione che la persona ha dell’equità esistente nella relazione. Vale a dire che sono più durature le
relazioni con gli altri nelle quali percepiamo che ciò che noi stiamo ottenendo, o
sacrificando, è pari a quanto sta ottenendo o sacrificando l’altro. Quando invece
percepiamo uno squilibrio, sia perché pensiamo di dare più di quello che l’altro sta
dando, sia perché pensiamo di ricevere più di quanto l’altro sta ricevendo, proviamo disagio e tendiamo o a ripristinare l’equilibrio o a dissolvere la relazione.
Sia la teoria dello scambio sia quella dell’equità si sono rivelate utili come quadri interpretativi delle interazioni che abbiamo con gli sconosciuti o delle regole
che governano il nostro rapporto con i semplici conoscenti, tuttavia paiono essere del tutto inappropriate nello spiegare le dinamiche che regolano i rapporti interpersonali più profondi, rapporti che si presentano come realtà molto più complesse. Clark e Mills (1993) hanno infatti sostenuto che occorre distinguere tra le
relazioni basate sullo scambio, ovvero quelle tra estranei e di lavoro, per le quali
funziona lo schema costi-benefici, e le relazioni basate sulla condivisione, come le
relazioni più intime nelle quali si prende in maggiore considerazione il benessere
dell’altro. Con i semplici conoscenti, infatti, tendiamo a pareggiare ciò che diamo
con ciò che riceviamo ed è il bilancio tra costi e benefici a determinare il grado
di soddisfazione di questo tipo di relazioni. Quando la relazione invece evolve, dal
piano della mera conoscenza a quello dell’amicizia o dell’amore, un partner ricompensa l’altro anche solo per una sincera sollecitudine nei suoi confronti e per dimostrargli affetto.
I
RAPPORTI AFFETTIVI PROFONDI
Che cosa trasforma due sconosciuti in amici? Lo sviluppo di un rapporto superficiale in uno più profondo comprende scambi di confidenze grazie alle quali i
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partner arrivano a conoscersi meglio (Reis e Shaver, 1988). Le confidenze riguardano eventi della propria vita nonché pensieri, sentimenti ed emozioni. L’apertura
di sé su questi temi alimenta un circolo virtuoso che sostiene la relazione. Alla
confidenza del partner generalmente consegue una risposta emotiva di tipo positivo e affettuoso: questo ci fa sentire capiti, apprezzati e stimati, e sollecita nuove
confidenze. Le confidenze sono anche funzionali all’instaurarsi di un rapporto
profondo perché è più facile coordinare l’interazione quando ciascun partner
conosce qualcosa delle capacità e dei gusti dell’altro, e una maggiore comprensione reciproca facilita la soddisfazione dei rispettivi bisogni. Gli scambi di ricompense e di confidenze alimentano sempre più una relazione facendo crescere il
livello di intimità tra due persone, fino all’instaurarsi di un rapporto affettivo
profondo.
Secondo Kelley (Kelley et al., 1983), elemento costitutivo dei rapporti affettivi profondi è non tanto la logica del profitto, né la positività delle interazioni,
che possono essere anche molto negative (pensiamo per esempio un rapporto tra
marito e moglie teso e conflittuale), ma l’interdipendenza. In buona sostanza questi autori cercano di superare almeno parzialmente, recuperando un concetto di
matrice lewiniana, lo schema troppo semplicistico dello scambio in termini utilitaristici, e si aprono a una prospettiva di reciprocità in cui l’altro è presente
non solo come terminale di un’azione scambio-vantaggiosa. C’è interdipendenza
in un rapporto quando i pensieri, le emozioni e i comportamenti di un partner
influenzano quelli dell’altro. L’interdipendenza tra i partner coinvolti in un legame profondo è di tre tipi: cognitiva, affettiva e comportamentale (Smith e
Mackie, 2004).
L’interdipendenza cognitiva è segnata da una progressiva inclusione del partner
nel proprio sé. Nel continuo scambio che contraddistingue questo tipo di rapporti i partner vengono a una profonda conoscenza reciproca. A mano a mano
che questa conoscenza si approfondisce con lo scambio di informazioni profonde
su di sé e sulla propria vita, le differenze che tipicamente esistono tra conoscenza di sé e dell’altro vengono meno. Ciò si manifesta in diversi modi. Per esempio è stato dimostrato che alcuni bias cognitivi che mettiamo in atto per difendere il nostro sé, come l’errore fondamentale di attribuzione o l’ottimismo irrealistico, vengono automaticamente applicati anche in relazione alle persone a cui
ci sentiamo più profondamente legati (Martz e coll., 1998). Così, quando vogliamo molto bene a una persona, tendiamo a giustificare il suo comportamento negativo, attribuendo una notevole importanza alle variabili situazionali (“Ha agito
così con me perché è in una situazione di stress lavorativo”), oppure tendiamo a
pensare come molto improbabili eventuali fallimenti che in realtà sono più comuni di quanto non pensiamo (“Il nostro rapporto non subirà le crisi che vedo nelle
altre coppie a me vicine”). Ciò che avviene, secondo Aron (Aron, Aron, Tudor
e Nelson, 1991), è un progressivo movimento di sovrapposizione tra il sé e l’altro: in un rapporto affettivo profondo il partner diventa parte del concetto di sé.
Questa fusione di identità fa sì che i meccanismi che sostenevano il funzionamento dei rapporti più superficiali, lo scambio di ricompense e di confidenza,
comincino a perdere importanza per essere sostituiti da una nuova logica che si
basa su una identificazione empatica con l’altro. In un rapporto affettivo profondo i partner non sono tesi a massimizzare il proprio interesse ma hanno “intePaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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resse” a che l’altro sia felice e a che la relazione si mantenga e prosperi nel tempo:
dalla logica dello scambio alla logica del dono (Scabini e Cigoli, 2000).
In questa prospettiva i bisogni e desideri dell’altro diventano indistinguibili dai
nostri e si crea una forte interdipendenza di tipo comportamentale, in quanto un partner esercita una forte influenza sulle decisioni, sulle attività e sui progetti dell’altro.
E proprio come trasforma i comportamenti e le cognizioni, la profondità di un
rapporto incide anche sui sentimenti attraverso lo sviluppo dell’intimità.
L’intimità, o vicinanza emotiva, si manifesta nella reciproca comprensione e nel
reciproco sostegno, nel desiderio di aiutare il partner e di condividere con lui il
tempo e le proprie risorse, e nel sentimento di benessere che si prova quando il
partner è presente. Essa si alimenta delle confidenze che i partner si scambiano,
delle loro manifestazioni di affetto e del supporto concreto che si danno.
Un interessante sviluppo della teoria dell’interdipendenza è stato proposto da
Caryl Rusbult, attraverso il modello dell’investimento (Rusbult, 1983). Secondo questa autrice la stabilità di una relazione sarebbe connessa a tre fattori: la soddisfazione percepita, il livello di confronto alternativo e l’investimento che in termini
di tempo e di risorse (concrete ed emotive) è stato riversato sulla relazione.
Questi tre fattori sarebbero, secondo Rusbult, gli antecedenti della dedizione. La
dedizione consiste in quella combinazione di forze diverse che spingono gli individui a impegnarsi in prima persona per promuovere e preservare il proprio rapporto. Essa porta con sé la rappresentazione interna dell’orientamento a lungo termine, come l’essere “legati” alla relazione con l’altro. Questo impegno etico nei confronti della relazione promuove la messa in atto di comportamenti protettivi nei
confronti della relazione, come per esempio quelli che Rusbult denomina comportamenti di accomodamento. Questi sono dati dalla tendenza di un partner a reagire
ai comportamenti distruttivi dell’altro in modo costruttivo. Infatti, a fronte del comportamento distruttivo, grazie alla dedizione, i partner imparano a guardare oltre,
compiendo considerazioni più ampie che toccano gli esiti delle loro azioni non solo
a breve termine, ma anche a lunga durata.
La ricerca ha ampiamente dimostrato che i rapporti connotati da forti sentimenti
di dedizione sono quelli che hanno meno probabilità di finire (Simpson, 1987),
confermando la validità del modello proposto da Rusbult.
Sternberg e Barnes (1988) hanno proposto una classificazione delle diverse tipologie di relazioni interpersonali a partire dalle dimensioni di intimità e dedizione,
aggiungendone una terza, la passione, che comprende l’attrazione fisica, il desiderio sessuale e il sentimento di innamoramento. A seconda di come si combinano
tra loro queste tre diverse componenti troviamo sette classi di rapporti interpersonali. La Figura 33.2 illustra questo modello.
Il pregio di questo modello consiste nel considerare la complessità delle relazioni umane e le diverse forme che esse possono assumere, evitando l’eccessiva semplificazione di categorizzare le relazioni in rapporti superficiali, amicizie e relazioni
romantiche (Palmonari, Cavazza e Rubini, 2002).
Oltre a considerare la presenza di queste componenti nella descrizione dei rapporti umani, Hazan e Shaver (1987) hanno posto la loro attenzione sulle caratteristiche individuali che entrano in gioco nel definire le relazioni interpersonali e, nello specifico, sugli stili di attaccamento (Bowlby, 1969). È noto come,
secondo la teoria dell’attaccamento, le esperienze che il bambino vive nei primi
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INTIMITÀ
ATTRAZIONE
(SOLO INTIMITÀ)
AMORE
(INTIMITÀ
ROMANTICO
E PASSIONE)
AMORE COMPLETO
(INTIMITÀ, PASSIONE
E DEDIZIONE)
RAPPORTO
INFATUAZIONE
(SOLO
PASSIONE)
PASSIONE
AMICIZIA PROFONDA
(INTIMITÀ E DEDIZIONE)
ABITUDINARIO
(SOLO
DEDIZIONE)
AMORE
FATUO
(PASSIONE
E DEDIZIONE)
DEDIZIONE
Figura 33.2 Sintesi della classificazione proposta da Sternberg e Barnes per le relazioni interpersonali.
anni di vita nella relazione con la sua figura di riferimento determinino la sua
capacità relazionale in età adulta attraverso quelli che Bolwby chiama working
models, schemi cognitivi che determinano le aspettative relative al comportamento di un’altra persona all’interno di una relazione.
Secondo Bowlby i working models non sono schemi fissi, ma possono modificarsi in seguito a nuove e ripetute esperienze di vita. Essi possono essere collegati a tre stili di attaccamento: sicuro, evitante e ansioso.
Gli individui che hanno sviluppato un attaccamento di tipo sicuro hanno
un’immagine positiva di sé e degli altri e per questo non hanno problemi a manifestare il loro affetto e ad affidarsi con fiducia al partner, certi di riceverne sostegno e gratificazione. Coloro che hanno uno stile di tipo ansioso sono generalmente dominati da una visione negativa del sé e positiva dell’altro. Ciò li spinge a vivere il rapporto con forte emotività e a temere l’abbandono, a provare più
gelosia e passione e un maggiore desiderio di fusione con il partner. Al contrario le persone che hanno uno stile di attaccamento evitante hanno una visione
positiva di sé e negativa dell’altro, temono l’intimità e hanno una minore accettazione del partner.
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Psicologia in azione
GLI
EFFETTI DEI RAPPORTI INTERPERSONALI
Perché alcune persone reagiscono meglio di altre quando accade qualcosa di negativo?
Le risposte a questa domanda possono essere molteplici, ma ultimamente tra gli
studiosi vi è una chiara tendenza a considerare delle buone relazioni interpersonali come ciò che meglio rende conto della capacità che l’individuo ha di affrontare le difficoltà della vita.
Nel 1976 l’American Journal of Epidemiology riportava una conferenza tenuta da
John Cassel al Wade Hampton Frost Lecture dal titolo “The contribution of the
social environment to host resistance”: nel corso di essa Cassel delineava una nuova
prospettiva per lo studio dell’epidemiologia. L’autore sottolineava come l’incidenza
delle condizioni ambientali sulla resistenza dell’organismo umano rivesta un’importanza più rilevante che non l’analisi della tossicità dei microrganismi. Per la
prima volta prendeva corpo la tesi secondo cui, se le malattie non dipendono esclusivamente dalla tossicità dei microrganismi ma dalla mancata resistenza a essi, la
minore o maggiore vulnerabilità del soggetto è legata alla qualità delle sue relazioni personali. Cassel, infatti, si chiedeva quali variabili ambientali facessero mutare la resistenza umana agli agenti tossici e rendessero gli individui più o meno vulnerabili alle malattie.
Oltre allo stato nutrizionale, alla fatica, all’eccesso di lavoro, da molti studi era
emerso un altro fattore decisivo: i contatti sociali significativi. Secondo Cassel,
infatti, le relazioni interpersonali assumevano un nuovo significato nell’epidemiologia:
“i dati riportati mi hanno fatto credere che non dovremmo più considerare i processi psicosociali secondo una prospettiva unidimensionale come stressanti o non-stressanti, ma secondo una prospettiva bidimensionale, che consideri da una parte lo stress
e dall’altra il beneficio e la protezione” (Cassel, 1976).
A riprova di ciò riportava i risultati di molteplici ricerche che misuravano il
sostegno sociale e lo stress con strumenti diversi, più o meno specifici e diretti, e
valutavano i risultati in modo differente (pressione arteriosa, complicazioni nella
gravidanza, mortalità, percezione soggettiva della propria salute). Il risultato era univoco: c’è un legame tra le relazioni interpersonali e il benessere della persona.
Nel 1977 alcune ricerche di Henderson riproponevano in modo più evidente
questo aspetto. Esse dimostravano infatti che la salute psicofisica era strettamente collegata alla presenza di sostegno offerto da altre persone, e che questo si verificava soprattutto nell’ambito delle relazioni più intime al soggetto. È stato infatti dimostrato che le persone si ammalano di meno, guariscono più in fretta, vivono più a lungo e sono più produttive se sono inserite in circuiti relazionali. Per
esempio, sono facilitate nel loro benessere non solo psichico ma anche fisico le
persone con un matrimonio riuscito rispetto a chi ha esperienza di divorzio, oppure le persone che affrontano l’età anziana circondate da figli e parenti rispetto a
chi è solo.
Da allora è impressionante il numero di pubblicazioni che hanno attestato questi effetti benefici e di nutrimento insiti nelle relazioni più intime e che ne hanno
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indagato i termini e le modalità. In psicologia sociale tutto ciò è stato sintetizzato
nel costrutto di sostegno sociale o supporto. Questo viene definito come le risorse
emozionali e materiali che altre persone mettono a disposizione di un individuo sia
in circostanza normali di vita, sia in periodi di particolare difficoltà.
In che modo il sostegno sociale offre questi effetti positivi? Nelle circostanze normali della vita quotidiana l’intimità e il sostegno degli altri ci aiutano a evitare la
solitudine e a essere più felici. Essi soddisfano il nostro primordiale bisogno di appartenenza (vedi il sottoparagrafo “Le motivazioni identitarie”) e di vicinanza emotiva. Nei momenti difficili, poi, avere qualcuno su cui poter contare per un sostegno ci dà la possibilità di confidarci, di trovare delle risposte empatiche e di godere di aiuti concreti “personalizzati” e non anonimi.
RECENTI
LINEE DI SVILUPPO NELLO STUDIO DELLE RELAZIONI INTERPERSONALI
Lo studio delle relazioni interpersonali negli ultimi anni si è sempre più focalizzato sull’analisi delle relazioni profonde allo scopo di indagarne le specificità. In particolare molta della letteratura si è dedicata ai rapporti di coppia, a indagarne le
peculiarità delle dinamiche, focalizzandosi ora sul conflitto, ora sulla comunicazione, ora sul perdono, ora su altri aspetti qualitativi della relazione come il supporto, la fiducia ecc.
Un folto corpus di studi si è invece focalizzato sullo specifico di altre relazioni
familiari come quella genitoriale e quella fraterna.
Ancora insufficientemente studiati risultano invece i rapporti amicali e le funzioni sociali cui essi assolvono soprattutto in età giovane adulta, come emerge chiaramente dal testo di Watters (2004), Urban Tribes.
A ogni modo la critica che possiamo muovere allo studio psicosociale delle relazioni interpersonali è che, sebbene i ricercatori si siano accorti che il modello economico del profitto è inadeguato allo studio della relazione profonda, ancora non
sono stati sviluppati modelli interpretativi di questa realtà che tengano conto della
peculiare eccedenza del relazionale sull’individuale. Ciò che avviene, infatti, in un
relazione che coinvolge e lega i partner a livello profondo è l’instaurarsi di una
nuova realtà consistente che eccede i partner, la relazione appunto. È proprio il
riconoscimento della consistenza di questa relazione che permette il passaggio dall’attenzione al proprio interesse alla “cura” della relazione. È questo guardare oltre
sé e il partner che rende possibile uno sguardo allargato che tiene in considerazione non solo ciò che è presente ma ciò che sarà.
LA PSICOLOGIA DEI GRUPPI
L’area dedicata allo studio dei gruppi si focalizza sull’analisi delle interazioni degli
individui all’interno dei gruppi sociali e delle relazioni tra gruppi sociali differenti. I ricercatori in questo ambito di ricerca si sono chiesti: dove affondano le radici dei comportamenti di discriminazione? Che cosa determina una situazione di
conflitto esasperato tra due gruppi sociali? Che cosa fa sì che un individuo divenga leader di un gruppo? Come affrontano i gruppi sociali gli elementi che al loro
interno si presentano come devianti? Inutile sottolineare l’importanza applicativa
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Psicologia in azione
che la risposta a queste domande assume. In questa sede ci soffermeremo sugli
studi che hanno analizzato le dinamiche di relazione tra i gruppi sociali.
Le relazioni tra i gruppi sociali
“Il modo in cui si sviluppano le relazioni fra gruppi umani di vario tipo è uno dei
problemi sociali fondamentali per il nostro tempo”.
Questa frase, formulata da Tajfel nel 1972, ben rappresenta l’importanza che il
tema delle relazioni tra i gruppi sociali assume all’interno di questa disciplina. È da
tenere presente che molti psicologi sociali avevano avuto esperienza, anche diretta, della guerra, del nazismo e dell’antisemitismo. Il compito di dare risposta alla
domanda sul perché e per come realtà così crudeli avessero avuto luogo era divenuto quindi prioritario per molti studiosi.
Lo studio delle relazioni intergruppo si configura dunque, in primo luogo, come
studio del conflitto tra gruppi. A livello scientifico si sono profilati due orientamenti di studio: il primo, ispirato al pensiero marxista e alla psicoanalisi freudiana, tentava una spiegazione dei fenomeni legati all’ascesa del nazismo riconducendoli a una distorsione quasi-patologica di alcuni degli attori principali di queste
vicende (si veda per esempio La personalità autoritaria di Adorno e coll., 1950); il
secondo, invece, forniva degli stessi aberranti fenomeni una spiegazione apparentemente più banale, ricollegandoli a processi psicologici e sociali più normali. I
contributi della psicologia sociale si inscrivono in questo secondo approccio.
Andiamo a vedere come.
IL
CONFLITTO TRA GRUPPI SOCIALI
Una prima spiegazione sul perché gli individui appartenenti a gruppi sociali differenti entrino in aperto conflitto, giungendo a episodi di aperta discriminazione è
stata fornita da Dollard (Dollard, Doob, Miller, Mowrer e Sears, 1939) attraverso
la teoria della frustrazione-aggressività. Secondo questo modello, pregiudizio e scontento sociale sono dovuti allo spostamento di aggressività conseguente a una frustrazione subita in una circostanza della vita sociale. Questo autore rilevò che gli
episodi di più aperta xenofobia erano storicamente collegati ai periodi di maggiore depressione economica. In questi momenti, infatti, le persone subiscono delle
frustrazioni più forti, e, non potendo scaricare la loro aggressività nei confronti della
fonte effettiva del loro disagio, spostano i sentimenti negativi verso gruppi sociali
minoritari. Questa teoria, sebbene presenti degli spunti interessanti, non si presta
bene alla spiegazione dei conflitti tra gruppi, in primo luogo perché non chiarisce
il motivo per cui l’aggressività viene spostata verso un gruppo e non verso un altro,
e, in secondo luogo, perché non dà spiegazione dei fenomeni di conflitto che avvengono senza una frustrazione precedente.
Tra il 1948 e il 1952 Sherif (Sherif, Harvey, White et al., 1961) mise in atto
una serie di esperimenti volti a una più profonda comprensione dei fattori di spiegazione del conflitto tra gruppi. L’ipotesi formulata da Sherif era quella secondo cui
individui appartenenti a diversi gruppi sociali entrano tra loro in conflitto quando
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Psicologia sociale. Approfondimenti sul sé, sulle relazioni interpersonali e intergruppo
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si trovano in competizione per una risorsa reale. Gli esperimenti condotti da questo studioso furono realizzati in un campo estivo per ragazzi, trasformato a loro insaputa in un vero laboratorio di psicologia sociale, e furono scanditi in diverse fasi
nel corso delle quali i ricercatori mettevano a fuoco gli aspetti del comportamento integruppo. Nella prima fase i ragazzi arrivavano al campo ed entravano in un
primo contatto tra loro; in questa fase si formavano generalmente le prime amicizie. Dopo circa una settimana i ragazzi venivano divisi in due gruppi, facendo attenzione a separare gli amici più stretti mettendoli in due gruppi diversi. Le attività
comuni cessarono e la vita si svolgeva in modo separato nei due gruppi. Nella terza
fase i due gruppi venivano messi in competizione tra loro. L’ultima fase prevedeva
invece la creazione di una situazione tale per cui i membri dei due gruppi dovevano combinare i loro sforzi per ottenere un obiettivo utile a entrambi. I risultati
di questi studi mostrarono chiaramente che il conflitto e la discriminazione tra i
gruppi emergevano nella terza fase, quando cioè i ragazzi si trovavano a competere per il raggiungimento di un unico premio. L’ipotesi secondo cui il conflitto tra
gruppi sorgeva per una competizione su una risorsa reale veniva quindi confermata. Fu interessante notare, da parte di Sherif e dei suoi collaboratori, che nell’ultima fase, grazie al fatto di condividere uno “scopo sovraordinato”, i membri dei due
gruppi ostili diminuirono la tensione tra di loro. La conclusione tratta da Sherif fu
molto semplice: se due gruppi hanno tra loro scopi competitivi entreranno in conflitto, se due gruppi si prefiggono invece uno scopo sovraordinato si creerà tra essi
un clima di cooperazione.
Gli esperimenti di Sherif furono importanti per chiarire alcuni aspetti dei conflitti intergruppo, ma restava ancora da comprendere quale fosse la fonte dell’antagonismo tra gruppi sociali nel caso in cui non ci fossero risorse reali per le quali
competere. Tajfel affrontò con grande intuizione questo problema, attraverso una
serie di studi sperimentali che lo portarono a formulare, prima, quello che viene
chiamato il paradigma dei gruppi minimi, e, poi, la teoria dell’identità sociale (Capozza
e Brown, 2000).
Un nodo cruciale per la comprensione dei fenomeni e delle dinamiche che avvengono tra i gruppi sociali è, per Tajfel, il fenomeno della categorizzazione sociale (Tajfel, 1981). La categorizzazione è il processo attraverso cui raggruppiamo cose
e persone. È il modo “naturale” in cui pensiamo alla realtà e tentiamo di ordinarla e capirla. Generalmente suddividiamo gli individui che incontriamo, raggruppandoli in base alle caratteristiche socialmente rilevanti che condividono. La
categorizzazione sociale si attua quando le persone vengono percepite come rappresentanti dei gruppi sociali a cui appartengono anziché come individui a sé stanti. È un meccanismo utile che ci permette di padroneggiare il nostro ambiente
sociale e di avere un comportamento adeguato in società. Tuttavia essa ha anche
degli effetti negativi. La categorizzazione sociale, infatti, fa apparire i membri di
un gruppo più simili tra loro di quanto non siano, ed esagera le differenze tra i
gruppi. In una serie di esperimenti Tajfel rilevò che la pura e semplice categorizzazione sociale provoca negli individui un comportamento di favoritismo nei confronti del proprio gruppo e di discriminazione nei confronti degli altri.
Questo fenomeno venne spiegato da Tajfel attraverso la nozione di identità
sociale. L’identità sociale di un individuo è legata alla conoscenza della sua appartenenza a certi gruppi sociali e al significato emotivo e valutativo che risulta da
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Psicologia in azione
tale appartenenza. In pratica l’identità sociale riguarda un elemento identitario
legato all’appartenenza a un gruppo sociale o, più in generale, a una collettività
(come l’essere vegetariano o il far parte di una organizzazione di volontariato).
Dal momento che, come abbiamo visto, uno dei bisogni fondamentali per gli
individui è quello di avere una valutazione positiva del sé, e che l’appartenenza
a un gruppo è parte della nostra identità, allora il favoritismo verso l’ingroup può
essere visto in relazione allo sforzo di distinguere il proprio gruppo in termini
positivi in confronto agli altri. La competizione tra i gruppi allora non è limitata al raggiungimento di un’unica risorsa reale, come prospettato da Sherif, ma i
gruppi si possono trovare in conflitto anche e solo per raggiungere una data posizione sociale, difendere o acquisire un certo status. I processi descritti da Tajfel
furono di enorme importanza per la comprensione delle relazioni intergruppo, e
hanno influenzato notevolmente la ricerca successiva in questo ambito della psicologia sociale. La categorizzazione sociale e l’identità sociale sono infatti fortemente implicate anche per il pregiudizio e per la sua riduzione. Andiamo a vedere perché.
LA
RIDUZIONE DEL PREGIUDIZIO
L’approfondimento di che cosa portasse due gruppi sociali in aperta competizione fino a giungere alle ostilità non poteva essere sufficiente alla psicologia sociale. Come detto nell’introduzione di questo contributo, per questa disciplina è
essenziale avere delle ricadute anche di tipo applicativo. Molti ricercatori si sono
quindi concentrati sullo studio di come si possa favorire una relazione positiva
tra i diversi gruppi sociali. Nello specifico molta attenzione è stata posta allo studio del pregiudizio e della sua riduzione. Il pregiudizio è un fenomeno essenzialmente intergruppo. Nella sua accezione classica viene definito da Worchel e
Cooper (1988) come un atteggiamento negativo ingiustificato verso qualcuno,
che si fonda unicamente sull’appartenenza del medesimo individuo a un particolare gruppo. I fenomeni psichici a esso associati sono dunque di natura differente, cognitiva ed emotiva, e richiamano in causa l’identificazione e l’appartenenza ai gruppi sociali.
La ricerca sulla riduzione del pregiudizio si è sviluppata a partire dall’idea che il
contatto tra membri di gruppi differenti sia alla base di ogni serio tentativo di
migliorare le relazioni intergruppo (Brown, 2000). A questo scopo è essenziale la
formulazione dell’ipotesi di contatto di Allport (1954). Sebbene Allport non sia
stato sicuramente il primo a sostenere la coesione tra gruppi come mezzo di riduzione dei pregiudizi, la formulazione delle sue teorie ne La natura del pregiudizio è
stata giustamente riconosciuta punto di riferimento per la lucida esposizione, per
le profonde intuizioni e per l’accorta analisi delle condizioni sociali, che possono
verosimilmente facilitare i benefici effetti del contatto sugli atteggiamenti e sul
comportamento intergruppo (Brown e Hewstone, 2005).
Nella sua formulazione dell’ipotesi di contatto Allport dichiara che la riduzione del pregiudizio avviene quando i membri di gruppi diversi si incontrano a
determinate condizioni: eguale status, interazione cooperativa volta al perseguimento di scopi comuni, sostegno istituzionale. Tali condizioni permettono lo sviluppo di relazioni personali e approfondite con i membri dell’outgroup. NumeroPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Psicologia sociale. Approfondimenti sul sé, sulle relazioni interpersonali e intergruppo
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sissime ricerche hanno dimostrato la validità di questa ipotesi in campioni di diversa età e cultura. La metanalisi di Tropp e Pettigrew (2004) fornisce la più impressionante valutazione empirica condotta su più di 500 studi condotti in svariati contesti con più di 250 000 partecipanti di diverse nazionalità. Dai risultati
emerge in modo chiaro che il contatto di per sé ha effetti benefici nella riduzione del pregiudizio. Vi sono dunque pochi dubbi sul fatto che il contatto sia
efficace nel creare atteggiamenti e comportamenti più positivi tra i gruppi, proprio come aveva ipotizzato Allport.
Negli anni Ottanta del Novecento la ricerca sul pregiudizio si è concentrata sull’identificazione dei fattori in presenza dei quali l’influenza positiva del contatto sul
pregiudizio risulta massimizzata. In altri termini, la ricerca si è focalizzata sui fattori che moderano questa relazione. Nello specifico sono stati proposti tre nuovi
modelli del contatto, sempre in linea con l’ipotesi di contatto di Allport: il modello della decategorizzazione formulato da Brewer e Miller (1984); il modello della
ricategorizzazione di Gaertner e coll. (1989); e il modello della salienza di Hewstone
e Brown (1986).
Brewer e Miller sostengono che la situazione di contatto dovrebbe essere strutturata in modo tale da ridurre la salienza delle categorie sociali disponibili e aumentare la probabilità di un modo più interpersonale di pensare e agire. Tale processo viene definito decategorizzazione perché le categorie iniziali acquisite con l’identificazione con il proprio gruppo sociale perdono la loro utilità nel decifrare e
organizzare la realtà. Per Brewer e Miller il traguardo di questo tipo di contatto
interpersonale o decategorizzato è al contempo quello di raggiungere la più grande differenziazione tra i membri dell’outgroup (per esempio, meno omogeneità all’interno del gruppo) e una maggiore personalizzazione (più attenzione alle caratteristiche di ciascuno sia nel proprio gruppo sia nell’outgroup). In questo modo le
categorie originali dovrebbero cessare di essere utili per l’organizzazione delle percezioni, delle emozioni e del modo di agire, e gli stereotipi del gruppo dovrebbero risultare tanto più indeboliti quanto più crescono di numero le informazioni di
personalizzazione.
Gaertner e coll. suggeriscono invece che le situazioni di contatto risultano proficue quando gli attuali ingroup e outgroup possono essere facilmente ricategorizzati in una più grande entità sovraordinata. In questo modo i membri dell’outgroup
si trovano a condividere con i membri dell’ingroup una nuova “identità di gruppo” e il pregiudizio precedentemente associato alle categorie di in-group e out-group
dovrebbe essere ridotto o superato. In contrasto con il modello precedentemente
illustrato, che sostiene in ultima analisi che il pregiudizio viene ridotto da valutazioni e sentimenti meno positivi nei confronti dell’ingroup (dal momento che le
categorie di appartenenza all’interno dell’ingroup hanno perso la loro importanza
psicologica), il modello della categoria sovraordinata implica un atteggiamento più
favorevole verso il gruppo esterno dal momento che ora esso è parte di un nuovo
gruppo interno. Questo modello non sostiene il completo abbandono della propria
categoria di appartenenza, ma la sostituzione di questa con raggruppamenti più
inclusivi.
Se i due precedenti approcci implicano l’erosione dei confini in-group e outgroup, sebbene in modi differenti, Hewstone e Brown (1986) sostengono che ci
possono essere dei vantaggi per superare il pregiudizio mantenendo una chiara
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distinzione tra i gruppi. Finché il contatto, infatti, ha luogo sulla base di una relazione interpersonale (come nel modello della decategorizzazione) o all’interno di
uno stesso gruppo (come nel modello della categoria sovraordinata) non si presenta una reale possibilità che gli atteggiamenti e le emozioni positive generate
da quel contatto possano essere trasferite a tutti i membri del gruppo oggetto di
pregiudizio. Perciò Hewstone e Brown hanno proposto un’ipotesi alternativa secondo cui, se il contatto avviene tra membri dell’ingroup e dell’outgroup che sono
considerati particolarmente tipici o rappresentativi dei loro gruppi, allora i cambiamenti positivi che si riscontrano potranno essere generalizzati anche a tutti i
membri dell’outgroup mai incontrati. Quindi una condizione necessaria affinché
il contatto abbia degli effetti sulla riduzione del pregiudizio è che i membri del
gruppo mantengano un’importanza psicologica verso il proprio gruppo di appartenenza (salienza).
Negli ultimi anni la ricerca sul pregiudizio si è focalizzata sul mettere in luce i
processi che dal contatto guidano gli individui verso il cambiamento degli atteggiamenti. Sono state condotte diverse ricerche volte a identificare possibili mediatori nel rapporto tra contatto e pregiudizio, ovvero quelle variabili che intervengono in tale rapporto.
L’ansia è la prima candidata tra i mediatori nella riduzione del contatto. Stephan
e Stephan (1985) ipotizzano che in molti scenari intergruppo, particolarmente
quando l’incontro avviene per la prima volta, le persone siano soggette a sentirsi
apprensive per l’incertezza riguardo alle norme appropriate di comportamento, dovuta alla mancanza di familiarità, o per qualche traccia di avversione culturalmente
socializzata verso l’outgroup in questione. L’ansia intergruppo deriverebbe dall’aspettarsi esperienze negative per se stessi nelle interazioni tra gruppi, come imbarazzo, rifiuto, discriminazione o incomprensione. Un maggiore contatto con i membri dell’outgroup porterebbe dunque a una riduzione dell’ansia e conseguentemente a una riduzione di pregiudizio.
RECENTI
LINEE DI RICERCA SULLE RELAZIONI TRA I GRUPPI SOCIALI
Nei primi anni del 2000 una nuova prospettiva inaugurata da Smith (1999) sta
guadagnando sempre maggiori consensi: lo studio delle emozioni collettive.
Un’emozione collettiva è un’emozione che si prova sulla base dell’appartenenza a un gruppo, anche se non sembra toccare direttamente l’individuo: per esempio, quando assistiamo a una partita di calcio della nostra squadra del cuore.
Alcuni ricercatori hanno focalizzato l’attenzione sulle emozioni di colpa e vergogna. Queste due emozioni assumono una particolare importanza nelle relazioni
storiche tra gruppi che hanno subito reciproca violenza e sopraffazione. Gli studi
di Giner-Sorolla et al. (2005), per esempio, mostrano come colpa e vergogna
abbiano effetti diversi sui comportamenti intergruppo e, nello specifico, come sia
possibile utilizzare la colpa, e non la vergogna, per ridurre il pregiudizio e indurre le persone a compiere azioni riparative. Diviene quindi importante per la ricerca comprendere quali condizioni tra i gruppi elicitano i sentimenti di colpa piuttosto che quelli di vergogna.
Sebbene la comunità scientifica non abbia ancora prodotto molte evidenze empiriche a favore di questo nuovo paradigma, lo studio delle emozioni collettive si prePaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Psicologia sociale. Approfondimenti sul sé, sulle relazioni interpersonali e intergruppo
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senta come un nuovo campo di ricerca profondamente affascinante, che porterà a
una più completa comprensione delle relazioni intergruppo e a possibili conseguenze
applicative.
CONCLUSIONI
Il percorso finora compiuto ci ha portato a entrare nel vivo di alcuni temi portanti
della psicologia sociale: il sé, le relazioni interpersonali, le relazioni tra gruppi. Come
abbiamo visto in ognuno degli ambiti trattati, le acquisizioni teoriche e i dati di
ricerca ci manifestano un prolifico lavoro scientifico. Ma che cosa manca ancora
alla psicologia sociale? Anche qui, come in altri ambiti, non si tratta di inventare
ex novo nuovi percorsi, non si tratta di dare sfogo alla fantasia: basterebbe invece
continuare a riferirsi alle eredità di coloro che ci hanno preceduto e cercare di portare a compimento le loro intuizioni. Ci riferiamo al pensiero lewiniano. La sua
ricchezza e fecondità, soprattutto in tema di interdipendenza, è stata ancora solo
marginalmente esplorata da questa disciplina. Ci riferiamo alle attente riflessioni
di Moscovici e alla sua prospettiva ternaria io-altro-oggetto: abbiamo veramente
messo a tema l’eccedenza del sociale rispetto all’individuale? Abbiamo sviluppato
strumenti epistemologici e interpretativi per questo? Probabilmente in parte sì, ma
la strada da percorrere è ancora lunga. Ci riferiamo infine ai livelli di analisi dei
fenomeni psicosociali individuati da Doise. Il terzo e quarto livello, quello relativo alla posizione dell’individuo nel contesto sociale e quello relativo all’influenza
delle credenze, valori e rappresentazioni sociali, sono presenti in alcuni ambiti di
ricerca ma ancora insufficientemente sviluppati, a favore di una prospettiva meno
squisitamente sociale e più individuale. D’altra parte, se lo stato d’arte della disciplina non è ancora totalmente giunto al suo compimento, ciò è dovuto alla incredibile complessità e ambizione dell’obiettivo che si pone: l’analisi e la comprensione dell’interazione tra individuo e ambiente. Ma è un compito affascinante che
vale la pena portare avanti.
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