G. Giappichelli Editore – Torino

PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
3-2015
Diretta da Adolfo Scalfati
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb,
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
La nuova direttiva UE sull’ordine europeo di indagine
The new directive on the european investigation
La recente legge sui difensori di ufficio
The new "difensore d'ufficio" law Act
Astensione del difensore e differimento dell’udienza
Lawyers strike and the postponement of the hearing
L’effettività della tutela risarcitoria delle condizioni detentive “ingiuste”
Effectiveness of remedies of ill detention contra Art. 3 Ehrc
Le sentenze “pilota” della Corte europea dei diritti dell’uomo
Pilot judgments of the European Court of Human Rights
G. Giappichelli Editore – Torino
Processo penale e Giustizia: Rivista telematica bimestrale pubblicata da G. Giappichelli s.r.l. – Registrazione Tribunale di Torino n. 2/2015 – ISSN 20394527 –
Direttore Responsabile Prof. Adolfo Scalfati
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Comitato di Direzione
Ennio Amodio, professore di procedura penale, Università di Milano Statale
Giuseppe Di Chiara, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Paolo Ferrua, professore ordinario di procedura penale, Università di Torino
Giulio Garuti, professore ordinario di procedura penale, Università di Modena e Reggio Emilia
Luigi Kalb, professore ordinario di procedura penale, Università di Salerno
Sergio Lorusso, professore ordinario di procedura penale, Università di Foggia
Mariano Menna, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Gustavo Pansini, professore di procedura penale, Università di Napoli SOB
Francesco Peroni, professore ordinario di procedura penale, Università di Trieste
Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di cassazione
Coordinamento delle Sezioni
Teresa Bene, professore associato di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Maria Elena Catalano, professore associato di procedura penale, Università dell’Insubria
Paola Corvi, professore associato di procedura penale, Università Cattolica di Piacenza
Donatella Curtotti, professore associato di procedura penale, Università di Foggia
Mitja Gialuz, professore associato di procedura penale, Università di Trieste
Vania Maffeo, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Federico II
Carla Pansini, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Parthenope
Nicola Triggiani, professore associato di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”
Cristiana Valentini, professore associato di procedura penale, Università di Ferrara
Daniela Vigoni, professore associato di procedura penale, Università di Milano Statale
Redazione
Gastone Andreazza, magistrato – Fulvio Baldi, magistrato – Antonio Balsamo, magistrato – Giuseppe Biscardi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Orietta Bruno, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Lucio Camaldo, professore associato di diritto processuale penale, Università di Milano Statale – Sonia Campailla, ricercatore di diritto dell’unione europea,
Università di Roma Tor Vergata – Laura Capraro, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor
Vergata – Assunta Cocomello, magistrato – Marilena Colamussi, ricercatore di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro” – Antonio Corbo, magistrato – Gaetano De Amicis, magistrato – Alessandro Diddi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Ada Famiglietti, ricercatore di procedura
penale, Università di Roma Tor Vergata – Rosa Maria Geraci, ricercatore di procedura penale, Università
di Roma Tor Vergata – Paola Maggio, ricercatore di procedura penale, Università di Palermo – Antonio
Pagliano, ricercatore di procedura penale, Seconda Università di Napoli – Giorgio Piziali, magistrato –
Roberto Puglisi, dottore di ricerca in procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Alessia Ester
Ricci, assegnista di ricerca in diritto processuale penale, Università di Foggia – Nicola Russo, magistrato –
Alessio Scarcella, magistrato – Elena Zanetti, ricercatore di procedura penale, Università di Milano Statale
Peer review
La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista.
La valutazione viene compiuta tenendo conto della fisionomia tradizionale dei generi letterari (Articolo
e Nota), misurandone la chiarezza espositiva, i profili ricostruttivi, il grado di ricerca, la prospettiva
critica e le soluzioni interpretative offerte. La verifica è effettuata a rotazione da due professori ordinari
di discipline corrispondenti o affini alle materie oggetto dei lavori, i quali esprimono un giudizio sulla
meritevolezza o meno della pubblicazione. Nell’ipotesi di valutazioni contrastanti tra i revisori, detto
giudizio è rimesso al Direttore della Rivista.
Il controllo avviene in forma reciprocamente anonima.
I contenuti editi nella Sezione denominata “Scenari” non sono soggetti a revisione.
Peer reviewers
Enrico Mario Ambrosetti, professore ordinario di diritto penale, Università di Padova
Alessandro Bernasconi, professore ordinario di procedura penale, Università di Brescia
Piermaria Corso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Agostino De Caro, professore ordinario di procedura penale, Università del Molise
Mariavaleria del Tufo, professore ordinario di diritto penale, Università di Napoli SOB
Marzia Ferraioli, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata
Carlo Fiorio, professore straordinario di procedura penale, Università di Perugia
Novella Galantini, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Maria Riccarda Marchetti, professore ordinario di procedura penale, Università di Sassari
Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Bicocca
Paolo Moscarini, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma LUISS
Angelo Pennisi, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Tommaso Rafaraci, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Antonio Scaglione, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Andrea Scella, professore ordinario di procedura penale, Università di Udine
Gianluca Varraso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Cattolica
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
V
Sommario
Editoriale | Editorial
MICHELE CAIANELLO
La nuova Direttiva UE sull’ordine europeo di indagine penale tra mutuo riconoscimento e ammissione reciproca delle prove / The new directive on the european
investigation order between mutual recognition and mutual admissibility of
evidence
1
Scenari | Overviews
Novità legislative interne / National legislative news (NICOLA RUSSO)
13
Novità sovranazionali / Supranational news (ANDREA CONTI)
24
De Jure condendo (DANILA CERTOSINO)
28
Corti europee / European Courts (ALESSANDRO BENVOLUTI)
32
Corte costituzionale (LAURA CAPRARO)
36
Sezioni Unite (TERESA ALESCI)
41
Decisioni in contrasto (PAOLA CORVI)
46
Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law
Sentenza irrevocabile di condanna, illegittimità costituzionale sull’apparato sanzionatorio e potere del giudice dell’esecuzione di rimodulare la pena
Corte di Cassazione, Sezione Unite, sentenza 14 ottobre 2014, n. 42858 – Pres. Santacroce;
Rel. Ippolito
50
Illegittimità costituzionale di una norma penale non strettamente incriminatrice e rimodulazione della pena in executivis: un altro passo verso la graduabile erosione del “mito
del giudicato” / Unconstitutionality of a criminal rule not strictly incriminatoryand remodeling of the punishment “in executivis”: a another step towards the erosion of "the myth of the
judged" (ELGA TURCO)
70
Chiamata di correo e valutazione di attendibilità preliminare del chiamante
Corte di cassazione, Sezione III, sentenza 6 ottobre 2014, n. 41347 – Pres. Mannino; Rel. Aceto
81
Sull’attendibilità del pentito quale logico presupposto di una valida chiamata in correità /
About the confident’s liability as a logical assumption of a valid accomplice evidence (FRANCESCA
TRIBISONNA)
88
Sull’applicabilità della procedura della “sentenza pilota” in caso di revisione
Corte di cassazione, Sez. VI, sentenza 6 novembre 2014, n. 46067 – Pres. Agrò; Rel. Bassi
Le sentenze “pilota” della Corte europea dei diritti dell’uomo: efficacia ultra partes? / Pilot
judgments of the European Court of Human Rights: ultra partes effects? (ROBERTA GRECO)
Modifica dell’imputazione e giudizio abbreviato
Corte costituzionale, sentenza 1° dicembre 2014, n. 213 – Pres. Napolitano; Rel. Frigo
SOMMARIO
100
105
114
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
Fatto diverso e giudizio abbreviato: verso una nuova forma di rito premiale? / Different
event and summary trial: towards a new form of rewarding trial? (MARCELLO D’AIUTO)
VI
119
Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis
La nuova legge sui difensori di ufficio: cronaca di un’occasione perduta / The legislation
of the lawyer’s office: a missed opportunity (ALESSANDRO DIDDI)
128
Astensione del difensore e diritto di ottenere il differimento dell’udienza / Lawyers strike and the right to obtain the postponement of the hearing (FRANCESCA ROMANA MITTICA)
136
Analisi e prospettive | Analysis and Prospects
L’effettività della tutela risarcitoria delle condizioni detentive contrarie all’art. 3 Cedu:
riflessioni a margine di un’indagine del Ministero della giustizia sulla prima applicazione dell’art. 35-ter, l. n. 354/1975 / Effectiveness of remedies of ill detention in case of
violation of Art. 3 Ehrc: observations on Minister of Justice’s statistical survey on the first
appliance of art. 35-ter, l. n. 354/1975 (FABIO FIORENTIN)
150
La sospensione del processo con messa alla prova per gli adulti: un primo passo verso un
modello di giustizia riparativa? / Probation for adult offenders: the first step towards Restorative Justice? (RAFFAELE MUZZICA)
158
Contradditorio, immediatezza e parità delle parti nel giudizio di appello. Estenuazioni
interne e affermazioni europee / The right to a fair trial in Appeal (DANIELA CHINNICI)
172
Indici | Index
Autori / Authors
181
Provvedimenti / Measures
182
Materie / Topics
183
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
1 Editoriale | Editorial
MICHELE CAIANELLO
Professore associato di Procedura penale – Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna
La nuova direttiva UE sull’ordine europeo di indagine penale
tra mutuo riconoscimento e ammissione reciproca delle prove
The new directive on the european investigation order between
mutual recognition and mutual admissibility of evidence
L’ordine europeo di indagine penale costituisce uno strumento dalle molteplici potenzialità, nel campo della cooperazione giudiziaria per la raccolta e lo scambio delle prove tra gli Stati Membri dell’Unione europea. Esso ha il
merito di operare una considerevole semplificazione del sistema vigente, sostituendo con una sola direttiva le
tante fonti normative che si erano accumulate in questo settore. Al tempo stesso, sembra recepire soluzioni
efficaci tratte sia dal modello ispirato al mutuo riconoscimento, sia dalle previsioni adottate in materia di tradizionale assistenza giudiziaria. Alcuni aspetti, tuttavia, appaiono maggiormente criticabili. In primo luogo, l’eccessiva
discrezionalità attribuita al potere giudiziario, nel mettere in opera questo nuovo sistema di cooperazione; in secondo, la posizione della difesa, sulla quale grava un deficit informativo che ne compromette fortemente la possibilità di coltivare con efficacia la propria strategia. Infine, non va trascurata la capacità della direttiva OEI di favorire un’approssimazione in materia di ammissibilità delle prove.
The European investigation order is a new instrument of great potential in the field of judicial cooperation in the
gathering and exchange of evidence among the Member States of the European Union. It must be positively welcomed for the simplification it ensures, thanks to the fact that the EIO directive replaces the numerous sources
that previously regulated judicial cooperation in evidence matters. Moreover, the EIO adopts several good solutions
inspired both to the mutual recognition principle and to the more traditional mutual legal assistance regime. However, some aspects of the EIO appear certainly more problematic. The first concern regards the excessive discretion left to the judiciary when applying the new system in the practice. The second one regards the position of the
defense, which is left in a structural inferior position with respect to the prosecution, as it suffers from a lack of
information due to the transnational nature of the proceeding. Eventually, the EIO directive can be regarded, at least
potentially, as a first step in the direction of a European system of mutual admissibility of evidence.
UN NUOVO STRUMENTO PER LA COOPERAZIONE GIUDIZIARIA
A partire dalla primavera scorsa, l’Unione europea si è dotata di un nuovo strumento normativo,
con il proposito di farne il cardine della cooperazione giudiziaria in materia di raccolta di prove e
scambio di informazioni. Si tratta della direttiva n. 41/2014/UE, relativa all’ordine europeo di indagine penale (OEI), pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il 1° maggio 2014. Gli Stati membri hanno tempo sino al 22 maggio 2017 per recepirla (mentre, dopo quella data, opererà senza riserva l’acquis communautaire 1, vale a dire la possibilità di applicarne direttamente le disposizioni
1
Si fa ovviamente riferimento al metodo elaborato con la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia nel caso Francovich. C.
giust. CE, sent. 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich. Cfr. R. Bin-G. Pitruzzella, Diritto costituzionale,
Torino, 2010, XI ed., p. 408.
EDITORIALE | LA NUOVA DIRETTIVA UE SULL’ORDINE EUROPEO DI INDAGINE PENALE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
2
ove sufficientemente precise e non condizionate 2.
La nuova direttiva non giunge inaspettata, anche se, come noto, rappresenta il frutto, da un lato, di
un compromesso, dall’altro, di una fuga in avanti, sul piano politico. Sin dall’adozione del Programma
di Stoccolma, la Commissione non aveva fatto mistero di lavorare all’adozione di un testo normativo in
grado di attuare in modo quanto più pieno possibile sia il metodo del riconoscimento reciproco, sia
l’obiettivo, posto dall’art. 82, par. 2 TFUE, della libera circolazione delle prove 3. In sostanza, l’esecutivo
europeo avrebbe ambito ad avviare la riforma del sistema probatorio penale nell’Unione tanto a livello
orizzontale (vale a dire sul piano della cooperazione giudiziaria), favorendo, quanto più possibile,
un’agile collaborazione tra gli Stati attraverso la logica del mutuo riconoscimento, quanto a livello verticale (cioè attraverso l’armonizzazione 4), adottando alcune previsioni comuni in materia di ammissibilità della prova. A poca distanza dall’avvio del Programma, tuttavia, alcuni Paesi coglievano l’occasione per presentare una proposta di direttiva che si prefiggeva come obiettivo la sola semplificazione e
uniformazione della cooperazione orizzontale tra Stati in materia di prove, sostituendo così, con un
unico testo normativo, le tante fonti che, nel corso degli anni, si erano affastellate a livello continentale 5.
Veniva invece lasciato del tutto in disparte il tema delle regole comuni in materia d’ammissibilità reciproca delle prove, che come noto costituisce uno dei settori più delicati della giustizia penale di ogni
Stato, giacché fortemente legato alle scelte politiche della comunità e alle tradizioni giuridiche e culturali di ogni popolo 6.
Vale dunque la pena operare una prima lettura della nuova fonte europea, ponendosi due quesiti,
che fungano da guida nella pur sintetica e non esaustiva analisi del testo: in prima battuta, quanto essa
risulti innovativa 7, rispetto agli strumenti esistenti, e ad ogni modo quali ne appaiano gli aspetti più
positivi (e per converso, i tratti meno convincenti); successivamente, nonostante il dichiarato intento, da
parte dei proponenti, di non volersi occupare di questo tema, se essa si presti a essere letta anche come
un primo passo nella direzione di un futuro regime di reciproca ammissibilità della prova (o, per dirla
diversamente, di armonizzazione verticale dei sistemi). Non si deve dimenticare che, come sempre
quando si abbia a che fare con il diritto UE, ogni riforma, quand’anche di portata limitata, reca con sé in
potenza i presupposti per rafforzare e sviluppare l’armonizzazione tra i diversi sistemi giuridici degli
Stati membri (spesso oltre gli stessi limiti formali posti dalla nuove fonte).
2
Per alcuni commenti “a caldo” sulla nuova direttiva, cfr. M. Daniele, La metamorfosi del diritto delle prove nella direttiva sull’ordine europeo di indagine penale, in www.penalecontemporaneo.it, in particolare pp. 6-10. Si rinvia inoltre a A. Ryan, Towards a System of European Criminal Justice. The problem of admissibility of evidence, London & New York, 2014, pp. 24-26, p. 31; L. Camaldo,
La Direttiva sull’ordine europeo di indagine penale (OEI): un congegno di acquisizione della prova dotato di molteplici potenzialità, ma di
non facile attuazione, in www.penalecontemporaneo.it.
3
Il dibattito aveva preso l’avvio con la presentazione di un Libro verde sulla ricerca delle prove in materia penale tra gli Stati Membri e sulla garanzia della loro ammissibilità. (11 novembre 2009, COM(2009) 624 final). Esso era poi stato proseguito con
il Programma di Stoccolma. Sul tema cfr. S. Allegrezza, Critical remarks on the Green paper on obtaining evidence in criminal matters
from one Member State to another and securing its admissibility, in Zeitschrift für Internationale Strafrechtsdogmatik, 2009, n. 9, p. 569.
V. per un’analisi complessiva della cooperazione giudiziaria in materia di prove, R. Belfiore, La prova penale “raccolta” all’estero,
Roma, 2014, pp. 206-207.
4
Per ragioni di semplificazione, si farà uso dei termini armonizzazione e approssimazione come sinonimi, considerato che
una parte rilevante della dottrina tende a consentire simile sovrapposizione (cfr. V. Mitsilegas, EU Criminal Law, Oxford, p. 59 e
nota 1; A. Klip, European Criminal Law, II ed., Antwerp/Oxford/Portland, 2012, p. 31-34). La questione è in certa misura controversa, intravvedendo alcuni nella approssimazione un fenomeno spontaneo tra ordinamenti già omogenei di partenza, e nella
armonizzazione, per converso, un movimento prodotto dall’intervento normativo della Unione europea (e dunque implicante
effetti anche su sistemi tra loro più lontani per tradizioni e caratteristiche). Sul punto, cfr. S. Allegrezza, Critical remarks on the
Green paper on obtaining evidence in criminal matters from one Member State to another and securing its admissibility, cit., p. 574.
5
Si tratta di Regno del Belgio, della Repubblica di Bulgaria, della Repubblica di Estonia, del Regno di Spagna, della Repubblica d’Austria, della Repubblica di Slovenia e del Regno di Svezia. Sul tema, v. R. Belfiore, La prova penale, cit., p. 207.
6
A. Mangiaracina, A New and Controversial Scenario in the Gathering of Evidence at the European Level: The Proposal for a Directive on the European Investigation Order, in Utrecht Law Review, n. 1, 2014, p. 119.
7
A tal proposito si può richiamare come già alcuni commentatori abbiano considerato la direttive in esame come non particolarmente innovativa. Cfr. M. Daniele, La metamorfosi del diritto delle prove, cit., p. 2.
EDITORIALE | LA NUOVA DIRETTIVA UE SULL’ORDINE EUROPEO DI INDAGINE PENALE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
3
I TRATTI PRINCIPALI DELLA NUOVA DIRETTIVA
Come osservato, la direttiva OEI ambisce ad istituire un nuovo strumento omnicomprensivo in materia
di raccolta e scambio di informazioni e prove a livello penale, caratterizzato, in linea prevalente ma non
esclusiva, dal principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie. In altre parole, l’auspicio del legislatore è quello di dar vita a un sistema che consegua risultati equiparabili, nel campo un
tempo disciplinato dal sistema delle rogatorie, a quelli raggiunti dal mandato d’arresto europeo nel settore delle procedure in senso lato estradizionali.
Un primo tratto caratteristico dell’OEI è dunque quello della semplificazione. Esso infatti sostituisce,
secondo quanto previsto dall’art. 34, la convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale
del Consiglio d’Europa, del 20 aprile 1959 (e i relativi due protocolli aggiuntivi); la convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen; la convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale
tra gli Stati membri dell’Unione europea e relativo protocollo; la decisione quadro 2008/978/GAI, in
tema di mandato europeo di ricerca delle prove; la decisione quadro 2003/577/GAI relativa all’esecuzione dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio. Simili fonti permangono in vigore
per quel che concerne i rapporti tra Stati dell’Unione europea e Paesi terzi, nonché, ex art. 35, sino all’entrata in vigore della direttiva stessa (fissata, come visto, per il 22 maggio 2017). Lo sforzo semplificatorio non può che essere valutato positivamente, considerato come l’affastellarsi di previsioni normative in materia di cooperazione probatoria avesse prodotto risultati non soddisfacenti, sul piano dell’efficienza. Solo per citare l’esempio più evidente, la decisione quadro del 2003 sul congelamento dei
beni si prestava a un intervento veloce quanto alla apprensione della res oggetto di un ipotetico provvedimento di sequestro; tuttavia, non risultava poi invocabile per quel che concerne la successiva consegna, obbligando le istituzioni giudiziarie interessate a ricorrere o ai vecchi meccanismi delle rogatorie, o, successivamente all’entrata in vigore del mandato di ricerca delle prove, a questo nuovo strumento di cooperazione giudiziaria, per quei Paesi che lo avessero recepito 8.
Un secondo tratto caratteristico dell’OEI è la sua omnicomprensività: l’ordine si presta a essere usato
tendenzialmente per qualunque prova si voglia ottenere da un altro ordinamento. Esso dunque è adottabile per le prove reali e per quelle in senso lato documentali (così coprendosi l’area delle due decisioni
quadro sul congelamento e la confisca dei beni, e sul mandato di ricerca delle prove); ancora, può essere emesso per acquisire una prova dichiarativa – da un potenziale testimone o da un imputato – così
come per ottenere dati in tempo reale (ivi comprese le intercettazioni di comunicazioni). Infine, all’OEI
si può ricorrere per effettuare un’operazione sotto copertura. Sul piano formale, l’unica esclusione
esplicita concerne le squadre investigative comuni, lasciate alla disciplina della vecchia decisione quadro 9, e all’opera di coordinamento di Eurojust. In sostanza, ogni atto a fine probatorio può costituire
l’oggetto dell’OEI: in questo modo, le istituzioni giudiziarie dei Paesi UE dovranno prendere confidenza e abituarsi a far uso di un solo strumento normativo, per qualunque forma di assistenza in campo
probatorio possa risultare necessaria (salvo le menzionate squadre investigative comuni).
Dal punto di vista del metodo adottato, l’OEI si segnala per il suo sincretismo. Da un lato, infatti, esso
appare in linea con lo sviluppo del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, così come pretesto
dall’art. 82, par. 2 TFUE. Al tempo stesso, tuttavia, in diversi passaggi si rinvengono soluzioni adottate
sotto l’egida del regime delle rogatorie. Del resto, questo dato non deve destare stupore. Il riconoscimento
reciproco, come elaborato in astratto nei Consigli che si succedettero alla fine del secolo scorso, rappresenta un modello ideale, mai in concreto sinora realizzato, nelle diverse fonti adottate dall’Unione in materia
di cooperazione giudiziaria penale: nella pratica, ci si trova sempre di fronte a disposizioni che combinano il “nuovo” sistema con quello più tradizionale legato alla mutual legal assistance 10. Vale quindi, anche in
questo settore, quanto si osserva per la distinzione tra accusatorio e inquisitorio: mutuo riconoscimento e
procedure tradizionali di assistenza giudiziaria nelle fonti esistenti si combinano, dando vita a soluzioni
normative ibride, caratterizzate a seconda del tasso d’influenza dell’uno o dell’altro modello.
8
Cfr. in tal senso L. Camaldo-F. Cerqua, La direttiva sull’ordine europeo di indagine penale: le nuove prospettive per la libera circolazione delle prove, in Cass. pen., 2014, p. 3511; V. Campilongo, La circolazione della prova nel contesto europeo, tra mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie ed armonizzazione normativa, ivi, 2014, p. 707.
9
Decisione quadro del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa alle squadre investigative comuni DQ 2002/465/GAI.
10
L’osservazione è di J.A.E. Vervaele, Il progetto di decisione quadro sul mandato di ricerca delle prova, in G. Illuminati (a cura di),
Prova penale e Unione europea, Bologna, 2009, p. 154.
EDITORIALE | LA NUOVA DIRETTIVA UE SULL’ORDINE EUROPEO DI INDAGINE PENALE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
4
Per quel che concerne dunque nello specifico la direttiva OEI, è dato trovare nel testo alcune disposizioni che recepiscono le soluzioni più convincenti introdotte con le ultime convenzioni in materia di
assistenza giudiziaria, in particolare con la Convezione di Bruxelles del 2000 11. Tra queste, meritano di
essere segnalate le previsioni che promuovono l’adozione della lex fori, nell’esecuzione dell’ordine d’indagine, da parte dello Stato richiesto. In particolare, l’art. 9, par. 2 dispone che «l’autorità di esecuzione
si attiene alle formalità e alle procedure espressamente indicate dall’autorità di emissione», sempre che
esse non si pongano in contrasto con i principi fondamentali del suo ordinamento. Frutto dello stesso
indirizzo politico appaiono anche i successivi parr. 4 e 5, che legittimano lo Stato richiedente a proporre
che un suo rappresentante partecipi alle attività probatorie da compiere, e impongono allo Stato richiesto di accogliere la domanda nei limiti in cui – ancora – ciò non risulti incompatibile con i propri principi fondanti: si noti che questa partecipazione può ben avere un carattere attivo, e non esclusivamente
passivo. Lo si desume in particolare dal par. 5, che pone dei limiti stringenti alle sole attività “di contrasto” (cioè di carattere repressivo) realizzabili dai rappresentanti dello Stato emittente 12: da ciò indirettamente si deduce che altri tipi di operazioni – esulanti da ciò che possa essere ricondotto al law enforcing – sono liberamente effettuabili in territorio alieno, fino a quando ciò non si ponga in conflitto con i
principi di base dello Stato d’esecuzione 13.
D’altro canto, trovano conferma anche diversi tratti caratterizzanti del mutuo riconoscimento: per
esempio, il dovere di dar esecuzione all’OEI senza richiedere il vaglio della doppia incriminazione, per
la lista dei 32 reati già individuati con la decisione quadro sul mandato di arresto europeo (art. 11, par.
1 lett. g – con riferimento all’allegato D 14); ancora, il dovere di dar seguito al provvedimento dello Stato
emittente “senza imporre ulteriori formalità” e assicurandone l’esecuzione «secondo le stesse modalità
con cui si procederebbe se l’atto d’indagine fosse stato disposto da un’autorità dello Stato di esecuzione» (art. 9 par. 1). Nella stessa linea si pone la previsione per cui, per certi tipi di prove – in generale
quelle precostituite e quelle non implicanti “coercizione” 15 – i motivi di rifiuto sono ridotti all’essenziale, prescrivendosi il principio della libera disponibilità e del libero accesso (art. 11 par. 2). Queste disposizioni recepiscono i principali aspetti che avevano connaturato le due fonti precedenti improntate al
reciproco riconoscimento in ambito probatorio – la decisione quadro sul congelamento dei beni e il
mandato europeo di ricerca delle prove – spingendosi oltre, fino a ricomprendere la prova dichiarativa,
le prove o gli atti atipici (purché non coercitivi), e alcuni tipi di prove informatiche.
Se coniughiamo questa previsione con la pratica, sempre più diffusa, dello scambio spontaneo di informazioni e delle indagini parallele 16, è facile comprendere come le autorità inquirenti paiano in grado
di vedere sensibilmente potenziata la propria capacità di ottenere oltre confine in tempi rapidi informazioni spendibili nel procedimento penale. Come noto, la richiesta di assistenza costituisce sempre più
spesso il punto di arrivo di una strategia che si costruisce prima, tra autorità inquirenti di Paesi diversi,
11
Cfr. sul punto R. Belfiore, La prova penale, cit., p. 147 s.
12
Il par. 5, in particolare, si premura di operare una divisione dei compiti, qualora all’attività probatoria partecipino rappresentanti dello Stato richiedente: durante l’esecuzione dell’OEI le autorità dello Stato di emissione presenti nello Stato di esecuzione si attengono al diritto dello Stato di esecuzione. Inoltre, esse non hanno in linea di massima alcuna competenza a svolgere
attività «di contrasto» nel territorio dello Stato di esecuzione, salvo che una simile attività sia compatibile con il diritto dell’ordinamento richiesto, e ad ogni modo negli stretti limiti concordati tra le autorità di emissione e di esecuzione.
13
Per esempio, non sembra precluso il potere di formulare domande durante l’audizione di una persona, né pare proibita la
partecipazione di un rappresentante dello Stato emittente a una perquisizione o a un’ispezione. Ma sembra altresì possibile
l’assistenza, e anche l’indicazione di prescrizioni da seguire, in relazione a un prelievo di un campione del DNA (salvo ovviamente l’eventuale apprensione materiale dell’interessato e la sua conduzione forzosa davanti all’autorità giudiziaria).
14
L’allegato D riporta la ben nota lista delle ipotesi criminose che escludono il vaglio sulla doppia incriminazione.
15
Si noti che il concetto è da intendere in senso lato, includente l’interferenza anche con il diritto di proprietà, come emerge
dal considerando n. 16. In particolare, la direttiva prevede che debbano sempre essere disponibili: le informazioni o le prove già
in possesso dell’autorità di esecuzione; le informazioni contenute in banche dati della polizia o delle autorità giudiziarie cui
l’autorità di esecuzione può accedere direttamente nel quadro di un procedimento penale; l’audizione di un testimone, di un
esperto, di una vittima, di una persona sottoposta ad indagini o di un imputato o di terzi nel territorio dello Stato di esecuzione;
gli atti d’indagine non coercitivi, così come definiti dal diritto dello Stato di esecuzione; l’individuazione di persone titolari di
un abbonamento a uno specifico numero telefonico o indirizzo IP.
16
Cfr. Sul tema V. Melillo, Tecniche investigative speciali e squadre investigative comuni, in G. Illuminati (a cura di), Prova penale
e Unione europea, cit., p. 93 s., in particolare pp. 97-100; M. Simonato, The “Spontaneous Exchnge of Information” between European
Judicial Authorities from the Italian Perspective, in New Journal of European Criminal Law, 2011, n. 2, p. 220 s.
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attraverso l’attivazione di “buone prassi”, quali lo scambio spontaneo di informazioni e l’avvio di indagini parallele, sullo stesso fatto o su vicende connesse (ovviamente, spesso le due pratiche sono poste in
essere congiuntamente). In sostanza, nel momento in cui l’autorità emittente si rivolge a quella di esecuzione per ottenere formalmente dei dati probatori, essa ne è già al corrente, avendo avuto la possibilità di seguire in via informale e attraverso la collaborazione spontanea lo sviluppo delle indagini condotte altrove. L’art. 11, par. 2 della direttiva OEI sembra in grado di potenziare una modalità operativa
quale quella descritta, e di farla consolidare in maniera stabile.
Si può addirittura pensare – e la cosa del resto non deve destare stupore – che si venga profilando
una sorta di doppio binario o doppio regime d’indagine transazionale, a seconda che le operazioni investigative coinvolgano o meno atti coercitivi. Nell’ipotesi di procedimenti in cui rilevino essenzialmente prove precostituite, o dichiarazioni per il cui ottenimento non è necessario adottare provvedimenti coattivi, pare trovare attuazione piena il reciproco riconoscimento: sembra questo poter essere
l’ambito di numerose ipotesi criminose per così dire “d’impresa”, o rientranti in senso lato nell’area del
diritto penale dell’economia. Solo a titolo d’esempio, paiono rientrare in questa tipologia le frodi fiscali
e doganali, le condotte fraudolente (in senso atecnico) poste in essere ai danni degli interessi finanziari
dell’Unione (per ottenere indebitamente finanziamenti, o per farne un uso diverso da quello per il quale essi sono stati erogati). Viceversa, qualora vi sia necessità di un intervento coercitivo, il metodo imposto dall’OEI si allontana dal puro mutuo riconoscimento, per riprendere alcune soluzioni tipiche della tradizionale assistenza giudiziaria, sia pur rivedute attraverso alcune efficaci soluzioni (una più diffusa applicazione della lex fori, e la partecipazione attiva di magistrati dello Stato emittente nel corso
dell’assunzione della prova).
Infine, con la direttiva in esame si effettuano scelte rilevanti verso una migliore armonizzazione dei
sistemi in campo probatorio, qualora si interferisca con i diritti fondamentali (in particolare, con la libertà personale, la tutela della segretezza e della privacy, il diritto di difesa): da qui il Capo IV della direttiva, con sui si dettano disposizioni comuni per uniformare le procedure riguardanti le informazioni
bancarie, quelle legate alle operazioni sotto copertura, le intercettazioni, e il trasferimento delle persone
detenute al fine di poterne raccogliere le dichiarazioni. In sostanza, il legislatore sembra voler recepire,
sia pur parzialmente, l’argomento, tante volte sollevato dagli studiosi, per cui nessun pieno mutuo riconoscimento sia possibile sinché non si riesca a operare una rilevante opera di ravvicinamento e armonizzazione delle legislazioni nazionali in ambito probatorio, troppo diverse apparendo, allo stato le
tradizioni statuali in materia 17.
ALCUNI ASPETTI POSITIVI
Altri aspetti positivi che meritano di essere messi in evidenza sono rappresentati dal richiamo costante
al principio di proporzionalità, dallo scrupolo per il rispetto dei diritti fondamentali e da un relativo
rafforzamento – benché ancora insufficiente – del diritto di difesa.
Quanto alla proporzionalità, la sua esplicita menzione è certamente dovuta a una presa d’atto della giurisprudenza sviluppatasi in materia di mandato d’arresto europeo 18, e alla necessità di evitare che stru-
17
Cfr. C. Claverie-Rousset, The admissibility of evidence in criminal proceedings between Wuropean Union Member States, in European Criminal Law Review, 2013, n. 2, p. 152 s. Si veda inoltre S. Allegrezza, Critical remarks on the Green paper on obtaining evidence
in criminal matters from one Member State to another, cit., pp. 574-576. La medesima tesi è sostenuta da A. Ryan, Toward a System of
European Criminal Justice, cit., p. 238 s. (in particolare pp. 247-249).
18
Si richiama qui la ben nota sentenza del Oberlandesgericht Stuttgart, del 25 febbraio 2010, 1 Ausl (24) 1246/09, General Prosecution Service c. C. pubblicata, nella traduzione inglese di J. Vogel (relatore nella causa) ed annotazione di J. Spencer, in Criminal Law
Review, 2010, p. 474. Per un commento italiano alla pronuncia cfr. L. Romano, Principio di proporzionalità e mandato d’arresto europeo:
verso un nuovo motivo di rifiuto?, in Dir. pen. contemporaneo, 2013, vol. 1, p. 250 s. Va ricordato, al tempo stesso, la Relazione della
Commissione L.i.b.e. del Parlamento europeo recante raccomandazioni alla Commissione sul riesame del mandato d’arresto europeo (2013/2109(INL) – consultabile sul sito: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A7-20140039+0+DOC+XML+V0//IT#title1 – che in più passaggi (si veda per tutto il punto 7) invoca una migliore e più estesa tutela del
principio di proporzionalità. Prima ancora, a mettere in evidenza il problema era stata la Commissione, nella sua relazione del 2011
(“Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sull’attuazione dal 2007 della decisione quadro del Consiglio del 13 giugno
2002 relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri” – documento COM (2011) 175 dell’11 aprile 2011):
in particolare, si veda il § 5 della Relazione, tutto dedicato al «problema della proporzionalità».
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menti di impatto così rilevante sulle posizioni dei singoli siano usati per casi di piccolo rilievo. Tuttavia, il
suo recepimento nella direttiva OEI va ben oltre il mero raffronto del rapporto tra mezzi e fini, per spingersi a un sindacato sullo strumento probatorio richiesto dallo Stato emittente assimilabile a quello conosciuto
a livello interno per alcune misure potenzialmente lesive dei diritti fondamentali: di fronte a una richiesta
di assistenza per l’acquisizione di un atto probatorio, sia lo Stato emittente che quello di esecuzione devono
porre in essere il triplice vaglio implicato dal canone di proporzione (idoneità; necessarietà; proporzionalità
in senso stretto). Lo confermano le disposizioni di riferimento: l’atto richiesto deve essere, secondo l’art. 6,
par. 1 lett a), “necessario”, ove tale parametro sembra identificare, quanto meno, la capacità del dato probatorio in astratto di raggiungere l’obiettivo prefissato. Inoltre, lo Stato di esecuzione deve valutare se sia
possibile raccogliere le informazioni attraverso operazioni meno invasive per i diritti individuali (art. 10,
par. 3). Infine, la proporzionalità in senso stretto può realisticamente ritenersi recepita, da un lato, in forza
del richiamo generale al principio in questione, operato nelle due diverse disposizioni richiamate; dall’altro, grazie alla giurisprudenza consolidatasi sotto l’egida del mandato d’arresto europeo, e valorizzata dai
rapporti della Commissione e del Parlamento su quello strumento di cooperazione giudiziaria 19. Vale la
pena rimarcare che il vaglio di proporzionalità deve essere operato sia nella fase di emissione che in quella
di attuazione: a tal proposito, ove lo Stato di esecuzione nutra dei dubbi circa il rispetto del principio in
esame, deve consultarsi con le autorità emittenti (art. 6, par. 2). In sostanza, in materia di proporzionalità ci
troviamo di fronte ad una deroga al mutuo riconoscimento, dal momento che entrambe le autorità giudiziarie devono separatamente effettuare lo stesso controllo, provvedendo a consultarsi in caso di contrasto.
Un simile modus operandi dovrebbe favorire il ravvicinamento e l’uniformazione applicativa di un metodo –
quello implicato dal canone di proporzione – che inevitabilmente riconosce al potere giudiziario un considerevole margine discrezionale, attenuando le distanze prasseologiche tra i diversi ordinamenti nazionali 20.
Quanto al rispetto dei diritti della difesa, è vero che si tratta di un riferimento pleonastico – in fondo,
lo impongono la Carta dei diritti (art. 48) e i principi fondamentali posti all’art. 6 TUE – nonché generico, nella sua formulazione. Non si deve dimenticare, tuttavia, che in questo settore dovrebbero trovare
attuazione le regole espresse dalle nuove direttive in materia di diritti dell’imputato 21, considerato che
l’OEI può trovare applicazione in un procedimento penale o in una procedura non penale in grado di
dar origine nel suo sviluppo a un successivo procedimento penale.
Per fare un esempio, ove occorra sentire la persona sottoposta ad indagini, bisognerà dare attuazione
all’art. 3 della direttiva sull’accesso a un difensore, che impone (par. 3, lett. a-b), prima che l’audizione
cominci, il diritto di incontrare il difensore in privato e di comunicarvi, nonché, durante l’operazione probatoria, la sua partecipazione attiva. Si dovrà inoltre procedere nel rispetto della direttiva 2012/13/UE,
che prescrive il dovere d’informazione a chi si trovi sottoposto a un procedimento penale: in particolare,
l’autorità sarà tenuta a rendere l’interessato edotto del diritto ad avvalersi di un difensore, del diritto al
silenzio, di quello a poter usufruire di un interprete – per il quale dovrà trovare esecuzione quanto previsto dalla direttiva 2010/64/UE – nonché, infine, della natura e dei motivi dell’accusa.
Importante appare, sotto altro profilo, il dovere, per lo Stato che esegua l’ordine, di apprestare le
stesse tutele e gli stessi mezzi d’impugnazione predisposti per un atto adottato all’interno del proprio
ordinamento. Così, ipotizzando che un’autorità italiana riceva un ordine di sequestro probatorio, e di
perquisizione prodromica al rinvenimento e all’apprensione della res, occorrerebbe riconoscere all’inte-
19
Basti qui il richiamo al rapporto del 2011 della Commissione, in precedenza richiamato (p. 8 del documento): «Quando
mandati d’arresto europei vengono emessi per casi in cui una misura detentiva cautelare risulterebbe inappropriata, si produce un effetto
sproporzionato sulla libertà delle persone ricercate».
20
Sul tema si rinvia alle osservazioni di M. Daniele, La metamorfosi del diritto delle prove nella direttiva sull’ordine europeo di indagine penale, cit., pp. 9-13.
21
Le direttive sui diritti dell’imputato sono specificamente: Direttiva 2010/64/EU sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali; Direttiva 2012/13/EU sul diritto all’informazione nei procedimenti penali; Direttiva 2013/48/EU
relativa al diritto di avvalersi di un difensore nel procedimento penale e nel procedimento di esecuzione del mandato d’arresto
europeo, al diritto di informare un terzo al momento della privazione della libertà personale e al diritto delle persone private
della libertà personale di comunicare con terzi e con le autorità consolari. In tema, sia consentito il rinvio a M. Caianiello, Dal
terzo pilastro ai nuovi strumenti: diritti fondamentali, “road map” e l’impatto delle nuove direttive, in www.penalecontemporaneo.it.
Per uno sguardo lucido e originale, cfr. T. Rafaraci, Diritti fondamentali, giusto processo e primato del diritto UE, in questa Rivista,
2014, n. 3, p. 1 s.
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ressato i diritti attribuitigli dall’ordinamento per l’atto interno omologo, con qualche inevitabile adattamento legato al contesto transnazionale 22. Al tempo stesso, ove sia l’Italia a emettere l’OEI, la tutela
delle prerogative difensive in maniera adeguata, accettabile secondo i canoni del nostro ordinamento,
dovrebbe essere assicurata da due fattori (la cui operatività, tuttavia, va riconosciuto, è a priori difficilmente decifrabile 23), costituiti dal combinarsi della prevalenza (tendenziale – art. 9, par. 2) della lex fori,
e dall’applicazione delle tre direttive in materia di diritti della difesa in precedenza richiamate 24.
Infine, è di indubbio rilievo la possibilità riconosciuta alla difesa di promuovere un atto d’indagine
all’estero attraverso l’OEI: l’art. 1, par. 3 attribuisce all’indagato o al suo difensore la legittimazione ad
agire per l’emissione di un euro-ordine «nel quadro dei diritti della difesa applicabili conformemente al
diritto e alla procedura penale nazionale». Si tratta di un’apertura importante, benché di certo ancora
insufficiente nell’ottica di una parità delle armi tra organi inquirenti e difesa 25. Occorre considerare infatti che nei tradizionali meccanismi di assistenza giudiziaria la difesa giocava un ruolo del tutto marginale, non vedendosi riconosciuta una formale legittimazione ad agire (potendosi al più spingere a sollecitare il pubblico ministero affinché si attivasse in suo aiuto) 26. Se proviamo a ipotizzare come l’art. 1,
par. 3 della direttiva OEI potrebbe essere recepito dal nostro ordinamento, paiono plausibili due soluzioni, l’una di carattere minimale e l’altra di portata più espansiva (sebbene entrambe migliorative, rispetto allo status quo in cui versa attualmente l’imputato). Nell’ottica più riduttiva, si potrebbe prevedere, per il giudice chiamato a considerare la richiesta di un OEI avanzata dall’imputato, un dovere di decidere attraverso un provvedimento motivato. In un’ottica più espansiva, e volta a dare piena attuazione al diritto alla prova, si potrebbe introdurre una forma di richiesta quasi-recettizia, quali quelle previste agli ultimi due commi dell’art. 391-bis c.p.p. Una soluzione del genere parrebbe preferibile, perché
consentirebbe, da un lato, di avvicinare sul piano sostanziale le prerogative di pubblico ministero e difesa (oggi largamente sbilanciate a favore dell’organo pubblico quando l’indagine sia di carattere transnazionale 27); dall’altro, di incanalare verso un maggiore equilibrio, quella giurisprudenza che nega in
radice la possibilità per il difensore di effettuale indagini all’estero sulla base del Titolo VI bis del codice 28. Quella preclusione, certo controversa sul piano ermeneutico 29, potrebbe trovare una parziale giustificazione attraverso l’attribuzione alla parte privata di una legittimazione ad agire, al fine di tutelare
il diritto alla prova. Si badi, anche nella migliore delle ipotesi sarebbe avventato parlare di realizzazione
di un pieno equilibrio: chiedere una prova attraverso l’OEI – o anche ottenerla, come avverrebbe introducendo una fattispecie del tenore di quelle previste all’art. 391-bis comma 10 e 11 c.p.p. 30 – impone
comunque alla difesa di scoprire le proprie carte, e con esse la propria strategia; ancora, presuppone
una capacità di orientarsi, nella preparazione del proprio caso ben difficile da realizzare in concreto.
Occorre infatti disporre di strumenti e reti di informazione tali da consentire di venire a conoscenza,
22
In particolare, occorrerebbe riconoscere all’interessato il diritto a partecipare, e quello di farsi assistere da una persona di
fiducia. A tal fine, l’autorità procedente dovrebbe consegnare una copia dell’OEI, e dei documenti ad esso allegati, eventualmente integrati dall’avviso di cui all’art. 247 c.p.p. Andrebbe inoltre comunque riconosciuto il diritto del difensore ad assistere
all’atto. Occorrerebbe, inoltre, anche in ottemperanza alla direttiva 2012/13/UE, provvedere a notificare gli avvisi di cui agli
artt. 369 e 369-bis c.p.p. Infine, l’imputato manterrebbe il diritto a richiedere la restituzione delle cose sequestrate (che, sebbene
non costituisca una impugnazione, può essere ricondotto al concetto di rimedio evocato dalla versione inglese del testo della
direttiva), e di impugnare il provvedimento di sequestro, con gli stessi strumenti apprestati dal codice per l’analogo atto.
23
Così, giustamente, M. Daniele, La metamorfosi del diritto delle prove, cit., p. 9.
24
Cfr. M. Caianiello, Dal terzo pilastro ai nuovi strumenti, cit., pp. 16-23, per un’analisi degli effetti delle nuove direttive in materia di diritti della difesa nell’ambito delle procedure nazionali.
25
Critica sulla posizione deteriore in cui viene lasciata la difesa R. Belfiore, La prova penale, cit., p. 221.
26
Come osserva A. Mangiaracina, A New and Controversial Scenario in the Gathering of Evidence at the European Level, cit., p.
123-124, la difesa nel tradizionale sistema di assistenza giudiziaria doveva canalizzare la propria domanda verso il pubblico ministero, cui solo spettava l’iniziativa per avviare la procedura di assistenza.
27
Così V. Melillo, Tecniche investigative speciali e squadre investigative comuni, cit., pp. 100-102.
28
Il riferimento è a Cass., sez. I, 29 maggio 2007, n. 23967, in Cass. pen., 2009, p. 2035, con nota di M. Bordieri, Brevi note sull’inutilizzabilità di atti di investigazione svolti all’estero dal difensore dell’imputato senza passare attraverso una rogatoria internazionale.
29
Si veda anche, in materia, E. Selvaggi, Noi e gli altri: appunti in tema di atti processuali all’estero, ivi, 2009, p. 2049; D. Curtotti
Nappi, I nuovi orizzonti investigativi del difensore: le informazioni assunte all’estero, in Giur. it., 2008, p. 986; C. Angeloni, L’inammissibilità di investigazioni difensive all’estero: una ricostruzione plausibile?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, p. 1383 s.
30
In tema, senza pretesa di completezza, per uno sguardo complessivo, cfr. P. Ventura, sub art. 391-bis c.p.p., in G. Conso-G.
Illuminati (coordinato da), Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, II ed., 2015, pp. 1664-1667.
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prima di presentare la richiesta di OEI all’autorità giudiziaria, di quali prove all’estero meriterebbero
essere acquisite.
ASPETTI CRITICI
Un primo profilo che appare poco convincente concerne le clausole di rifiuto, che appaiono ancora
troppo legate al modello della mutua assistenza giudiziaria. In particolare, le ipotesi di non esecuzione
legate alla territorialità (art. 11 par. 1 lett. e)) risultano criticabili, proprio perché mettono particolarmente a repentaglio l’efficacia della misura (così come del resto è avvenuto con il mandato di arresto europeo 31). La critica è legata a due aspetti, l’uno teorico, l’altro pratico. In primo luogo, le clausole di rifiuto
legate alla territorialità contraddicono la costruzione ideale dello spazio giudiziario europeo, che, per
l’appunto, va inteso come un’unica area nella quale opera in prima battuta il diritto dell’Unione 32. Negare l’attuazione dell’OEI perché un fatto è stato commesso, in tutto o in parte, sul territorio dello Stato
dell’esecuzione ripristina quei confini che la costruzione dello spazio comunque vuole abbattere in radice. Ci troviamo quindi di fronte a una previsione che si pone in conflitto con le fondamenta della
cooperazione giudiziaria fondata sul reciproco riconoscimento. Sul lato pratico, d’altro canto, si tratta di
una disposizione che non pare tener conto di come, sempre più spesso, le condotte e le vicende criminose siano, per l’appunto, transnazionali, e dunque inevitabilmente portate a trovare realizzazione in
diversi ordinamenti statuali. In sostanza, la previsione in esame pare un tributo alla sovranità dello Stato che smentisce la ragion d’essere del modello nuovo di cooperazione giudiziaria. È possibile che una
clausola del genere sia posta dal legislatore per apprestare un rimedio al problema della litispendenza
transnazionale, cioè al overlapping of jurisdictions 33. Sinceramente, non pare questa una risposta adeguata ad un problema che in effetti è reale. La soluzione migliore, come efficacemente è stato sottolineato,
risiede nell’individuare chiare regole di attribuzione della giurisdizione: risolto quell’aspetto, vale a dire assicurato che l’imputato non sia sottoposto a plurimi procedimenti per un medesimo fatto, non v’è
ragione per consentire a un ordinamento di non cooperare solo perché la vicenda per cui si procede ha
avuto luogo, in tutto o in parte, sul suo territorio.
Un altro profilo quantomeno controverso concerne la posizione della difesa. Al di là della legittimazione al difensore a domandare un OEI, l’imputato si trova, nel quadro di un procedimento transnazionale, in una posizione immensamente svantaggiata rispetto alle autorità inquirenti. Il problema centrale, sotto questo punto di vista, è costituito – dando per superato il tema della determinazione del giudice precostituito per legge – dalla disclosure, cioè dalla possibilità per la difesa di avere contezza degli
elementi a carico raccolti da chi conduce le indagini. È facile osservare come, in inchieste di carattere
transnazionale, the right counsel is in the wrong place: il difensore cui viene consentito di mettere in discussione il risultato probatorio non dispone delle conoscenze necessarie per coltivare efficacemente
l’eventuale eccezione processuale 34. In tal senso, ad esempio, la difesa non può strutturalmente essere
al corrente di quella comunicazione di informazioni spontanee tra le autorità inquirenti che, come si è
osservato in precedenza, tipicamente antecede l’emissione di atti di assistenza giudiziaria a carattere
probatorio. Né essa ha alcun accesso ai dati scambiati nel corso dell’attività di coordinamento favorita e
supportata da Eurojust. Elementi del genere sarebbero essenziali per consentire all’imputato di mettere
in discussione la rilevanza dell’operazione, o la sua necessità (si pensi all’indispensabilità nel caso sia
posta in essere una operazione di intercettazione transnazionale). Rimanendo all’oscuro di una porzione così determinante dell’inchiesta, è chiaro che ben difficilmente sarà possibile contrastare con efficacia
l’azione repressiva quanto all’an della prova, cioè al verificarsi delle condizioni inerenti alla sua ammissione. Si noti, ancora, che, nel caso di investigazioni coordinate tra più ordinamenti, a differenza di
31
Si veda, a tal proposito, Cass., sez. VI, 14 maggio 2014., n. 20526, in CED Cass., 259784.
32
Per tutti A. Klip, European Criminal Law, cit., p. 19 s.
33
Sul tema cfr. ampiamente, L. Luparia, La litispendenza internazionale: tra ne bis in idem europeo e processo penale italiano,
Giuffrè, Milano, 2012.
34
A tal proposito, va evidenziato che, in linea di prima approssimazione, le questioni riguardanti l’ammissione della prova –
intesa come l’insieme delle condizioni alla stregua delle quali la prova può essere presentata e introdotta nel processo (pertinenza-rilevanza, da un lato, e divieti probatori, dall’altro) – devono essere decise dallo Stato emittente (art. 6 par. 2); quelle invece
attinenti all’assunzione della prova, devono essere contestate nello Stato di esecuzione.
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quanto avviene di fronte ad un procedimento con carattere esclusivamente nazionale, la difesa è realisticamente destinata a non venire mai a conoscenza di un determinato contesto di informazioni (cioè
nemmeno a operazioni concluse). L’indagine parallela e lo scambio spontaneo di dati e prove consente
alle autorità inquirenti di operare una sorte di cherry picking, cioè di scegliere, fior da fiore, gli elementi
utili al perseguimento dell’imputato nell’alveo di un ben più vasto insieme di notizie, destinate a rimanere sempre nella disponibilità – e nella segreta custodia – degli inquirenti di altro ordinamento che si
pongono in collaborazione spontanea con chi procede.
La carenza informativa si ripercuote sulla possibilità di operare una verifica effettiva, ad opera dello
Stato di esecuzione, sul rispetto dei diritti fondamentali e del principio di proporzionalità, così come
previsto dall’art. 6 par. 3: i dubbi, all’occorrere dei quali l’autorità di esecuzione può mettersi in contatto con quella di emissione, possono realisticamente sorgere solo ove, nell’ordinamento richiesto, sia
coinvolto un difensore capace e consapevole, in grado cioè in concreto di sollevare tempestivamente
una eccezione quanto alla legittimità della prova oggetto dell’OEI. Tuttavia, la direttiva non prevede né
un dovere di full disclosure quanto agli elementi alla base delle richieste probatorie veicolate dall’OEI, né
un sistema di eurodifesa capace di operare un tempestivo e efficace contatto tra difensori operanti nei
diversi ordinamenti. In questo senso, sarebbe stato opportuno interpolare l’art. 10, direttiva 2013/48/
UE, sull’accesso a un difensore, con il quale, per la prima volta, si impone la nomina di un difensore
nello Stato di esecuzione del mandato, e si dettano, sia pur molto genericamente (al par. 4), le linee di
un coordinamento tra difese operanti nell’ordinamento a quo e in quello ad quem. Ancora, si sarebbe potuto intervenire sull’art. 7, direttiva 2012/13/UE, per chiarire i modi e i tempi di accesso al fascicolo nei
casi in cui le operazioni investigative abbiano dimensione transnazionale. Il silenzio del legislatore
quanto agli aspetti messi in rilievo va considerato come un’occasione deplorevolmente mancata, cui è
difficile supporre possa trovare rimedio la giurisprudenza.
VERSO UN REGIME DI MUTUA AMMISSIBILITÀ DELLA PROVA?
Nei primi commenti sulla nuova direttiva, si è tendenzialmente sostenuto che essa non tocchi il tema
dell’ammissibilità reciproca delle prove, né si presti indirettamente a essere letta in tal senso. Le ragioni
addotte, con qualche approssimazione, sono legate a due motivi: da un lato, l’evoluzione storica della
nuova fonte, che, abbandonando il disegno normativo originario, appare tutta focalizzata solo sulla
cooperazione in materia di scambio e acquisizione di informazioni e prove; dall’altro, da una posizione
teorica di fondo che contesta il legame tra mutuo riconoscimento e un regime eurounitario di ammissibilità delle prove. Per dirla diversamente, il metodo della mutual recognition concernerebbe esclusivamente la cooperazione tra Stati per la conduzione di inchieste giudiziarie, sostituendo progressivamente il vecchio sistema di carattere rogatoriale: è dunque operazione indebita ricavare da previsioni dettate per questo settore spunti con riguardo al tema della mutua ammissibilità in campo probatorio.
Questo approccio non pare potersi condividere. Come sempre avviene per il diritto europeo – i cui
piccoli passi nascondono disegni molto più grandi – dipende dalla prospettiva adottata. Se osserviamo
il meccanismo varato con la direttiva OEI in chiave restrospettica, non c’è dubbio che esso nulla dica, o
quasi, quanto al tema della mutual admissibility of evidence. Se invece ci poniamo in chiave prospettica, o
di potenziale evoluzione favorita da questa nuova fonte, il discorso cambia sensibilmente. Un efficace
sistema di mutuo riconoscimento rappresenta infatti, come da lungo tempo riconosciuto dalla dottrina,
uno dei mezzi attraverso i quali, in via indiretta, il legislatore europeo può conseguire il risultato di
condizionare la materia delle invalidità probatorie, portandola lentamente a uniformità 35. Non dobbiamo mai dimenticare il contesto storico e politico nel quale queste nuove disposizioni si trovano ad
operare, caratterizzato da due fenomeni in grado di scardinare le divisioni tra ordinamenti nazionali e
sistemi sovranazionali: da un lato, quella che è stata definita la «global community of judges, sharing the
same project for the international entranchment of human rights» 36 (cioè in sostanza il senso di comunanza
globale della comunità giudiziaria, favorito da un crescente e inarrestabile dialogo tra le corti); dall’al35
Così S. Gless, Strategie e tecniche per l’armonizzazione della prova, in G. Illuminati (a cura di), Prova penale e Unione europea, cit., p.
141 s.; S. Allegrezza, L’armonizzazione della prova penale alla luce del Trattato di Lisbona, ivi, p. 161 s. (in particolare pp. 165-169).
36
La definizione è di R. Vogler, Criminal Evidence and Respect for Fair Trial Guarantees in the Dialogue Between European Court of Human Rights and National Courts, in S. Ruggeri (ed.), Transnational Evidence and Multicultural Inquiries in Europe, Berlin, 2014, p. 181 s.
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tro, il venir meno della divisione tra diritto interno e diritto internazionale, cagionato dalla globalizzazione dei sistemi 37. In questo quadro, di fronte a una nuova fonte normativa adottata da un organismo
sovranazionale, ci si deve sempre chiedere quali possano essere le ripercussioni per quello che, un tempo, avremmo considerato mero diritto interno.
Nella prospettiva che si è appena indicata, sembrano potersi cogliere diversi spunti nella direzione
di un modello armonizzato di invalidità probatorie.
Innanzi tutto, va messo il luce il dovere di far uso della lex fori, quanto più possibile, con il limite costituito dai principi fondamentali dello Stato di esecuzione. Questa operazione dovrebbe favorire proprio quel ravvicinamento tra sistemi che è prodromico a un regime uniformato in campo probatorio.
L’approssimazione tra i sistemi dovrebbe poter essere raggiunta intervenendo su due piani diversi:
quello dei principi, attraverso l’elaborazione di soluzioni ermeneutiche in grado di favorire la cooperazione (si pensi ai limiti massimi della carcerazione preventiva come interpretati dalle Sezioni Unite nel
casi Ramoci); quello delle regole, attraverso un’opera di sintesi, implicata in concreto dal dovere per lo
Stato di esecuzione di applicare la lex fori: occorre infatti evitare di porre le autorità chiamate a dar seguito all’OEI di fronte a troppe difficoltà, limitando per quanto possibile il rischio di errori. In questo
senso, sarà inevitabile per lo Stato richiedente individuare con l’emissione dell’OEI quelle (sole) disposizioni il cui rispetto appare cruciale ai fini di salvaguardare la validità dell’atto. Da questo punto di vista, anche l’estesa possibilità di magistrati dell’ordinamento emittente di affiancare le autorità giurisdizionali dello Stato di esecuzione ben dovrebbero prestarsi a quella reciproca conoscenza – e indirettamente, a quella reciproca ibridazione – che costituisce il presupposto di un regime armonizzato nel settore in esame 38.
In secondo luogo, un linguaggio comune pare destinato a formarsi in materia di proporzionalità,
con inevitabili effetti à rebours sul piano interno: se si dovesse raggiungere un’accezione condivisa – per
esempio – in materia di necessità e proporzionalità in senso stretto in relazione alle intercettazioni di
comunicazioni, a livello europeo, è difficile pensare che ciò non comporti implicazioni quanto agli omologhi presupposti sul piano nazionale. In altre parole, è realistico supporre che l’applicazione dei due
parametri – quello europeo e quello statuale – tenderanno ad avvicinarsi (nel senso che l’ermeneutica
sulla disposizione nazionale tenderà a riprodurre quella sviluppatasi in sede europea).
Infine, abbiamo un quadro della divisione dei compiti abbastanza chiaro, che pare potersi prestare a
fungere da canovaccio per una futuribile direttiva in materia di mutual admissibility of evidence. Allo Stato di emissione vengono attribuiti i poteri di sindacare l’ammissione della prova da richiedere aliunde,
in termini di pertinenza-rilevanza e di divieti probatori. Lo Stato d’esecuzione – pur con l’eccezione innescata dalla possibilità di “consultarsi” con quello d’emissione quanto al rispetto della proporzionalità
e dei diritti umani – è dominus della esecuzione, e dei vizi che dovessero insinuarsi in questa fase: i rimedi, infatti, sono quelli previsti dal suo ordinamento, in misura uguale a quelli predisposti per le operazioni aventi mera rilevanza interna. Si badi, e qui s’insinua un paradosso, che le regole alla cui osservanza lo Stato richiesto deve vigilare potrebbero essere costituite in gran parte se non in toto da disposizioni dello Stato richiedente, posto il generale dovere di attuare quanto più possibile la lex fori.
Infine, nessuna delle previsioni sovranazionali si occupa delle regole di valutazione: il che è del tutto
coerente con la necessità di non interferire in un settore ove lo iato incolmabile è costituito dalla summa
divisio tra sistemi con giuria e sistemi con giudici togati.
CONCLUSIONI
L’ordine europeo di indagine penale rappresenta uno strumento dalle molteplici potenzialità, i cui contorni precisi sono ancora lontani dall’essere colti, dal momento che, per la prima volta, con una diretti-
37
In tal senso, oltre a R. Vogler, op. ult. cit., si veda A.M. Slaughter, A global community of courts, in Harvard International Law
Journal, 44, 2003, pp. 191-219; M.A. Waters, Creeping monism: the judicial trend toward interpretative incorporation of human rights
treaties, in Columbia Law Review, 107, 2007, pp. 628-705. Sul piano interno V. Manes, I principi penalistici nel network multilivello:
trapianto palingenesi, cross-fertilization, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, p. 839 s.
38
Anche sotto questo aspetto, appare essenziale un tempestivo coinvolgimento della difesa, senza la quale è irrealistico pensare di riuscire a effettuare in modo proficuo quella semplificazione indispensabile affinché la lex fori possa essere facilmente
attuata da parte dello Stato di esecuzione.
EDITORIALE | LA NUOVA DIRETTIVA UE SULL’ORDINE EUROPEO DI INDAGINE PENALE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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va, l’Unione cerca di operare una reductio ad unum delle tante e diverse fonti in materia di cooperazione
nel campo probatorio.
Gli aspetti che – a prima vista – appaiono più critici concernono il ruolo fortemente creativo del giudice (legato alla capacita dell’OEI di favorire una ibridazione dei modelli probatori europei), nonché la
posizione della difesa e la tutela dei suoi diritti 39. Quanto al primo, sarà necessario elaborare una metodologia condivisa sotto almeno due profili: le modalità di attuazione della lex fori, da un lato, e l’applicazione del test di proporzionalità, dall’altro. Con riguardo al secondo, non sbaglia chi evoca l’intervento del legislatore per introdurre nuove previsioni in materia di legal aid e di istituzione di un meccanismo di difesa europea 40 (nonché di disclosure degli elementi utili alla difesa). Nel frattempo, gli sforzi
maggiori dovrebbero essere profusi sul piano ermeneutico per coniugare la direttiva OEI con quelle riguardanti le prerogative dell’imputato, di modo da offrire, in ognuno dei molteplici passaggi critici che
la cooperazione giudiziaria può porre, un’adeguata tutela dei diritti difensivi: non va dimenticato che la
posizione di svantaggio di chi è accusato, ove la dimensione del caso sia transnazionale, è pesantemente accentuata da un deficit informativo strutturale, in grado in ogni momento di minare le fondamenta
di un processo che si voglia effettivamente giusto.
Infine, non vanno trascurate le potenzialità che la direttiva presenta quanto alla capacità di favorire
un’approssimazione, e addirittura la costruzione di una strada comune, in materia di “ammissibilità”
delle prove. Non cogliere gli spunti traibili dal testo di questa fonte significa, verosimilmente, perdere
l’occasione di contribuire a determinare quello che costituirà, in un futuro non lontano, il sistema probatorio europeo in ambito penale.
39
Vale la pena, in aggiunta a quanto osservato sinora, rimarcare che il solenne richiamo al rispetto dei principi fondamentali
non può dirsi del tutto tranquillizzante, sinché la Corte di Giustizia non interverrà a rivedere alcuni limiti posti con le sentenze
Melloni e Åkerberg Fransson. In sostanza, sebbene si evochi il rispetto delle tutele essenziali dell’imputato nel testo delle previsioni normative, grava sul punto l’ombra dei controlimiti ricavati dalle due pronunce evidenziate, le quali, in estrema sintesi, pongono un freno all’espansione dei diritti individuali là dove essa possa vanificare i fini – evidentemente considerati superiori –
della cooperazione e dell’efficacia del diritto dell’Unione. In tal senso, cfr. T. Rafaraci, Diritti fondamentali, giusto processo e primato del diritto UE, cit., pp. 3-5.
40
A. Mangiaracina, A New and Controversial Scenario, cit., pp. 124-125.
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Scenari
Overviews
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NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
NATIONAL LEGISLATIVE NEWS
di Nicola Russo
NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUTA DEL FATTO (D.L. 16 MARZO 2015, N. 28)
Con il d.l. 28/2015 (in G.U. del 18 marzo 2015 vigente dal 2 aprile 2015) recante Disposizioni in materia
di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lett. m), della l. 28
aprile 2014, n. 67 è stata data ulteriore attuazione alla parte della delega contenuta nella l. n. 67/2014
che, avendo il doppio fine di deflazionare il contenzioso e ridurre l’ambito d’intervento della sanzione
penale, ha previsto quale causa generale di non punibilità dei reati (contravvenzioni o delitti) la particolare tenuità del fatto.
Più precisamente, la causa di non punibilità ricorre «quando, per le modalità della condotta e per
l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, comma 1, l’offesa è di particolare
tenuità e il comportamento risulta non abituale» (art. 1, comma 2, che ha introdotto nel codice penale
l’art. 131-bis).
La novella interviene sul piano del diritto penale sostanziale e su quello del diritto processuale, inserendo le sue previsioni nel rispettivo tessuto dei due codici.
Innanzitutto, in osservanza delle delega, la causa di non punibilità opera ad una doppia condizione.
La prima è che si tratti di reati per i quali è prevista «la pena detentiva non superiore nel massimo a
cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena».
Nel determinare il tetto sanzionatorio si è espunto l’aumento determinato dalle circostanze aggravanti comuni, limitando il computo alle circostanze ad effetto speciale ed a quelle di specie diversa da
quelle ordinarie. In tal caso non si terrà conto del giudizio di bilanciamento ai sensi dell’art. 69 c.p.
Questa previsione opera anche quando la legge preveda la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante.
Per ragioni di continenza logica non dovrebbe potersi dubitare che la disposizione si applichi anche
alle ipotesi di delitto tentato (sebbene non espressamente richiamate). Al di là dell’imprecisione revisionale, un opposto orientamento finirebbe per condurre all’assurdo esito di punire – alle condizioni
poste dall’art. 131-bis c.p. – le condotte di reato arrestatesi a livello di tentativo e di mandare prosciolto
chi, invece, le abbia spinte fino alla consumazione.
La seconda condizione è, invece, che l’autore non abbia «agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o (abbia: n.d.r.) adoperato sevizie o, ancora, (abbia: ndr) profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la
condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona».
Sempre sul versante soggettivo viene precisato che il comportamento è da ritenersi abituale «nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia
commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e
reiterate».
Dunque, per escludere che il fatto sia globalmente di particolare tenuità sarà possibile non solo valorizzare la storia anteatta dell’indagato/imputato (facendo riferimento sostanzialmente ai suoi precedenti penali) ma anche desumere i caratteri della suddescritta abitualità dai fatti che allo stesso vengono contestati.
L’intervento sul piano processuale ha toccato, innanzitutto, la fase delle indagini preliminari.
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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L’art. 2 del decreto legislativo ha innovato il contenuto dell’art. 411 del codice di rito, prevedendo la
particolare tenuità del fatto come causa di archiviazione.
In tal caso il meccanismo procedurale ricalca quello tipico della richiesta di archiviazione, con la particolarità che il pubblico ministero è tenuto a dare avviso della sua determinazione sia all’indagato che
alla persona offesa (quest’ultima a prescindere da qualsivoglia istanza a suo tempo formulata a tale fine). Inoltre la facoltà di opporsi alla richiesta di archiviazione – stante la previsione della novella – spetta anche all’indagato.
Sia quest’ultimo che la persona offesa, nel termine decadenziale di dieci giorni possono depositare il
proprio atto motivato di dissenso (che, quanto alla persona offesa, non è condizionato all’indicazione
delle ulteriori indagini da compiere).
Salvo che non dichiari inammissibile l’opposizione, il giudice per le indagini preliminari deciderà
sulla richiesta – nel contraddittorio camerale tra le parti – con ordinanza.
In assenza di opposizione (o se quest’ultima è inammissibile) il giudice potrà accogliere la richiesta
provvedendo con decreto motivato.
In caso di mancato accoglimento della richiesta (nei casi in cui si prescinda da un’opposizione ritualmente proposta) il giudice disporrà la restituzione degli atti al Pubblico Ministero con ordinanza. In tal
ultima ipotesi l’attivazione della procedura camerale è solo eventuale (art. 2 comma 1, ultimo periodo).
Il legislatore è, poi, intervenuto sulla disciplina della fase antecedente all’apertura dell’istruttoria dibattimentale prevedendo che, ai sensi di un innovato art. 469 c.p.p., sia possibile pronunciarsi sentenza
di non doversi procedere per particolare tenuità del fatto, previa audizione in camera di consiglio della
persona offesa comparsa.
Sebbene non vi sia alcuna esplicita previsione, è indubbia la possibilità di declaratoria della causa di
non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis c.p. in sede di udienza preliminare (nelle forme di cui all’art. 425,
comma 1, c.p.p.) od all’esito del dibattimento (in quelle di cui all’art. 530, comma 1, c.p.p.) od in sede di
giudizio abbreviato (ai sensi dell’art. 442 c.p.p.).
Infine l’art. 3, comma 1, lett. b) del decreto legislativo ha disciplinato l’efficacia della sentenza di proscioglimento ex art. 131-bis c.p. nel giudizio civile o amministrativo di danno. Lo ha fatto aggiungendo
nel codice di rito penale l’art. 651-bis, a tenore del quale «la sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato
quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che
l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del
danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia
intervenuto nel processo penale».
Analogo effetto spiega la sentenza irrevocabile in sede di giudizio abbreviato che abbia pronunciato
il proscioglimento per particolare tenuità del fatto salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia
accettato il rito abbreviato.
Un’ultima segnalazione va fatta con riferimento alla modifica del d.p.r. 14 novembre 2002, n. 31 in
materia – tra l’altro – di casellario giudiziario.
L’intervento operato dall’art. 4 del decreto legislativo prevede l’annotazione nel certificato penale
dei provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la commentata non punibilità.
VIETATI I BENEFICI AI CONDANNATI PER IL DELITTO DI CUI ALL’ARTICOLO 416-TER C.P. (L. 23 FEBBRAIO
2015, N. 19)
In vigore dal 20 marzo 2015, la l. n. 19/2015 (in G.U. del 5 marzo 2015), estende il divieto di concessione
dei benefici penitenziari indicati dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 (ordinamento penitenziario) ai
soggetti condannati per il reato di scambio elettorale politico-mafioso previsto dall’art. 416-ter c.p.
Analogamente, la legge è intervenuta sul riparto di attribuzioni tra uffici del Pubblico Ministero, inserendo nell’elenco contenuto nell’art. 51, comma 3-bis del codice di rito il reato de quo.
Conseguentemente, questo delitto è stato “attratto” nel catalogo di quei più gravi reati per i quali le
indagini devono essere condotte dalla direzione distrettuale antimafia.
Da questo inserimento discende, poi, sul piano processuale, l’applicazione della regola dell’art. 190bis c.p.p. (requisiti della prova in casi particolari) ai dibattimenti aventi ad oggetto l’accertamento di
questa condotta di reato.
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DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI (L. 27 FEBBRAIO DEL 2015, N. 18)
Preceduta, accompagnata e seguita da un ampio e vivace dibattito tra il mondo della Politica (quasi
unanimemente schierato a favore della normativa) e quello della Magistratura associata (critica sui contenuti della legge), la disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati è ormai norma vigente dal 19
marzo del 2015 (in G.U. del 4 marzo del 2015)
Rinviando all’approfondito commento in questa Rivista, si segnala che con questa legge si è – innanzitutto – eliminato dal percorso procedurale il vaglio di ammissibilità prima previsto dall’art. 5 della
Legge n. 117 del 1988 (art. 3, comma 2, l. n. 18/2015).
Costituiscono fondamento della azione risarcitoria diretta nei confronti dello Stato, il dolo e la colpa
grave manifestati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, mentre non può costituire motivo di riconoscimento del diritto al risarcimento l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove (art. 2 comma 1, lett. b).
Tuttavia su questa previsione di ordine generale s’innestano le eccezioni richiamate dai commi 3 e 3bis dell’art. 2 della legge in commento.
In particolare il comma 3, nel definire i limiti di rilevanza della colpa grave, statuisce che «costituisce
colpa grave la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea, il travisamento
del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa
dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli
atti del procedimento, ovvero l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».
È, in particolare, sul concetto di “travisamento del fatto o delle prove” che si è acceso il confronto tra
i commentatori della disciplina, dal momento che –almeno prima facie– questa situazione sembrerebbe
contrastare con l’affermazione principale secondo cui la valutazione del fatto o delle prove non possa
costituire ragione di responsabilità.
La struttura della disposizione dell’art. 2, comma 1 (“Fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo…”)
induce, però, a ritenere che nell’ambito delle patologie connesse alla valutazione del fatto e delle prove
sia stata valorizzata come situazione comunque costituente fonte di responsabilità quella del “travisamento del fatto o delle prove”).
In altri termini, il rapporto tra le due previsioni va risolto nel senso di ritenere che la colpa grave
connessa all’attività valutazione del fatto o delle prove non possa costituire fonte di responsabilità diretta dello Stato ad eccezione delle situazioni in cui non concreti l’ipotesi del travisamento.
L’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato è, poi, prevista come obbligatoria dall’art.
4, che statuisce che «il Presidente del Consiglio dei ministri, entro due anni dal risarcimento avvenuto
sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale, ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa nei
confronti del magistrato nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la violazione manifesta
della legge nonché del diritto dell’Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui
all’articolo 2, commi 2, 3 e 3-bis, sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile».
Sempre a voler rimanere al tema del “travisamento del fatto o delle prove”, v’è da chiedersi se
l’espressione “negligenza inescusabile” debba intendersi quale sinonimo evocativo della categoria della
“colpa grave” o se essa descriva un’ipotesi peculiare di colpa grave (che ricomprenderebbe anche le
ipotesi d’imperizia ed imprudenza). A ben vedere il problema sembra essere per lo più teorico, dal
momento che nell’attività di valutazione del fatto o delle prove l’unica forma di colpa grave che può
venire ragionevolmente in considerazione è quella della negligenza.
Sebbene l’art. 4 potrebbe lasciare spazio ad interpretazioni più ampie, deve ritenersi che non vi sia la
possibilità per il Presidente del Consiglio di promuovere l’azione di rivalsa al di fuori dei casi in cui essa è indicata come obbligatoria.
L’art. 5 limita, poi, l’entità della rivalsa alla metà di un’annualità di stipendio al netto delle trattenute
fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta. Questo limite opera
anche se dal fatto sia derivato danno a più persone e queste abbiano proposto distinte azioni di responsabilità.
Il tetto massimo della metà dell’annualità non si applica al fatto commesso con dolo.
In ogni caso l’esecuzione della rivalsa, quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio,
non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore ad un terzo
dello stipendio netto.
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
TRASFERIMENTO DELLE PERSONE CONDANNATE.
N. 17)
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TRATTATO TRA ITALIA E BRASILE (L. 10 FEBBRAIO 2015,
Con la l. n. 17/2015 (in G.U. del 4 marzo 2015), in vigore dal 5 marzo 2015, recante la Ratifica ed esecuzione del Trattato sul trasferimento delle persone condannate tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica federativa del Brasile, fatto a Brasilia il 27 marzo 2008, il nostro Governo ha finalmente
ratificato e dato esecuzione al trattato firmato con il Governo brasiliano nell’ormai lontano marzo del
2008.
Scopo del Trattato è quello di favorire e facilitare la riabilitazione sociale della persona condannata.
Conseguentemente le Autorità competenti di entrambe le Parti, nel decidere sul trasferimento di una
persona condannata considereranno, fra gli altri fattori, la gravità del reato, i precedenti penali della
persona condannata, i rapporti socio-familiari che la medesima abbia mantenuto con il proprio ambiente di origine e le sue condizioni di salute (art. 8 del Trattato).
Il suddetto Trattato condiziona il trasferimento dei detenuti alla ricorrenza delle presenti condizioni:
a) la persona condannata sia cittadino della «Parte ricevente» o ivi abbia la propria residenza permanente;
b) la sentenza sia definitiva;
c) la pena o la misura privativa della libertà che la persona condannata deve ancora scontare alla data di ricevimento della richiesta sia di almeno dodici mesi;
d) la persona condannata, o un suo rappresentante legale, nel caso di sua incapacità dovuta a ragioni
di età o alle condizioni fisiche o mentali, acconsenta al trasferimento;
e) il reato che ha dato origine nella Parte mittente alla pena o misura privativa della libertà costituisca reato anche secondo la legge della Parte ricevente;
f) alla persona condannata non sia stata inflitta la pena di morte, a meno che la suddetta pena di
morte non sia stata commutata;
g) le disposizioni della sentenza non connesse alle misure privative della libertà siano state eseguite,
salvo per assoluta incapacità di farlo della persona condannata;
h) la Parte mittente e la Parte ricevente siano d’accordo sul trasferimento.
Dunque, come aspetto più rilevante del Trattato va posto in evidenza che occorre il consenso del
condannato al suo trasferimento. Cosa, questa, ancor più sottolineata negli artt. 6, commi 4 e 7 del Trattato, ove si precisa – rispettivamente – che «la persona condannata, una volta che sia stata messa a conoscenza delle conseguenze legali del trasferimento, secondo le informazioni trasmesse dalla Parte ricevente, darà il proprio consenso definitivo al trasferimento» e che «la Parte mittente darà garanzie che
la persona condannata, nel rendere il proprio consenso al trasferimento, lo ha fatto in maniera volontaria».
Quanto agli effetti giuridici del trasferimento, essi sono distinti tra quelli che si producono sul versante del Pese Mittente (art. 9) e quelli che, invece, si determinano per il Paese ricevente (art. 10).
Il trasferimento alla Parte ricevente della persona condannata sospende l’esecuzione della pena nella
Parte mittente.
La Parte mittente, inoltre, non potrà fare eseguire la pena quando la Parte ricevente riterrà che la pena sia stata interamente scontata.
Le Autorità competenti della Parte ricevente dovranno proseguire l’applicazione della pena o misura privativa della libertà senza modificare la sua natura giuridica e durata, così come determinate dalla
Parte mittente.
Qualora la natura o la durata della pena o misura privativa della libertà sia incompatibile con la legge della Parte ricevente, la persona condannata non sarà trasferita, salvo il consenso delle Parti.
ACCORDO DI COOPERAZIONE TRA ITALIA E AFGHANISTAN IN MATERIA DI PREVENZIONE E CONTRASTO AL
TRAFFICO ILLECITO DI STUPEFACENTI, SOSTANZE PSICOTROPE E LORO PRECURSORI (L. 10 FEBBRAIO 2015,
N. 13)
Con la l. n. 13/2015, vigente dal 3 marzo 2015 (in G.U. del 2 marzo 2015) e recante Ratifica ed esecuzione
dell’Accordo di cooperazione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica islamica dell’Afghanistan in materia di prevenzione e contrasto al traffico illecito di stupefacenti, sostanze psicotrope e loro
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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precursori, fatto a Roma il 2 giugno 2011, è stato ratificato e posto in esecuzione l’accordo di cooperazione
con la Repubblica afgana in tema di prevenzione e contrasto al traffico di stupefacenti, sostanze psicotrope e precursori.
Tra i profili più rilevanti dell’Accordo di cooperazione meritano di essere segnalate le previsioni
contenute nell’art. 5 relativo alle “Modalità di cooperazione”. Ivi si prevede che le Parti contraenti s’impegnano allo scambio sistematico e dettagliato, su richiesta o d’iniziativa, di informazioni, anche di natura operativa, su:
a) situazione della droga nei rispettivi Paesi e valutazione della minaccia criminale;
b) nuovi tipi di droghe apparse sul mercato, comprese quelle sintetiche;
c) luoghi e metodi di produzione e fabbricazione;
d) canali e mezzi usati per il trasporto, nonché sulle modalità di occultamento;
e) gruppi criminali locali ed internazionali dediti al traffico illecito di droghe e loro precursori, nonché al riciclaggio dei relativi proventi: struttura, organizzazione, affiliati, modus operandi, ambiti criminali di interesse, eventuali punti di criticità delle organizzazioni stesse;
f) strumenti legislativi, nonché mezzi tecnici e scientifici utili ai fini di migliorare l’attività di prevenzione e contrasto al traffico illecito di droga e di precursori chimici;
g) stato della minaccia criminale;
h) persone fisiche, società ed Enti sospettati di coinvolgimento in traffico internazionale di droga e di
precursori chimici, di reciproco interesse;
i) luoghi di provenienza, fonti di approvvigionamento, modalità di trasporto, occultamento ed impiego illecito di precursori chimici;
j) normativa e procedure vigenti nei due Paesi in materia di sequestro e confisca di beni ed utilità
derivanti dal traffico illecito di droghe, anche alla luce delle innovazioni introdotte in campo internazionale dalla richiamata Convenzione delle Nazioni Unite contro il Crimine Organizzato transnazionale
firmata a Palermo il 12 dicembre 2000;
k) formazione del personale della polizia antinarcotici, anche sull’utilizzo di tecnologie e mezzi,
compresi quelli informatici, telematici e di laboratorio, per monitorare luoghi e persone che si ritiene
possano essere coinvolti nei reati previsti dal presente Accordo;
l) impiego di unità cinofile, attrezzature scientifiche e mezzi tecnici per l’individuazione ed il sequestro di droghe occultate su persone e mezzi di trasporto terrestre, aereo e marittimo.
Sempre l’art. 6, comma 2, prevede l’impegno delle Parti contraenti a prestarsi reciproca collaborazione:
a) nell’esecuzione di speciali tecniche investigative, come le consegne controllate e le operazioni sotto-copertura;
b) nell’eventuale assistenza tecnica e giuridica da parte di esperti delle due Parti;
c) nello scambio, in caso di necessità, di campioni e risultati di analisi delle droghe sequestrate allo
scopo di individuare luoghi ed organizzazioni criminali ai quali far risalire le responsabilità della produzione e del traffico illecito.
L’Accordo prevede, inoltre, la costituzione di gruppi di lavoro comuni e scambio di esperti, nonché
l’organizzazione di riunioni periodiche, per una valutazione congiunta dello stato della collaborazione
e per la predisposizione di eventuali strategie e piani d’intervento specifici per arginare i traffici di droga e per individuare e disarticolare le reti criminali di traffico.
ORDINE DI PROTEZIONE EUROPEO (D.LGS. 11 FEBBRAIO 2015, N. 9)
Come indicato nelle disposizioni di prinicipio ed attuazione, il d.lgs. n. 9/2015 (pubblicato in G.U. n. 44
del 23 febbraio del 2015 ed entrato in vigore il 10 marzo) e recante l’Attuazione della direttiva 2011/99/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 sull’ordine di protezione europeo ha attuato
nell’ordinamento interno le disposizioni della direttiva 2011/99/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa al reciproco riconoscimento degli effetti di misure di protezione
adottate da autorità giurisdizionali degli Stati membri.
Il limite di attuazione è rappresentato, come di consueto, dalla compatibilità di tali previsioni con i
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principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali, nonché in tema di diritti di libertà e di giusto processo.
Nel corpo delle definizioni del decreto legislativo assumono centrale importanza le nozioni di “misura di protezione” e di “ordine di protezione europeo”.
La prima è una «decisione adottata in materia penale da un organo giurisdizionale o da altra diversa
autorità competente, che si caratterizzi per autonomia, imparzialità e indipendenza, di uno Stato membro dell’Unione europea con la quale vengono applicati divieti o restrizioni finalizzati a tutelare la vita,
l’integrità fisica o psichica, la dignità, la libertà personale o l’integrità sessuale della persona protetta
contro atti di rilevanza penale».
Il secondo, strutturato in maniera evocante il MAE, è «una decisione adottata dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro con la quale, al fine di continuare a tutelare la persona protetta, viene disposto
che gli effetti della misura di protezione si estendano al territorio di altro Stato membro in cui la persona protetta risieda o soggiorni o dichiari di voler risiedere o soggiornare»
L’art. 3, d.lgs. n. 9/2015 individua nel Ministero di Giustizia e nelle autorità giudiziarie gli organi
coinvolti dalla disciplina in commento.
In particolare, quanto agli ordini di protezione europei emessi da un’autorità giudiziaria italiana, essi possono essere disposti a corollario dell’adozione della misura cautelare dell’allontanamento dalla
casa familiare (art. 282-bis c.p.p.) o di quella del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa (art. 282-ter c.p.p.).
L’Autorità giudiziaria, con l’emissione dell’ordinanza cautelare, informa la persona offesa della facoltà di richiedere l’emissione dell’ordine di protezione europeo (art. 282-quater c.p.p. come modificato
dall’art. 4, d.lgs. n. 9/2015).
Dunque, si tratta di un procedimento attivabile ad impulso di parte che, a tal fine, dovrà dichiarare
di soggiornare o risiedere all’interno di un altro Stato membro o manifestare l’intenzione di andare a
risiedere o soggiornare in esso (art. 5, d.lgs. n. 9/2015).
Nella dichiarazione dovrà essere indicato, a pena d’inammissibilità, il luogo in cui la persona protetta ha assunto od intende assumere la residenza oppure la durata e le ragioni del soggiorno.
In caso di accoglimento dell’istanza, l’autorità giudiziaria emetterà con ordinanza l’ordine di protezione europeo secondo un modello formale contenente i dati indicati nell’art. 5 (sintesi della vicenda,
identità e dati della persona protetta e del soggetto destinatario della misura cautelare, caratteri della
misura cautelare, ecc.)
In caso di rigetto o di declaratoria d’inammissibilità della richiesta il richiedente potrà proporre ricorso per cassazione.
La disposizione dell’art. 5 sembra descrivere un procedimento eventuale successivo all’emissione
della misura cautelare, in cui l’adozione dell’ordine di protezione europeo è subordinato solo alla valutazione di requisiti di ammissibilità, senza margini di apprezzamento della sua opportunità/necessità.
Infatti, sebbene l’art. 5, comma 4 preveda la possibilità del ricorso avverso il provvedimento di rigetto o d’inammissibilità, la prima ipotesi di diniego è collegata solo alla valutazione negativa sulla ricorrenza del presupposto della residenza o soggiorno in altro Stato membro in atto o programmato.
L’autorità giudiziaria, una volta emesso e tradotto l’ordine di protezione, lo trasmette senza ritardo
(art. 6) al Ministero della giustizia per la sua successiva trasmissione all’autorità competente dello Stato
di esecuzione. Con le medesime modalità è prevista la comunicazione di ogni provvedimento che indica sulla misura cautelare o sull’ordine di protezione (revoca, modifica, proroga, annullamento o sostituzione dell’una o dell’altro).
Se lo Stato di esecuzione rifiuta di riconoscere l’ordine di protezione, il Ministero della Giustizia ne
dà immediata comunicazione all’autorità giudiziaria al fine di consentire a quest’ultima d’informare la
persona protetta.
Sul riconoscimento interno di un ordine di protezione emesso da un’autorità di un altro Stato membro decide la Corte di Appello nel cui distretto è fissato il luogo di residenza o di soggiorno della persona protetta (art. 7).
La Corte di Appello provvede senza formalità entro il termine di dieci giorni dal ricevimento dell’ordine di protezione. Detto termine rimane sospeso nel caso in cui il Presidente della Corte d’Appello abbia
comunicato al Ministero della Giustizia la necessità d’integrare le informazioni ritenute incomplete (art. 8).
In caso di positivo riconoscimento dell’ordine di protezione europeo proveniente da altro Stato
membro, la Corte di Appello applica al soggetto responsabile della condotta illecita una delle misure
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previste dagli artt. 282-bis o 282-ter del codice di rito in modo da assicurare la corrispondenza con gli
obblighi dettati nel provvedimento adottato dall’autorità giudiziaria richiedente.
L’art. 9 disciplina, poi, i casi di mancato riconoscimento dell’ordine di protezione:
1) perdurante incompletezza delle informazioni richieste dalla Corte d’Appello;
2) non riconducibilità degli obblighi fissati nell’ordine di protezione alle limitazioni e prescrizioni
contenute negli artt. 282-bis e 282-ter c.p.p.,
3) mancanza del requisito della cd doppia incriminazione;
4) violazione del requisito del ne bis in idem internazionale;
5) concretata estinzione del reato o della pena in relazione fatti che potevano essere giudicati in Italia,
6) improcedibilità determinata dall’avvenuta emissione in Italia per i medesimi fatti di una sentenza
di non luogo a procedere, fatta salva la ricorrenza delle condizioni per la sua revoca;
7) sussistenza di una causa d’immunità o di non imputabilità riconosciuta dall’ordinamento italiano
8) sussistenza della giurisdizione italiana in relazione al fatto per il quale è stato richiesto il riconoscimento dell’ordine di protezione.
Anche avverso il diniego della Corte di Appello può essere proposto il ricorso per cassazione.
L’esecuzione dell’ordine di protezione (art. 10) è affidata alla stessa Corte di Appello che ne informa
il Ministero della Giustizia e ne dà comunicazione alla persona protetta ed a quella destinataria del
provvedimento. Analoga comunicazione viene data anche alla polizia giudiziaria ed ai servizi socioassistenziali del luogo in cui la persona protetta ha fissato od intende fissare la propria residenza o soggiornare.
In caso di violazione delle prescrizioni (art. 10, comma 2), la Corte d’Appello – ricevutane la comunicazione – applica, su richiesta del Procuratore Generale, una misura più grave e ne determina la scadenza entro un termine non superiore a trenta giorni.
L’art. 10 rinvia, nei limiti di applicabilità, alla disciplina delle misure cautelari prevista dal codice di
procedura penale, prevedendo che all’interrogatorio disciplinato dall’art. 294 c.p.p. provveda il Presidente della Corte d’Appello od un magistrato da lui delegato.
Quella descritta nell’art. 10 comma 2 è una misura provvisoria, destinata a perdere efficacia alla scadenza del termine fissato od anche prima, laddove intervenga il provvedimento dello stato di emissione.
Infatti, della violazione dell’ordine di protezione e dell’adozione dei provvedimenti di aggravamento deve essere data informazione all’autorità competente dello Stato di emissione da parte della Corte
di Appello, secondo le formalità indicate nell’art. 10, comma 3.
Come, poco sopra anticipato, spetta all’autorità giudiziaria dello Stato di emissione (art. 11) decidere
in ordine alla proroga, riesame, modifica, annullamento, sostituzione od aggravamento della misura
posta a base dell’ordine di protezione.
Delle modifiche deve informarne senza indugio le autorità competenti dello Stato di esecuzione
(Ministero della Giustizia e Corte di Appello). Allo stesso modo deve provvedere alla comunicazione
dell’emissione della sentenza relativa ai fatti per i quali è stato richiesto l’ordine di protezione.
L’art. 12, infine stabilisce che, a seguito della comunicazione dell’intervenuta modifica delle misure
poste a base dell’ordine di protezione, la Corte d’Appello – con le modalità procedimentali di cui al descritto art. 8 – può revocare o sostituire le misure adottate ovvero modificarne le modalità di applicazione.
La disposizione prevede, poi, che la Corte di Appello possa dichiarare la cessazione dell’efficacia
dell’ordine di protezione quando:
a) riceve comunicazione che l’autorità competente dello Stato di emissione ha annullato o revocato
la misura di protezione posta alla base dell’ordine di protezione europeo;
b) riceve comunicazione che l’autorità competente dello Stato di emissione ha modificato il contenuto della misura di protezione e non vi è corrispondenza tra le prescrizioni imposte e quelle conseguenti
all’applicazione delle misure regolate dagli artt. 282-bis e 282-ter del codice di procedura penale;
c) sussistono elementi idonei a desumere che la persona protetta non si trova all’interno del territorio nazionale;
d) in riferimento al fatto in relazione al quale è stata disposta la misura di protezione e previa qualificazione dello stesso sulla base della normativa nazionale, sono trascorsi i termini previsti dall’art. 308
del codice di procedura penale;
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e) lo Stato di emissione ha comunicato l’esecuzione, nei confronti della persona che determina il pericolo, di una sentenza di condanna a pena detentiva ovvero di una misura cautelare detentiva anche
per fatti diversi da quelli posti alla base dell’ordine di protezione europeo;
f) risulta che la persona che determina il pericolo si trova sottoposta in Italia a pena detentiva ovvero
alla misura cautelare della custodia in carcere in forza di provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria nazionale e in relazione a fatti diversi da quelli posti alla base dell’ordine di protezione europeo;
g) nei confronti della persona che determina il pericolo è stato pronunciato il riconoscimento, ai fini
della sua esecuzione in Italia, di una sentenza di condanna a pena detentiva emessa in altro Stato membro, ai sensi del d.lgs. 7 settembre 2010, n. 161, attuativo della decisione quadro 2008/909/GAI.
Della modifica o revoca dell’ordine di protezione adottate, la Corte d’Appello provvede a dare comunicazione allo Stato di emissione secondo le modalità previste dall’art. 6.
Le richieste di emissione dell’ordine di protezione provenienti da autorità giudiziarie italiane vengono trasmesse dal Ministero della Giustizia. Il decreto legislativo consente, tuttavia, anche la corrispondenza diretta tra autorità giudiziarie.
CONTRASTO AL TERRORISMO, ANCHE INTERNAZIONALE, PROROGA DELLE MISSIONI INTERNAZIONALI
DELLE FORZE ARMATE E DI POLIZIA E INIZIATIVE DI COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO E SOSTEGNO AI PROCESSI DI RICOSTRUZIONE (D.L. 18 FEBBRAIO 2015, N. 7)
Il d.l. n. 7/2015, pubblicato sulla G.U. del 19 febbraio ed entrato in vigore il giorno seguente, recante
Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di
pace e di stabilizzazione, detta una disciplina multisettoriale con la quale il Governo ha inteso adeguare lo
“strumentario” dell’autorità giudiziaria inquirente e dei servizi di sicurezza alle nuove connotazioni
operative delle organizzazioni terroristiche anche (ma potremmo dire, soprattutto) di matrice internazionale.
L’intervento, per quanto d’interesse in questa sede, si snoda lungo quattro direttrici principali.
La prima è rappresentata dall’introduzione di nuove fattispecie di reato (delittuose e contravvenzionali) volte ad anticipare la soglia di punibilità verso condotte preparatorie di attività già sanzionate
in materia dal codice penale (artt. 1 e 2, comma 1 e 3 del decreto). La seconda è costituita dall’estensione dell’applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali ai cd. foreign fighters e
dalla previsione del relativo corredo procedimentale e sanzionatorio (art. 4 del decreto).
La terza si rinviene nell’istituzionalizzazione del coordinamento nazionale in materia di indagini
sul terrorismo affidato al Procuratore nazionale antimafia (ed ora anche antiterrorismo) (artt. 9 e 10 del
decreto).
La quarta, infine, è rappresentata dalla possibilità di svolgimento di colloqui informativi con detenuti ed internati da parte di personale appositamente delegato dell’AISI e dell’AISE per la prevenzione di delitti con finalità di terrorismo (art. 6 del decreto), nonché la possibilità del personale dei
servizi di sicurezza di utilizzare identità di copertura per deporre od essere menzionati nei procedimenti penali e nei relativi atti (art. 8). Il medesimo art. 8, al comma 2, prevede la possibilità di autorizzare il personale dei servizi di sicurezza allo svolgimento di attività sotto copertura che comportino
l’integrazione di condotte punite ai sensi degli artt. 270 e 270-quinquies c.p.
Si tratta, quindi, di un quadro d’interventi molto variegato e complesso, auspicabilmente idoneo a
fronteggiare l’evoluzione internazionale del fenomeno terroristico reso ancora più preoccupante a causa del ricorso a strumenti rapidi, e spesso incontrollabili, di comunicazione e propaganda.
Le novità in tema di fattispecie penali possono così sintetizzarsi:
1) Viene prevista la punizione, con la pena della reclusione da tre a sei anni, del soggetto arruolato,
ma non ancora addestrato (cui si applica la previsione dell’art. 270 quinquies c.p.) e non partecipe
dell’organizzazione terroristica.
2) Si introduce il reato di “organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo”, la cui applicazione è, però, limitata ai casi in cui dette condotte non integrino modalità di partecipazione all’organizzazione o di arruolamento.
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3) Si attribuisce rilevanza penale anche alle condotte di auto-addestramento (anche per via informatica o telematica) al compimento di atti terroristici.
4) Viene aggravata la punizione delle condotte d’istigazione ex artt. 302 e 414 c.p. nel caso in cui si ricorra a strumenti informatici o telematici.
Ad una prima lettura di queste disposizioni appare chiara la ratio che le ispira, cioè quella di allargare il perimetro dell’illiceità penale a comportamenti che si collocano all’esterno dell’adesione all’organizzazione terroristica e che possono portare anche alla commissione di atti di terrorismo per soli fini
emulativi. Al tempo stesso si è voluto prevedere una risposta sanzionatoria rafforzata contro le condotte d’istigazione (anch’esse non integranti forme di manifestazione di appartenenza all’associazione)
realizzate con il ricorso al web, in quanto le potenzialità di questo strumento rendono più vasti ed incontrollabili gli effetti della propaganda illecita.
La struttura di “norma sussidiaria” di ciascuna di queste disposizioni chiarisce, poi, che l’intenzione
è stata quella di evitare di lasciare impunite (o di punire secondo previsioni sanzionatorie non specializzate) tutta una serie di condotte per le quali non si riesca a raggiungere la prova che si tratti di manifestazioni di appartenenza all’organizzazione terroristica.
Il legislatore ha anche previsto due norme anticipatorie della sanzione contravvenzionale delle condotte di detenzione abusiva di esplosivi e di omessa denuncia di tale detenzione, attraverso l’introduzione degli artt. 678-bis e 679-bis c.p. Al riguardo, tuttavia, si fa osservare che sarebbe stato forse più
corretto innovare in tal senso la previsione della disciplina speciale in materia di armi piuttosto che
quella contravvenzionale del codice penale, riguardante – com’è noto – il materiale esplodente e non gli
esplosivi in senso stretto.
La medesima finalità di anticipazione dell’intervento statuale ispira l’estensione della disciplina delle misure di prevenzione personale (e patrimoniali, in virtù del richiamo all’art. 16, contenuto nell’art. 4,
d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159) ai soggetti che «pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti […] alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a
prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’articolo 270-sexies del codice penale».
Peraltro, non sembrano condivisibili le preoccupazioni di quella parte della Dottrina che (Balsamo,
Decreto antiterrorismo e riforma del sistema delle misure di prevenzione, in Dir. pen. cont., n. 3/2015) ha sottolineato come «le misure di prevenzione, e il connesso divieto di espatrio, potrebbero infatti applicarsi a
chi si limita ai primi preparativi per prendere parte ad un conflitto in territorio estero, ma non anche al
soggetto che inizia ad attuare l’intento programmato, ed appare ormai in procinto di lasciare il territorio nazionale». Al riguardo, deve ritenersi che detta estensione sia sicuramente possibile (senza violazione del principio di tassatività), atteso che la realizzazione da parte del prevenuto della fase attuativa
presuppone che vi sia stato necessariamente un prodromo preparatorio.
A corredo di tale estensione è stata introdotta anche una disciplina procedimentale specifica riguardante il prevenuto per ragioni di terrorismo.
Per evitare che il periodo di tempo necessario all’adozione dei provvedimenti di urgenza da parte
del presidente del tribunale possa essere sfruttato dal soggetto interessato per allontanarsi dal territorio
dello Stato è stato previsto il potere del questore (art. 9, comma 2-bis, Codice antimafia) di ritirare temporaneamente, nei casi di necessità ed urgenza, il passaporto e sospendere la validità ai fini dell’espatrio dei documenti equipollenti, all’atto della presentazione della proposta di applicazione delle misure
di prevenzione della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno nei confronti delle persone riconducibili alla suddetta fattispecie di pericolosità.
In tali casi il questore deve dare immediata comunicazione del temporaneo ritiro del passaporto, e della
sospensione della validità ai fini dell’espatrio dei documenti equipollenti, al procuratore della Repubblica
del capoluogo di provincia in cui dimora il proposto, il quale disporrà la cessazione di tale misura provvisoria, ovvero presenterà, entro 48 ore, la richiesta di convalida al presidente del medesimo tribunale.
Sulla richiesta di convalida, il presidente del tribunale deve provvedere entro le successive 48 ore,
nelle forme di cui all’art. 9, comma 1 (quindi, emettendo un decreto che, in pendenza del procedimento di prevenzione, dispone il temporaneo ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai
fini dell’espatrio di ogni altro documento equipollente).
La misura disposta dal questore cessa di avere effetto se non convalidata nel termine di 96 ore successive alla sua adozione.
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Collegata a questa previsione è la sanzione introdotta nella prima parte dell’art. 75 bis, comma 1 ove
si stabilisce che «il contravventore alle misure imposte con i provvedimenti di urgenza di cui all’art. 9 è
punito con la reclusione da uno a tre anni».
Infine, nel catalogo dei reati cui è collegata l’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art.
71 del codice antimafia sono stati inseriti anche quelli previsti dagli artt. 270-bis, 270-ter, 270-quater, 270quater.1, 270-quinquies e 270-sexies c.p.
Il Capo II del decreto legge n. 7 del 2015 è, invece, dedicato all’aggiornamento delle norme del codice di rito e di quello antimafia in cui è considerata la figura ed i poteri del Procuratore nazionale antimafia, dora innanzi denominato anche antiterrorismo.
L’aggiornamento appare limitato alla sola denominazione, non essendo stata prevista una disciplina
particolare che dia contenuto al richiesto raccordo tra l’attività della Procura nazionale e quella dei servizi di sicurezza AISI ed AISE.
Infine, meritano attenzione le previsioni contenute negli artt. 6 ed 8 del decreto legge.
La prima disposizione prevede la facoltà del Presidente del Consiglio, anche a mezzo del Direttore generale del dipartimento delle informazioni per la sicurezza, di richiedere che i direttori dell’AISI e dell’AISE, o
personale dipendente espressamente delegato, effettuino colloqui informativi con detenuti ed internati al
solo fine di acquisire informazioni per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice straniera.
La richiesta è rivolta al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione che, direttamente od attraverso un sostituto appositamente designato, l’autorizza quando sussistano specifici e concreti elementi informativi che rendano assolutamente indispensabile l’attività di prevenzione. Le espressioni
utilizzate nella norma in commento rendono evidente che l’organo richiedente debba fornire al Procuratore generale una dettagliata esplicazione della situazione in ordine alla quale vengono richieste le
informazioni nonché le ragioni concrete e specifiche per le quali si possa ritenere che il soggetto in stato
di detenzione possa essere in possesso di notizie indispensabili all’attività di prevenzione.
Dello svolgimento del colloquio viene data comunicazione scritta al Procuratore generale entro il
termine di cinque giorni e le autorizzazioni e le successive comunicazioni vengono annotate in un registro riservato tenuto presso l’ufficio del Procuratore generale.
Anche il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) deve essere informato, a
conclusione delle operazioni, dal Presidente del Consiglio dell’avvenuto svolgimento del colloquio entro trenta giorni, analogamente a quanto previsto dall’art. 33 comma 4 della Legge 3 agosto 2007 n. 124
(intitolata “Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto”).
Anche quest’ultima disciplina normativa è stata “toccata” dal d.l. n. 7/2015 nella parte in cui (all’art.
17, comma 4) è stata aggiunta la possibilità di autorizzare – per i fini istituzionali dei servizi di sicurezza– la commissione anche dei reati di cui agli artt. 270, secondo comma, 270-ter, 270-quater, 270-quater.1,
270-quinquies, 302, 306, comma 2 e 414, comma 4, c.p., laddove il catalogo originario previsto dall’art. 17
contemplava solo le condotte previste dagli artt. 270-bis e 416-bis comma 1, c.p.
Sempre l’art. 8, d.l. n. 7/2015 ha inserito una disposizione di completamento di quella già contenuta
nell’art. 497, comma 2-bis, c.p.p. (che consente agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria e dei servizi
di sicurezza di dichiarare, in sede di testimonianza dinanzi all’autorità giudiziaria, le generalità di copertura utilizzate nel corso dell’attività su cui sono stati chiamati a riferire), secondo la quale l’autorità
giudiziaria, su richiesta del direttore generale del DIS o dei direttori dell’AISE o dell’AISI, quando sia
necessaria mantenerne segreta la reale identità nell’interesse della sicurezza della Repubblica o per tutelarne l’incolumità, autorizza gli addetti agli organismi del DIS, dell’AISE e dell’AISI a deporre in ogni
stato o grado di procedimento con identità di copertura.
RINNOVATA LA DIFESA D’UFFICIO (D.LGS. 30 GENNAIO 2015, N. 6)
Il testo della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 6/2015, recante Riordino della disciplina della difesa d’ufficio a norma dell’articolo 16 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 è stato pubblicato sulla G.U. del 5 febbraio 2015.
Rinviando al più approfondito commento contenuto in questa rivista, ci si limita in questa sede a
segnalare che con questo testo normativo si è prevista l’unificazione – su base nazionale– dell’elenco
dei difensori d’ufficio e si è accentrata nel Consiglio nazionale forense la competenza in ordine alle
iscrizioni e al periodico aggiornamento.
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Importante appare la specificata previsione della necessaria qualificazione professionale, essendo richiesti criteri più rigorosi per l’iscrizione, fondati sull’accertamento del possesso di almeno una delle
qualità professionali o culturali previste dall’art. 1 del decreto legislativo
Infatti, è elevata a cinque anni l’esperienza professionale in materia penale richiesta. In via alternativa è necessario il conseguimento del titolo di specialista in diritto penale.
Sulla richiesta d’iscrizione il Consiglio nazionale forense provvede, dopo aver acquisito il parere del
locale Consiglio dell’ordine e l’interessato è onerato, ai fini del mantenimento dell’iscrizione, a presentare periodicamente la documentazione che dimostri l’effettiva e persistente esperienza nel settore penale.
È, inoltre, prescritto che l’avvocato inserito nell’elenco non possa chiedere la cancellazione dall’elenco prima di due anni.
In via transitoria, è stato stabilito che gli avvocati attualmente iscritti agli elenchi tenuti dai consigli
dell’ordine siano automaticamente inseriti nell’elenco nazionale. Tuttavia, decorso un anno dalla data
di entrata in vigore del provvedimento in commento, dovranno documentare il possesso requisiti richiesti dalla nuova disciplina per poter conservare l’iscrizione.
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NOVITÀ SOVRANAZIONALI
SUPRANATIONAL NEWS
di Andrea Conti
LA CONVENZIONE DEL CONSIGLIO D’EUROPA CONTRO LA TRATTA DEGLI ORGANI
UMANI (CETS N. 216)
Il 25 marzo 2015 in occasione della Conferenza internazionale sulla lotta alla tratta degli organi umani –
tenutasi a Santiago de Compostela (Spagna) – è stata aperta alla firma la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la tratta degli organi umani (l’Italia ha provveduto alla firma), elaborata da un Comitato appositamente istituito dal Comitato dei Ministri e messa a punto dal Comitato europeo per i problemi criminali (C.D.P.C.).
La Convenzione affronta il delicato tema del traffico degli organi umani che, secondo quanto si legge nel Rapporto esplicativo (par. 3), costituisce un fenomeno radicato e di dimensioni transnazionali, considerato un evidente pericolo per la salute pubblica e individuale, oltre che una palese violazione della
dignità umana e delle libertà fondamentali. L’obiettivo della Convenzione è quindi duplice: da un lato,
essa intende prevenire e combattere il traffico di organi, attraverso la definizione di nuove fattispecie
criminose, e, dall’altro lato, mira ad incoraggiare la cooperazione internazionale, sia per rendere effettiva l’azione repressiva, sia per incentivare la prevenzione del prelievo e dell’impianto di organi ottenuti
in modo illecito.
Tali obiettivi sono già perseguiti da altri strumenti internazionali. In particolare, come la Convenzione stessa ricorda nel Preambolo, dispongono al riguardo, innanzitutto, la Convenzione sui diritti
umani e la biomedicina del 1997 (ETS n. 164) e il Protocollo addizionale alla Convenzione sui diritti
umani e la biomedicina concernente il trapianto di organi e tessuti di origine umana del 2002 (ETS n.
186), che vieta esplicitamente il traffico di organi anche a scopo di lucro. Poi, sono da segnalare anche le
convenzioni in materia di tratta di esseri umani le quali, almeno collateralmente, si occupano di organi,
tessuti e cellule umane – si vedano, ad esempio, la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la tratta
di esseri umani del 2005 (ETS n. 197) e il Protocollo sulla prevenzione, soppressione e punizione della
tratta di persone, in particolare donne e bambini, addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite
contro il crimine organizzato (Palermo, 2000) –. Tuttavia, nonostante l’esistenza di tali strumenti, il
Comitato europeo per i problemi criminali, il Comitato direttivo per la Bioetica e il Comitato europeo
sull’espianto degli organi hanno evidenziato, nell’attuale quadro normativo riguardante il traffico di
organi, l’esistenza di significative lacune, che rendevano opportuno un intervento specifico e coordinato. A fronte di ciò il Comitato dei Ministri istituiva un apposito Comitato, che ha elaborato il testo della
Convenzione in esame, non ritenendo opportuno – benché rientrasse nelle sue competenze – stilare sin
d’ora un protocollo addizionale in tema di tratta dei tessuti e delle cellule umane.
Alla luce di tali considerazioni, la Convenzione intende porsi come uno strumento capace di contrastare efficacemente le condotte connesse all’espianto e all’impianto illecito di organi, colmando le lacune e superando le criticità delle convenzioni e dei protocolli già esistenti: essa interviene sia individuando fattispecie penali e sanzioni, sia coinvolgendo gli Stati nell’attivazione di misure preventive e
promuovendo la cooperazione internazionale.
Per garantirne una più ampia diffusione, la Convenzione – in forza di quanto dispone l’art. 28, par. 1
– è stata aperta alla firma non solo dei Paesi membri del Consiglio d’Europa, ma anche degli Stati
membri dell’Unione Europea, degli Stati che beneficiano dello status di osservatore presso il Consiglio
d’Europa e di ogni altro Paese non membro, su invito del Comitato dei Ministri. Quanto alla data di entrata in vigore, l’art. 28, par. 3 prevede che essa coincida con il primo giorno del mese successivo alla
scadenza del periodo di tre mesi seguenti al raggiungimento di cinque ratifiche, di cui almeno tre provenienti da Stati membri del Consiglio d’Europa. L’obiettivo di tale norma, come si legge nel Rapporto
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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esplicativo (par. 153), è quello di non ritardare inutilmente l’entrata in vigore della Convenzione, pur tenendo conto della necessaria adesione di un gruppo minimo di Stati, al fine di poter realizzare con successo gli scopi propri della Convenzione.
Passando all’analisi della struttura della Convenzione, il testo si compone di 33 articoli, suddivisi in
nove capi, rispettivamente dedicati a Obiettivi, scopi e uso dei termini (artt. 1-3); Diritto penale sostanziale
(artt. 4-14); Diritto processuale penale (artt. 15-17); Misure di protezione (artt. 18-20); Misure di prevenzione
(artt. 21-22); Meccanismo di controllo (artt. 23-25); Rapporti con altri strumenti internazionali (art. 26); Emendamenti alla Convenzione (art. 27); Disposizioni finali (artt. 28-33).
Con riguardo al capo I, l’art. 1 individua quali obiettivi della Convenzione la prevenzione della tratta di organi, da attuarsi mediante la criminalizzazione di certe condotte, l’implementazione della cooperazione a livello nazionale ed internazionale e la protezione dei diritti delle vittime. Tali obiettivi, ma
in particolar modo l’obiettivo inerente alle misure di protezione della vittima, dovranno essere raggiunti – secondo quanto prevede l’art. 3 – senza l’interferenza di alcuna forma di discriminazione. Sul punto
la norma in esame ricalca l’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (CEDU), ma, allo stesso tempo, aggiunge tra i motivi in base ai quali non è
possibile porre in essere un’ingiustificata disparità di trattamento anche l’età, lo stato di salute e la disabilità. In proposito, il Rapporto esplicativo (par. 27) precisa che l’elenco di motivi contenuto nell’art. 3,
in accordo con la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, non può considerarsi tassativo ed esaustivo.
Con riferimento alle definizioni contenute nell’art. 2, occorre osservare che, mentre per ciò che riguarda la nozione di “organo umano” la Convenzione riproduce l’enunciazione riconosciuta a livello
internazionale e cristallizzata nell’art. 3, lett. h) della direttiva 2010/53/UE relativa alle norme di qualità e
sicurezza degli organi umani destinati ai trapianti, quanto al concetto di “tratta di organi umani” la Convenzione non fornisce una definizione onnicomprensiva ma, data la complessità delle azioni criminali e
la molteplicità di soggetti coinvolti nel traffico di organi, si limita a richiamare le condotte descritte dalle disposizioni di diritto penale sostanziale contenute nel capo II.
Nel capo II, relativo al diritto penale sostanziale, si dispone che gli Stati sono tenuti a rendere penalmente rilevanti una serie di condotte a condizione che queste siano commesse intenzionalmente (intentionally). L’accezione e il contenuto concreto da attribuire al termine “intenzionale” sono rimessi alla
legislazione nazionale e in proposito il Rapporto esplicativo (par. 28) precisa che tale elemento soggettivo
costituisce un requisito minimo che non impedirebbe quindi alle Parti di considerare penalmente rilevanti anche condotte colpose.
Passando ad analizzare le singole disposizioni incriminatrici, l’art. 4 individua come reato – salva la
possibilità di formulare una riserva per casi eccezionali che lo Stato aderente dovrà comunque motivare
e giustificare – sia l’espianto di un organo, in assenza del consenso libero, informato, chiaro e specifico
da parte del donatore, dell’Autorità competente o di una persona autorizzata dalla legge nazionale in
caso di decesso del donatore, sia il prelievo di un organo effettuato a fine di lucro o d’analogo profitto.
Inoltre, tali condotte devono essere previste come reato se l’asportazione è avvenuta al di fuori di strutture nazionali accreditate o se l’espianto è stato eseguito in spregio delle regole nazionali in materia di
asportazione di organi (art. 4, par. 4). La Convenzione dispone, successivamente, che gli Stati aderenti
prevedano come reato anche: l’uso di organi illecitamente asportati (art. 5); l’impianto di organi avvenuto al di fuori di strutture nazionali accreditate o eseguito in spregio delle regole nazionali in materia
di impianto di organi (art. 6); l’induzione o il reclutamento di donatori, avvenuto non necessariamente
per scopi lucrativi (art. 7, par. 1); la corruzione attiva e passiva effettuata al fine di ottenere o di facilitare un’asportazione o un impianto di un organo umano illecitamente ottenuto (art. 7, par. 2-3); la preparazione, la conservazione, il deposito, il trasferimento, la ricezione, l’importazione e l’esportazione di
organi illecitamente asportati (art. 8). L’art. 9, inoltre, impone agli Stati aderenti di perseguire sia il tentativo (par. 2), sia il concorso che il favoreggiamento nella commissione dei reati poco sopra descritti
(par.1).
La Convenzione considera anche la responsabilità delle persone giuridiche (art. 11). In particolare,
queste saranno ritenute responsabili in due ipotesi. In primo luogo, ciò accadrà quando i reati descritti
dal capo II vengano commessi a vantaggio della persona giuridica da parte di un soggetto, posto al vertice della struttura dell’ente, che agisca sulla base dei poteri decisionali, di rappresentanza o di controllo a lui conferiti (par. 1). In secondo luogo, la responsabilità delle persone giuridiche è prevista qualora
l’omessa sorveglianza o il mancato controllo da parte del soggetto apicale renda possibile per un diSCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
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pendente, ovvero per un soggetto che non riveste una posizione di vertice nell’organizzazione dell’ente, la commissione di un reato a vantaggio della persona giuridica (par. 2). L’art. 11 precisa che tale
forma di responsabilità, da un lato, potrà essere qualificata come penale, civile o amministrativa in base
alla scelta effettuata dallo Stato aderente alla Convenzione (par. 3) e, dall’altro lato, non pregiudica in
nessun modo la responsabilità penale degli autori del fatto di reato (par. 4).
Individuate le condotte da cui può scaturire la responsabilità delle persone fisiche o giuridiche, la
Convenzione dispone che le sanzioni siano effettive, proporzionate, e dissuasive; dovranno includere
sanzioni privative della libertà personale in modo che si possa far luogo, ove necessario, all’estradizione dell’autore del fatto (art. 12). Con riferimento alle persone giuridiche, l’art. 12, par. 2, precisa che potranno esservi sanzioni pecuniarie – sebbene non necessariamente di natura penale – e misure interdittive, tra le quali vengono menzionate a titolo esemplificativo: l’interdizione temporanea o permanente
dall’esercizio di un’attività commerciale, l’assoggettamento alla sorveglianza giudiziaria e i provvedimenti giudiziali di liquidazione. Inoltre, l’art. 12, par. 3 prevede sia il sequestro che la confisca – anche
per equivalente – dei proventi del reato (da intendersi, secondo il par. 86 del Rapporto esplicativo, come
qualsiasi vantaggio economico, anche in termini di risparmio di spesa, derivanti da reato), sia la chiusura permanente o temporanea di tutte le strutture utilizzate per commettere uno dei reati previsti dalla Convenzione.
Infine, sempre con riferimento al profilo sanzionatorio, va ricordato che l’art. 13 individua una serie
di circostanze che, laddove già non costituiscano un elemento del reato, debbano poter essere valutate
dal giudice nel momento della quantificazione della pena, così da rendere la sanzione adeguata alla
gravità del reato commesso. L’art. 14 riguarda la recidiva internazionale, e prevede che si debbano considerare, ai fini della determinazione della pena, le condanne inflitte in altri Stati.
Completa il quadro delle disposizioni di carattere sostanziale l’art. 10, che individua i criteri attributivi della giurisdizione facendo riferimento ai principi di territorialità, di nazionalità e di residenza abituale dell’autore del reato. I criteri indicati dal par. 1 – come precisa il Rapporto esplicativo (par. 75) – non
sono esclusivi, posto che gli Stati aderenti potranno individuare altri criteri attributivi di giurisdizione
in base alla rispettiva legge nazionale.
Consapevole della dimensione transazionale del traffico di organi, la Convenzione prevede, nell’ipotesi in cui sorga un conflitto di giurisdizione, una procedura di consultazione non obbligatoria tra gli
Stati coinvolti (art. 10, par. 7) al fine di evitare la duplicazione delle procedure.
Passando ad analizzare le disposizioni di diritto processuale penale, cui è dedicato il capo III, esse risultano dirette a rendere le indagini e, più in generale, il procedimento penale, strumenti efficaci ed incisivi nella lotta contro il traffico degli organi. Infatti, è previsto che il procedimento non venga subordinato alla denuncia/querela della persona offesa (principio già enucleato nell’art. 10, par. 4) e che la
remissione non pregiudichi la prosecuzione dell’iter procedimentale (art. 15). Gli Stati, inoltre, dovranno cooperare – nella misura più ampia possibile e in conformità con gli altri strumenti internazionali
esistenti, in particolare, in materia di estradizione e di reciproca assistenza giudiziaria in materia penale
– per perseguire i reati previsti dalla Convenzione e per applicare le relative sanzioni, anche disponendo il sequestro e la confisca (art. 17).
Di particolare interesse è il capo IV che concretizza l’obiettivo della protezione delle vittime, prevedendo una serie di diritti che gli Stati aderenti alla Convenzione dovranno garantire. In particolare, dovranno essere assicurati alle vittime il diritto di accedere alle informazioni relative al procedimento che
le vede coinvolte, quello di essere assistite nel recupero psicofisico e sociale e di ottenere un risarcimento del pregiudizio materiale e dei danni morali da parte dell’autore del reato (art. 18). Inoltre, nel caso
in cui la vittima assuma la qualità di parte processuale, ad essa sono garantiti, in ogni stato e grado del
procedimento, i seguenti diritti: di essere informata – salvo che ciò non pregiudichi il corretto svolgimento dell’iter processuale –; di essere ascoltata; di presentare delle prove; di essere tutelata contro
eventuali intimidazioni e ritorsioni (va precisato che tali misure devono essere garantite anche ai familiari delle vittime); di ottenere l’assistenza e il supporto – in conformità a quanto prevede il diritto nazionale dello Stato aderente – di gruppi, fondazioni ed associazioni; di ottenere assistenza legale anche
gratuita; di poter presentare denuncia/querela nello Stato di residenza a prescindere dal locus commissi
delicti (art. 19). Una protezione effettiva da potenziali intimidazioni e ritorsioni è garantita dall’art. 20
anche ai testimoni e alle vittime qualora siano chiamate a testimoniare.
Quanto alle attività di prevenzione dei reati in tema di traffico di organi, la Convenzione individua
le misure da adottare sia a livello nazionale, sia a livello internazionale. Con riguardo al primo profilo,
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ciascuno Stato – ai sensi di quanto dispone l’art. 21 – è chiamato a dotarsi di strumenti che garantiscano
un effettivo accesso ai servizi attinenti agli organi e un’adeguata raccolta di informazioni; inoltre, dovranno essere promosse campagne di formazione e sensibilizzazione sul tema e dovrà essere vietata
ogni forma di pubblicità inerente alla necessità o disponibilità di organi e alla possibilità di ricavare da
ciò un vantaggio economico o un analogo profitto. Sul fronte delle misure internazionali, la Convenzione punta sulla cooperazione tra le autorità coinvolte, ritenendo che ciò sia un prerequisito fondamentale per raggiungere con successo gli obiettivi fissati all’art. 1 (art. 22). Sempre in quest’ottica va letto il capo VI il quale istituisce un meccanismo di controllo fondato essenzialmente sul Comitato delle
Parti composto dai rappresentanti dei Paesi firmatari della Convenzione. L’istituzione di un organo di
controllo semplice e flessibile, comprendente anche una serie di comitati specializzati in materia (tra cui
il Comitato europeo per i problemi criminali, il Comitato per la Bioetica e il Comitato europeo sul trapianto di organi), consente, non solo di perseguire la prospettiva della cooperazione, ma anche di affrontare il problema del traffico illecito di organi con un approccio multisettoriale e multidisciplinare.
La Convenzione, in conformità con quanto stabilito dalla Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto
dei trattati, non pregiudica i diritti e gli obblighi delle Parti nascenti da altri strumenti internazionali in
tema di traffico di organi umani (art. 26), facendo salva la possibilità di concludere accordi bilaterali e
multilaterali sulle materie disciplinate dalla Convenzione, al fine di agevolarne l’applicazione (art. 26,
par. 2). È, inoltre, prevista una procedura – descritta dall’art. 27 – per emendare il testo della Convenzione.
Completano l’articolato le disposizioni attinenti all’applicazione territoriale (art. 29); alla possibilità
di apporre riserve (art. 30); alla composizione delle controversie (art. 31); alla possibilità di denuncia
(art. 32) e al sistema delle notifiche (art. 33).
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DE JURE CONDENDO
di Danila Certosino
LA RIFORMA DELLA MAGISTRATURA ONORARIA
Il 4 marzo 2015 la Commissione Giustizia del Senato in sede referente ha iniziato l’esame del d.d.l. S.
1738, recante «Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui
giudici di pace», presentato il 13 gennaio 2015 dal Ministro della giustizia Orlando, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze Padoan.
Secondo quanto previsto dall’art. 1 del disegno di riforma, che fissa il contenuto della delega, il Governo dovrà adottare, entro due anni dall’entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi, attenendosi ai principi e criteri direttivi espressamente contenuti nel successivo art. 2.
Merita ricordare che le figure del giudice onorario di tribunale (GOT) e del vice procuratore onorario (VPO), originariamente concepite con carattere transitorio, avrebbero dovuto rimanere in vigore sino all’attuazione del complessivo riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria. La
scadenza temporale del 31 dicembre 2009, prevista dall’art. 245, d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (come
modificato dall’art. 1, d.l. 40 maggio 2008, n. 95, convertito dalla l. 24 luglio 2008, n. 127) è stata, poi,
prorogata, inizialmente al 31 dicembre 2013 (ad opera dell’art. 1, l. 24 dicembre 2012, n. 228), e, successivamente, al 31 dicembre 2015 (secondo il disposto dell’art. 1, l. 27 dicembre 2013, n. 147).
Il disegno di legge in esame, suddiviso in sette articoli, cerca, così, di attuare quella riforma organica
della magistratura onoraria da tempo ritenuta necessaria, muovendosi lungo tre direttrici fondamentali: la creazione di uno statuto unico della magistratura onoraria, applicabile ai giudici di pace, ai giudici
onorari di tribunale e ai vice procuratori onorari; la riorganizzazione dell’ufficio del giudice di pace; la
rideterminazione del ruolo e delle funzioni dei giudici onorari e dei vice procuratori onorari.
Quanto al primo profilo, il d.d.l. S. 1738 si muove nell’ottica di introdurre le misure necessarie per
una più razionale e funzionale gestione del personale della magistratura onoraria attraverso la previsione di una disciplina omogenea per quanto concerne modalità di accesso, durata dell’incarico, tirocinio, conferma periodica, responsabilità disciplinare, rimodulazione delle mansioni sia in compiti di
supporto al magistrato ordinario, sia di funzioni propriamente giudiziarie.
Considerando l’elevato carico giurisdizionale che quotidianamente investe i magistrati onorari, risulta fondamentale che tale ruolo sia ricoperto da persone altamente qualificate; per questo si è ritenuto
opportuno elaborare una disciplina abbastanza rigida sia in merito ai requisiti di ammissione, sia con
riferimento alla formazione.
Secondo quanto previsto dall’art. 2, comma 3, lett. b) del disegno di legge-delega, sono considerati titoli preferenziali il pregresso esercizio di funzioni giudiziarie, lo svolgimento delle professioni di avvocato e notaio, l’insegnamento di materie giuridiche in ambito universitario.
L’art. 2, comma 4 delinea, poi, uno specifico regime di incompatibilità, tale da assicurare al massimo
grado l’attuazione del principio di terzietà ed imparzialità del giudice, facendo applicazione di criteri
non meno rigorosi rispetto a quelli già previsti dalla legislazione vigente.
Al fine di consentire una piena semplificazione della procedura di selezione, la competenza ad emettere il bando è attribuita al Consiglio giudiziario, anziché al Consiglio superiore della magistratura, che
comunque, ai sensi dell’art. 105 della Costituzione, dovrà deliberare sulle graduatorie trasmesse dai
Consigli giudiziari (art. 2, comma 3, lett. d)).
Per quanto concerne la formazione, è previsto un periodo di tirocinio iniziale presso un magistrato
affidatario, ed un aggiornamento continuo per l’intera durata dell’incarico su base decentrata e secondo
un modulo unificato individuato dalla Scuola superiore della magistratura (art. 2, comma 3, lett. e)).
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I magistrati onorari dovranno, altresì, partecipare alle riunioni periodiche organizzate dai giudici
professionali, finalizzate a favorire lo scambio di esperienze giurisprudenziali e di prassi innovative.
Si denota un intento legislativo volto ad investire al massimo grado nella formazione; lo si deduce
anche dal fatto che la partecipazione ai percorsi formativi, oltre ad essere obbligatoria, si configura come conditio sine qua non per la conferma nell’incarico.
Passando, ora, all’analisi delle funzioni che potranno essere svolte, sotto il profilo giudicante, un’importante novità, espressamente contemplata nell’ambito dell’art. 2, comma 1, lett. a), è il superamento
della distinzione fra giudici onorari di tribunale e giudici di pace, che prendono la denominazione di
“giudici onorari di pace”, confluendo tutti nell’ufficio del giudice di pace.
Ciò comporterà, inevitabilmente, una revisione delle piante organiche attualmente previste per gli
uffici dei giudici di pace, tenendo in considerazione sia il numero dei GOT che vi confluiranno, sia i criteri a tal fine ordinariamente utilizzati.
Del tutto nuova anche la previsione secondo cui i giudici onorari di pace potranno essere impiegati
presso il c.d. “ufficio per il processo”, istituito dall’art. 50 del d.l. n. 90/2014, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114.
L’introduzione di questa “nuova” struttura organizzativa muove dalla necessità di dotare il magistrato professionista di assistenza qualificata e costante nell’espletamento delle sue funzioni, creando
un vero e proprio organismo tecnico, partecipato anche da personale amministrativo, in grado di affiancare il giudice togato e di coadiuvarlo efficacemente in un’ampia gamma di attività ancillari rispetto
a quella propriamente giurisdizionale. La consapevolezza che i magistrati hanno bisogno di uno staff
organizzativo, in effetti, si è diffusa negli ultimi anni anche in Italia sulla base di precedenti esperienze
straniere (Francia, Austria, Olanda, Polonia, Stati Uniti) e, conseguentemente, si sono avviati dei progetti sperimentali presso alcuni uffici giudiziari (Tribunali di Firenze, Milano, Prato, Modena e Bologna), che hanno avuto ottimi riscontri dal punto di vista della efficienza processuale. Dalle prime sperimentazioni è emerso che il lavoro di affiancamento delle figure operanti all’interno dell’ufficio per il
processo ha contribuito anche al miglior utilizzo delle risorse informatiche, conducendo verso forme di
digitalizzazione del processo. Come emerge dalla Relazione di accompagnamento al disegno di legge
in commento, «in una fase in cui si sta investendo in maniera decisiva nell’avvio del processo telematico obbligatorio e nell’informatizzazione del processo penale, il personale assegnato all’ufficio per il
processo potrà essere di grande supporto e collaborare anche all’innovazione tecnologica».
L’inserimento dell’ufficio de quo può, quindi, modificare, anche in termini qualitativi, il lavoro degli
organi giudicanti, dando così effettività al principio della ragionevole durata del processo.
Considerato che sino ad ora la sperimentazione condotta presso alcune realtà giudiziarie si è svolta
prevalentemente con l’apporto dei tirocinanti, è ragionevole prevedere che l’inclusione dei magistrati
onorari contribuirà al raggiungimento di risultati di rilievo in termini di definizione dell’arretrato e di
riduzione della durata dei processi.
Per quanto concerne le modalità di impiego dei giudici onorari, secondo quanto statuito dall’art. 2,
comma 5, del disegno di riforma, saranno attribuiti agli stessi tutti gli atti preparatori, necessari o utili
per l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte dell’organo togato; inoltre, potranno loro essere
delegate le funzioni propriamente giurisdizionali, ma limitate alla risoluzione di questioni di non particolare complessità, tenuto conto delle direttive del giudice professionale delegante. In questo modo, si
determinerà un effettivo aumento della produttività ed una concreta accelerazione delle procedure, evitando il coinvolgimento diretto dei magistrati ordinari per i casi più semplici.
Tuttavia, al fine di garantire la massima professionalità dei giudici onorari di pace, per i primi quattro anni del mandato questi ultimi svolgeranno esclusivamente la propria attività all’interno dell’ufficio
per il processo (art. 2, comma 7, lett. d)); conseguentemente, non potranno ricoprire funzioni giurisdizionali autonome né in tribunale né presso la sede del giudice di pace. Una soluzione del tutto condivisibile che punta ad una formazione altamente qualificata del magistrato onorario prima che lo stesso
intraprenda l’attività giurisdizionale vera e propria.
In maniera analoga a quanto disciplinato per i magistrati onorari con funzioni giudicanti, anche
presso l’ufficio della procura della Repubblica è contemplata l’istituzione di una specifica struttura organizzativa, ove confluiranno i magistrati onorari con funzioni requirenti (art. 2, comma 6). I compiti
dei vice procuratori onorari sono disciplinati secondo principi e criteri direttivi analoghi a quelli previsti per i giudici onorari, ovvero si specifica che potranno compiere tutti gli atti preparatori, necessari o
utili per lo svolgimento delle proprie funzioni; svolgere le attività e adottare i provvedimenti che, in
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considerazione della loro semplicità e della non elevata pena edittale massima prevista per il reato per
cui si procede, possono essere loro delegati. Di regola non sono considerati delegabili – salvo tipologie
di reati da individuare specificamente, anche in considerazione della modesta offensività degli stessi –
la richiesta di archiviazione, la determinazione relativa all’applicazione della pena su richiesta e i provvedimenti di esercizio dell’azione penale.
La temporaneità dell’incarico è una peculiarità che continua a connotare la figura del magistrato
onorario. Secondo l’attuale schema di riforma, è previsto un primo mandato per un periodo non superiore a quattro anni, prorogabile per altri due quadrienni, in caso di accertata idoneità a svolgere le funzioni sulla base dei criteri individuati dalla delega, sempre che non sia stata applicata la sanzione disciplinare della sospensione per un tempo superiore a sei mesi. In ogni caso, è disposta la cessazione
dall’incarico al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età (art. 2, comma 7). Ne deriva che,
proprio in virtù della natura “onoraria” dell’impiego, non potranno scaturire aspettative di stabilizzazione, anche in ragione del fatto che l’eventuale proroga quadriennale è subordinata all’accertamento di
idoneità alla prosecuzione dell’incarico stesso.
Vengono, poi, estese a tutti i magistrati onorari le regole in materia di astensione attualmente previste per i giudici ausiliari di corte d’appello (art. 2, comma 9, lett. b)), nonché la più rigorosa disciplina
prevista per la decadenza e la dispensa dal servizio ex art. 9, l. n. 374/1991, istitutiva del giudice di pace; è, inoltre, demandato al legislatore delegato il compito di disciplinare i casi e il procedimento per la
revoca dell’incarico (art. 2, comma 10, lett. a) e b)).
In tema di compensi sono contemplate alcune novità rispetto alla disciplina attualmente vigente. Il
disegno di legge, infatti, prevede espressamente che il legislatore delegato, in sede di determinazione
dei criteri di liquidazione dell’indennità, disponga che quella prevista a fronte dell’attività eseguita
all’interno dell’ufficio per il processo sia di misura inferiore a quella connessa allo svolgimento delle
funzioni giurisdizionali. La stessa dovrà, altresì, essere subordinata, in parte, al conseguimento degli
obiettivi fissati dal presidente del tribunale o dal procuratore della Repubblica, al fine di incentivare la
produttività dei magistrati onorari. In sede di attuazione della delega è quindi ipotizzabile una strutturazione dell’indennità in due quote: una fissa ed una variabile (art. 2, comma 13, lett. a, b, e c).
Questione particolarmente annosa è sempre stata la mancanza di un regime previdenziale e assistenziale nei confronti di coloro che esercitano le funzioni di magistrato onorario. Appare evidente come un completo riassetto della disciplina non possa prescindere da una previsione che sia in grado di
garantire le esigenze di tutela degli operatori del settore, senza, tuttavia, gravare la finanza pubblica di
ulteriori oneri. Per tale ragione, al legislatore delegato è demandato il compito di predisporre un regime
ad hoc compatibile con la natura onoraria dell’incarico, prevedendo che le risorse necessarie siano acquisite dal capitolo di bilancio destinato alla copertura delle spese necessarie per la corresponsione
dell’indennità (art. 2, comma 13, lett. e)).
Lo schema di riforma dedica, altresì, particolare attenzione alla figura del giudice di pace. Tralasciando le significative modifiche in ambito civilistico, consistenti in un sensibile aumento di competenza nel settore de quo, occorre segnalare come il disegno di legge in esame delinei una completa riorganizzazione dell’ufficio, attribuendone il coordinamento al presidente del tribunale, il quale dovrà
provvedere a tutti i compiti di gestione del personale di magistratura e amministrativo, nonché formulare al presidente della Corte di appello la proposta della tabella di organizzazione degli uffici del giudice di pace (art. 2, comma 12, lett. a e b e art. 5).
Quanto già analizzato in tema di formazione e incompatibilità dei magistrati onorari trova, poi, applicazione anche nei confronti dei giudici di pace, dato che l’intento della riforma – come già accennato
– è quello di predisporre uno statuto unico applicabile ad ogni figura di magistrato onorario.
Il legislatore delegante non ha mancato, inoltre, di farsi carico delle specifiche esigenze dei magistrati onorari attualmente in servizio, prevedendo un apposito regime transitorio, che il legislatore delegato
dovrà compiutamente disciplinare.
Come si è visto, il limite massimo di età è fissato in 65 anni, a differenza dell’attuale previsione di 72
anni per i GOT e i VPO e di 75 anni per i giudici di pace.
Si è così ritenuto opportuno modulare la durata residua dell’incarico a seconda dell’età anagrafica
posseduta alla data di entrata in vigore dei futuri decreti delegati, al fine di contenere i disagi conseguenti alla riforma, evitando un repentino svuotamento degli uffici giudiziari. L’art. 2, comma 16, lett.
a), ha, conseguentemente, previsto che i magistrati onorari di età inferiore ai 40 anni, potranno essere
confermati per quattro quadrienni, mentre per quelli di età compresa fra i 40 e i 68 anni è ipotizzabile,
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come delineato nella Relazione di accompagnamento, una ulteriore distinzione in tre fasce: 40-50, che
saranno passibili di conferma per tre quadrienni; 50-61, che potranno essere confermati per due quadrienni; 61-68, che avranno la possibilità di permanere nell’incarico per un solo quadriennio, previa valutazione di professionalità. All’interno di quest’ultima categoria viene fatto un ulteriore distinguo: coloro che avranno compiuto 65 anni potranno formulare domanda di conferma sino al raggiungimento
del limite massimo di età, fissato in 68 anni, per svolgere esclusivamente i compiti inerenti all’ufficio
per il processo.
Non può non evidenziarsi come tale previsione normativa generi una significativa disparità di trattamento, favorendo decisamente coloro che esplicano già le funzioni onorarie. Sarebbe, pertanto, auspicabile una maggiore parificazione dei ruoli in merito alla durata complessiva dell’incarico.
Un’apposita disciplina transitoria è contemplata anche in riferimento alle attività che potranno essere svolte dai magistrati de quibus. Innanzitutto, al fine di evitare che i giudici di pace già in servizio subiscano una grave e repentina decurtazione dei compensi, si prevede che i giudici onorari di tribunale
continuino ad essere inquadrati esclusivamente all’interno dei tribunali per il primo quadriennio; questo significa che, in tale arco temporale, gli affari di competenza dei giudici di pace, continueranno ad
essere assegnati esclusivamente a costoro.
In secondo luogo, per quanto concerne la composizione dell’ufficio per il processo, mentre per i got
potrà esserne disposto un inserimento da parte del presidente del tribunale sin dall’entrata in vigore
del futuro decreto legislativo, per i giudici di pace la composizione dell’ufficio de quo sarà consentita solo su espressa domanda: anche in questo caso, la scelta legislativa non appare condivisibile perché
sembra incrinare la linearità del percorso professionale che emerge dall’intero progetto di riforma.
Per quel che riguarda i compensi, sempre durante il primo quadriennio, i criteri di liquidazione delle indennità spettanti sia ai giudici di pace che ai magistrati onorari resteranno invariati.
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CORTI EUROPEE
EUROPEAN COURTS
di Alessandro Benvoluti
TRATTAMENTI INUMANI
(Corte EDU, 20 gennaio 2015, Ateşoğlu c. Turchia)
Di notevole interesse è la pronuncia della Corte di Strasburgo con cui viene condannata la Turchia per
avere violato l’art. 3 della Convenzione EDU sotto un duplice profilo: sostanziale e processuale.
Nel caso de quo, il ricorrente denunciava maltrattamenti e percosse che taluni agenti di polizia gli
avrebbero inferto durante il periodo di custodia.
L’Assize Court della città di Kars, capitale dell’omonima regione turca e luogo in cui sono avvenuti i
fatti in parola, concludeva il procedimento a carico dei poliziotti con la condanna dei medesimi, per
aver intenzionalmente maltrattato il ricorrente al fine di ottenere una confessione. La pena detentiva inflitta veniva sospesa grazie a una specifica norma presente nel codice penale turco, in tutto assimilabile
a quanto espresso negli artt. 163-168 del c.p. italiano.
Il denunciante, esauriti i rimedi interni, adiva la Corte di Strasburgo lamentando la violazione dell’art. 3 della Convenzione.
Per quanto attiene al profilo sostanziale, la medesima Corte, valutate le argomentazioni fornite, considera sussistente tale lesione, poiché «con la sentenza della Assize Court di Kars è stato sufficientemente stabilito che il trattamento subito dal ricorrente è stato a questi inflitto intenzionalmente dagli
agenti di polizia con lo scopo di estorcergli una confessione. In queste condizioni, la Corte ritiene che
gli atti contestati siano particolarmente gravi, crudeli e in grado di causare dolore e sofferenza. Si conclude, quindi, che il maltrattamento, nella fattispecie, è identificabile con la tortura ai sensi dell’art. 3
della Convenzione» (così, Corte EDU, 20 gennaio 2015, Ateşoğlu c. Turchia, par. 20, traduzione di chi
scrive; vedi, mutatis mutandis, Corte EDU, 20 ottobre 2009, Valeriu e Nicolae Roşca c. Moldavia, par. 64;
Corte EDU, 31 luglio 2007, Diri c. Turchia, parr. 42-46; Corte EDU, 1 gennaio 2007, Mammadov c. Azerbaijan, parr. 68-69).
La Corte di Strasburgo afferma, inoltre, che risulta violata la disposizione in parola anche sotto il
profilo processuale poiché «non dovrebbero essere consentiti prescrizione, né amnistia, né indulto, né
altri benefici di sorta, qualora a tali procedimenti penali fosse conseguita una condanna» (Corte EDU,
20 gennaio 2015, Ateşoğlu c. Turchia, par. 25).
I Giudici strasburghesi ribadiscono, infine, che qualora un agente dello Stato sia accusato di reati di
tortura o maltrattamenti, è di massima importanza che venga sospeso dal servizio per tutta la durata
delle indagini e del processo e, in caso di condanna, ne sarebbe opportuno il licenziamento (vedi, in
proposito, Corte EDU, 2 novembre 2004, Abdülsamet Yaman c. Turchia, par. 55; Corte EDU, 15 marzo
2011, Serdar Güzel c. Turchia, par. 42).
GIUDICATO
(Corte EDU, 27 gennaio 2015, Rinas c. Finlandia)
La Corte si pronuncia in tema di ne bis in idem, ribadendo come il giudice della seconda regiudicanda
non possa esprimere, in assenza di giusta causa, un giudizio che conduca a esiti opposti rispetto alla
prima decisione (vedi Corte EDU, 23 gennaio 2001, Brumărescu c. Romania; Corte EDU, 24 luglio 2003,
Riabykh c. Russia); così facendo, altrimenti, incorrerebbe nella violazione del principio di certezza del diritto attorno al quale gravitano le disposizioni in ambito di giudicato (in tema, Corte EDU, 27 luglio
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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2006, Gök e altri c. Turchia e, più recentemente, Corte EDU, 31 maggio 2012, Esertas c. Lituania; Corte
EDU, 21 ottobre 2014, Lungu e altri c. Romania).
Nel caso in parola il ricorrente lamentava di essere stato sanzionato dall’autorità fiscale per avere incassato dividendi, mascherandoli da parte di società estere, senza dichiararli allo Stato; tale sanzione
veniva confermata prima dalla Helsinki Administrative Court e, successivamente, dalla Supreme Administrative Court.
Nonostante ciò, qualche tempo dopo, il ricorrente veniva condannato dalla Vantaa District Court per
frode fiscale aggravata con riferimento ai medesimi accertamenti tributari compiuti in precedenza e per
i quali era stata disposta la condanna di cui sopra.
Il ricorrente, allora, proponeva appello, impugnando quest’ultima sentenza.
La Helsinki Appeal Court si pronunciava riducendo la pena irrogata in primo grado e affermando, in
merito alla questione di double jeopardy, che «l’accusa di frode fiscale aggravata e la sovrattassa imposta
riguardano chiaramente la medesima mancata dichiarazione dei redditi. Come il termine per la richiesta di rettifica entro il procedimento tributario in riferimento agli anni d’imposta 1999 e 2000 era già
spirato prima che le accuse fossero mosse, la tassazione era diventata definitiva e questi anni non potevano più essere oggetto di procedimento penale. Pertanto le accuse sarebbero state abbandonate senza
nemmeno esaminarne il merito. Tuttavia, poiché l’addebito provvisorio veniva mosso prima che spirasse il termine in merito al periodo d’imposta 2002-2004, non vi era impedimento alcuno per l’esame
di queste ultime accuse» (Corte EDU, 27 gennaio 2015, Rinas c. Finlandia, par. 21).
Veniva quindi adita la Supreme Court che confermava quanto esposto dalla Helsinki Appeal Court.
Il ricorrente, allora, proponeva ricorso alla Corte EDU per la violazione del principio del ne bis in
idem, enunciato all’art. 4 del settimo Protocollo Addizionale alla Convenzione EDU.
Nell’analisi compiuta dalla Corte, in primis vengono richiamati i criteri c.d. di Engel (vedi Corte
EDU, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi), al fine di determinare il preciso concetto di sanzione penale: classificazione legislativa dell’illecito, essenza della violazione e grado di severità della pena
comminata (vedi anche Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia, parr. 30-31).
Richiamando, poi, quanto affermato precedentemente (vedi Corte EDU, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhin c. Russia), il Giudice europeo sottolinea la necessità di porre l’accento sulla sostanziale identità
delle condotte concretamente perseguite.
A questo punto della disamina la Corte valuta l’esistenza o meno di una decisione definitiva sulla
regiudicanda (Corte EDU, 29 maggio 2001, Franz Fischer c. Austria, par. 22; Corte EDU, 23 ottobre 1995,
Gradinger c. Austria, par. 53), giungendo ad esito positivo.
Infine, la medesima Corte, constatata l’avvenuta duplicazione dei procedimenti (essenziale, a tale
proposito, Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia; vedi, anche, Corte EDU, 14 gennaio
2014, Muslija c. Bosnia e Herzegovina, par. 37; Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia, par. 52;
Corte EDU, 20 maggio 2014, Glantz c. Finlandia, par. 62), condanna la Finlandia per la violazione
dell’art. 4 del settimo Protocollo Addizionale alla Convenzione EDU.
DIRITTO ALLA DIFESA
(Corte EDU, 29 gennaio 2015, Yevgeniy Petrenko c. Ucraina)
Nel caso di specie, la Corte si trova ad affrontare la questione, quanto mai attuale, del diritto alla difesa.
Il 18 marzo 2004, il Sosnivskyy District Prosecutor’s Office of Cherkasy apriva un fascicolo d’indagine
per un caso di omicidio. La stessa sera, la polizia trovava presso la casa del ricorrente (P.) sette coltelli,
vestiti e altri oggetti inerenti al caso e, conseguentemente, la stessa notte, gli agenti accompagnavano P.
presso la stazione di polizia.
Durante la giornata del 19 marzo 2004, il ricorrente veniva sentito come persona informata sui fatti
circa il caso di omicidio. Nella deposizione P. faceva riferimento a un furto, da lui compiuto insieme
all’assassinato (R.), risalente a pochi giorni prima.
Apprese tali informazioni, il Sosnivskyy District Prosecutor’s Office of Cherkasy apriva un secondo fascicolo d’indagine in merito a tale furto e sentiva nuovamente il ricorrente come persona informata sui
fatti.
Si noti che durante entrambe le deposizioni P. era privo dell’assistenza di un legale.
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Il ricorrente veniva, quindi, arrestato con l’accusa di furto e, poco tempo dopo, veniva arrestato anche D., conoscente del ricorrente, con l’accusa dell’omicidio di R.
Nel giro di poche ore, pressato dagli agenti, il ricorrente confessava di essere il materiale esecutore
dell’omicidio di R.; il tutto senza l’assistenza di un legale.
Dopo avere esaurito i rimedi interni, il ricorrente adiva la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell’art. 6 Convenzione EDU.
Ritenuto il ricorso non manifestamente infondato, la Corte sostiene: «l’art. 6 par. 1 richiede che, in linea di principio, l’accesso a una difesa legale debba essere fornito dalla prima volta che un sospettato è
interrogato dalla polizia, a meno che sia dimostrato, alla luce delle particolari circostanze del caso, che
vi siano motivi validi per limitare tale diritto. Anche dove detti motivi impellenti possano eccezionalmente giustificare la negazione dell’accesso a un avvocato, tale restrizione – qualunque sia la sua giustificazione – non deve indebitamente ledere i diritti degli accusati ai sensi dell’art. 6. Il diritto alla difesa,
in linea di principio, sarà irrimediabilmente compromesso quando dichiarazioni incriminanti rese durante l’interrogatorio, senza la presenza di un avvocato, saranno utilizzate per fondare la decisione di
colpevolezza» (Corte EDU, 29 gennaio 2015, Yevgeniy Petrenko c. Ucraina, par. 89; vedi, anche, Corte
EDU, 27 novembre 2008, Salduz c. Turchia, par. 55).
Nel caso de quo, il Giudice europeo «non riscontra alcuna ragione convincente per limitare il diritto
del ricorrente a un avvocato» e, pertanto, «dichiara esserci stata una violazione dell’art. 6 parr. 1 e 3 (c)
della Convenzione» (Corte EDU, 29 gennaio 2015, Yevgeniy Petrenko c. Ucraina, par.95).
DIRITTO ALLA PRIVACY
(Corte EDU, 3 febbraio 2015, Apostu c. Romania)
La Convenzione EDU, all’art. 8, si prefigge di tutelare il rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza di tutti i consociati, ponendo tale obbligo in capo agli Stati membri.
Nel caso che qui interessa, la Corte di Strasburgo ravvisava la violazione della norma in parola poiché alcuni stralci di intercettazioni riguardanti la vita privata di un soggetto indagato per corruzione
venivano pubblicati su alcuni quotidiani nazionali.
Più nel dettaglio, la Anti-Corruption Department of the Prosecutor’s Office avviava delle indagini nei
confronti del ricorrente, sua moglie e tre uomini d’affari, con l’accusa di corruzione commessa dal primo nel proprio ruolo di sindaco di Cluj Napoca.
In fase d’indagine, il procuratore veniva autorizzato a disporre intercettazione telefonica dell’utenza
del ricorrente e le trascrizioni della stessa venivano ammesse come prove contro quest’ultimo.
Il ricorrente veniva, poi, sottoposto alla detenzione cautelare, poiché la Cluj Court of Appeal riteneva «che ciò fosse necessario per fermarne l’attività criminale, in quanto [il ricorrente] si starebbe preparando a commettere un nuovo reato di corruzione» (Corte EDU, 3 febbraio 2015, Apostu c. Romania, par.
13 – traduzione di chi scrive).
L’aspetto che qui interessa è, come anticipato, la violazione dell’art. 8 della Convenzione, ma, al
momento del vaglio di ammissibilità del ricorso, la Corte di Strasburgo si trova a dovere affrontare una
questione di notevole rilievo: l’esaurimento obbligatorio dei rimedi interni.
Al momento della proposizione del ricorso, la Romania sollevava l’eccezione secondo cui non sarebbero stati esperiti i necessari rimedi interni per adire la Corte europea.
Dopo un attento vaglio di tutti i rimedi proposti dallo Stato membro in favore del ricorrente, i Giudici strasburghesi rispondono che «lo Stato non è riuscito a dimostrare che il ricorrente ave[sse] avuto un rimedio effettivo a sua disposizione» e il ricorso proposto «deve, pertanto, dichiararsi ricevibile» (Corte EDU, 3
febbraio 2015, Apostu c. Romania, par. 111-112; vedi, anche, Corte EDU, 16 aprile 2013, Căşuneanu c. Romania, par. 71).
Nel merito, la Corte ribadsce che «[la stessa] deve verificare se le Autorità nazionali abbiano preso le necessarie misure per garantire l’effettiva tutela di tale diritto» (Corte EDU, 3 febbraio 2015, Apostu c. Romania,
par. 111-112; vedi, anche, Corte EDU, 14 ottobre 2008, Petrina c. Romania, parr. 27-29 e 34-36; Corte EDU,
9 aprile 2009, A. c. Norvegia, parr. 63-65; Corte EDU, 7 febbraio 2012, Von Hannover c. Germania, parr.
95-99; Corte EDU, 7 febbraio 2012, Axel Springer AG c. Germania, parr. 78-95; ancora più d’interesse per
l’Italia, Corte EDU, 17 luglio 2003, Craxi c. Italia, par. 73).
Al termine dell’analisi nel merito, la Corte rileva come «la pubblicazione del contenuto delle registrazioni
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abbia messo in cattiva luce il ricorrente, dando l’impressione che avesse commesso il crimine, prima ancora che
l’Autorità nazionale avesse potuto esaminare le accuse. Inoltre, parte delle comunicazioni pubblicate era di carattere strettamente privato e non aveva attinenza con le accuse penali mosse al ricorrente» (Corte EDU, 3 febbraio
2015, Apostu c. Romania, par. 122-123 – traduzione di chi scrive; vedi, tra le altre, Corte EDU, 17 luglio
2003, Craxi c. Italia, par. 57; Corte EDU, 31 luglio 2012, Drakšas c. Lituania, par. 52) e, pertanto, la Corte
ritiene sussistente la violazione dell’art. 8.
DIRITTO AL CONTROESAME
(Corte EDU, 10 febbraio 2015, Colac c. Romania)
In tema di violazione dell’art. 6, la Corte di Strasburgo ha avuto modo di pronunciarsi in svariate occasioni (vedi, tra le altre, Corte EDU, 15 dicembre 2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, par. 118;
Corte EDU, 10 maggio 2012, Aigner c. Austria, par. 33) rimarcando, nello specifico, che «le garanzie di
cui al par. 3 (d) dell’art. 6 sono aspetti peculiari del diritto a un equo processo, così come stabilito nel
par. 1 di tale disposizione, e devono essere tenute in considerazione in qualunque valutazione circa la
congruità dei procedimenti» (Corte EDU, 10 febbraio 2015, Colac c. Romania, par. 39, traduzione di chi
scrive).
Nel caso di specie, C. veniva condannato per privazione illegale della libertà personale sulla base,
principalmente, di prove testimoniali.
Senza addentrarsi troppo nei risvolti della vicenda, la circostanza di particolare interesse risiede nel
fatto che i testimoni del caso de quo erano stati ascoltati solo durante la fase d’indagine, non riuscendo,
successivamente, ad essere reperiti – eccetto uno – per l’escussione in fase dibattimentale.
Secondo le doglianze del ricorrente, il motivo per cui i suddetti testi non avevano presenziato al dibattimento è da imputare alla negligenza dei tribunali nazionali, in quanto questi non avrebbero compiuto correttamente le formalità previste per la ricerca e per la citazione degli stessi, basando di fatto la
condanna sulla testimonianza dell’unico teste ascoltato di fronte al giudice.
Nella fattispecie in parola, la Corte di Strasburgo sostiene che «la [propria] principale preoccupazione in tema di art. 6 par. 1 sia quella di valutare l’equità complessiva del procedimento penale» (Corte
EDU, 10 febbraio 2015, Colac c. Romania, par. 40, traduzione di chi scrive; vedi, anche, Corte EDU, 16
novembre 2010, Taxquet c. Belgio, par. 84) e «per fare ciò, esaminerà il procedimento nel suo complesso, il diritto alla difesa, ma anche l’interesse dello Stato e delle vittime a che la criminalità sia correttamente perseguita»
(Corte EDU, 10 febbraio 2015, Colac c. Romania, par. 40; vedi, tra gli altri, Corte EDU, 30 giugno 2008,
Gäfgen c. Germania, par. 175; Corte EDU, 26 marzo 1996, Doorson c. Paesi Bassi, par. 70).
A tale proposito, i Giudici strasburghesi richiamano quanto già espresso in altri precedenti (vedi
Corte EDU, 10 aprile 2012, Gabrielyan c. Armenia, par. 76; Corte EDU, 31 ottobre 2001, Solakov c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia, par. 57), affermando che tutte le prove contro un imputato devono essere formate in un’udienza dibattimentale pubblica, permeata dal principio del contraddittorio tra le parti, affinché l’accusato abbia un’efficace possibilità di contestare gli elementi a suo carico.
Al termine dell’analisi nel merito, i Giudici di Strasburgo condannano la Romania per la violazione
dell’art. 6 par. 3, lett. d), in combinato disposto con il par. 1 della medesima disposizione, poiché «al ricorrente non è stata data la possibilità di controesaminare i testi in alcuna fase del procedimento. Inoltre, le autorità nazionali non hanno fatto rispettare le norme in vigore in materia processual-penalistica
all’epoca dei fatti, necessarie per controbilanciare l’assenza dei testimoni, né hanno provveduto a leggere in giudizio le dichiarazioni dei testimoni rese nelle fasi precedenti, al fine di acquisirle come prove»
(Corte EDU, 10 febbraio 2015, Colac c. Romania, par. 55).
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CORTE COSTITUZIONALE
di Laura Capraro
PER IL CONCORRENTE ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA È ILLEGITTIMA LA PRESUZIONE ASSOLUTA DI
ADEGUATEZZA DELLA CUSTODIA IN CARCERE
(C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 48)
La Corte costituzionale ha dichiarato ancora una volta la illegittimità dell’art. 275, comma 3, secondo
periodo c.p.p., «nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in
ordine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano
acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, rispetto
al concorrente esterno nel suddetto delitto, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione
al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Il regime cautelare descritto da tale disposizione è imperniato sulla doppia presunzione: relativa
quanto alla sussistenza del periculum libertatis e assoluta quanto alla adeguatezza della sola custodia in
carcere. Nel corso degli anni l’art. 275, comma 3, c.p.p. ha interessato procedimenti per una lista variabile di delitti, il cui nucleo immutabile è rappresentato dai delitti di criminalità o di “contiguità” mafiosa, cioè a dire il delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.) e i delitti aggravati ai sensi del
d.l. n. 152/91, in quanto commessi con il “metodo mafioso” (ossia avvalendosi delle condizioni previste
dall’art. 416-bis c.p.), ovvero delitti realizzati al fine di agevolare l’attività di tali associazioni (per i quali
pure, peraltro, è caduta l’obbligatorietà della custodia per effetto di Corte cost., sent. 25 marzo 2013, n.
57), previsti dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p., al quale rinvia l’art. 275 c.p.p., comma 3, secondo
periodo.
Dopo aver infatti escluso – sin quando i delitti di criminalità o contesto mafioso erano gli unici ad
essere sottoposti al regime cautelare speciale – la denunciata violazione degli artt. 3, 13, comma 1, e 27,
comma 2, Cost. (ord. 18 ottobre 1995, n. 450), la Corte ha successivamente inaugurato una stagione di
pronunce di illegittimità, che hanno progressivamente ristretto l’area operativa di detto regime.
L’unica fascia di reati per i quali è stata mantenuta la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere è, dunque, quella relativa ai fatti di criminalità mafiosa; rispetto ad essi – come confermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 6 novembre 2003, Pantano c. Italia –
l’art. 275, comma 3, c.p.p. può considerarsi legittimo, atteso che esclusivamente tale misura può ritenersi idonea a «troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità» (Corte cost., sent. 7 luglio 2010, n. 265).
In tutti gli altri casi diversi, invece, la Corte ha ritenuto contrastante con il dettato costituzionale la
natura assoluta della presunzione, che non lasciava spazio alla eventualità che gli elementi in concreto
acquisiti inducessero a soddisfare le esigenze cautelari con misure diverse; il giudizio di non conformità
alla Carta fondamentale ha così riguardato, prima, i reati a sfondo sessuale (sent. n. 265 del 2010); poi,
l’omicidio volontario (sent. 9 maggio 2011, n. 164), i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (sent. 12 dicembre 2011, n. 331) e il sequestro di persona a scopo di estorsione (sent. 3 luglio
2013, n. 213).
Tra le declaratorie di illegittimità costituzionale, quelle relative a fattispecie necessariamente plurisoggettive (sent. 16 luglio 2013, n. 232, in tema di violenza sessuale di gruppo), anche a carattere associativo (sent. 19 luglio 2011, n. 231 in tema di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope; sent. 18 aprile 2012, n. 110, in tema di associazione per delinquere finalizzata a
commettere delitti in materia di contraffazione e alterazione di segni distintivi) hanno consentito alla
Corte di tracciare con più precisione la linea di confine tra legittimità e illegittimità delle discipline scrutinate.
SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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È stato rilevato in particolare che il delitto di associazione di tipo mafioso è «normativamente connotato – di riflesso ad un dato empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo esprime una
forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è proprio la specificità del vincolo, che, sul piano
concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e,
dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua “base statistica”
alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se
non con la misura carceraria, in quanto idonea – per valersi delle parole della Corte europea dei diritti
dell’uomo – «a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine»,
minimizzando «il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni
criminali e possano commettere nel frattempo delitti» (sent. 6 novembre 2003, Pantano c. Italia)» (Corte
cost., sent. n. 231/2011, cit.).
Particolare rilievo nel percorso argomentativo seguito dalla Consulta è stato attribuito alla sentenza
che ha fatto cadere la presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere per i reati aggravati ai sensi dell’art. 7, d.l. n. 152/1991, in quanto commessi con “metodo mafioso” o per agevolare
l’attività di associazioni mafiose (sent. n. 57/2013, cit.).
Così come nel caso di tali delitti non si è in presenza di un reato che necessariamente presupponga
un «vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità – per radicamento nel territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice»
(sent. n. 164/2011), così, allo stesso modo, la figura del concorrente esterno in associazione mafiosa, derivante dalla combinazione tra gli artt. 110 e 416-bis c.p., non è assimilabile a quella dell’associato, per il
quale la disciplina cautelare più severa ha un fondamento giustificativo costituzionalmente valido.
I giudici delle leggi, rinviando alla giurisprudenza di legittimità in materia, osservano che la prima
figura si distingue dalla seconda sia sotto il profilo oggettivo, in quanto «non è inserita nella struttura
criminale, pur offrendo un apporto causalmente rilevante alla sua conservazione o al suo rafforzamento», sia sotto il profilo soggettivo, visto che «è priva dell’”affectio societatis”, laddove invece l’“intraneus”
è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell’accordo e del programma criminoso in modo stabile e permanente(Corte di cassazione, sezione sesta, 20 dicembre 2012,
n. 49757; Corte di cassazione, sezione seconda, 16 maggio 2012, n. 18797)».
In definitiva, ciò che impedisce di rendere la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in
carcere costituzionalmente compatibile è il fatto che il concorrente esterno è «per definizione un soggetto che non fa parte del sodalizio», a nulla rilevando che la sua condotta apporti un contributo causale
anche fondamentale al raggiungimento dei fini del sodalizio medesimo.
Come è ormai pacifico per la Corte di cassazione, anche a sezioni unite, infatti, (ex plurimis, Cass.,
sez. VI, 27 giugno-24 luglio 2013, n. 32412; Cass., sez. II, 11 giugno-10 settembre 2008, n. 35051; Cass.,
sez. un., 30 ottobre 2002-21 maggio 2003, n. 22327; Cass., sez. un., 5 ottobre-28 dicembre 1994, n.16), –
affermano i giudici costituzionali – «il “supporto” del concorrente esterno all’associazione mafiosa può
risultare (…) anche meramente episodico, o estrinsecarsi addirittura in un unico contributo: circostanza
che rende ancor meno giustificabile tanto la totale equiparazione del concorrente esterno all’associato
(il cui “supporto” è, invece, per definizione, stabile e duraturo nel tempo), quanto l’omologazione delle
diverse modalità concrete con cui il concorso esterno è suscettibile di manifestarsi, ai fini dell’esclusione
di qualunque possibile alternativa alla custodia carceraria come strumento di contenimento della pericolosità sociale dell’indiziato». Di qui alla dichiarazione d’illegittimità dell’articolo 273, comma 3, c.p.p.,
laddove non prevede che la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere per gli indiziati di
concorso esterno ex art. 416-bis c.p. sia soltanto relativa, il passo era breve.
Due sono i dati che sembra debbano essere registrati.
Il primo: la Corte si limita a richiamare i diversi orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità a favore di una ipotesi, quella del concorso esterno in associazione mafiosa, rispetto alla quale da
sempre la dottrina ha nutrito serie perplessità. Nell’omettere qualsivoglia riferimento ad indirizzi non
adesivi, i giudici costituzionali mostrano di avallare la legittimità della controversa fattispecie, sancendone il diritto di cittadinanza all’interno dell’ordinamento.
SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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Il secondo: l’improcrastinabilità di un intervento novellistico di respiro, che riconosca al principio
del “minor sacrificio” la centralità da tempo enunciata dalla giurisprudenza costituzionale. Ad oggi , al
contrario di auspici da più parti formulati, sistematicità e coerenza raramente contraddistinguono
l’azione legislativa riformatrice. Basti pensare che quasi contestualmente alla ennesima pronuncia con
la quale la Corte ha censurato il meccanismo presuntivo automatico contenuto nell’art. 275, comma 3,
c.p.p., la legge 23 febbraio 2015, n. 19 ne ha esteso l’applicazione al delitto previsto dall’art. 416-ter c.p.
(Scambio elettorale politico-mafioso, inserito dalla citata legge nella elencazione di cui all’art. 51 comma 3bis c.p.p.), nonostante la sanzione – originariamente equiparata a quella prevista per il delitto di cui
all’art. 416-bis c.p. – sia stata recentemente ridotta (legge 17 aprile 2014, n. 62). Con la conseguenza che
per l’indiziato di un reato meno grave dal punto di vista sanzionatorio (art. 416-ter c.p.) è previsto un
regime cautelare più severo di quello statuito per il concorrente “esterno” in un reato più grave (art.
416-bis c.p.).
PER L’ETERNO GIUDICABILE DIVENTA EFFETTIVO IL DIRITTO ALLA PRESCRIZIONE DEL REATO
(C. cost., sent. 25 marzo 2015, n. 45)
Costretta ancora una volta ad occuparsi della “grave” questione, la Corte, superando le esitazioni passate, e pur nella consapevolezza che soltanto uno specifico intervento normativo potrà risolvere le innumerevoli implicazioni, ha dichiarato la illegittimità del comma 1 dell’art. 159 c.p., nella parte in cui
«ove lo stato mentale dell’imputato sia tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento e
questo venga sospeso, non esclude la sospensione della prescrizione quando è accertato che tale stato è
irreversibile». Innegabile appare infatti, a giudizio della Consulta, con riferimento a tali ipotesi, la violazione dell’art. 3 Cost., poiché la identità di disciplina apprestata indistintamente per l’imputato affetto
da incapacità reversibile e l’imputato “incapace irreversibile” produce una irragionevole disparità di
trattamento in capo ai soggetti appartenenti alla prima ovvero alla seconda categoria, potendo di fatto
la prescrizione del reato maturare soltanto rispetto ai primi.
Il sindacato di illegittimità pone rimedio ad una anomalia del sistema più volte sottoposta all’attenzione della giurisdizione costituzionale e oggetto di una (relativamente) recente sentenza monito, con la
quale i giudici delle leggi, nell’emettere un provvedimento di inammissibilità imposto dal «rispetto della priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario», sollecitavano il legislatore ad intervenire (sent. 14 febbraio 2013, n. 23).
Protraendosi l’inerzia (già definita “intollerabile” dalla sentenza da ultimo citata), la Consulta ha infine dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 159 c.p., comma 1, che, alla luce della disciplina
posta dagli artt. 70, 71 e 72 c.p.p. a tutela del diritto dell’imputato di partecipare personalmente al processo, produce(va) una situazione di imprescrittibilità del reato nel caso in cui fosse stata accertata la
natura irreversibile dell’incapacità dell’imputato.
Secondo quanto disposto dall’art 70 c.p.p., quando il giudice – non dovendo emettere sentenza di
proscioglimento o non luogo a procedere – ha motivo di ritenere che per infermità mentale l’imputato
non è in grado di partecipare consapevolmente al processo, dispone anche d’ufficio l’espletamento di
una perizia (salva la possibilità di assumere le prove che possano determinare il proscioglimento
dell’imputato medesimo ovvero ogni altra prova richiesta dalle parti, se vi sia pericolo nel ritardo
dell’assunzione). Nel caso la perizia accerti la “incapacità processuale” dell’imputato, il giudice dispone
la sospensione del procedimento (art. 71 c.p.p.), sempre che quest’ultimo non debba concludersi con
una sentenza liberatoria. La permanenza del provvedimento sospensivo è subordinata ad accertamenti
peritali periodici, previsti a cadenza semestrale (qualora non ne sorga prima l’esigenza), volti a verificare lo stato di mente dell’imputato (art. 72, comma 1, c.p.p.). La revoca di tale sospensione può essere disposta soltanto quando, all’esito degli accertamenti, risulti che l’imputato ha riacquistato la capacità di
partecipare coscientemente al procedimento ovvero che egli debba essere immediatamente prosciolto
(art. 72, comma 2, c.p.p.).
Poiché l’art. 159 c.p. riconnette a tale situazione la sospensione del corso della prescrizione, ogni volta che l’incapacità dell’imputato sia determinata da patologie “irreversibili”, si apre una fase sostanzialmente suscettibile di definirsi solo con la morte dell’interessato, cui segue la dichiarazione di estinzione del reato. Per tale via, secondo l’ordinanza di rimessione, la tutela del diritto di difesa dell’imputato, di cui il diritto a partecipare con coscienza al procedimento rappresenta importante manifestazio SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
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ne, finisce per tradursi in una lesione del diritto di quel medesimo soggetto ad essere giudicato in tempi
ragionevoli, contraddicendo la eventuale celebrazione di un processo a distanza di molto tempo la medesima ratio sottesa alla prescrizione. La disciplina apprestata dalla norma censurata, in definitiva, determinerebbe una violazione del diritto alla prescrizione del reato riconducibile non solo all’imputato
processualmente incapace per cause irreversibili ma all’intera collettività, per la quale un procedimento
penale che non abbia luogo in un tempo ragionevole non riveste alcun interesse, equivalendo anzi la
sua quasi certa mancata celebrazione ad una inutile e dispendiosa perdita di risorse.
ILLEGITTIMA LA POSSIBILITÀ DEL QUERELANTE DI OPPORSI AL DECRETO PENALE DI CONDANNA
(C. cost., sent. 28 gennaio 2015, n. 23)
Con la sentenza 28 gennaio 2015, n. 23 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 459, comma 1 c.p.p., nella parte in cui, in seguito alle modifiche apportate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479,
consente al querelante di opporsi al decreto penale di condanna.
Tale facoltà era stata introdotta dalla c.d. legge Carotti, che, nel dichiarato intento di accrescere le potenzialità deflattive dei riti speciali, da una parte aveva ampliato l’area di operatività del procedimento
per decreto, estendendone l’ambito anche ai reati perseguibili a querela e dall’altra, “irrazionalmente”,
aveva riconosciuto una potestà preclusiva al querelante: quando tale soggetto avesse dichiarato nell’atto di querela il suo dissenso, al pubblico ministero era impedito di esercitare l’azione penale utilizzando
la modalità prevista dagli artt. 459 ss. c.p.p.
L’interpolazione descritta aveva notevolmente ridotto il raggio di efficacia del rito; la declaratoria di
illegittimità in oggetto restituisce all’istituto tutta la sua potenzialità estensiva, manifestando la determinazione dei giudici delle leggi a favorire i meccanismi utili a sfoltire il carico dei giudizi.
La Corte afferma che non è fornita di valida giustificazione la disparità di trattamento prevista in
capo alla persona offesa da una parte, e al querelante, dall’altra, rilevando come nel caso di opposizione
all’archiviazione ex art. 409 c.p.p e opposizione alla pronuncia di non doversi procedere per particolare
tenuità del fatto ex art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274/00, che rappresentano istituti per certi versi simili a
quello in esame, la facoltà di opposizione è attribuita alla persona offesa e non al querelante; facoltà che
viene peraltro esercitata – in tali ipotesi – nei confronti di una decisione del giudice lesiva degli interessi
dell’opponente, laddove, nel caso di emissione del decreto di condanna la legittima aspirazione di tale
soggetto alla affermazione della responsabilità dell’autore del reato è invece soddisfatta.
D’altra parte la impossibilità di esercitare l’azione civile nel processo penale da parte del querelante
attraverso l’opposizione alla definizione del procedimento con decreto di condanna non può essere
considerato lesivo del diritto di difesa di tale soggetto, atteso che quest’ultimo potrà vedere soddisfatta
la sua pretesa risarcitoria in sede propria: come più volte chiarito, non «ogni separazione dell’azione civile dall’ambito del processo penale (non) può essere considerata come una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale», «essendo affidata al legislatore la scelta della configurazione della tutela medesima, in vista delle esigenze proprie del processo penale (sentenze n. 443/1990, n.
171/1982 e n. 166/1975)». Senza considerare che sarebbe “improprio” – afferma la Corte rinviando ad
una sua passata pronuncia – un «sistema che consentisse di esperire un determinato rito alternativo,
sussistendone i presupposti, solo in dipendenza di una sorta di determinazione meramente potestativa
della persona offesa, che non riveste la qualità di parte» (ord. 12 aprile 1999, n. 124).
Il contrasto con l’art. 3 Cost. rileva anche sotto un diverso profilo: la mancanza di un analogo potere
di opposizione in capo al querelante, quand’anche costituito parte civile, nell’ipotesi di applicazione
della pena su richiesta. Non vale ad escludere la violazione della norma costituzionale la circostanza
che i due riti speciali non siano del tutto assimilabili, «poiché il principio di cui all’art. 3 Cost. è violato
non solo quando i trattamenti messi a confronto sono formalmente contraddittori in ragione della identità di fattispecie, ma anche quando la differenza di trattamento è irrazionale secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive fattispecie, seppur diverse, sono ragionevolmente analoghe»
(sent. 26 ottobre 1988, n. 1009), come accade nel caso in esame.
Argomento ulteriormente avvalorato dai giudici della Corte, che sottolineano l’incoerenza sistematica prodotta dall’eventualità che, a fronte di una opposizione del querelante preclusiva del decreto di
condanna, il procedimento sfoci poi nel rito di cui all’art. 444 c.p.p., con la identica conseguenza, per il
querelante, di non poter ottenere soddisfazione delle proprie pretese risarcitorie nel processo penale.
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Altro principio costituzionale ad essere scalfito dalla facoltà di opposizione del querelante al rito monitorio, il principio della ragionevole durata protetto dall’art. 111 Cost., sotto il duplice profilo dell’allungamento dei tempi del singolo processo e dell’impedimento alla piena realizzazione degli effetti deflattivi connessi allo svolgimento dei riti alternativi premiali. Il sacrificio determinato dalla norma censurata
è, nel giudizio della Corte, “ingiustificato”, dal momento che le esigenze di tutela dei diritti del querelante – al quale spettano tutti i poteri di supporto all’azione del pubblico ministero riconosciuti alla persona
offesa, primo tra tutti quello relativo alla indicazione delle fonti di prova – «devono ritenersi congruamente garantite».
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SEZIONI UNITE
di Teresa Alesci
NULLITÀ A REGIME INTERMEDIO IN CASO DI OMESSO AVVERTIMENTO DEL DIRITTO AL DIFENSORE NELL’ESECUZIONE DELL’ALCOLTEST
(Cass., sez. un., 29 gennaio 2015, n. 5396)
Chiamate a pronunciarsi sul regime giuridico relativo all’omessa indicazione dei diritti difensivi al soggetto sottoposto ad alcooltest e della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, le Sezioni Unite
hanno affermato il principio secondo cui la relativa nullità deve essere eccepita dalla parte entro il termine di cui all’art. 182, comma 2, secondo periodo c.p.p.
Preliminarmente, la Suprema Corte ricostruisce il quadro normativo di riferimento, individuato negli
artt. 114 disp. att. c.p.p., 356 e 354 c.p.p. e, in conformità ad un orientamento giurisprudenziale costante,
ribadisce che l’avvertimento del diritto all’assistenza difensiva è riferibile anche agli accertamenti eseguiti
dalla polizia giudiziaria sul tasso alcolemico del conducente di un veicolo ai fini della verifica dei parametri considerati dall’art. 168, comma 2 Codice della Strada (Cass., sez. IV, 12 febbraio 2008, n. 10850).
Se da un lato non vi sono dubbi sulla mancata configurabilità di una nullità a regime intermedio nel
caso in cui sia mancato l’avvertimento, vi sono contrastanti orientamenti sulla esatta individuazione del
limite temporale entro cui proporre l’eccezione e il soggetto legittimato.
Secondo una prima linea interpretativa, l’eccezione deve essere sollevata, a pena di decadenza, prima del compimento dell’atto o immediatamente dopo, dallo stesso interessato, sottoposto ad alcooltest
(Cass., sez. IV, 04 giugno 2013, n. 36009).
Altro indirizzo giurisprudenziale affida la proponibilità dell’eccezione al solo difensore, in virtù della mancata conoscenza da parte dell’interessato circa i propri diritti difensivi; secondo tale orientamento l’eccezione dovrebbe essere sollevata subito dopo la nomina difensiva ovvero entro il termine di 5
giorni, che l’art. 366 c.p.p. concede al difensore per l’esame degli atti (Cass., sez. IV, 11 ottobre 2012, n.
44840; Cass., sez. III, 28 marzo 2012, n. 14873).
Ad avviso delle Sezioni Unite per “parte”, cui grava l’onere di eccepire una qualsiasi nullità, deve
intendersi solo il difensore o il pubblico ministero e non anche l’indagato, soggetto privo delle idonee
conoscenze tecnico– professionali necessarie per rilevare una violazione della legge processuale. Secondo l’argomentazione sostenuta con tale pronuncia, nel caso di specie non è applicabile il primo periodo
del secondo comma dell’art. 182 c.p.p., secondo il quale se la parte vi assiste, il vizio deve essere eccepito, a pena di decadenza, prima del compimento dello stesso o immediatamente dopo. È presumibile,
infatti, che la persona sottoposta all’accertamento non sia a conoscenza della garanzia difensiva prevista dal Legislatore (Cass., sez. III, 12 luglio 2005, n. 33517).
In conclusione, dipanando i diversi orientamenti giurisprudenziali sul punto, le Sezioni Unite affermano che «la nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre ad esame alcolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell’art. 114 disp. att. c.p.p., può essere tempestivamente dedotta fino al momento della deliberazione della
sentenza di primo grado, ai sensi degli artt. 180 e 182, comma 2, c.p.p.».
IL CONCOMITANTE IMPEGNO PROFESSIONALE DEL DIFENSORE PUÒ COSTITUIRE LEGITTIMO IMPEDIMENTO
(Cass., sez. un., 2 febbraio 2015, n. 4909)
Le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla possibilità di qualificare come legittimo impedimento il contemporaneo impegno professionale del difensore in un altro procedimento, con conseguente congelamento del termine di sospensione del corso della prescrizione. La Sezione Feriale, assegnataria del ri SCENARI | SEZIONI UNITE
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corso, ha riscontrato sul punto un contrasto giurisprudenziale circa l’interpretazione dell’art. 159,
comma 1, n. 3, c.p.
Secondo un primo e più risalente orientamento di legittimità, l’impedimento del difensore per contemporaneo impegno professionale non costituirebbe un’ipotesi di impossibilità assoluta a partecipare
all’attività difensiva e, pur dando luogo ad un legittimo rinvio dell’udienza, non farebbe scattare i limiti
di durata della sospensione della prescrizione di cui all’art. 159, comma 1, n. 3, c.p. In tale ipotesi, pertanto, non sarebbe configurabile un impedimento in senso tecnico del difensore ma una deliberata scelta, ancorché legittima, fatta valere attraverso la richiesta di rinvio. (Cass., sez. I, 14 ottobre 2008, n.
44609). Le pronunce che seguono tale orientamento fondano le argomentazioni sulla giurisprudenza di
legittimità formatasi in merito alla natura del rinvio disposto per adesione del difensore all’astensione
proclamata dalle associazioni di categoria, laddove è ormai consolidato il principio in base al quale
«l’astensione dalle udienze non può essere ricondotta nell’alveo del legittimo impedimento con la conseguenza che la sospensione del corso della prescrizione deve abbracciare l’intero periodo di rinvio non
soffrendo la limitazione dei 60 giorni»(Cass., sez. I, 17 giugno 2008, n. 25714).
In termini diametralmente opposti il secondo orientamento secondo cui anche il concomitante impegno professionale del difensore in altro procedimento, non soltanto comunicato ma anche documentato in riferimento all’essenzialità e alla non sostituibilità della presenza del difensore in altro procedimento, costituisce legittimo impedimento a comparire, con conseguente applicazione della limitazione
della sospensione della prescrizione ex art. 159, comma 1, n. 3, c.p. (Cass., sez. III, 3 marzo 2009, n.
17218). Tale interpretazione richiama sostanzialmente il principio di diritto enunciato, in relazione al
testo allora vigente dell’art. 486, comma 5 c.p.p., dalle Sezioni Unite con la sentenza Fogliani (Cass., sez.
un. 27 marzo 1992, n. 4708), secondo la quale «perché l’impegno professionale del difensore in altro
procedimento possa essere assunto quale legittimo impedimento che dà luogo ad assoluta impossibilità
a comparire ai sensi dell’art. 486, comma 5, c.p.p. (oggi art. 420-ter, comma 5, c.p.p.) è necessario che il
difensore prospetti l’impedimento e chieda il rinvio non appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni e che non si limiti a comunicare e documentare l’esistenza di un contemporaneo impegno
professionale in altro processo, ma esponga le ragioni che rendono essenziale l’espletamento della sua
funzione in esso per la particolare natura dell’attività a cui deve presenziare, l’assenza in detto procedimento di altro codifensore che possa validamente difendere l’imputato, l’impossibilità di avvalersi di
un sostituto ai sensi dell’art. 102 c.p.p. sia nel processo cui intende partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio» (Cass., sez. IV, 18 dicembre 2013, n. 10926).
Le Sezioni Unite aderiscono al secondo orientamento, sebbene ritengono opportuno differenziare
l’ipotesi di partecipazione del difensore all’astensione di categoria dall’ipotesi di concomitante impegno
professionale. In relazione al caso di astensione del difensore, il termine di prescrizione rimane sospeso
per l’intero periodo, trattandosi di un diritto al rinvio, e non un semplice legittimo impedimento partecipativo, come sancito da un precedente pronuncia delle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 30 maggio 2013,
n. 26711). In relazione al concorrente impegno professionale del difensore in due diversi procedimenti,
se da un punto di vista fattuale lo stesso si trova, ad avviso della Suprema Corte, in una posizione assolutamente neutra, dal punto di vista sistemico e di compatibilità costituzionale, milita la ratio sottesa al
novellato art. 159, comma 1, n. 3, c.p., tesa a superare la prassi degenerativa che indiceva sui tempi processuali.
La Corte precisa che non è la mera concomitanza di impegni professionali ad integrare un legittimo
impedimento – altrimenti si rimetterebbe effettivamente all’arbitrio del difensore quale dei due procedimenti privilegiare –, quanto piuttosto la condizione obiettiva, scrutinata dal giudice, di impossibilità
assoluta di prestare la propria opera in una sede processuale, perché “compromessa da un concomitante e (in quel momento) ‘prevalente’ impegno difensivo”. Il difensore, pertanto, è onerato di prospettare
al giudice, al quale chiede il rinvio, con assoluta tempestività, il proprio impedimento, ciò al fine di
consentire allo stesso giudice di individuare la data della nuova udienza anche in relazione alle esigenze organizzative del proprio ufficio, e far sì che «il rinvio avvenga in tempo utile per evitare disagi alle
altre parti o disfunzioni giudiziarie».
Dunque, secondo le Sezioni Unite, l’impegno professionale del difensore in altro procedimento costituisce legittimo impedimento che dà luogo ad assoluta impossibilità a comparire ai sensi dell’art. 420
ter, comma 5, c.p.p., a condizione che il difensore prospetti l’impedimento appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni, indichi specificamente le ragioni che rendono essenziale l’espletamento della sua funzione nel diverso processo e rappresenti l’assenza in detto procedimento di altro
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codifensore che possa validamente difendere l’imputato, nonché l’impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art. 102 c.p.p., sia nel processo cui intende partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio; con conseguente congelamento del termine di prescrizione fino ad un massimo di 60 giorni dalla
cessazione dell’impedimento stesso. Ne consegue che in caso di istanza di rinvio, priva della documentazione necessaria, non può ritenersi sussistente il legittimo impedimento e quindi neppure il diritto al
rinvio; tuttavia il giudice può, contemperando le esigenze della difesa con quelle della giurisdizione,
concedere il rinvio secondo il suo prudente apprezzamento, così qualificando la richiesta di differimento come una “mera richiesta di rinvio” per assicurare all’imputato di essere assistito dal difensore che
meglio conosce la sua vicenda processuale, con conseguente sospensione del decorso della prescrizione
per tutto il periodo del differimento.
I POTERI DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE E LE PENE ACCESSORIE ILLEGALI
(Cass., sez. un., 12 febbraio 2015, n. 6240)
Le Sezioni Unite sono state investite della questione relativa alla deducibilità, con il rimedio dell’incidente di esecuzione, della erronea applicazione della pena accessoria da parte del giudice della cognizione.
Preliminarmente la Suprema Corte svolge un’indagine sul significato attuale del principio di intangibilità del giudicato, ripercorrendo le tappe storiche che hanno portato all’erosione del mito del giudicato, supportato dal sempre maggiore riconoscimento di poteri al giudice dell’esecuzione. Se da un lato, l’orientamento più conservatore ammetteva il superamento del giudicato solo nelle ipotesi contemplate dall’art. 673 c.p.p., relativo alle ipotesi di abrogazione o dichiarazione di illegittimità di una norma
incriminatrice, dall’altro si è venuto affermando un’interpretazione che riconosce prevalenza al principio di legalità della pena sull’intangibilità del giudicato, con la possibilità di rideterminare la pena in
sede esecutiva. Le Sezioni Unite richiamano una precedente decisione a Sezioni Unite, che ha riconosciuto l’intervento in executivis in caso di esecuzione di una pena illegittima, poiché l’applicazione di
una pena diversa da quella prevista dalla legge viola il principio di legalità, come affermato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 115/1987 (Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858). Pertanto, una
pena inflitta extra o contra legem deve essere rimossa non solo attraverso i rimedi previsti in sede di cognizione, ma anche, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, da parte del Giudice dell’esecuzione.
In relazione alla pena principale, la giurisprudenza di legittimità è concorde nel riconoscere la possibilità di intervento in executivis (da ultimo Cass., sez. IV, 16 maggio 2012, n,. 26117); l’emendabilità in
executivis di una pena accessoria illegale, inoltre, trova il suo fondamento, oltre che in norme di rango
superiore, anche in norme del codice di rito, quale l’art. 676 c.p.p. che prevede espressamente la competenza del Giudice dell’esecuzione in tema di pene accessorie. Dunque, le Sezioni Unite ritengono senz’altro che debba essere riconosciuta la possibilità di intervenire in executivis per l’emenda di una pena
accessoria illegale e che quindi debba essere condiviso l’indirizzo interpretativo, assolutamente maggioritario, espressosi in tal senso. Se, salvo qualche isolato orientamento contrastante, sul punto vi è una
uniformità di orientamenti, il contrasto giurisprudenziale si rinviene circa i limiti e gli ambiti dell’intervento sul giudicato da parte del giudice dell’esecuzione, in relazione alle pene accessorie illegali.
Per un primo orientamento maggioritario, la correzione in sede esecutiva dell’errore nella irrogazione della pena accessoria risultava ammissibile solo laddove quest’ultima fosse predeterminata nell’an e
nel quantum e non richiedesse l’esercizio di poteri discrezionali da parte del giudice dell’esecuzione
(Cass., sez. 30 novembre 2011, n. 1800); al contrario, secondo un diverso indirizzo interpretativo, minoritario, non era deducibile in sede esecutiva l’errore commesso dal giudice di merito nell’applicazione
delle pene accessorie, essendo ammesso solo il rimedio dell’impugnazione (Cass., sez. I, 20 marzo 2007,
n. 14007).
Secondo le Sezioni Unite deve escludersi l’emendabilità in executivis quando il Giudice del merito si
sia già pronunciato in proposito e sia pervenuto, anche se in modo erroneo, a conclusioni che abbiano
comportato l’applicazione di una pena accessoria illegale, poiché il sistema riconosce la possibilità di
ricorrere attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione. In secondo luogo, la Suprema Corte riconosce
la possibilità di intervento del giudice dell’esecuzione, sempre che non implichi valutazioni discrezionali in ordine alla specie ed alla durata della pena accessoria. Tale esegesi si ancora all’art. 183 disp. att.
c.p.p. che consente al PM di richiedere, quando si sia provveduto in sede di cognizione, l’applicazione
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di una pena accessoria, purché questa sia «predeterminata dalla legge nella specie e nella durata». Tra
le pene accessorie emendabili in sede esecutiva senza alcuna discrezionalità valutativa, le Sezioni Unite
indicano quelle di cui all’art. 29 c.p.
Non sono consentiti, invece, interventi manipolatori del giudicato che comportino, da parte del Giudice dell’esecuzione, l’esercizio di poteri discrezionali per la determinazione della durata della pena accessoria.
La Suprema Corte riconosce la problematicità della disciplina prevista dall’art. 37 c.p., in particolare
nell’ipotesi in cui la pena accessoria sia indicata con un limite minimo o massimo di durata. Se un primo indirizzo giurisprudenziale esclude l’applicazione dell’art. 37, essendo attribuito al giudice della
cognizione stabilirne effettivamente la durata, alla luce dei parametri di cui all’art. 133 c.p.p. (ex multiplis, Cass., sez. F., 1 agosto 2013, n. 35729), dall’altro un diverso orientamento ne ammette l’applicazione, riconoscendo al giudice dell’esecuzione la possibilità di determinare la pena accessoria con riferimento a quella principale (Cass., sez. III, 1 aprile 2014, n. 2048). La Suprema Corte, con tale decisione,
condivide il secondo degli orientamenti citati, ancorando l’esegesi al dato letterale, per cui ritiene
adempiuto il principio di uniformità temporale tra pena principale e pena accessoria anche nell’ipotesi
di indicazione di un minimo o di un massimo.
Pertanto, l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, a condizione che la pena
sia determinata per legge (o determinabile, senza alcuna discrezionalità) nella specie e nella durata, e
non derivi da un errore valutativo del Giudice della cognizione.
IL CURATORE FALLIMENTARE NON È LEGITTIMATO A PROPORRE IMPUGNAZIONE CONTRO IL PROVVEDIMENTO DI SEQUESTRO ADOTTATO SULLA BASE DELL’ART. 19 DEL D. LGS. 231/2001
(Cass., sez. un., 17 marzo 2015, n. 11170)
La questione di diritto su cui si esprimono Sezioni Unite attiene al dovere del giudice penale, nel disporre il sequestro preventivo ex art. 19, comma 2, d.lgs. n. 231/2001, con riferimento ai beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, di valutare le ragioni dei creditori in buona fede e alla individuazione del giudice competente, penale o fallimentare, sulla verifica delle ragioni stesse.
In merito al rapporto tra i provvedimenti di sequestro e confisca del profitto del reato e la procedura
fallimentare, risultava apprezzabile un contrasto giurisprudenziale. Già in passato le Sezioni Unite si
erano pronunciate sul tema, sebbene in relazione alla diversa ipotesi del sequestro finalizzato alla confisca facoltativa (art. 240, co 2). In quell’occasione, la Suprema Corte aveva risolto il contrasto, escludendo l’insensibilità del sequestro rispetto alla procedura concorsuale (Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n.
29951). In particolare, il sequestro penale non era precluso a condizione che il giudice desse motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei
legittimi interessi in corso. Il principio di diritto sancito da quelle Sezioni Unite, tuttavia, ha generato
un contrasto giurisprudenziale, sulla diversa valutazione dei rapporti tra i due procedimenti.
Secondo un orientamento prevalente, determinante appare la natura della res. In relazione al sequestro preventivo ex art. 19 cit., si riteneva che i beni oggetti di confisca non fossero intrinsecamente pericolosi e che spettasse al giudice valutare in concreto di dare la prevalenza alle ragioni sottese alla confisca rispetto alle esigenze dei creditori (Cass., sez. V, 8 luglio 2008, n. 33425; Cass., sez. V, 9 ottobre 2013,
n. 48804).
Un diverso orientamento conferiva rilievo alla natura della confisca nel disciplinare i rapporti tra sequestro/ confisca e fallimento. In particolare, se in materia di prevenzione antimafia si affermava che la
res confiscabile fosse di per sé pericolosa e, pertanto, la confisca, obbligatoria, dovesse essere insensibile
al fallimento (Cass., sez. VI, 4 marzo 2008, n. 31890), in materia di sequestro disposto ex d.lgs. n.
231/2001 si riconosceva la natura obbligatoria della confisca, con conseguente insensibilità del sequestro alla procedura fallimentare (Cass., sez. VI, 10 gennaio 2013, n. 190519).
Preliminarmente, le Sezioni Unite ritengono che il precedente orientamento affermato dalle Sezioni
Unite (Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951, cit.), ancorato all’assenza di disciplina sul tema, non appare più condivisibile, posto che una interpretazione sistematica delle disposizioni contenute nel d.lgs.
n. 231/2001 evidenzia la stretta connessione funzionale tra la misura cautelare del sequestro e la conseguente confisca.
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Peraltro, con tale pronuncia la Suprema Corte riconosce che il sistema sanzionatorio nei confronti degli
enti fuoriesce dagli schemi tradizionali incentrati sulla distinzione tra pene e misure di sicurezza, essendo
finalizzate a stabilire uno stretto rapporto funzionale tra la responsabilità accertata e la sanzione.
Se da un lato il legislatore ha optato per l’obbligatorietà della confisca, dall’altra ha posto dei limiti al
giudice della cognizione per far salvi i diritti del danneggiato e dei terzi in buona fede, in virtù della
clausola di salvaguardia contenuta nel comma 1 dell’art. 19, d.lgs. n. 231/2001, applicabile anche al sequestro per equivalente. Di conseguenza è competente il giudice della cognizione penale che, prima di
disporre il sequestro e/o la confisca, dovrà valutare se la titolarità del bene sia stata acquisita dal terzo
in buona fede. Dopo la sentenza definitiva di condanna, con contestuale confisca dei beni, la competenza a decidere sull’istanza del terzo spetta al giudice dell’esecuzione penale.
Secondo le Sezioni Unite, l’applicazione dei due vincoli, quello imposto dalla procedura fallimentare
e quello derivante dal sequestro o dalla confisca, non risulta essere incompatibile o confliggente, poiché
persegue diverse finalità. Anzi, ad avviso delle Sezioni Unite, i due vincoli possono coesistere, poiché il
sequestro e o la confisca tutelano in maniera maggiore gli interessi dei creditori.
Dopo aver ricostruito nelle articolate e lunghe motivazioni l’istituto disciplinato dall’articolo 19 del
d.lgs. n. 231/2001, il Collegio esclude la legittimazione ad agire del curatore fallimentare.
Secondo le Sezioni Unite, dunque, il creditore, che non ha ancora ottenuto l’assegnazione del bene a
conclusione della procedura concorsuale, non può essere considerato terzo titolare di un diritto acquisito in buona fede perché prima di tale momento il creditore vanta una semplice pretesa ma non la titolarità di un diritto reale su un bene. Ne consegue che anche il curatore fallimentare, terzo rispetto al procedimento sequestro/confisca dei beni già appartenuti alla fallita società, non può agire in rappresentanza dei creditori per opporsi al sequestro e alla confisca.
Il curatore, infatti, è un soggetto gravato da un “munus” pubblico, di carattere prevalentemente gestionale, che affianca il giudice delegato al fallimento e il Tribunale per consentire il perseguimento degli obiettivi propri della procedura fallimentare.
Dunque il curatore non è titolare di alcun diritto sui beni, avendo esclusivamente compiti gestionali
e mirati al soddisfacimento del creditori e non può agire in rappresentanza dei creditori. Questi, prima
della conclusione della procedura, non sono titolari di alcun diritto sui beni e sono, quindi, privi di
qualsiasi titolo restitutorio sui beni sottoposti a sequestro.
Del resto, ex art. 53, comma 1, d.lgs. n. 231/2001, sono applicabili, in quanto compatibili, le disposizioni codicistiche relative ai mezzi di impugnazione contro i sequestri, e quindi, quelle relative ai soggetti legittimati, tra i quali non può comprendersi il curatore fallimentare. Secondo le Sezioni Unite, infatti, il curatore non ha un interesse concreto e giuridicamente tutelabile a opporsi ai provvedimenti di
sequestro e confisca, perché la massa fallimentare, la cui integrità il curatore è tenuto a garantire, non
subisce alcun pregiudizio da tali provvedimenti. Infatti, lo Stato potrà far valere il suo diritto sui beni
sottoposti a vincolo fallimentare, salvaguardando i diritti riconosciuti ai creditori, soltanto a conclusione della procedura.
Pertanto, le Sezioni Unite affermano i seguenti principi di diritto: «il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi dell’art. 19
del d.lgs. n. 231/2001; la verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare».
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DECISIONI IN CONTRASTO
di Paola Corvi
LA CONTROVERSA AMMISSIBILITÀ DELLA RICHIESTA DI RIESAME AVVERSO IL DECRETO DI SEQUESTRO
PREVENTIVO AVANZATA DAL DIFENSORE DELL’ENTE NON FORMALMENTE COSTITUITO
(Cass., sez. II, 9 febbraio 2015, n. 5725)
In materia di responsabilità degli enti derivante da reato, è questione dibattuta nella giurisprudenza di legittimità l’ammissibilità della richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo proposta ai sensi
dell’art. 324 c.p.p. dal difensore di fiducia dell’ente, in assenza di un previo atto formale di costituzione, secondo il disposto dell’art. 39, d.lgs. n. 231/2001. Tale norma, infatti, regola le modalità di intervento dell’ente
nel procedimento, accollandogli l’onere di presentare una dichiarazione, contenente tra l’altro anche le generalità del rappresentante, in assenza della quale all’ente sarà preclusa la possibilità di partecipare in maniera completa al procedimento. Si discute quindi, se l’esercizio dei diritti di difesa da parte dell’ente sia o
meno subordinato all’atto formale di costituzione nel procedimento a norma dell’art. 39, d.lgs. n. 231/2001.
Un primo orientamento esclude la necessità di un formale atto di costituzione da parte dell’ente per
esercitare il diritto di difesa nelle sue diverse forme. Questo indirizzo, in forza del disposto degli artt. 34
e 35, d.lgs. n. 231/2001 – secondo cui nel procedimento a carico degli enti si osservano, oltre alle norme
specifiche contenute nel d.lgs. n. 231/2001, le disposizioni del codice di procedura penale, in quanto
compatibili, – ritiene applicabili anche nell’accertamento degli illeciti amministrativi gli artt. 257 e 324
c.p.p., per cui il potere di proporre riesame avverso il decreto di sequestro spetta oltre che all’imputato,
alla persona alla quale le cose sono state sequestrate e a quella che avrebbe diritto alla loro restituzione,
anche al loro difensore, nominato ai sensi dell’art. 96 c.p.p., senza che sia richiesta la procura ai sensi
dell’art. 100 c.p.p., necessaria ai fini della costituzione dell’ente nel procedimento. Tale tesi troverebbe
conferma nell’art. 52, d.lgs. n. 231/2001, che riconosce all’ente la facoltà di proporre appello contro tutti
i provvedimenti in materia di misure cautelari, “per mezzo del suo difensore”, e non “per mezzo del
proprio rappresentante legale”, dimostrando così che l’impugnazione della misura cautelare non è subordinata alla manifestazione di volontà da parte dell’ente di partecipare al giudizio ed alla conseguente costituzione nel giudizio stesso a norma dell’art. 39. In definitiva, viene dunque affermato da questo
filone giurisprudenziale il diritto dell’ente, come di ogni altra persona imputata o indagata, di fruire
della assistenza difensiva, comprese le facoltà che il codice di rito riconosce al difensore, indipendentemente dall’atto formale di costituzione posto in essere a norma dell’art. 39 (Cass., sez. VI, 5 novembre
2007, n. 43642; Cass., sez. VI, 19 giugno 2009, n. 41398).
Secondo un contrapposto orientamento, ribadito anche di recente, l’esercizio dei diritti di difesa da
parte dell’ente in qualsiasi fase del procedimento a suo carico è subordinato all’atto formale di costituzione a norma dell’art. 39 d.lgs. n. 231/2001. La disposizione, che distingue nettamente l’atto di costituzione in giudizio, con cui sostanzialmente l’ente dichiara di voler partecipare al giudizio, dal conferimento della procura speciale al difensore per costituirsi e sottoscrivere il relativo atto, è assolutamente
chiara, infatti, nel prevedere la sanzione della inammissibilità in assenza dell’atto di costituzione, la cui
presenza formale è richiesta in ogni fase del procedimento e quindi anche con riguardo alle questioni
relative ai sequestri e alle loro impugnazioni ex art. 53, d.lgs. n. 231/2001 (Cass., sez. VI, 5 febbraio 2008,
n. 15689; Cass., sez., 9 dicembre 2014, n. 2386).
La necessità di risolvere il contrasto giurisprudenziale e il connesso problema riguardante la sufficienza di un mandato difensivo ex art. 96 c.p.p. per proporre l’istanza di riesame avverso il decreto di
sequestro conservativo ha indotto la seconda sezione della Corte di cassazione a rimettere alle Sezioni
Unite la questione «se in materia di responsabilità degli enti da reato, sia ammissibile la richiesta di riesame ex art. 324 c.p.p. avverso il decreto di sequestro preventivo proposta dal difensore di fiducia
dell’ente in assenza di un previo atto formale di costituzione a norma dell’art. 39 d.lgs. n. 231 del 2001».
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
47
L’IRRISOLTO CONTRASTO SULLA DURATA MASSIMA DELLE MISURE CAUTELARI IN CASO DI SOSPENSIONE
DELL’ESECUZIONE DELL’ESTRADIZIONE DISPOSTA DAL GIUDICE AMMINISTRATIVO.
(Cass., sez. VI, 29 gennaio 2015, n. 4338)
La Corte di cassazione ha affrontato in più occasioni, e con esiti diversi, la questione relativa alle conseguenze derivanti, sul piano delle cautele, dalla sospensione dell’esecuzione dell’estradizione ad opera
del giudice amministrativo, affermando sia la legittimità della revoca della misura cautelare in carcere
disposta nei confronti dell’estradando, sia la perdurante efficacia della misura stessa.
Secondo il disposto dell’art. 714 c.p.p., su richiesta del Ministro della giustizia la persona di cui è stata chiesta l’estradizione può essere sottoposta a misura coercitiva; lo stato di privazione della libertà
può protrarsi anche dopo che è divenuta definitiva la sentenza favorevole all’estradizione, essendo finalizzata esclusivamente all’esecuzione dell’estradizione. Nel caso di mancata consegna dell’estradando allo Stato richiedente nel termine stabilito dalla legge, il provvedimento di concessione dell’estradizione perde efficacia e la persona da estradare viene rimessa in libertà, ex art. 708, u.c., c.p.p. Tuttavia
qualora sia disposta la sospensione dell’esecuzione della estradizione in forza di un provvedimento
ministeriale adottato nei casi previsti dall’art. 709 c.p.p. o su ordine del giudice amministrativo, a seguito di ricorso avverso il decreto di estradizione, in assenza di una puntuale previsione normativa, sorge
il problema se lo stato di detenzione possa protrarsi, nonostante la consegna allo Stato richiedente sia
sospesa. Mentre i termini di durata della coercizione sono definiti dall’art. 714 c.p.p. per la fase giurisdizionale ai fini estradizionale e dall’art. 708 c.p.p. con riguardo alla fase amministrativa riservata ai
provvedimenti ministeriali, nulla è previsto per l’eventualità in cui la consegna dell’estradando sia sospesa, in particolare per il caso in cui l’interessato adisca la giurisdizione amministrativa. La lacuna
normativa ha dato luogo a un contrasto giurisprudenziale.
Secondo un primo orientamento la sospensione dell’esecuzione del provvedimento estradizionale,
pur impedendo la consegna dell’estradando, non comporta la perdita di efficacia del decreto di estradizione ma impone la revoca della misura cautelare applicata, in quanto la durata massima delle misure
coercitive adottate a fini estradizionali va stabilita solo sulla base della disciplina dettata dagli artt. 708
c.p.p. e non anche sul regime dei termini massimi di durata fissato all’art. 303 c.p.p.; del resto nell’ambito della disciplina del procedimento estradizionale alla custodia cautelare è assegnata una funzione
strumentale rispetto alla consegna dell’estradando, per cui ove il Ministro della Giustizia sospenda l’esecuzione dell’estradizione per ragioni di giustizia interna a norma dell’art. 709 c.p.p., la misura coercitiva a cui l’estradando è stato eventualmente sottoposto deve essere revocata, non potendo la decisione
del Ministro comportare un prolungamento a tempo indeterminato del trattamento cautelare (v., tra le
altre, con riferimento all’ipotesi di sospensione della consegna allo Stato richiedente per motivi di giustizia interna, Cass., sez. VI, 9 giugno 2003, n. 36549; Cass., sez. VI, 1° ottobre 2003, n. 4643; Cass., sez.
VI, 17 febbraio 2004, n. 28033; Cass., sez. VI, 26 ottobre 2004, n. 46478).
Secondo un diverso orientamento giurisprudenziale, esauritasi la procedura giurisdizionale, in caso
di sospensione dell’esecuzione dell’estradizione devono ritenersi applicabili alle misure cautelari in
corso o che siano adottate durante la sospensione, i termini di durata massima previsti dagli artt. 303,
comma 4, e 308 c.p.p., in virtù del richiamo operato dall’art. 714, comma 2, c.p.p. alle disposizioni dettate in materia di misure coercitive (Cass., sez. VI, 20 settembre 2000, n. 3374; Cass., sez. VI, 11 luglio
1995, n. 2931). Segnatamente, in relazione all’ipotesi di sospensione dell’esecuzione di estradizione per
effetto dell’ordinanza adottata dal tribunale amministrativo regionale, si è affermato che, risultando
impedita a causa di tale ostacolo giuridico l’ulteriore fissazione del termine per la consegna di cui
all’art. 708 c. 5 c.p.p. non può operare in tal caso la perdita d’efficacia della custodia prevista dal successivo comma 6, ma esclusivamente quello – generale e desumibile dal rinvio operato dall’art. 714 c.p.p. –
connesso alla scadenza del termine massimo di durata delle misure coercitive di cui agli artt. 303 e 308
c.p.p. (v. Cass., sez. VI, 9 aprile 2002, n. 19830; Cass., sez. VI, 8 maggio 2006, n. 29521).
Il conflitto è stato apparentemente risolto dalle Sezioni Unite che hanno escluso l’applicabilità dei
termini di durata massima previsti dagli artt. 303, comma 4, e 308 c.p.p. alle misure coercitive in atto, in
ogni ipotesi di sospensione dell’estradizione sia che essa sia disposta dal Ministro della giustizia ai sensi dell’art. 709 c.p.p., sia a maggior ragione che sia ordinata dal giudice amministrativo, essendo in
dubbio la legittimità stessa del provvedimento di esecuzione (Cass., sez. un., 28 novembre 2006, n.
41540). La linea interpretativa delle Sezioni Unite, seguita da alcune pronunce che hanno affermato la
necessità di revocare la misura cautelare in corso di esecuzione e di scarcerare l’estradando, qualora
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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non si proceda alla consegna allo Stato richiedente a causa della pronuncia del giudice amministrativo
(Cass., sez., VI, 20 marzo 2007, n. 12677) o per esigenze di giustizia interna (Cass., sez. VI, 13 novembre
2008, n. 44441; Cass., sez. VI, 12 aprile 2007, n. 17624), è stata tuttavia disattesa di recente in una pronuncia che si discosta dai principi affermati dalle Sezioni Unite sulla base di un duplice assunto: da un
lato la mera impugnazione del decreto ministeriale dinanzi alla giurisdizione amministrativa non fa
venir meno l’attualità dell’esigenza cautelare del pericolo di fuga, connesso all’immediatezza della consegna; dall’altro la sospensione disposta iussu iudicis dipende dall’istanza dell’estradando, la quale può
nascondere una mera finalità dilatoria (Cass., sez. VI, 11 marzo 2011, n. 12451).
Il contrasto giurisprudenziale – portato nuovamente all’attenzione delle Sezioni Unite, ma non risolto dalla sentenza 27 ottobre 2012, n. 6624, essendo stato dichiarato inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse – emerge nuovamente nella decisione in esame che, precisati i poteri di sindacato del giudice amministrativo e rilevata l’assenza di previsioni specifiche per l’ipotesi in cui il giudice amministrativo sospenda l’efficacia del decreto ministeriale, esclude l’applicabilità delle regole di
cui agli artt. 303 e 304 c.p.p, funzionali alle esigenze cautelari del processo interno e afferma l’operatività dell’art. 708, comma 6, c.p.p., individuando in tale norma i limiti oltre i quali la coercizione personale non può permanere in caso di sospensione della consegna dell’estradando. Pur aderendo
all’orientamento prevalente, la Suprema Corte è consapevole delle implicazioni problematiche che tale
soluzione esegetica comporta e, non a caso, sottolinea «la persistente necessità di un intervento normativo volto a eliminare in radice ogni incertezza ermeneutica». In particolare la Corte riconosce che nel
momento in cui la consegna dell’estradando viene sospesa per esigenze di giustizia interna o per disposizione del giudice amministrativo non può ritenersi annullato il pericolo di fuga e in questa prospettiva afferma quindi l’esigenza di controllo sulla persistenza del pericolo di fuga e la necessità che su iniziativa del Ministro della giustizia l’organo giurisdizionale sia chiamato a tale verifica e all’eventuale
adozione di misure cautelari.
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Avanguardie in Giurisprudenza
Cutting Edge Case Law
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
50
Sentenza irrevocabile di condanna,
illegittimità costituzionale
sull’apparato sanzionatorio
e potere del giudice dell’esecuzione
di rimodulare la pena
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE UNITE, SENTENZA 14 OTTOBRE 2014, N. 42858 – PRES. SANTACROCE;
REL. IPPOLITO
1. Successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una
norma penale diversa da quella incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena che non sia stata interamente espiata da parte del giudice dell’esecuzione.
2. Per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionalità dell’art. 69, comma 4, c.p. nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all’art.
73, comma 5, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p., il giudice dell’esecuzione, ai
sensi dell’art. 666, comma 1, c.p.p. e in applicazione dell’art. 30, comma 4, della l. 11 marzo 1953, n. 87, potrà affermare la prevalenza della circostanza attenuante, sempreché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito
dal giudice della cognizione, secondo quanto risulta dal testo della sentenza irrevocabile.
3. Per effetto della medesima sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, è compito del pubblico ministero, ai sensi degli artt. 655, 656 e 666 c.p.p., richiedere al giudice dell’esecuzione l’eventuale rideterminazione della
pena inflitta all’esito del nuovo giudizio di comparazione.
[Omissis]
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto implicata dall’ordinanza di rimessione può essere enunciata nei seguenti
termini: ‘Se, successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d’illegittimità
costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento
sanzionatorio, possa comportare una rideterminazione della pena in sede di esecuzione’.
2. Sulla richiesta d’inammissibilità formulata dal Procuratore generale, osserva il Collegio che, nel richiedere al giudice dell’esecuzione la rideterminazione della pena nei confronti di Gatto, a seguito della
declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata con la sentenza n. 251/2010, il Procuratore della
Repubblica di Napoli aveva implicitamente, ma inequivocabilmente, risolto la questione controversa in
senso positivo, mentre il giudice rigettò la richiesta adottando la contraria soluzione.
Con l’impugnazione proposta, il ricorrente deduce la nullità del provvedimento adottato dal giudice
per violazione di legge.
Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, da
un lato, evidenziando l’inesistenza del potere del giudice dell’esecuzione di adottare statuizioni d’ufficio e, dall’altro lato, facendo riferimento alle successive vicende normative e istituzionali intervenute in
materia (la declaratoria d’illegittimità parziale della l. 21 febbraio 2006, n. 49, adottata dalla Corte costituzione con la sentenza n. 32/2014 e la l. n. 10/2014 relativa al fatto di lieve entità concernente il possesso e lo spaccio di droga).
La questione controversa, per come sopra sintetizzata, era stata posta a fondamento della richiesta
del Pubblico ministero napoletano, per cui non sussiste alcuna violazione del principio della domanda
di parte (art. 666, comma 1, c.p.p.), essendo inequivocabilmente sottesa alla richiesta del P.M. di rideterminazione della pena la sostenuta possibilità che il giudice dell’esecuzione, nel caso in esame, doves AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SENTENZA IRREVOCABILE DI CONDANNA
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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se e potesse procedere a riformulare il giudizio tra le circostanze eterogenee, statuendo la prevalenza
della circostanza attenuante del fatto di lieve entità (art. 73, comma 5, d.p.r., cit.) sulla recidiva ex art. 99,
quarto comma, c.p., valutazione inibita al giudice della cognizione dall’art. 69, quarto comma, c.p., poi
dichiarato costituzionalmente illegittimo (Corte cost., sentenza n. 251/2012).
Ciò rende infondato anche il secondo rilievo addotto dal Procuratore generale. La sopravvenuta declaratoria d’illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 32/2014 e il successivo d.l. 23 dicembre
2013, n. 146, conv., con modificazioni, dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10, non privano di contenuto la domanda del ricorrente, rimanendo ben distinta la richiesta al giudice dell’esecuzione di rideterminare la
pena, procedendo al giudizio di prevalenza prima inibito al giudice della cognizione dall’art. 69, comma 4, c.p. (dichiarato illegittimo con sentenza n. 251/2010) dagli effetti della sentenza n. 32/12 febbraio
2014 e dall’eventuale ipotizzata incidenza della novella indicata (la quale, tra l’altro, ha trasformato il
reato attenuato in reato autonomo), che non hanno alcuna pregiudizialità rispetto alla questione posta
dal Pubblico ministero al Tribunale di Napoli.
Della prospettata incidenza nella vicenda riguardante il condannato Gatto della novella introdotta
con d.l. n. 146/2013, conv. dalla l. n. 10/2014, si farà cenno nel corso della trattazione che segue.
3. Nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, a seguito della declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 61, comma 1, n. 11 bis, c.p. (Corte cost., sentenza n. 249/2010), sulla questione dell’eseguibilità della parte di pena irrogata in applicazione dell’aggravante di cui alla citata disposizione, si
sono effettivamente manifestati due orientamenti contrapposti.
3.1. La prima pronuncia della Corte di cassazione in argomento è quella della Sez. I, n. 977 del 27 ottobre 2011, Hauohu, Rv. 252062, la quale ha affermato il principio della «non eseguibilità del giudicato
di condanna per la parte in cui è riferibile all’applicazione della circostanza aggravante colpita da declaratoria d’illegittimità costituzionale».
La sentenza esclude, per la soluzione della questione in esame, l’applicabilità dell’art. 673 c.p.p., che
si riferisce ai fenomeni di depenalizzazione o di illegittimità costituzionale dell’intera fattispecie oggetto del provvedimento divenuto irrevocabile, in quanto attribuisce al giudice dell’esecuzione il potere di
incidere direttamente, cancellandola, sulla sentenza del giudice della cognizione; la previsione, in altri
termini, può consentire una revoca parziale solo con riferimento a condanna per più reati, alcuni solo
dei quali oggetto di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale, ma non anche «la
scissione del singolo capo d’accusa e la risoluzione del giudicato formale in relazione ad aspetti meramente circostanziali, o sanzionatori, ad esso inerenti». Aggiunge, poi, che l’art 673 c.p.p., se «completa
la disciplina penale sostanziale in materia di successione della legge penale nel tempo (art. 2 c.p.) o di
efficacia delle sentenze dichiarative d’illegittimità costituzionale (artt. 136 Cost. e 30 l. n. 87/1953)», non
per questo esaurisce tutti i casi in cui può trovare applicazione il principio di retroattività delle sentenze
che dichiarano l’illegittimità costituzionale di una norma penale: «la disposizione di cui al ‘nuovo’ terzo
comma dell’art. 2 c.p. consente un intervento sul giudicato in executivis al di fuori del ricorso allo strumento contemplato dall’art. 673 c.p.p., e [...] l’esigenza di assicurare la ‘retroattività’ agli effetti di una
sentenza di illegittimità costituzionale è nettamente più significativa di quella connessa al fenomeno
della abrogazione». I due istituti, secondo il pacifico insegnamento della Corte costituzionale, «si muovono su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse», l’abrogazione «operando, come è
noto, di regola ex nunc e non toccando perciò la validità della norma abrogata fino all’entrata in vigore
di quella abrogante», la dichiarazione di incostituzionalità «colpendo, al contrario, la norma fin dalla
sua origine, eliminandola dall’ordinamento e rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici in corso,
con conseguenze invalidanti assimilabili all’annullamento».
Il limite del giudicato al dispiegarsi degli effetti della dichiarazione d’incostituzionalità «trova [...]
eccezione in materia penale, grazie al disposto del quarto comma dell’art. 30», in «attuazione del principio di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.».
Ciò posto, la sentenza, consapevole che «la giurisprudenza di legittimità spesso ha affermato che l’art.
30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, si riferisce solamente alle norme penali incriminatrici», rileva che ciò è avvenuto essenzialmente al fine di distinguere da queste le norme processuali. Osserva, di contro, che: «allorché si parla di norma penale in senso stretto, s’intende comunemente fare riferimento – nell’accezione mutuata appunto dall’art. 25, secondo comma, Cost. – alle disposizioni che comminano una pena o che determinano una differenza di pena in conseguenza di determinati comportamenti o situazioni. Nella misura in cui da dette norme deriva una sanzione criminale per un aspetto
dell’agire umano, di esse può dirsi che sono analoghe alle norme incriminatrici, essendo indifferente, da
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
52
tale punto di vista, che istituiscano un autonomo titolo di reato o una circostanza aggravante».
Ritenuto, dunque, inapplicabile l’istituto della revoca della sentenza previsto dall’art. 673 c.p.p., viene affermata l’utilizzabilità dell’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953. Questa disposizione, infatti, «non circoscrive in alcun modo, né direttamente, né indirettamente, il divieto di dare esecuzione alla condanna
pronunziata ‘in applicazione’ di una norma penale dichiarata incostituzionale» ed è anzi «l’unica conforme ai principi di personalità, proporzionalità e rimproverabilità desumibili dall’art. 27 Cost., che investono la funzione della pena dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione» e, più
in generale, «all’insieme dei principi costituzionali che regolano l’intervento repressivo penale e che impediscono di ritenere costituzionalmente giusta, e perciò eseguibile, anche soltanto una frazione di pena, se essa consegue all’applicazione di una norma contraria a Costituzione».
Posto così il principio della «non eseguibilità del giudicato di condanna per la parte in cui è riferibile
all’applicazione della circostanza aggravante colpita da declaratoria d’illegittimità costituzionale», Sez.
I, Hauohu, ha concluso: «spetta per conseguenza al giudice dell’esecuzione il compito di individuare la
porzione di pena corrispondente e di dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la sentenza del giudice della cognizione abbia omesso di individuarla specificamente, ovvero abbia proceduto ... al bilanciamento tra le circostanze».
I principi affermati, e gli argomenti svolti, da Sez. I, Hauohu, sono stati espressamente richiamati e
condivisi da Sez. 1, n. 19361 del 24 febbraio 2012, Teteh Assic, Rv. 253338; Sez. 1, n. 26899 del 25 maggio
2012, Harizi, Rv. 253084; Sez. 1, n. 40464 del 12 giugno 2012, Kabi, non mass., le quali tutte hanno affrontato l’identico problema dell’eseguibilità della porzione di pena inflitta in applicazione dell’aggravante prevista dall’art. 61, n. 11 bis, c.p.).
Nella sentenza Harizi si sottolinea che «l’interpretazione letterale e logico-sistematica della I. 11
marzo 1953, n. 87, art. 30, comma quarto, permette di ritenere che l’ambito applicativo della norma non
è limitato alla fattispecie incriminatrice intesa in senso stretto, ma riguarda qualunque parte della condanna pronunziata in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale e impedisce, perciò, anche
solo una parte dell’esecuzione della sentenza irrevocabile, quale appunto quella relativa alla porzione
di pena irrogata in attuazione della norma poi dichiarata costituzionalmente illegittima; approdo interpretativo che appare l’unico conforme al quadro costituzionale di riferimento e, in particolare, ai principi fissati dagli artt. 27 e 3 Cost., e art. 25, comma secondo, Cost.».
L’applicabilità dell’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953 anche nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale relativa a norme penali sostanziali diverse da quelle incriminatrici è stata incidentalmente
riconosciuta (con espresso riferimento alla motivazione della sentenza Harizi), anche da Sez. VI, 16
maggio 2013, n. 21982, Ingordini, Rv. 255674; e da Sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 2295, dep. 2014, Ayari, Rv.
257767, entrambe relative a vicende non ancora definite con sentenza passata in giudicato, ma pendenti
davanti alla Corte di cassazione ed aventi ad oggetto la sopravvenuta declaratoria d’incostituzionalità
dell’art. 69, comma 4, c.p. nella parte in cui poneva il divieto di ritenere prevalente l’attenuante di cui
all’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309/1990 sulla recidiva qualificata (ossia la specifica questione oggetto del
ricorso oggi in esame).
3.2.Tali principi sono stati radicalmente contestati da Sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640, Hamrouni,
Rv. 253383, anch’essa relativa a vicenda in cui si faceva questione della revoca della frazione di pena
determinata dall’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 11 bis, c.p.
Questa decisione ha escluso ogni rilevanza in sede esecutiva alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma che preveda una circostanza aggravante, con conseguente immutabilità della
pena inflitta all’esito del giudizio di cognizione.
A sostegno di tali conclusioni, in motivazione si rileva, sottoponendo a critica gli argomenti utilizzati dalla sentenza Hauohu:
a) non sussiste alcuna violazione del principio di eguaglianza per il differente trattamento riservato
alle condotte sanzionate con pronuncia passata in giudicato prima della dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale sostanziale diversa da quella incriminatrice incidente sulla determinazione della pena rispetto alle condotte giudicate in epoca successiva alla pronuncia ablativa del Giudice delle leggi, «perché la res iudicata costituisce fondamento affatto ragionevole del discrimen tra situazioni uguali, come risulta anche dalla disciplina dell’art. 2, comma 4, c.p., la quale rende ‘doverosa’ la
espiazione di una pena addirittura superiore al massimo edittale fissato dalla norma incriminatrice successivamente novellata»;
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SENTENZA IRREVOCABILE DI CONDANNA
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b) l’art. 673, comma 1, c.p.p. «concerne pacificamente il caso [...] della radicale obliterazione del carattere della illiceità penale della condotta, già tipizzata, per effetto della eliminazione di ogni pena relativa»;
c) è inapplicabile la statuizione di cui all’art. 30, comma 3, l. n. 87/1953, perché la pronuncia della
sentenza irrevocabile di condanna esaurisce la ‘applicazione’ di ogni norma penale incidente sul trattamento sanzionatorio, in quanto «la esecuzione della pena trova esclusivamente titolo nel relativo
provvedimento di irrogazione della sanzione, il quale, in virtù dell’efficacia preclusiva del giudicato, è
affatto insensibile a ogni questione circa la ‘applicazione’ della norma definitivamente operata dal giudice»;
d) la previsione dell’art. 30, comma 4, legge n. 87/1953, espande sì ‘l’efficacia’ della dichiarazione di
illegittimità costituzionale oltre l’ambito dell’art. 136 Cost., perché, alla stregua di questa sola disposizione il giudicato penale sarebbe rimasto «insensibile [...] alla decisione del Giudice delle leggi», ma è
anch’essa inapplicabile alla vicenda in esame perché, da un lato, «si riferisce alle sole norme incriminatrici dichiarate incostituzionali», e, dall’altro, siccome prevede la cessazione non solo dell’esecuzione,
ma anche di ‘tutti gli effetti penali’ della sentenza irrevocabile di condanna, «implica necessariamente –
alla evidenza – il radicale presupposto della abolitio criminis»;
e) l’art. 673 c.p.p. ha implicitamente abrogato l’art. 30, quarto comma, della l. n. 87/1953, dettando
una disposizione che «opera in radice la revoca della sentenza di condanna».
4. L’ordinanza di rimessione aderisce ai contenuti della sentenza Hamrouni, condividendo le critiche
rivolte all’indirizzo prevalente, anche con riferimenti alla giurisprudenza costituzionale, e rilevando
che recenti interventi del Giudice delle leggi non risultano risolutivi per la questione in esame. In particolare, rileva che la sentenza della Corte costit. n. 210/2013 – dopo avere, come le precedenti sentenze
n. 236/2011 e n. 230/2012, riconosciuto il valore del giudicato, proprio alla luce della sentenza della
Corte EDU – ha sì «supposto tuttora vigente» il comma 4, art. 30, legge n. 87/1953, ma ha esaminato
una vicenda non assimilabile a quella in esame, perché incentrata sulla necessità di rispettare un principio derivante da una norma pattizia di diritto internazionale, quale l’art. 7 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come interpretato dalla Corte EDU nella
sentenza della Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola: è solo in questa prospettiva che deve inquadrarsi l’affermazione secondo cui il valore del giudicato risulta ‘recessivo’.
5.Tanto premesso, il Collegio ritiene di aderire all’indirizzo prevalente evidenziatosi nella giurisprudenza della Corte in tema di art. 61, primo comma, n. 11 bis, c.p., a seguito della indicata declaratoria di incostituzionalità (Corte cost., sent. n. 249/2010), i cui esiti vanno estesi anche alla questione posta
dal ricorso in esame, avente ad oggetto le conseguenze sull’esecuzione di pena ancora in atto della sentenza del Giudice della l. n. 251/2012.
5.1. Nella sentenza Hamrouni e nell’ordinanza di rimessione si evidenzia che la quaestio iuris
dell’incidenza sulla condanna passata in giudicato della declaratoria di illegittimità costituzionale di
una norma penale sostanziale, diversa da quella incriminatrice, è stata «negativamente risolta dalla tradizionale giurisprudenza di legittimità consolidatasi nel corso dei decenni», la quale ha ritenuto che
«l’ultimo comma dell’art. 30, l. 11 marzo 1953, n. 87, che dispone la cessazione dell’esecuzione e di tutti
gli effetti penali delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate in base a norme dichiarate incostituzionali, si riferisce alle sole norme incriminatrici dichiarate incostituzionali». A sostegno di tale conclusione si elencano una serie di pronunce di legittimità, a partire da Sez. V, 25 gennaio 1968, n. 296,
Manenti, Rv. 106904 sino a Sez. V, 21 giugno 1985, n. 6676, Bossa, Rv 170006 (non potendosi accreditare
allo stesso filone la pur indicata sentenza Sez. VI, 25 gennaio 1995, n. 3577, Neglia, Rv. n. 200707, che –
come si dirà in seguito – aveva ad oggetto le conseguenze della sentenza della Corte costituzionale n.
341/1994, che dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 341, primo comma, c.p., nella parte in cui
prevedeva come minimo edittale la reclusione per mesi sei).
A tale rilievo, fondato sulla tradizione, è agevole replicare, per un verso, che trattasi di giurisprudenza di legittimità risalente nel tempo (si tratta di sentenze pronunciate sino alla metà degli anni ‘80
del secolo scorso, la gran parte delle quali aventi ad oggetto norme processuali e non sostanziali) e, per
altro verso, che risulta condivisibile l’osservazione della sentenza Hauohu, secondo cui tale principio
risulta tralaticiamente reiterato senza alcun discernimento tra le norme incriminatrici «complete di precetto e sanzione, costitutive di una fattispecie di reato» e le altre norme penali «che si riferiscono a elementi accessori (circostanze del reato)», traendosene la conclusione che le sentenze si sono «riferite alle
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norme incriminatrici per lo più solo al fine di distinguere da esse le norme processuali» ovvero «nell’ambito di decisioni che avevano a oggetto, in realtà, il problema di situazioni da considerare a tutti gli
effetti, anche esecutivi, esaurite».
Né ci si può acquietare alla costatazione che, anche nei casi in cui ha affrontato più direttamente la
questione interpretativa del quarto comma dell’art. 30, l. 11 marzo 1953, n. 87, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito il principio che tale norma «si riferisce alle sole norme incriminatrici dichiarate incostituzionali».
In proposito, nell’ordinanza di rimessione si fa esplicito riferimento alla giurisprudenza successiva
alla declaratoria di illegittimità costituzionale proprio in materia di ipotesi aggravate di reato, già punite da norme del codice penale militare di pace (nel testo previgente alla novella del 26 novembre 1985,
n. 689), dichiarate costituzionalmente illegittime (Corte cost., sent. n. 103/1982). La Cassazione ritenne
che la sentenza della Corte costituzionale (che aveva dichiarato illegittimi gli artt. 186, secondo ed ultimo comma, e 189, primo comma, del c.p. mii. pace, nella parte relativa alle sanzioni senza incidere sul
perdurante carattere criminoso dei fatti) non poteva produrre effetti sulle situazioni esaurite attraverso
il giudicato: e ciò perché non poteva trovare applicazione il quarto comma dell’art. 30 della legge 11
marzo 1953, n. 87, riguardante, con effetti analoghi a quelli del secondo comma dell’art. 2 c.p., il caso
dell’abolitio criminis, posto che la fattispecie era riconducibile al terzo comma del citato art. 2 c.p., secondo cui disposizioni più favorevoli al reo non sono operative qualora sia stata pronunciata sentenza
irrevocabile (Sez. I, 01 luglio 1983, n. 1375, Giacomelli, Rv. 160030).
Tale affermazione, peraltro apodittica e non motivata, non può condividersi, risultando fondata
sull’erronea parificazione tra il fenomeno della successione di leggi nel tempo (con introduzione di
norme più favorevoli: art. 2, comma 3, c.p., divenuto quarto comma dopo l’inserimento operato dall’art.
14 legge 24 febbraio 2006, n. 85) e quello derivante dalla declaratoria di illegittimità costituzionale.
Identica critica deve muoversi ad analoga decisione assunta da Sez. I, 02 ottobre 1996, n. 4873 Bruno,
Rv. 205948, avente ad oggetto la richiesta di ottenere in sede di esecuzione la sostituzione della pena di
due mesi di reclusione militare con la corrispondente pena pecuniaria a norma dell’art. 53, l. 24 novembre 1981, n. 689, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 284/1995, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, l. 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui non prevedeva l’applicabilità
delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi ai reati militari, sentenza intervenuta in epoca successiva all’irrevocabile definizione del giudizio di cognizione.
Infatti, come è stato chiarito dalla Corte costituzionale sin dalla sua prima sentenza del 1956 (con
giurisprudenza costantemente ripetuta), gli istituti giuridici dell’abrogazione e dell’illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi, con competenze diverse e
con effetti diversi.
Gli effetti della declaratoria di incostituzionalità non sono paragonabili a quelli dello ius superveniens, poiché la dichiarazione d’illegittimità costituzionale inficia fin dall’origine (o, per le leggi a questa
anteriori, fin dalla emanazione della Costituzione) la disposizione impugnata. Pertanto le pronunce
stesse fanno sorgere l’obbligo per i giudici avanti ai quali si invocano le norme di legge dichiarate illegittime di non applicarle, a meno che i rapporti cui esse si riferiscono debbano ritenersi ormai esauriti
in modo definitivo ed irrevocabile, e conseguentemente non più suscettibili di alcuna azione o rimedio,
secondo principi invocabili in materia (Corte cost., sent. n. 58/1967).
È stato poi precisato che l’abrogazione non tanto estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la
sfera materiale di efficacia, e quindi l’applicabilità, ai fatti verificatisi sino ad un certo momento del
tempo: coincide, per solito e salvo che sia diversamente disposto dalla nuova legge, con l’entrata in vigore di quest’ultima. Invece, la declaratoria di illegittimità costituzionale, determinando la cessazione
di efficacia delle norme che ne sono oggetto, impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che le
norme stesse siano comunque applicabili anche ad oggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo. Il mutamento di disciplina attuato per
motivi di opportunità politica, liberamente valutata dal legislatore costituisce, pertanto, fenomeno diverso dall’accertamento, ad opera dell’organo a ciò competente, dell’illegittimità costituzionale di una
certa disciplina legislativa: in questa seconda ipotesi, a differenza che nella prima, è perfettamente logico che sia vietato a tutti, a cominciare dagli organi giurisdizionali, di assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pur se venuto in essere anteriormente alla pronuncia della Corte (Corte cost., sent. n. 49/1970).
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Ne consegue che devono ritenersi erronee e del tutto superate le conclusioni cui era pervenuta la
giurisprudenza di legittimità negli anni ‘70-’80 del secolo scorso (ripresa acriticamente dalla Sez. I, del 2
ottobre 1996, n. 4873, Bruno, Rv. 205948) che non operava alcuna distinzione tra abrogazione e dichiarazione di illegittimità costituzionale e che, perciò, non coglieva la necessità di differenziarne gli effetti.
5.2. Di diverso orientamento risultano, invece, le pronunce intervenute a partire dagli anni ‘90, tra
cui vanno menzionate quelle che, pur occupandosi delle ricadute della dichiarazione di illegittimità costituzionale di nome penali sostanziali diverse da quelle incriminatrici sui processi in corso e non su
quelli già definiti con sentenza irrevocabile, misero in evidenza che questo fenomeno non è in alcun
modo omologabile alla vicenda della successione di leggi nel tempo. In questo senso si sono espresse:
Sez. VI, 25 gennaio 1995, n. 3577, Neglia, Rv. 200707; Sez. VI, 25 gennaio 1995, n. 3578, Sticco, Rv.
200708; Sez. VI, del 25 gennaio 1995, n. 3587, Grasso, Rv. 200709; Sez. VI, del 25 gennaio 1995, n. 3793,
Vercellin, Rv. 200710.
Tali decisioni, in termini assolutamente omogenei, avendo riguardo agli effetti della sentenza della
Corte cost. n. 341/1994, che aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 341, comma 1, c.p. nella parte in cui
fissava, per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, il minimo edittale nella pena di sei mesi di reclusione, rilevarono che «non può certo assimilarsi la dichiarazione di illegittimità – per giunta coinvolgente non il precetto ma la sanzione comminata dalla legge – al fenomeno abrogativo», e che, «dunque,
non è possibile ravvisare in conseguenza della detta pronuncia, considerando la natura invalidante della sentenza della Corte, un effetto in tutto corrispondente alla successione di leggi nel tempo». La precisazione fu effettuata per segnalare che, «alla stregua delle disposizioni dell’art. 30 commi 1 e 4 della
legge 11 marzo 1953, n. 87», deve desumersi «l’immediata conseguenza demolitoria di tale sentenza [la
n. 341 del 1994] per i processi tuttora in corso».
La netta distinzione tra abrogazione e declaratoria d’illegittimità costituzionale venne anche sottolineata dalla Corte di cassazione a proposito dell’applicabilità dell’art. 673 c.p.p. a sentenza di condanna
fondata su norma incriminatrice contenuta in un decreto legge decaduto per mancata conversione, in
cui fu evidenziato che «la decadenza di un decreto legge ha effetti maggiori dell’abrogazione, poiché fa
venir meno sin dall’origine la norma decaduta, determinando una situazione sostanzialmente assimilabile a quella dell’efficacia ex tunc della dichiarazione di incostituzionalità» (Sez. I, 16 dicembre 1997, n.
7058, dep. 1998, Karomi, Rv. 209352).
Sia pure a distanza di tempo, dunque, i principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza costituzionale sono stati fatti propri dalla Corte di cassazione. Le Sezioni Unite nel 1984 affermarono che la
declaratoria di incostituzionalità di una norma ha efficacia invalidante e non abrogativa (Sez. un., del 07
luglio 984, n. 7232, Cunsolo, Rv. 165563) e nel 2001 stigmatizzarono che parte della giurisprudenza
avesse continuato per lungo tempo a fondarsi sulla ‘sovrapposizione e confusione’ dei due diversi istituti dell’abrogazione e dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge, istituti che, invece, differiscono profondamente, al punto che si è ritenuto ammissibile il controllo di costituzionalità anche di una
norma già abrogata, ove ne permangano gli effetti (Sez. un., 27 febbraio 2002, n. 17179, Conti).
Tali conclusioni devono essere oggi ribadite, sottolineando che sia il succedersi di leggi, che in tutto
o in parte disciplinano materie già regolate da leggi precedenti, sia l’abrogazione di una norma per effetto di norma successiva sono fenomeni fisiologici dell’ordinamento giuridico, mentre la dichiarazione
di illegittimità costituzionale palesa un evento di patologia normativa.
Il primo fenomeno deriva da una rinnovata e diversa valutazione del disvalore penale di un fatto,
fondata sull’opportunità politica e sociale, operata dal Parlamento, competente a legiferare in uno Stato
democratico di diritto. La declaratoria d’illegittimità costituzionale di una norma – rimasta formalmente in vigore fino alla pubblicazione della sentenza costituzionale, ma sostanzialmente invalida – attesta
che quella norma mai avrebbe dovuto essere introdotta nell’ordinamento repubblicano, che è Stato costituzionale di diritto, ciò che implica il primato delle norme costituzionali, che non possono perciò essere violate dal legislatore ordinario.
A tali distinte situazioni corrispondono diverse conseguenze. Mentre l’applicazione della sopravvenuta legge penale più favorevole, che attiene alla vigenza normativa, trova un limite invalicabile nella
sentenza irrevocabile, ciò non può valere per la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale,
che concerne il diverso fenomeno della invalidità.
La norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall’ordinamento proprio perché affetta da
una invalidità originaria. Ciò impone e giustifica la proiezione “retroattiva”, sugli effetti ancora in corso
di rapporti giuridici pregressi, già da essa disciplinati, della intervenuta pronuncia di incostituzionalità,
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la quale certifica la definitiva uscita dall’ordinamento di una norma geneticamente invalida. Una norma
che deve dunque considerarsi tamquam non fuisset, perciò inidonea a fondare atti giuridicamente validi,
per cui tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure
parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico,
ovviamente nei limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché
già compiuti e del tutto consumati (cfr. Cass. Sez. VI, 16 febbraio 2007, n. 9270, Berlusconi).
Tanto deriva dall’insieme di norme che la Corte costituzionale ha definito “il complesso unitario” risultante dall’art. 136, comma 1, Cost., dall’art. 1 della l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e dalla l. 11 marzo
1953, n. 87, che stabiliscono il principio generale della cessazione di efficacia della norma di legge dichiarata incostituzionale e pongono il divieto della sua applicazione ai rapporti giuridici in corso con
effetti invalidanti assimilabili all’annullamento.
Ciò vale per tutti gli ambiti dell’ordinamento, e però, in forza dell’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953, in
materia penale ha una portata ben maggiore, disponendosi che «quando in applicazione della norma
dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali». La disposizione, come è stato efficacemente sintetizzato dalla dottrina,
estende «al massimo l’incidenza ‘retroattiva’ delle decisioni d’incostituzionalità nella materia penale,
quando si sia pronunciata sentenza di condanna in applicazione di leggi poi dichiarate incostituzionali.
Tali sentenze, ancorché passate in giudicato, cessano di avere esecuzione e di produrre qualsiasi effetto
penale. In questo caso il massimo di retroattività è stato previsto in considerazione della particolare
gravità delle sanzioni penali, essendosi ritenuto inaccettabile (come e più che nell’abrogazione) che esse
potessero ancora valere, una volta riconosciuta l’incostituzionalità del loro fondamento normativo».
La disposizione, che costituisce attuazione del principio di cui all’art. 25, comma 2, Cost. si riferisce
alle sole norme penali sostanziali, per tali dovendosi intendere quelle che correlano la previsione di una
sanzione ad uno specifico comportamento e che stabiliscono una differenza di pena in conseguenza di
una determinata condotta. Può, quindi, parlarsi di una norma penale sostanziale tutte le volte in cui è
stabilita una sanzione penale per un aspetto dell’agire umano, essendo indifferente, da tale punto di vista, che la norma disciplini un autonomo titolo di reato o una circostanza aggravante (Sez. I, 27 ottobre
2011, n. 977, dep. 2012, Hauohu, Rv. 252062; Sez. I, 25 maggio 2012, n. 26899, Harizi, Rv. 253084; Sez. VI,
16 maggio 2013, n. 21982, Ingordini, Rv. 255674).
6. Una perdurante e significativa eco della criticata equiparazione tra abrogazione e illegittimità costituzionale della norma di legge affiora anche nell’ordinanza di rimessione, là dove si rileva che dottrina e giurisprudenza, nell’affermare il consolidato principio di diritto secondo il quale le sentenze di
accoglimento della Corte costituzionale operano ex tunc perché producono i loro effetti anche sui rapporti sorti anteriormente alla pronuncia di illegittimità, hanno, nel contempo, pacificamente riconosciuto che l’efficacia retroattiva della pronuncia di illegittimità costituzionale incontra un limite, nel senso
che restano definitivamente regolati dalla legge dichiarata invalida i rapporti esauriti. A tal fine – si aggiunge, con richiamo alla sentenza n. 139/1984 della Corte costituzionale – devono considerarsi ‘esauriti’ quei rapporti che hanno trovato la loro definitiva e irretrattabile conclusione mediante sentenza passata in giudicato, i cui effetti non vengono intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalità. A
sostegno dell’affermazione che, nell’ordinamento giuridico, la res iudicata costituisce fondamento del
tutto ragionevole del discrimen tra situazioni uguali, si assume che tale «criterio è codificato nella disciplina del diritto intertemporale della legge penale, in quanto (fatta salva l’eccezione stabilita dall’art. 2,
comma 3, c.p.) la pena inflitta con la condanna irrevocabile resta del tutto insensibile alla sopravvenuta
modificazione, in senso favorevole al reo, delle disposizioni penali, c.d. ex mitior (art. 2, comma quarto,
c.p.)».
Viene così, per un verso, riprodotta la “confusione/sovrapposizione” tra effetti dell’abrogazione di
norma incriminatrice ad opera del legislatore e dichiarazione d’illegittimità costituzionale, obliterando
la ricordata incommensurabile differenza tra i due fenomeni giuridici. Per altro verso, affermando che
«il giudicato rappresenta ‘il punto di arresto’ all’espansione della retroattività delle sentenze della Corte
costituzionale, salvo che concernano la norma incriminatrice», si finisce con il riproporre una concezione “assolutistica” del giudicato, come norma del caso concreto, insensibile alle evenienze giuridiche
successive all’irrevocabilità della sentenza.
6.1. A ben vedere, è proprio la diversa concezione del giudicato il discrimine delle divergenti impostazioni che hanno dato luogo al contrasto di giurisprudenza oggi all’esame delle Sezioni unite.
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La concezione tradizionale del giudicato ha dominato incontrastata per decenni nella giurisprudenza e nella cultura giuridica penalistica, influenzate dall’affermato ed egemone primato del potere statuale su qualsiasi diritto della persona; ha cominciato a essere posta in discussione con la proclamazione dei diritti fondamentali, che ha dato l’avvio ad una mutazione del fondamento e della stessa forza
della cosa giudicata.
La Costituzione della Repubblica e, successivamente, il nuovo codice di procedura penale hanno ridimensionato profondamente il significato totalizzante attribuito all’intangibilità del giudicato quale
espressione della tradizionale concezione autoritaria dello Stato e ne hanno, per contro, rafforzato la valenza di garanzia individuale.
Ritiene il Collegio, con il conforto della migliore dottrina, che – a differenza di quanto accade in materia civile, dove «l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra
le parti, i loro eredi o aventi causa» (art. 2909 c.c.), con ciò assicurando certezza e stabilità dei rapporti
patrimoniali – in ambito penale la forza della cosa giudicata nasce certamente dall’ovvia necessità di
certezza e stabilità giuridica e dalla stessa funzione del giudizio, volto a superare l’incertezza dell’ipotesi formulata dall’accusa a carico dell’imputato per pervenire, secondo le regole del giusto processo,
ad un risultato che trasformi la res iudicanda in res iudicata, ma essa deriva soprattutto dall’esigenza di
porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale e si esprime essenzialmente nel divieto
di bis in idem, che assume nel vigente diritto processuale penale la portata e la valenza di principio generale (Sez. VI, 18 novembre 2004, n. 1892, dep. 2005, Fontana, Rv. 230760; Sez. un., 28 giugno 2005, n.
34655, Donati, Rv. 231799-231800), impedendo la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo
fatto e imponendo al giudice di pronunciare in ogni stato e grado del processo sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, se, nonostante tale divieto, viene di nuovo iniziato procedimento
penale.
Ripercorrendo la storia della giurisprudenza e della dottrina giuridica in età repubblicana, emerge
chiaramente una lenta, ma continua erosione di quello che, già a metà degli anni ‘50 del Novecento, fu
definito il “mito del giudicato” (ovvero la ‘sua esasperante idealizzazione’ o persino “il tabù”, secondo
altre autorevoli definizioni) del quale si sollecitava il superamento culturale, oltre che giuridico, in linea
con i nuovi valori della Costituzione, contrastanti con gli assetti politico-istituzionali dei passati ordinamenti e, soprattutto, antitetici a quelli del precedente regime autoritario, in cui il dogma del giudicato si era intrecciato con la mistica ideologica del diritto e del processo propri dello ‘Stato forte’, al punto
da ritenere che il giudicato ne esprimesse la “voce”.
Il progressivo maturare e diffondersi dei valori costituzionali, che hanno posto in primo piano la necessità di apprestare adeguate tutele ai diritti della persona, preminenti rispetto all’autorità formale del
giudicato, fondata sull’esigenza pratica di assicurare stabilità e certezza agli esiti dei procedimenti penali, ha via via ridimensionato e superato impostazioni e interpretazioni tradizionali, che risentivano di
quella risalente concezione, poco sensibile alle sollecitazioni provenienti da autorevoli voci della dottrina tese a evidenziare le distorsioni e le storture che il mito dell’intangibilità del giudicato determinava
nella interpretazione di taluni istituti di diritto sostanziale.
È significativo che già nei primi anni di vigenza della Costituzione della Repubblica, ossia nel periodo di più forte tensione culturale tra il vecchio Stato e i valori del nuovo ordinamento democratico,
un’autorevole dottrina coglieva il «forte legame tra il problema dei limiti del giudicato ed organizzazione democratica dello Stato», sottolineando che la democrazia «non può tollerare che in situazioni
strettamente inerenti alla personalità possa una esigenza politica, una esigenza cioè afferente all’organizzazione della società, schiacciare un’esigenza di giustizia che tocca interessi fondamentali della persona e per ciò stesso un interesse generale della società».
Riflessioni e considerazioni riprese successivamente, alla fine degli anni ‘60, con specifico riferimento all’istituto della continuazione, per evidenziare le incongruenze e le aporie di una giurisprudenza
ancorata al “pressante fascino” del mito del giudicato, tanto da impedire persino l’applicazione della
norma di attenuazione della pena prevista dall’art. 81 c.p.
Non è certo un caso che i primi interventi legislativi per allargare l’istituto della revisione della sentenza (unico rimedio previsto dall’originario codice Rocco contro una condanna irrevocabile) furono
realizzati con l. 14 maggio 1961, n. 481, a seguito della appassionata denuncia della dottrina degli effetti
nefasti del giudicato elevato a dogma, così come l’importante modificazione dell’art. 81 c.p., introdotta
dall’art. 8, d.l. 11 aprile 1974, n. 99, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 giugno 1974, n. 220, seguì di
appena qualche anno la penetrante riflessione degli studiosi più sensibili ai diritti fondamentali della
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persona, che aveva operato una rilettura costituzionalmente orientata (fondata sui diritti di personalità,
sul diritto di difesa e sul principio della finalizzazione della pena alla risocializzazione del condannato)
di istituti di diritto sostanziale, a cominciare dal rapporto tra giudicato e reato continuato, determinando effetti anche dirompenti su tradizionali indirizzi giurisprudenziali.
6.2. Recependo gli stimoli di quella dottrina, sia pure a distanza di anni e a seguito di «un lungo travaglio ermeneutico iniziato a partire dai primi anni ottanta e culminato verso la fine di tale decennio, la
Corte di cassazione si è assestata sulla regula iuris in base alla quale anche nell’ipotesi in cui il reato per
il quale il giudice procede è più grave di quello già giudicato con sentenza irrevocabile di condanna è
applicabile la continuazione, purché venga accertata l’identità del disegno criminoso dell’uno e dell’altro fatto: con l’effetto, in tema di determinazione della pena, che, individuata la pena base per il reato
più grave sottoposto al suo esame, il giudice vi apporterà l’aumento giudicato equo per la continuazione con il reato già giudicato e meno grave» (così Corte cost., sent. n. 96/1996).
Invero le Sezioni Unite a metà degli anni ‘80, ribaltando un risalente orientamento, ribadito appena
qualche anno prima (Sez. un., del 19 giugno 1982, n. 9559 Alunni, Rv. 155674), statuirono che in tema di
reato continuato la valutazione del giudice circa la identità del disegno criminoso costituisce il solo criterio per la unificazione fittizia quoad poenam della pluralità degli illeciti commessi dall’agente con una
molteplicità di azioni, restandone escluso ogni fattore di carattere temporale. Pertanto al giudice del
merito non è inibita l’applicazione del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 81, commi 1 e 2, c.p.
quando sia stata già pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna nei confronti dell’imputato per
fatto anche meno grave di quello sottoposto al suo giudizio. In tale ipotesi la pena complessiva va determinata sulla base di quella da infliggersi per il reato più grave sottoposto al giudizio in corso e va
apportato l’aumento ritenuto equo in riferimento al reato meno grave già giudicato (Sez. un., 21 giugno
1986, n. 7682, Nicolini, Rv. 173419). Quella decisione ripudiò l’opinione secondo cui, in caso di sentenza
irrevocabile di condanna per reato meno grave rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice, l’applicazione dell’istituto dalla continuazione sarebbe precluso dal principio di intangibilità del giudicato
inibente qualsiasi modifica delle statuizioni contenute nella sentenza irrevocabile.
La Corte (con riferimento agli artt. 90 e 579 del previgente codice di rito, ma con argomentazioni
pienamente valide e condivisibili anche per la disciplina prevista dagli artt. 649 e 669 dell’attuale codice
di procedura penale) negò che una siffatta concezione della res iudicata potesse trovare fondamento
nelle norme processuali penali, «in quanto la norma statuisce in modo inequivocabile solo l’immodificabilità del giudizio sul fatto costituente reato, l’impossibilità di un nuovo esame della condotta del reato escludendo un nuovo procedimento penale a suo carico, sicché nulla consente di ricavare dalla norma l’immodificabilità in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di
condanna».
Al contrario, si affermò che «la pena può subire, invece, quelle modificazioni necessarie imposte dal
sistema». E al rilievo critico che ciò fosse consentito nelle sole ipotesi tassativamente previste dal legislatore, la Corte replicò che, ponendo il sistema limiti alla pretesa immutabilità delle pene, «non può essere escluso che il giudice ricavi per interpretazione un’ulteriore facoltà di incidere sulla pena quando,
come nella specie, deve tener conto di tutte le norme che disciplinano e incidono sulla determinazione
ed esecuzione della pena e trovare una soluzione che escluda un conflitto tra norme nel rispetto della
volontà della legge, di principi di civiltà giuridica – riaffermati in considerazione del favor rei – e della
giustizia sostanziale altrimenti vulnerata da eventi accidentali e indipendenti dal fatto del reo».
Con quella storica decisione il massimo organo di nomofilachia abbandonò finalmente l’anacronistica concezione del giudicato come valore ‘assoluto’, facendosi carico, come è stato rilevato in dottrina,
della «necessità di saggiare empiricamente i contenuti della sentenza irrevocabile, almeno in tutti i casi
in cui si manifestino con evidenza i sintomi di una patologia sostanziale».
Quell’impostazione fu ripresa e fatta propria l’anno successivo dalla Corte costituzionale (sent. n.
115/1987), che riconobbe come evidente la disparità di trattamento, a parità di situazioni sostanziali,
rispetto alle ipotesi in cui per tutti i reati si procedeva in unico giudizio, ovvero in cui oggetto del giudizio ancora in corso era il reato meno grave, affermando altresì la violazione del principio di legalità in
quanto, in dipendenza di evenienze meramente processuali, si impediva l’applicazione del più favorevole cumulo giuridico delle pene previsto per le fattispecie di reato continuato. Il Giudice delle leggi –
non potendo adottare una pronuncia additiva di incostituzionalità, non sussistendo un’unica soluzione
costituzionalmente obbligata, bensì un’ampia alternativa di possibili soluzioni adeguatrici – dichiarò
l’inammissibilità della questione, ma – con piena consapevolezza della forte tensione tra autorità del
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giudicato e tutela dei diritti primari della persona – non esitò a pronunciarsi espressamente per la legittimità costituzionale di «possibili soluzioni sul piano interpretativo da parte del giudice ordinario».
All’obiezione circa l’esistenza di una norma di legge processuale a tutela del giudicato (art. 90 c.p.p.
del 1930), che rappresentava l’ostacolo normativo all’applicazione della continuazione quando su talune violazioni fosse caduto il giudicato, la Corte costituzionale, in linea con la soluzione indicata dalle
Sezioni Unite e dalla più autorevole dottrina, replicò affermando che «il principio dell’intangibilità del
giudicato dev’essere rettamente inteso», aggiungendo – in tema di continuazione, ma con evidente indicazione di valenza generale – che, «è proprio l’ordinamento stesso che è tutto decisamente orientato a
non tenere conto del giudicato, e quindi a non mitizzarne l’intangibilità, ogniqualvolta dal giudicato resterebbe sacrificato il buon diritto del cittadino».
Nella successiva sentenza n. 267/1987, ribadendo il suo approdo, la Corte definì «incoerente [...] che
una situazione processuale (giudizio in tempi diversi) impedisca l’applicazione delle disposizioni di favore ad uno o più dei reati così collegati», concludendo che «nemmeno il giudicato può impedire di
applicare l’istituto della continuazione all’intero sviluppo esecutivo dell’intero disegno criminoso».
La Corte costituzionale non mancò di evidenziare che l’orientamento favorevole al “buon diritto”
del cittadino «si va accentuando con le tendenze attuali; considerato che, come già l’art. 632 del Progetto preliminare redatto sulla base della precedente legge-delega, l’attuale per la riforma del rito penale
prevede espressamente che l’operazione di adeguamento della pena al principio fondamentale della
continuazione possa essere affidata persino al giudice dell’esecuzione. Il quale, a differenza del giudice
di cognizione del secondo processo, deve agire sulla base documentale di sentenze tutte passate in giudicato: e tuttavia si ammette che egli possa compiere valutazioni che i giudici della cognizione non avevano fatto o non erano stati in grado di fare» (Corte cost., sent. n. 115/1987).
6.3. Quella previsione, di lì a poco, si realizzò con l’entrata in vigore del codice di procedura penale
del 1988, che introdusse un’innovativa disciplina dell’esecuzione, prevedendo anche una tutela integrativa e correttiva del giudicato a vantaggio del condannato, nel rispetto del principio di finalizzazione
della pena alla rieducazione (art. 27, comma 3, Cost.).
Nella Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, si evidenzia (p. 140) la
«estrema importanza attribuita dal legislatore delegante alla fase dell’esecuzione, quale strumento per
l’attuazione del principio costituzionale dell’umanizzazione della pena da cui deriva poi quello dell’adeguatezza della medesima con riferimento al fine della possibile rieducazione del condannato» e – pur
escludendosi che la delega consentisse l’introduzione del sistema bifasico puro – si qualificano come
«notevoli e penetranti [...] gli strumenti che consentono una modificazione sostanziale della pena inflitta al condannato».
Nell’attuale sistema è prevista una nutrita serie di poteri del giudice dell’esecuzione più o meno incidenti sul giudicato, che la dottrina ha classificato come selettivi (art. 669 c.p.p.), risolutivi (art. 673
c.p.p.), di conversione (art. 2, comma 3, c.p.), modificativi (artt. 672, 676 c.p.p.), ricostruttivi (artt. 671
c.p.p. e 188 disp. att. c.p.p.), complementari e supplenti (art. 674 c.p.p.). Dal contenuto di tali disposizioni emerge con tutta evidenza l’insostenibilità della vecchia concezione circa la natura secondaria e
accessoria della fase esecutiva che, grazie alle nuove attribuzioni del giudice e alla giurisdizionalizzazione del procedimento, ha acquistato una dimensione centrale e complementare a quella della fase di
cognizione, concorrendo, come è stato notato, al «completamento funzionale del sistema processuale».
Il legislatore del 1988 ha pure rafforzato la valenza garantistica dell’autorità del giudicato penale,
tendenzialmente ispirato al favor rei, giacché, per quanto concerne i rapporti tra giudicato penale e
giudizio civile o amministrativo, diversamente da quanto prevedeva il precedente, il vigente codice
esclude la validità erga omnes dell’accertamento dei fatti effettuato in sede penale e riduce fortemente
l’area di efficacia del giudicato penale nei giudizi civili e amministrativi, propendendo per il favor separationis. Né esiste, contrariamente alla previgente disciplina, alcuna disposizione in ordine alla efficacia
del giudicato formatosi nell’ambito di altro procedimento penale. L’art. 238-bis c.p.p. si limita, infatti, a
consentire l’acquisizione in dibattimento di sentenze divenute irrevocabili, ma dispone che esse siano
valutate a norma degli artt. 187 e 192, comma 3, stesso codice, «ai fini della prova del fatto in esse accertato» (Sez. VI, 24 giugno 1998, n. 10136, Ottaviano, Rv. 211566; cfr. altresì Sez. III civ., 02 ottobre 2004, n.
14770, Coppola, Rv. 577228).
Osservazioni e rilievi analoghi furono ripresi dalla sentenza con cui le Sezioni Unite hanno significativamente ampliato (in linea con il superamento della concezione “assoluta” della cosa giudicata) la
possibilità di revisione, operando una svolta interpretativa secondo cui per “prove nuove”, rilevanti a
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norma dell’art. 630, comma 1, lett. e), c.p.p. ai fini dell’ammissibilità della richiesta di revisione, devono
intendersi non solo quelle sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle scoperte successivamente ad essa, ma anche le prove non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non
valutate neanche implicitamente, purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice, e indipendentemente dalla circostanza che l’omessa conoscenza da parte di quest’ultimo sia imputabile a comportamento processuale negligente o addirittura doloso del condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario (Sez. un., 26 settemebre 2001, n. 624,
dep. 2002, Pisano, Rv. 220443).
A giustificazione di tale nuovo approdo interpretativo, nell’approfondita motivazione della decisione
si esprime la chiara consapevolezza della necessità di uscire dalla concezione tradizionale del giudicato,
sottolineandosi la previsione costituzionale dell’art. 24, comma 4, Cost. e la doverosità di «privilegiare le
esigenze di giustizia rispetto a quelle formali dell’intangibilità del giudicato e della certezza del giudicato,
il cui fondamento giustificativo, per quanto rilevante, è di natura eminentemente pratica, così che ben può
essere sacrificato in nome di esigenze che rappresentano l’espressione di superiori valori costituzionali».
7. Al raggiungimento di questo esito hanno dato il loro contributo, sia pure con tempi e intensità diversi, la dottrina giuridica e la giurisprudenza, costituzionale e ordinaria, ma soprattutto, secondo
quanto è stato innanzi accennato, lo stesso legislatore, che ha previsto istituti revocatori volti a porre
rimedio a patologie intervenute nel processo conclusosi con sentenza irrevocabile (artt. 629-647 c.p.p.:
revisione; art. 625-bis c.p.p.: ricorso straordinario per errore materiale o di fatto; art. 625-ter c.p.p.: rescissione del giudicato) ovvero a consentire l’esercizio di poteri da parte del giudice dell’esecuzione anche incidenti sul giudicato (artt. 667-668 c.p.p. relativamente al dubbio sull’identità fisica della persona
detenuta o a persona condannata per errore di nome; art. 669 c.p.p. per l’ipotesi di pluralità di sentenze
per il medesimo fatto contro la stessa persona).
Al di là degli strumenti per rimediare a vizi patologici del giudizio di cognizione, sono state introdotte nell’ordinamento altre possibilità di incidenza sul giudicato per operarne le necessarie correzioni
e integrazioni al fine di dare tutela a valori e diritti in tutto o in parte con esso collidenti.
Basti pensare all’art. 2, terzo comma, c.p. che, per la sopravvenuta modificazione normativa di pena
detentiva in pena pecuniaria, incide direttamente e immediatamente sul giudicato, derogando al principio generale previsto nel successivo quarto comma, secondo cui la legge più favorevole trova il limite
di retroattività nella sentenza irrevocabile; all’ordinamento penitenziario, che consente di intervenire
sul concreto trattamento sanzionatorio in relazione alla condotta del condannato, sicché il giudicato va
considerato intangibile, ma solo «nel senso che non può mai aumentarsi l’afflittività implicita della pena stabilita nella sentenza di condanna» (Corte cost., sent. n. 282/1989), rimanendo invece l’esecuzione
della pena, anche nelle sue modalità e nel quantum, relativamente flessibile in favorem rei, tant’è che è
stato reiteratamente affermato che l’art. 27, terzo comma, Cost. garantisce al condannato «il diritto a
vedere riesaminato se la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo» (Corte cost., sentenze n. 306/1993 e n. 204/1974); alle già richiamate attribuzioni di competenze
al giudice dell’esecuzione previste dal codice di procedura penale, con cui fu abbandonata la visione
dell’esecuzione come mero strumento di attuazione del dictum cognitivo, ciò che implicava che il giudicato fosse assolutamente insensibile alle situazioni insorte successivamente alla sua formazione.
La Corte di cassazione – che già prima dell’entrata in vigore dell’attuale codice di rito aveva ritenuto
«rilevabile anche in sede di esecuzione l’applicazione di una pena illegittima non prevista dall’ordinamento giuridico o eccedente per specie o quantità il limite legale, dato che il principio di legalità della
pena, enunciato dall’art. 1 c.p. ed implicitamente dall’art. 25, secondo comma, Cost. informa di sé tutto
il sistema penale e non può ritenersi operante solo in sede di cognizione» (Sez. V, del 29 aprile 1985, n.
809, Lattanzio, Rv. 169333) – ha poi esplorato le varie e multiformi attribuzioni che il codice attribuisce
alla competenza della fase esecutiva, giungendo alla conclusione che spetta al giudice dell’esecuzione il
compito di decidere con efficacia giurisdizionale su ogni questione inerente al rapporto esecutivo (Sez.
1, 30 ottobre1991, n. 4051, Giacone, Rv. 189756; Sez. I, 12 gennaio 1993, n. 45 Gioffrè, Rv. 193297; Sez. 1,
31 gennaio 1995, n. 602, Razio, Rv. 200496).
Questa linea ermeneutica fu solo momentaneamente interrotta, circa un decennio fa, per il sorgere di
contrasti, in tema di possibilità per il giudice dell’esecuzione di pronunciare la sospensione condizionale della pena in caso di revoca per abolitio criminis di sentenze di condanna che avevano impedito, nel
pregresso giudizio di cognizione, la concessione del beneficio riguardo alla pena inflitta con una successiva sentenza di condanna.
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Il negativo orientamento prevalente, volto a limitare il potere del giudice di concedere la sospensione condizionale soltanto all’ipotesi in cui ciò conseguiva al riconoscimento del concorso formale o della
continuazione, veniva giustificato con il rispetto del principio dell’intangibilità del giudicato e con la
natura eccezionale dei poteri previsti dall’art. 671, comma 3, c.p.p., nonché con la mancanza da parte
del giudice dell’esecuzione dei poteri di compiere la valutazione prognostica e le attività istruttorie
proprie del giudice della cognizione.
A tale orientamento si contrappose un indirizzo favorevole al riconoscimento di tale potere, giustificato dalla considerazione che il legislatore aveva conferito al giudice dell’esecuzione «un’articolata serie
di funzioni finalizzate all’attuazione del principio costituzionale dell’adeguatezza della pena nella prospettiva della sua umanizzazione e della rieducazione del condannato», secondo la nitida affermazione
dell’art. 27, comma 3, Cost., attribuendogli «penetranti strumenti d’intervento, che consentono sostanziali modificazioni del debito punitivo nella sua struttura e nelle concrete modalità del relativo adempimento» (Sez. 3, 20 febbraio 2002, n. 13651, De Filippo, Rv. 221368).
La soluzione negativa, fondata sull’intangibilità del giudicato, fu respinta dalle Sezioni Unite (Sez.
un., 20 dicembre 2005, n. 4687, dep. 2006, Catanzaro, Rv. 232610) che affermarono la possibilità per il
giudice dell’esecuzione – qualora, ex art. 673 c.p.p., pronunci per intervenuta abolitio criminis ordinanza
di revoca di precedenti condanne, le quali siano state a suo tempo di ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena per altra condanna – di poter concedere, nell’ambito dei ‘provvedimenti conseguenti’ alla suddetta pronuncia, il beneficio, previa formulazione del favorevole giudizio
prognostico richiesto dall’art. 164, comma 1, c.p., sulla base non solo della situazione esistente al momento in cui era stata pronunciata la condanna in questione, ma anche degli elementi sopravvenuti.
Nella motivazione posta a fondamento di tale affermazione venne ribadita la doverosità di seguire
l’interpretazione più adeguata ai principi costituzionali, sviluppando tutte le potenzialità applicative
del potere del giudice dell’esecuzione di adottare i provvedimenti conseguenti alla revoca della sentenza, ivi compresa la eliminazione di qualsiasi effetto negativo prodotto dalla sentenza revocata, con il solo limite di quelli divenuti nel frattempo irreversibili.
8. Il processo di erosione dell’intangibilità del giudicato sopra delineato ha subito negli ultimi tempi
una forte accelerazione, sotto la necessità di dare esecuzione all’obbligo di ripristinare i diritti del condannato, lesi da violazioni delle norme della Convenzione europea per la salvaguarda dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali.
La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per la violazione dell’art. 117,
primo comma, Cost., e dell’art. 46 CEDU, dell’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede un diverso
caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del
processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, CEDU, per conformarsi ad una sentenza
definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, ritenendo che non è contraria a Costituzione – pur
nella indubbia rilevanza dei valori della certezza e della stabilità della cosa giudicata – la previsione del
venir meno dei relativi effetti preclusivi in presenza di compromissioni di particolare pregnanza, accertate dalla Corte di Strasburgo, delle garanzie attinenti a diritti fondamentali della persona che, con particolare riguardo alle previsioni dell’art. 6 della Convenzione, trovano ampio riscontro nel vigente testo
dell’art. 111 Cost. (Corte cost., sent. n. 113/2011).
Ciò che più rileva, però, ai fini dell’odierna decisione, è l’approdo giurisprudenziale cui sono recentemente pervenute le Sezioni Unite, con la sentenza Ercolano (Sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, dep.
2014, Rv. 252933– 252934-258649-258650-258651), all’esito di un complesso iter giudiziario che ha visto
l’interazione tra giudice di legittimità e Corte costituzionale.
Di tale decisione, deliberata appena qualche mese fa, è necessario evidenziare non solo le conclusioni, ma anche l’essenziale percorso argomentativo, che fornisce le necessarie repliche, pienamente condivise dal Collegio, alle critiche che l’ordinanza di rimessione e la sentenza Hamrouni hanno mosso
all’opposto maggioritario indirizzo giurisprudenziale.
Chiamate a stabilire se il giudice dell’esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU
con la sentenza 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, possa sostituire la pena dell’ergastolo, inflitta
all’esito del giudizio abbreviato, con la pena di trent’anni di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l’applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole, le
Sezioni Unite hanno dato risposta affermativa, ritenendo che, di fronte a violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, stigmatizzate in sede europea, è doveroso un intervento dell’ordinamento
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giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale,
anche sacrificando il valore della intangibilità del giudicato.
La decisione di rideterminare la pena, incidendo sul trattamento sanzionatorio stabilito dal giudice
della cognizione, è stata emessa dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione
che, in violazione del diritto all’applicazione della legge intermedia più favorevole, sancito dall’art. 7
CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, aveva imposto l’applicazione della pena dell’ergastolo invece che quella della reclusione di trent’anni.
Le Sezioni Unite, con l’ordinanza 19 aprile 2012, n. 34472 che rimise la questione di costituzionalità
alla Corte costituzionale, partendo dal presupposto della praticabilità dell’incidente di esecuzione per
rimuovere quella situazione illegittima, avevano ritenuto che l’ostacolo a rendere direttamente operativa la lex mitior di cui all’art. 30, comma 1, lett. b), l. n. 479/1999 era costituito dall’etichetta nominale di
norma di interpretazione autentica che il legislatore aveva attribuito all’art. 7, comma 1, d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla l. 19 gennaio 2001, n. 4, per determinarne un effetto
retroattivo altrimenti non consentito, e che obbligava l’interprete ad adeguarvisi.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 210 del 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del
predetto art. 7, comma 1, per contrasto con l’art. 117, comma primo, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU.
Nella motivazione della sentenza il Giudice delle leggi ha riaffermato il valore del giudicato, ma ha nel
contempo ribadito che, «nell’ambito del diritto penale sostanziale, è proprio l’ordinamento interno a
reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e
al trattamento punitivo del condannato». L’ordinamento nazionale, infatti, «conosce ipotesi di flessione
dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il
legislatore intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo».
Rimosso l’ostacolo costituito dalla legge pseudo-interpretativa, le Sezioni Unite hanno potuto così
affrontare il problema di fondo costituito dal bilanciamento tra il valore dell’intangibilità del giudicato
e l’intollerabilità dell’esecuzione «di una sanzione penale rivelatasi, successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima», affermando il potere dovere del giudice dell’esecuzione di incidere sul giudicato, e, nella specie, di sostituire, nei confronti del condannato, la pena dell’ergastolo con quella della reclusione di trent’anni.
Ciò che va particolarmente sottolineato di tale pronuncia è la netta e limpida affermazione che «la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua
durata, da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, comma 2 2, e 25, secondo 2, Cost.) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall’art. 27, comma 3, Cost., profili che vengono sicuramente vanificati dalla declaratoria d’incostituzionalità della normativa nazionale di riferimento, perché ritenuta in
contrasto con la previsione convenzionale, quale parametro interposto dell’art. 117, primo comma, Cost.».
Ne consegue che la conformità della pena a legalità «in fase esecutiva deve ritenersi costantemente
sub iudice [...] non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all’esecuzione
di pene non conformi alla CEDU e, quindi, alla Carta fondamentale». Nel bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilità del giudicato e il diritto fondamentale e inviolabile alla libertà personale,
va data prevalenza a quest’ultimo, giacché «il divieto di dare esecuzione ad una pena prevista da una
norma dichiarata illegittima dal Giudice delle leggi è esso stesso un principio di rango sovraordinato –
sotto il profilo della gerarchia delle fonti – rispetto agli interessi sottesi all’intangibilità del giudicato».
Garante della legalità della pena in fase esecutiva è il giudice dell’esecuzione, cui compete, se richiesto
ex art. 666 c.p.p., di ricondurre la pena inflitta a legittimità.
8.1. Va quindi ribadito che, per situazioni quale quella in esame, non può invocarsi l’avvenuto esaurimento del rapporto, che secondo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità costituisce il limite
della retroattività della declaratoria di illegittimità costituzionale.
A sostegno della tesi che il giudicato esaurisce il rapporto, l’ordinanza di rimessione invoca la sentenza della Corte cost. n. 139/1984 (avente ad oggetto norme sui contratti agrari e in materia di affitto
di fondi rustici) che definisce rapporti esauriti «quelli che sul piano processuale hanno trovato la loro
definitiva e irretrattabile conclusione mediante sentenza passata in giudicato, i cui effetti non vengono
intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalità».
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Reputa il Collegio, richiamando quanto osservato al precedente par. 5.2, che tale definizione è in linea di massima corretta per quanto concerne questioni e situazioni diverse dal diritto penale sostanziale. Senza tuttavia dimenticare che, nell’ultimo decennio, anche in campo civile il dogma dell’intangibilità del giudicato, nell’accezione tradizionale che annetteva indistintamente all’irretrattabilità della
decisione d’accertamento forza espansiva esterna e capacità di coprire qualunque antecedente logico,
giuridico o fattuale, è apparso posto in crisi da alcune pronunce della Corte di giustizia europea (sentenza 18 luglio 2007, Lucchini, C-119/05; sentenza 03 settembre 2009, Olimpiclub, C-2/08), che hanno
affermato che il giudicato, così interpretato, non può reggere al contrasto col diritto comunitario imperativo quando sia evocato con riferimento a pronunzia fondata su erronea interpretazione o violazione
delle regole comunitarie (principio seguito, con risultati eversivi del c.d. giudicato esterno, da Cass. civ.
Sez. V, 05/10/2012, n. 16996, Rv. 624024, nonché Sez. V, 19 maggio 2010, n. 12249, a seguito della sentenza Olimpiclub).
L’aspetto decisivo, che segna invece il limite non discutibile di impermeabilità e insensibilità del
giudicato anche alla situazione di sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma
applicata, è costituito dalla non reversibilità degli effetti, giacché l’art. 30, l. n. 87/1953 impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli del giudicato non divenuti nel frattempo irreversibili, ossia
quelli che non possono essere rimossi, perché già ‘consumati’, come nel caso di condannato che abbia
già scontato la pena. È appunto il caso esaminato nella sentenza Sez. I, 30 novembre 2012, n. 49544,
Diallo Bombakar, che ha dichiarato l’inammissibilità per mancanza di interesse del ricorso di un condannato per il reato previsto dall’art. 337 c.p., aggravato dall’art. 61, n. 11 bis, c.p. che aveva espiato
completamente la pena a lui inflitta.
L’esecuzione della pena, infatti, implica esistenza di un rapporto esecutivo che nasce dal giudicato e
si esaurisce soltanto con la consumazione o l’estinzione della pena. Sino a quando l’esecuzione della
pena è in atto, per definizione il rapporto esecutivo non può ritenersi esaurito e gli effetti della norma
dichiarata costituzionalmente illegittima sono ancora perduranti e, dunque, possono e devono essere
rimossi.
8.2. Anche il principio richiamato dall’ordinanza di rimessione, secondo cui la pronuncia della sentenza irrevocabile di condanna esaurisce la ‘applicazione’ di ogni norma penale, non può considerarsi
pertinente. L’affermazione evoca antichi brocardi sulla capacità della sentenza definitiva di creare un
nuovo punto di partenza (originem creat), ai quali, alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento sopra ricordato, può annettersi valore solo nel senso, privato di ogni enfasi, che l’applicazione della norma penale al caso concreto è, sopravvenuto il giudicato, un “atto normativo che genera diritto”. Il giudizio irrevocabile di condanna determina, in altri termini, la delimitazione giuridica dell’azione o dell’omissione punibile che viene a coincidere con quella punita. Ma ciò non può in alcun modo implicare che la
sentenza che genera il comando punitivo del caso concreto si sottragga per questo solo alla gerarchia
delle fonti e che gli effetti da essa prodotti possano resistere indenni alla declaratoria di illegittimità costituzionale della sanzione applicata.
D’altro canto il giudice dell’esecuzione non può liquidare, con l’evocazione del giudicato irrevocabile, l’istanza legittimamente postagli, ex art. 666 c.p.p., da una parte che gli chiede di controllare la legalità della pena ancora in esecuzione. E in tale doveroso controllo, il giudice può trovarsi nella condizione
di rilevare che la pena inflitta è stata determinata sulla base di una norma penale sostanziale, dichiarata
incostituzionale, che egli ha l’obbligo di “disapplicare”.
9. Per quanto concerne lo strumento per intervenire, esclusa in radice, per assoluta mancanza dei
presupposti, la possibilità di attivare il procedimento di revisione previsto dall’art. 630 c.p.p., inapplicabile è anche il rimedio processuale introdotto per procedere alla eliminazione, mediante revoca ex art.
673 c.p.p., della sentenza di condanna nei casi in cui è venuto meno l’illecito penale per intervento del
legislatore o della Corte costituzionale.
Non c’è infatti alcun motivo per revocare un giudicato di condanna la cui parte essenziale, ossia
l’accertamento del fatto costituente reato e la sua attribuzione alla persona condannata, rimane ferma
perché non coinvolta, neppure indirettamente, da una declaratoria di incostituzionalità limitata al trattamento sanzionatorio.
Né la chiara lettera della predetta disposizione consente un’interpretazione che legittimi un intervento del giudice dell’esecuzione sul giudicato formale limitatamente alla parte concernente l’aspetto
sanzionatorio.
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È questo invero il problema affrontato e risolto dalle Sezioni Unite con la sentenza Ercolano: se, al di
là della norma processuale di cui all’art. 673 c.p.p., l’ordinamento contiene altre risorse normative che
consentono di intervenire in caso di dichiarazione d’illegittimità costituzionale di norma attinente soltanto al trattamento sanzionatorio.
L’affermazione del carattere esaustivo della previsione del predetto art. 673, preclusiva di ogni altra
ipotesi di intervento, costituisce una mera petizione di principio e non tiene neppure in considerazione
che quella norma non è neanche idonea a trarre le conseguenze processuali e a legittimare un intervento del giudice dell’esecuzione che renda concreta la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria nei casi previsti dall’art. 2, comma 3, c.p. nel testo oggi vigente.
In linea con la giurisprudenza di legittimità e con quella della Corte costituzionale, per risolvere i
problemi posti dalle declaratorie di incostituzionalità che attengono al solo trattamento sanzionatorio si
può e si deve fare ricorso all’art. 30, legge n. 87/1953, e, in particolare, al suo quarto comma, disposizione tuttora in vigore secondo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, che più volte, dopo
l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, ne hanno fatto applicazione, riconoscendone
pertanto sia la perdurante vigenza sia la diversa efficacia rispetto all’art. 673 c.p.p., questa risultando
più penetrante quanto a effetti, ma con latitudine più ristretta rispetto alla norma della legge del 1953.
Mentre la disposizione dell’art. 673 c.p.p. prevede che il giudice dell’esecuzione revochi la sentenza
di condanna irrevocabile, con cancellazione del dictum del giudice della cognizione e, perciò, con incisione diretta sul giudicato, l’art. 30 della legge n. 87 del 1953 esaurisce la sua valenza demolitoria
sull’esecuzione della sentenza, invalidandone parzialmente il titolo esecutivo, senza alcuna efficacia risolutiva della decisione divenuta irrevocabile (Corte cost., sentenze n. 230/2012 e n. 96/1996).
Del resto, è esattamente ciò che questa Corte aveva ritenuto sotto la vigenza del precedente codice di
rito, quando mancava una norma processuale simile all’art. 673 c.p.p. e, perciò, non era consentita fa
revoca della sentenza neppure a seguito della scomparsa dell’illecito penale (per intervento del legislatore o della Corte costituzionale). In casi siffatti, nonostante fa carenza normativa e pur nel clima culturale del tempo, si ritenne che, anche se l’abolitio criminis non poteva risolvere il giudicato elidendo l’accertamento in esso contenuto, rimaneva invalidato il solo titolo esecutivo, e l’invalidità poteva farsi valere dinanzi al competente giudice dell’esecuzione nella forma degli incidenti di esecuzione (Sez. II, 01
aprile 1974, n. 7011, Cafiandro, Rv. 128214).
L’art. 30, dunque, copre uno spettro più ampio rispetto allo specifico potere concesso dall’art. 673
c.p.p., limitato al venir meno della fattispecie criminosa, cosicché è calzante fa simmetria individuata
tra fa situazione prevista dall’art. 2, comma 3, c.p.p. e quella della dichiarazione di illegittimità della
norma per affermata violazione della CEDU o della Costituzione.
Come sopra osservato, nel codice di rito manca infatti una specifica norma processuale per modificare il giudicato nei casi previsti dall’art. 2, comma 3, c.p.; eppure nessuno dubita che per togliere effetti
alla statuizione del giudicato di condanna a pena detentiva, nelle situazioni prese in esame dallo stesso
legislatore che ha approvato l’art. 14, l. 24 febbraio 2006, n. 85, modificativo dell’art. 2 c.p., sia necessaria
un’ordinanza del giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 666 c.p.p. Non si vede perché fa stessa soluzione non possa adottarsi nella situazione di condanna pronunciata sulla base di una norma, incidente
sul trattamento sanzionatorio, dichiarata incostituzionale dopo l’irrevocabilità della sentenza.
Non sussistendo alcun limite letterale nel testo dell’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953 che escluda dal
suo ambito la dichiarazione d’illegittimità di norma sostanziale non incriminatrice, tale disposizione
ben può – e perciò deve, al fine di riportare a legalità l’esecuzione della pena – essere interpretata nel
senso di consentire l’eliminazione di qualsiasi effetto pregiudizievole derivante da condanna assunta
sulla base di una norma non incriminatrice, che abbia avuto incidenza sul trattamento sanzionatorio.
9.1. Quanto al rilievo della sentenza Sez. I, Hamrouni che la previsione del predetto art. 30, comma
4, l. n. 87/1953 – secondo cui oltre alla cessazione dell’esecuzione cessano anche ‘tutti gli effetti penali’
della sentenza irrevocabile di condanna implicherebbe necessariamente «il radicale presupposto dell’abolitio criminis», deve convenirsi con l’osservazione espressa dalla richiamata prevalente giurisprudenza
secondo cui il riferimento «alla norma dichiarata incostituzionale», contenuto nel richiamato art. 30,
comma 4, se comprende certamente le norme incriminatrici (da qui la necessaria indicazione della cessazione di “tutti” gli effetti penali), non esclude affatto le altre norme penali sostanziali incidenti soltanto sul trattamento sanzionatorio.
Né può condividersi la riduttiva l’osservazione contenuta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui
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la Corte costituzionale avrebbe «supposto tuttora vigente» il quarto comma dell’art. 30, legge n. 87/
1953. Il Giudice delle leggi non ha affatto ‘supposto’ tuttora vigente l’art. 30 e, tantomeno, l’ha fatto con
esclusivo riferimento alla lesione della CEDU; ha invece ritenuto pienamente vigente in ogni dimensione l’art. 30, per l’ovvia considerazione che una norma giuridica è vigente o non lo è, secondo le regole
dell’ordinamento nazionale, non potendo sussistere una vigenza normativa limitata o settoriale.
9.2. L’art. 30, proprio al fine di rendere compatibile l’art. 136 con l’art. 1, l. cost. n. 1/1948, integra la
disposizione che prevede la cessazione di efficacia della legge dichiarata incostituzionale, disponendo,
al comma 3, che «Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» e, al quarto comma, che «Quando in applicazione della
norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la
esecuzione e tutti gli effetti penali».
Questi due commi, pur complementari, hanno evidentemente un diverso e autonomo contenuto. Il
terzo comma pone il divieto di applicazione (ovvero l’obbligo di disapplicazione) della norma dichiarata incostituzionale e si rivolge innanzitutto ai giudici, a tutti i giudici, compreso il giudice dell’esecuzione nel momento in cui viene chiamato, da una delle parti legittimate dall’art. 666 c.p.p., a controllare la
legittimità della pena ancora in corso di esecuzione. Il quarto comma impone di far cessare qualsiasi effetto pregiudizievole derivante dalla sentenza di condanna irrevocabile pronunciata in applicazione
della norma dichiarata incostituzionale.
Ciò vuol dire che se, per effetto della sentenza della Corte costituzionale, è venuto meno radicalmente l’illecito penale, cessano l’esecuzione della condanna e tutti gli effetti penali ad essa connessi, situazione espressamente risolta sul piano processuale dall’art. 673 c.p.p.; se è venuta meno la norma applicata per la determinazione della pena inflitta o di parte di essa, deve cessare l’esecuzione della pena o
della parte di pena che ha trovato fondamento nella norma dichiarata incostituzionale.
Non deve meravigliare che tale interpretazione sia stata adottata dalla Corte di cassazione soltanto
in epoca recente. È agevole costatare che i casi di dichiarata incostituzionalità di norme attinenti al solo
trattamento punitivo sono diventati sempre più frequenti negli ultimi anni, in cui il legislatore ha approvato una serie di irragionevoli previsioni sanzionatorie su cui è dovuto intervenire il Giudice delle
leggi.
L’indicata interpretazione si inserisce, peraltro, nella più generale tendenza verso la flessibilità del
giudicato, secondo la ricostruzione innanzi delineata, che ha indicato il senso di marcia della giurisprudenza e dell’ordinamento rispetto al “mito” della intangibilità e che costituisce il contesto generale entro cui intendere il testo dell’art. 30, l. n. 87/1953, la cui lettura per lungo tempo è stata fortemente condizionata dal ricordato clima culturale entro cui vivevano i valori costituzionali nei primi decenni
dell’ordinamento repubblicano, quando taluni autori interpretavano l’art. 30, l. n. 87/1953, e persino
l’art. 136 Cost., alla luce dell’art. 2 del codice penale Rocco, secondo l’antico costume di leggere e interpretare il nuovo per assorbirlo nel vecchio. Non diversamente, la giurisprudenza per lungo periodo ritenne che «gli artt. 136 della Costituzione e 30, comma 3, l. 11 marzo 1953, n 87, disponendo che la norma dichiarata incostituzionale cessa di avere efficacia e non può avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione della Corte costituzionale, riproducono il principio di diritto
sancito dall’art 11, primo comma, delle disposizioni sulla legge in generale, secondo cui la legge non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo. Il quarto comma del citato art. 30 è in armonia con
la normativa sulla successione delle leggi penali nel tempo, poiché l’effetto della declaratoria d’illegittimità costituzionale di una norma che prevede e punisce un determinato reato, è analogo a quello disposto dall’art. 2 c.p., che contempla l’ipotesi di abrogazione espressa di una norma penale sostanziale;
infatti in entrambi i casi, se vi e stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali» (Sez. I, 18
marzo 1966, n. 485, Mello, Rv. 101422).
La nuova lettura dell’art. 30 s’impone, dunque, nell’ambito della nitida emersione della differente
incidenza sull’ordinamento della successione della legge nel tempo per effetto di una nuova valutazione storico-politico-sociale del legislatore e della declaratoria di illegittimità costituzionale per invalidità
della norma dovuta a violazione della Costituzione.
10. Secondo l’ordinanza di rimessione, «la quaestio iuris in esame non sarebbe assimilabile al caso,
scrutinato dal Giudice delle leggi, della lesione del principio pattizio della applicazione retroattiva della
legge più favorevole al reo, sancito dall’art. 7 della Convenzione per la salvaguarda dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali [...] siccome interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».
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La Corte costituzionale era chiamata ad esaminare la questione rimessa dalle Sezioni Unite, che – ritenendo applicabile l’art. 30, comma 4, in sede esecutiva al fine di conformare il trattamento sanzionatorio inflitto ad un condannato al principio di diritto affermato nel “caso Scoppola” – aveva individuato
nella legge pseudo-interpretativa un ostacolo che non poteva essere superato se non previa declaratoria
di illegittimità costituzionale.
Invece, nella situazione oggi in esame le Sezioni Unite devono solo trarre le conseguenze della declaratoria di incostituzionalità pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 251/2012, sulla
base di quanto è disposto dagli artt. 136, primo comma, Cost., 1 l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1, e 30 l. n.
87/1953, rimanendo «devoluta alla competenza degli organi giurisdizionali l’applicazione in concreto
dei principi che [...] da tale interpretazione derivano» (cfr., ex plurimis, Corte cost., sentenze n. 127/1966
e, più recentemente, n. 210/2013).
10.1. Effettivamente, sia nella sentenza della Corte cost., n. 210/2013 sia nella sentenza Ercolano i
principi di diritto affermati (e particolarmente le conclusioni) appaiono specificamente riferiti alla anomala situazione conseguente alla sentenza pronunciata dalla Corte EDU nel caso Scoppola. E ciò in
quanto, come risulta espressamente dalla stessa sentenza Ercolano, era necessario differenziare la situazione esaminata dal caso di una pena rivelatasi illegittima esclusivamente perché irrogata all’esito di un
giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo, ai sensi dell’art. 6 CEDU: «in questa ipotesi, l’apprezzamento, vertendo su eventuali errores in procedendo e implicando valutazioni strettamente correlate alla
fattispecie specifica, non può che essere compiuto caso per caso, con l’effetto che il giudicato interno
può essere posto in discussione soltanto di fronte a un vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla
medesima fattispecie e attraverso lo strumento della revisione ex art. 630 c.p.p. (come integrato dalla
sentenza n. 113 del 2011 Corte cost.), che comporta la riapertura del processo».
Ma al di là dell’occasione in cui gli indicati principi di diritto sono stati affermati, essi hanno una valenza generale e devono essere estesi alle ipotesi in cui (senza alcun riferimento a sentenze della Corte
EDU), per effetto di una intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma penale sostanziale, diversa da quella incriminatrice, sia ancora in atto una esecuzione di pena ‘illegittima’.
Non esiste alcuna ragione per ritenere flessibile e cedevole il giudicato (quanto al trattamento sanzionatorio) fondato su norme nazionali violatrici della CEDU e, per contro, intangibile quello fondato
su norme dichiarate illegittime per violazione della Costituzione. Da tutto il sistema costruito dalla Corte costituzionale risulta che, per quanto riconosciute di “peculiare rilevanza” nell’ordinamento nazionale, le norme CEDU «si collocano pur sempre a livello sub-costituzionale» (v. Corte cost., sentenze nn.
348 e 349/2007 e n. 236/2011) e sono «norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non
producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali
a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme
interne in eventuale contrasto» {Corte cost., sentenza n. 348/2007); sicché, ove tale eventuale contrasto
non è risolvibile in via interpretativa, la rimozione della norma interna non può che essere oggetto di
sindacato di costituzionalità con riguardo al parametro di cui all’art. 117, comma 1, Cost. (v. per tutte,
Corte cost., sentenza n. 348/2007 citata, nonché n. 349/2007 e n. 236/2011). Sarebbe perciò paradossale
far derivare dalle sentenze di Strasburgo effetti più incidenti e rilevanti rispetto a quelli derivanti da
una sentenza della Corte costituzionale che accerti l’illegittimità ex tunc di una norma su cui era stato
fondato il concreto trattamento sanzionatorio inflitto al condannato.
Se è vero che la conformazione dell’ordinamento al diritto pattizio e convenzionale si fonda sull’adempimento di un obbligo internazionale convenzionale, il rispetto delle norme e dei principi costituzionali è un obbligo, altrettanto cogente, verso cittadini e le altre persone che vivono nell’ordinamento
italiano.
È stato efficacemente affermato che «applicare una pena di misura diversa o con criteri diversi da
quella contemplata dalla legge non può essere ritenuto conforme al principio di legalità» (ex plurimis,
Corte cast., sent. n. 115/1987, che espressamente aderiva ad analoga affermazione dell’ordinanza con
cui la Corte di cassazione aveva avviato l’incidente di costituzionalità).
Orbene, se la legalità si declina soprattutto sul fronte della conformità ai principi costituzionali, far
eseguire una condanna, o una parte di essa, fondata su una norma contraria alla Costituzione, e perciò
dichiarata invalida dal giudice delle leggi, significa violare il principio di legalità.
L’illegittimità dell’esecuzione in atto di una pena determinata sulla base di una norma dichiarata costituzionalmente illegittima dal Giudice delle leggi costituisce il fondamento della sentenza Ercolano. E
tale illegittimità non può avere incidenza diversa a seconda che la dichiarazione di illegittimità costitu AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SENTENZA IRREVOCABILE DI CONDANNA
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zionale sia stata dichiarata per contrasto con l’art. 117 (come nel caso Ercolano, in cui la sentenza Scoppola di Strasburgo ha rappresentato unicamente il presupposto ex artt. 117 Cast. e 7 CEDU, che ha reso
la norma penale interna costituzionalmente illegittima) o con gli articoli 3 o 25, comma 2, o 27, comma
3, della Costituzione ovvero con tutte queste norme contemporaneamente (come caso del divieto di
prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’art. 99, comma 4 c.p., secondo quanto risulta dalla motivazione della sentenza n.
251/2012 della Corte cost.).
10.2. Non può tuttavia sottacersi che, a prima apparenza, la questione oggi in esame sembra diversa
da quella della ‘vicenda Ercolano’, nella quale alla pena illegittima (ergastolo) si doveva sostituire quella (trent’anni di reclusione) che avrebbe dovuto infliggere il giudice della cognizione se non fosse intervenuta la norma pseudo-interpretativa e, perciò incostituzionale, cosicché al giudice dell’esecuzione è
richiesta l’adozione di un provvedimento a contenuto predeterminato.
A ben vedere, però, non dissimile è il caso di un’intervenuta condanna per reato aggravato dalla circostanza di cui all’art. 61, n. 11 bis, c.p. («l’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale»), in cui il giudice dell’esecuzione, nella rideterminazione della sanzione,
è chiamato solamente a compiere un’operazione aritmetica di sottrazione di un frammento di pena, detraendo dalla pena complessivamente inflitta dalla sentenza irrevocabile (pena-base aumentata in ragione della predetta circostanza aggravante) la quantità “illegale” di pena “aggiunta” per effetto della
circostanza aggravante costituzionalmente illegittima.
Differente soltanto per i compiti richiesti al giudice dell’esecuzione, ma non certo per gli effetti sul
condannato che soffre l’esecuzione di una “ingiusta” porzione di pena, è il caso di condanna per reato
in concorso di circostanze eterogenee, con giudizio di equivalenza o di prevalenza delle aggravanti, tra
cui quella prevista dall’art. 61, n. 11 bis, c.p., dichiarata illegittima. In questa ipotesi, il giudizio di valenza e la quantità di pena determinata dal giudice della cognizione hanno dovuto necessariamente essere l’effetto della sussistente aggravante poi dichiarata incostituzionale. È la situazione esaminata da
Sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361, Teteh Assic, Rv. 253338, su ricorso di condannato per reato commesso
in concorso delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 11
bis, c.p., ritenute equivalenti dal giudice della cognizione: in accoglimento del ricorso avverso il provvedimento del giudice dell’esecuzione che aveva rigettato l’istanza di rideterminazione della pena a seguito della sentenza della Corte cost. n. 249/2010, la Corte ha annullato l’ordinanza impugnata, dichiarando la non eseguibilità della sentenza irrevocabile nella parte in cui ha applicato l’aggravante, rinviando al giudice dell’esecuzione per la rideterminazione della pena da eseguire.
Sarebbe del tutto irrazionale consentire la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di
trent’anni di reclusione (come nel caso Ercolano) e ritenere “intangibile” la porzione di pena applicata
per effetto di norme che mai avrebbero dovuto vivere nell’ordinamento: un “sovrappiù” che risulta
l’effetto ancora in atto di una norma senza fondamento, estromessa dall’ordinamento giuridico.
11. La stessa conclusione deve essere adottata allorquando oggetto della declaratoria di incostituzionalità non è una circostanza aggravante (come nel caso della sentenza 249/2010), ma il divieto normativo che inibiva al giudice la possibilità di trarre dalle sue autonome valutazioni il giudizio di prevalenza
delle circostanze attenuanti, così come prevedeva l’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, che modificò il quarto comma dell’art. 69 c.p. La norma, in tema di giudizio di bilanciamento di circostanze eterogenee, stabiliva il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella prevista dall’art. 99,
comma 4, c.p. Come ha rilevato la Corte costituzionale nella sentenza n. 251/2012, per effetto di tale
norma, quando secondo la valutazione del giudice dovesse essere applicata la recidiva reiterata, le violazioni di lieve entità della disciplina degli stupefacenti, per le quali l’art. 73, comma 5, d.p.r. n.
309/1990 prevedeva la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000,
dovevano essere invece punite con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro
260.000. La norma è stata ritenuta contrastante con i principi di ragionevolezza, di uguaglianza e di
proporzionalità della pena. Secondo il Giudice delle leggi, la manifesta irragionevolezza delle conseguenze sul piano sanzionatorio del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al comma 5 dell’art. 73
d.p.r., cit. sulla recidiva reiterata era «resa evidente dall’enorme divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per il reato circostanziato e per la fattispecie base prevista dal primo comma della
disposizione citata e dagli effetti determinati dal convergere della deroga al giudizio di bilanciamento
sull’assetto delineato dallo stesso art. 73 d.p.r., n. 309/1990». Nel caso di recidiva reiterata equivalente
all’attenuante, il massimo edittale previsto dal comma 5 per il fatto di lieve entità (sei anni di reclusio AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SENTENZA IRREVOCABILE DI CONDANNA
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ne) diventava il minimo della pena da irrogare; ciò significava che il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di lieve entità (un anno di reclusione) veniva moltiplicato per sei nei confronti del recidivo reiterato, che subiva così di fatto un aumento incomparabilmente superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, c.p. per la recidiva reiterata, che, a seconda dei casi, era della metà o di due terzi.
In altre parole – precisava la Corte – ove si potessero applicare i criteri stabiliti dall’art. 69, quarto
comma, c.p. nel testo originario – la pena da irrogare in un caso come quello in esame sarebbe stata, a
seconda del tipo di recidiva, di un anno e sei mesi o di un anno e otto mesi, cioè di un anno per il reato
attenuato previsto dall’art. 73, comma 5, d.p.r. cit., aumentato, a seconda dei casi, di sei mesi o di otto
mesi per la recidiva, mentre il giudizio di equivalenza, imposto dalla norma impugnata, determinava
un aumento di cinque anni.
Violato è stato ritenuto pure il principio di proporzionalità della pena (art. 27, comma 3, Cost.), in
quanto la disciplina introdotta dal legislatore del 2005, nel precludere la prevalenza delle circostanze
attenuanti sulla recidiva reiterata, realizzava «una deroga rispetto a un principio generale che governa
la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato
dall’art. 27, comma 3, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle
circostanze», secondo quanto era già stato affermato nella precedente sentenza n. 183/2011.
Il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 73, comma 5, impediva il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena
stabilita dal legislatore per il fatto di lieve entità. L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69,
comma 4, c.p. sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal comma 1 e dal comma 5, dell’art. 73,
che veniva annullata, attribuiva alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato». La Corte ha, perciò concluso, ricordando la sua precedente giurisprudenza, che «la norma censurata è in contrasto anche con la
finalità rieducativa della pena, che implica un costante ‘principio di proporzione’ tra qualità e quantità
della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra».
12.L’esecuzione della pena, nella parte in cui deriva dall’applicazione dell’art. 69, comma 4, c.p. come modificato dall’art. 3, l. 5 dicembre 2005, è pertanto illegittima sia sotto il profilo oggettivo, in quanto derivante dall’applicazione di una norma di diritto penale sostanziale dichiarata incostituzionale dopo la sentenza irrevocabile; sia sotto il profilo soggettivo, giacché, almeno per una sua parte, non potrà
essere positivamente finalizzata alla rieducazione del condannato e costituirà, anzi, un ostacolo al perseguimento di tale scopo perché sarà “inevitabilmente” avvertita come ingiusta da chi la sta subendo,
per essere stata non già determinata dal giudice nell’esercizio dei suoi ordinari e legittimi poteri, ma
imposta da un legislatore che ha violato la Costituzione.
Occorre perciò ribadire che il diritto fondamentale alla libertà personale deve prevalere sul valore
dell’intangibilità del giudicato, sicché devono essere rimossi gli effetti ancora perduranti della violazione conseguente all’applicazione di tale norma incidente sulla determinazione della sanzione, dichiarata
illegittima dalla Corte costituzionale dopo la sentenza irrevocabile.
Il compito di rimuovere tale illegittimità compete al giudice dell’esecuzione, che deve procedere a
quel giudizio di valenza che era stato illegittimamente inibito al giudice della cognizione dal divieto ritenuto costituzionalmente illegittimo.
Correlativamente, in situazioni siffatte, ai sensi degli artt. 655, 656 e 666 c.p.p., compete al pubblico
ministero, nell’ambito delle sue funzioni istituzionali di vigilanza sulla «osservanza delle leggi» e dello
specifico compito di promozione dell’esecuzione penale «nei casi stabiliti dalla legge» (art. 73, comma 1,
ord. giud.), di richiedere al giudice dell’esecuzione, sia all’atto di promovimento dell’esecuzione sia –
come è meritoriamente avvenuto nel caso di specie – nel corso di questa, l’eventuale rideterminazione
della pena inflitta, all’esito del predetto giudizio di valenza. Le ragioni che fondano questa conclusione
risultano già delineate nei paragrafi precedenti, in cui è stata sintetizzata l’evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha via via accresciuto la dimensione della giurisdizione esecutiva.
Deve qui aggiungersi che la maggiore latitudine dei poteri di cui è stato dotato il giudice dell’esecuzione è stata recentemente ribadita dalla Corte costituzionale (nella più volte richiamata sentenza
n. 210/2013), che, nell’esaminare la rilevanza della questione sollevata davanti ad essa dalle Sezioni
Unite, ha condiviso l’individuazione dei possibili strumenti di intervento in executivis nelle disposizioni
del codice di procedura penale che disciplinano i poteri del giudice dell’esecuzione, «che non si limita a
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conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari
casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 c.p.p.)».
In coerenza, la Corte di cassazione ha evidenziato che alla giurisdizione esecutiva sono riconosciuti
«ampi margini di manovra», non circoscritti alla sola verifica della validità e dell’efficacia del titolo esecutivo, ma incidenti anche sul contenuto di esso, «allorquando imprescindibili esigenze di giustizia,
venute in evidenza dopo l’irrevocabilità della sentenza, lo esigano»; ed ha affermato che il procedimento di esecuzione è il mezzo con cui investire il giudice dell’esecuzione «di tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l’esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo» (Sez. un., n. 18821/2014, Ercolano, cit.).
Né a tale conclusione può opporsi la supposta carenza di poteri valutativi da parte del giudice
dell’esecuzione giacché, da un lato, penetranti poteri di accertamento e di valutazione, ben più complessi di quelli richiesti da un giudizio di comparazione tra circostanze, sono stati espressamente attribuiti dal legislatore a tale organo in materia di concorso formale e reato continuato (art. 671 c.p.p.). E
ciò è stato previsto dal legislatore per rimediare al limite di conoscenza e di conoscibilità che impedisce
al giudice della cognizione di esaminare e valutare l’eventuale sussistenza del medesimo disegno criminoso tra reati separatamente giudicati. Nel nostro caso, il giudice dell’esecuzione è chiamato ad intervenire per rimediare ad un limite normativo di operatività, imposto dalla disposizione poi ritenuta
costituzionalmente illegittima, che inibiva al giudice della cognizione di procedere al giudizio di prevalenza della circostanza attenuante sulla recidiva di cui al comma quarto dell’art. 99 c.p.
La possibilità di avvalersi di poteri valutativi non si fonda soltanto su quanto il legislatore ha specificamente previsto con gli artt. 671 e 675 c.p.p., ma anche, come è stato già affermato dalla Corte di cassazione, sulla razionalità del sistema processuale: infatti, una volta «che la legge processuale demanda
al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari
all’esercizio di quella medesima funzione» (Sez. un., n. 4687/2006, Catanzaro, cit.).
Ovviamente, nell’esercizio di tale potere-dovere, il giudice dell’esecuzione non ha la stessa libertà
del giudice della cognizione, dovendo procedere – non diversamente da quanto è previsto negli artt.
671 e 675 c.p.p., – nei limiti in cui gli è consentito dalla pronuncia di cognizione, ossia potrà pervenire al
giudizio di prevalenza sempre che lo stesso non sia stato precedentemente escluso nel giudizio di cognizione per ragioni di merito, cioè indipendentemente dal divieto posto dall’art. 69, quarto comma,
c.p.: in sintesi, le valutazioni del giudice dell’esecuzione non potranno contraddire quelle del giudice
della cognizione risultanti dal testo della sentenza irrevocabile.
Tali valutazioni potranno essere assunte, se necessario, mediante l’esame degli atti processuali, ai
sensi dell’art. 666, comma 5, c.p.p., che autorizza il giudice ad acquisire i documenti e le informazioni
necessari e, quando occorre, ad assumere prove nel rispetto del principio del contraddittorio.
D’altro canto, con riferimento al caso che qui viene specificamente in questione, il giudice non può
trascurare di considerare che recentemente la Corte costituzionale (sent. n. 32 del 2014) ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 21 febbraio 2006, n. 49, i quali hanno unificato il trattamento sanzionatorio, in precedenza differenziato, previsto dal d.p.r. n. 309/1990 per i reati aventi ad oggetto le
c.d. ‘droghe leggere’ e per quelli concernenti le c.d. “droghe pesanti”.
A seguito di tale declaratoria di illegittimità costituzionale sono tornati a ricevere applicazione l’art.
73 del medesimo d.p.r. e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione
precedente, che prevedeva pene edittali notevolmente più lievi con riferimento al possesso, cessione
etc., della c.d. droghe leggere.
Ciò significa che all’esito del giudizio di bilanciamento tra la recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p.,
e la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. cit., occorrerà tenere conto di quest’ultima
disposizione come ripristinata a seguito della predetta sentenza.
È appena il caso di precisare – considerate le argomentazioni che precedono sulla differenza tra effetti
della successione delle leggi penali, disciplinati dall’art. 2 c.p. e quelli della declaratoria di illegittimità costituzionale di norma penale sostanziale incidente sul trattamento sanzionatorio – che, intervenuta
l’irrevocabilità della sentenza di condanna, al giudice dell’esecuzione è inibito, ai sensi dell’art. 2, comma
4, c.p., applicare norme più favorevoli eventualmente medio tempore approvate dal legislatore.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SENTENZA IRREVOCABILE DI CONDANNA
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ELGA TURCO
Dottore di ricerca – Università del Salento
Illegittimità costituzionale di una norma penale
non strettamente incriminatrice e rimodulazione
della pena in executivis: un altro passo verso la graduabile
erosione del “mito del giudicato”
Unconstitutionality of a criminal rule not strictly incriminatory
and remodeling of the punishment “in executivis”:
a another step towards the erosion of "the myth of the judged"
Nella piena consapevolezza della necessità di dover abbandonare il concetto tradizionale di giudicato – imperniato
sul principio di “intangibilità” – in nome di una concezione moderna, elastica e garantista del sistema giuridico,
fondata sulla prevalenza del principio del favor libertatis, le Sezioni Unite chiariscono ogni dubbio – presupposti,
base giuridica, limiti – circa la possibilità per il giudice dell’esecuzione di rimodulare in melius la pena inflitta a fronte della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale non strettamente incriminatrice.
In full awareness of the need to abandon the traditional concept of res judicata – based on the principle of the "inviolability" – in the name of a modern conception, elastic and garantiste of the legal system, based on the prevalence of the principle of "favor libertatis", the Joint Sections clarify any doubt – assumptions, legal basis, limits –
about the possibility for the judge to remodel in melius the punishment imposed after the declaration of unconstitutionality of a criminal rule not strictly incriminatory.
RILIEVI INTRODUTTIVI
A distanza di poco più di cinque mesi dal deposito della sentenza con cui le Sezioni Unite, in materia di
giudizio abbreviato, hanno posto fine alla complessa vicenda dei “fratelli minori di Scoppola” 1 – riconoscendo al giudice in executivis il potere di “infrangere” il giudicato e sostituire la pena dell’ergastolo
con quella di trent’anni di reclusione, prevista dalla più favorevole norma vigente al momento della richiesta ex art. 438 c.p.p. 2 – un’altra pronuncia, sempre a Sezioni Unite, imprime un indelebile suggello
1
L’espressione è di F. Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle Sezioni Unite che chiude la saga dei “fratelli minori” di Scoppola, in Dir. pen. cont., I, 2014, p. 250.
2
Un brevissimo excursus sulla controversa questione appare doveroso. L’imputato Scoppola chiede il rito abbreviato quando, per il reato contestatogli, l’allora vigente art. 442 c.p.p. prevedeva, in caso in condanna, che alla pena dell’ergastolo, con o
senza isolamento diurno, fosse sostituta la pena di trent’anni di reclusione. Subito dopo la relativa istanza, interviene una norma di interpretazione autentica – l’art. 7 d.l. 24 novembre 2000, n. 341 (conv. in l. 19 gennaio 2001, n. 4) – la quale stabilisce, in
malam partem, che l’ergastolo con isolamento diurno andava sostituito con il solo ergastolo. Ritrovato, così, condannato ad una
pena più severa di quella prevista al tempo in cui aveva formulato la domanda di accesso al rito alternativo, Scoppola propone
ricorso alla Corte di Strasburgo che condanna l’Italia per violazione dell’art. 7 Cedu (Corte e.d.u., 17 settembre 2009, Scoppola c.
Italia). In quest’occasione, la Corte europea precisa come il citato art. 7, consacrando il principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale, imponga di infliggere al reo la pena più mite tra quelle stabilite dalla legge nell’arco temporale che
va dalla commissione del fatto al giudizio, irrigidendo, in tal modo, nel nostro ordinamento nazionale quanto previsto dall’art.
2, comma 4, c.p. con mera forza di legge ordinaria. La Corte di Cassazione – successivamente adita con ricorso straordinario ex
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DI UNA NORMA PENALE
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in materia di poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena da parte del giudice dell’esecuzione.
E il messaggio lanciato qualche mese addietro – così sintetizzato 3: «se una pena è stata inflitta sulla
base di una legge illegittima, anche la sua esecuzione dovrà considerarsi illegittima; e in uno Stato di
diritto non può non esserci un giudice che faccia cessare l’esecuzione di una tale pena, ovvero la riduca
a misura legittima, una volta che sia stata dichiarata l’illegittimità della legge sulla cui base essa è stata
inflitta» –, viene recepito in toto e trasformato in un principio solenne, che ha un impatto potenzialmente dirompente, perché vede, come legittimi destinatari, non la ristretta famiglia di “Scoppola e fratelli”,
bensì tutti i condannati in via definitiva la cui pena sia stata determinata, in sede di cognizione, sulla
base di norme penali sostanziali non propriamente “incriminatrici” dichiarate poi illegittime dalla Corte costituzionale con pronunce idonee a mitigare il trattamento sanzionatorio non integralmente eseguito, che hanno ora il diritto di chiedere e ottenere il “travolgimento” della res iudicata, affinché le rispettive pene siano ricondotte ad una dimensione “costituzionalmente” legittima.
Palese l’intento della Suprema Corte: “cancellare” ciò che rimane del retaggio di una anacronistica
visione autoritaria dell’ordinamento giuridico, imperniata sul principio di “intangibilità” del giudicato
– quale regola generale di ordine pubblico finalizzata a garantire la certezza e la stabilità delle statuizioni giurisdizionali aventi ad oggetto la responsabilità penale del condannato e la pena a quest’ultimo
infliggibile 4 – in nome di una concezione moderna, elastica e garantista, che consente la “permeabilità”
del giudicato in funzione di valori – quali l’inviolabilità della libertà personale, il finalismo rieducativo
e la proporzionalità della pena – di sicuro prevalenti, nel bilanciamento costituzionale, rispetto a quello
della certezza del diritto.
art. 625-bis c.p.p. – ridetermina la pena inflitta a Scoppola in quella di trent’anni di reclusione, espressamente invocando l’art. 46
Cedu, che impone allo Stato rimasto soccombente in un giudizio avanti la Corte europea di conformarsi alla sentenza della Corte medesima. Rimaneva, però, aperto il problema per tutti coloro che, versando in una situazione analoga a quella di Scoppola,
non avevano presentato tempestivo ricorso avanti alla Corte europea e non avevano, pertanto, ottenuto da questa una sentenza
di condanna dello Stato italiano alla sostituzione della pena dell’ergastolo loro inflitta in quella di trent’anni di reclusione. Intervengono, sul punto, le Sezioni Unite (Cass., sez. un., 19 aprile 2012, n. 34233, in Giur. it., 2013, p. 1385, con nota di C. Cravetto,
Osservazioni in tema di successione delle norme sul giudizio abbreviato recanti la previsione della pena; cfr., per un commento, anche F.
Viganò, Una prima pronuncia delle Sezioni Unite sui "fratelli minori" di Scoppola: resta fermo l’ergastolo per chi abbia chiesto il rito abbreviato dopo il 24 novembre 2000, in Dir. pen. cont., 10 settembre 2012), ad avviso delle quali, per queste persone la formazione del
giudicato sulla condanna alla pena dell’ergastolo, in linea di principio, non avrebbe consentito di rimediare alla violazione del
diritto: sarebbe spettato al giudice della cognizione sollevare questione di costituzionalità della norma di legge sopravvenuta,
nella parte in cui essa pretendeva di trovare applicazione retroattiva, anche in danno di chi già avesse formulato domanda di
rito abbreviato nel vigore di una pena più favorevole. A pochissimi giorni di distanza dalla sentenza poc’anzi citata, le Sezioni
Unite, investite del ricorso promosso da un altro condannato che, trovandosi in condizione identica a quella esaminata dalla
Corte di Strasburgo nella sentenza Scoppola, chiedeva la rideterminazione della pena, sollevano questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 d.l. n. 341 del 2000 (conv. in l. n. 4/2001), in riferimento agli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. – quest’ultimo,
in relazione all’art. 7 Cedu, quale norma interposta –, rimettendo, così, al Giudice delle leggi l’adeguamento del nostro ordinamento ai principi sanciti dalla Corte europea nella sentenza Scoppola (Cass., sez. un., 19 aprile 2012, n. 34472, in Cass. pen., 2012,
p. 3969, con nota di M. Gambardella-C. Musio, Overruling favorevole della Corte Europea e revoca del giudicato di condanna: a proposito dei casi analoghi alla sentenza "Scoppola". Di nuovo alla Corte costituzionale il compito di tracciare il confine tra tutela dei diritti fondamentali e limite del giudicato nazionale). E la Corte costituzionale non tarda a pronunciarsi dichiarando costituzionalmente illegittimo il comma 1 del richiamato art. 7 nella parte in cui opera retroattivamente e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della l. 16 dicembre 1999, n. 479, erano stati giudicati successivamente alla data di entrata in vigore del d.l. n. 341/2000 (24 novembre 2000), con conseguente applicazione
del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto (C. cost., sent. 18 luglio 2013 n. 210, in
www.archiviopenale.it). La vicenda si conclude con l’ulteriore pronuncia con cui le Sezioni Unite (Cass., sez. un., 24 ottobre 2013,
n. 18821, in CED Cass. n. 258651), traendo le naturali conseguenze dalla sentenza della Corte costituzionale n. 210 del 2013, consentono al giudice dell’esecuzione di sostituire direttamente a favore del reo la pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di
reclusione: la pena dell’ergastolo inflitta sulla base della norma dichiarata incostituzionale «non può più essere concretamente
eseguita» e «il giudice dell’esecuzione, investito del relativo incidente ad istanza di parte e avvalendosi dei suoi poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena in esecuzione, è legittimato a sostituirla, incidendo sul giudicato (…)».
3
Da F. Viganò, Pena illegittima e giudicato, cit., p. 250.
4
G.D. Perrini, Le Sezioni Unite sul potere del Giudice dell’esecuzione di rimodulare la pena a fronte della dichiarazione di illegittimità
costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice: la definitiva erosione del principio di intangibilità del giudicato,
www.neldiritto.it.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DI UNA NORMA PENALE
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LA VICENDA PROCESSUALE
Partiamo dal caso concreto.
Il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice dell’esecuzione, con provvedimento adottato il 20 febbraio 2013, ai sensi dell’art. 666, comma 2, c.p.p., dichiara inammissibile la richiesta del pubblico ministero che sollecitava la rideterminazione della pena inflitta al condannato dallo stesso Tribunale di Napoli, in sede di cognizione, in data 8 giugno 2011, per il delitto di detenzione al fine di cessione a terzi
di sostanze stupefacenti – marijuana e cocaina – ex art. 73 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309.
A supporto della richiesta, il pubblico ministero invocava la sentenza della Corte costituzionale del
2012 5 che, intervenuta a porre argine ad alcuni dei “devastanti” effetti prodotti sul sistema penale dalla
l. c.d. ex – Cirielli (l. 5 dicembre 2005, n. 251), aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 69, comma 4, c.p. –
come sostituito dall’art. 3 della richiamata legge – nella parte in cui sanciva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante speciale indicata nell’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990 – “fatto di lieve
entità”– sulla circostanza aggravante comune di cui all’art. 99, comma 4, c.p. – “recidiva reiterata”.
A fondamento della pronuncia di inammissibilità, il Tribunale partenopeo evoca il principio di «intangibilità derivante dalla preclusione del giudicato» 6: posto che la citata sentenza della Corte costituzionale non ha prodotto alcuna abolitio criminis, resta precluso al giudice dell’esecuzione il potere di rimodulare ex art. 673 c.p.p. la pena inflitta al condannato dal giudice di cognizione e ritenere, così, prevalente l’attenuante del “fatto di lieve entità” sull’aggravante della “recidiva reiterata”.
Avverso detta pronuncia il locale Procuratore della Repubblica, rilevato che la sentenza di condanna
affermava l’equivalenza tra la contestata recidiva e la circostanza attenuante «sulla mera base del disposto normativo poi dichiarato costituzionalmente illegittimo», propone ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., e la Sezione I, assegnataria del ricorso, evidenziato come, nella
materia de qua, sussistessero divergenti orientamenti giurisprudenziali 7, sollecita 8 l’intervento chiarificatorio delle Sezioni Unite.
IL CONFLITTO GIURISPRUDENZIALE
La quaestio iuris sottoposta all’attenzione del Supremo Collegio attiene, dunque, alla possibilità, per il
giudice dell’esecuzione, di rideterminare in senso più favorevole la pena inflitta allorquando, dopo la
formazione del giudicato penale di condanna, cada sotto la scure della Corte costituzionale una norma
penale sostanziale non stricto sensu incriminatrice ma, tuttavia, incidente negativamente sul trattamento
sanzionatorio riservato al reo 9. Quaestio che non si presta ad una facile soluzione, posta l’inapplicabilità
5
C. cost., sent. 5 novembre 2012, n. 251, in www.cortecostituzionale.it.
6
Il virgolettato è tratto dal provvedimento di inammissibilità adottato dal Tribunale di Napoli.
7
Come avremo modo di evidenziare più avanti, il contrasto giurisprudenziale cui fa riferimento la pronuncia di rimessione
non attiene alla questione oggetto del ricorso ma ad una affine, concernente l’eseguibilità, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale della circostanza aggravante c.d. “di clandestinità” di cui all’art. 61, comma 1, n. 11-bis c.p. (C. cost., sent. 8
luglio 2010 n. 249 in www.giurcost.org), della parte di pena irrogata in applicazione della predetta disposizione.
8
Cfr. l’ordinanza di rimessione: Cass., ord. 31 gennaio 2014 (ud. 20 novembre 2013), n. 4725, in www.giurisprudenzapenale.com.
9
Accanto alla pronuncia n. 251 del 2012, da cui tra origine il giudizio in commento, e a quella, già citata (v. retro, nota 7), n.
249 del 2010, da cui nasce il contrasto giurisprudenziale in esame, altre sentenze della Corte costituzionale sono intervenute,
soprattutto negli ultimi anni, a dirimere questioni di legittimità costituzionale di norme penali non stricto sensu incriminatrici: si
pensi alle pronunce di illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4, c.p., nella formulazione successiva alla novella introdotta dalla legge c.d. ex-Cirielli, nella parte in cui precludeva al giudice penale di considerare prevalenti le circostanze attenuanti
speciali di cui agli artt. 648, comma 2, c.p. (“fatto di particolare tenuità” nel reato di ricettazione) e 609-bis, comma 3, c.p. (“casi
di minore gravità” nel reato di violenza sessuale), sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata di cui all’art. 99, comma
4, c.p. (C. cost., sent. 18 aprile 2014, nn. 105 e 106 in www.cortecostituzionale.it); o a quella con cui, dichiarando costituzionalmente
illegittima la modifica apportata dalla c.d. l. “Fini-Giovanardi” (in particolare, dagli artt. 4-bis e 4-vicies ter d.l. 30 dicembre 2005,
n. 272, conv., con mod., in l. 21 febbraio 2006, n. 49) alla fattispecie di reato di cui all’art. 73 d.p.r. n. 309 del 1990 – consistente nel
superamento della previgente distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere” ai fini della individuazione del trattamento
sanzionatorio riservato al reo –, ha ripristinato l’originario regime “differenziato”, modificando l’ordinamento penale in senso
più favorevole al soggetto ritenuto responsabile del reato di detenzione o cessione di droghe “leggere”, pur non incidendo direttamente sulla norma incriminatrice di cui al citato art. 73 (C. cost., sent. 12 febbraio 2014 n. 32, in G.U. 1a Serie Speciale – Corte
Costituzionale del 5 marzo 2014).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DI UNA NORMA PENALE
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dell’art. 673, comma 1, c.p.p., che consente di rimuovere formalmente la sentenza e il giudicato nei soli
casi di abolitio criminis: locuzione, quest’ultima, che allude ai fenomeni di abrogazione o di dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale “strettamente incriminatrice”, dunque, completa
di precetto penale – comando cristallizzato nella puntuale descrizione della fattispecie astratta di reato
– e sanzione, espressa secondo la tecnica della cornice edittale 10.
Su un primo versante interpretativo si stagliano quelle pronunce che, promotrici del favor libertatis,
individuano nell’art. 30 l. 11 marzo 1953, n. 87 – recante la disciplina della Costituzione e del funzionamento della Corte costituzionale 11 – la base normativa che abilita il giudice dell’esecuzione a rimodulare in melius la pena irrogata al condannato nel caso in esame 12: diversamente dall’art. 673 c.p.p., la richiamata disposizione, nel comma 4, sancendo il divieto generale di esecuzione delle sentenze di condanna pronunciate in applicazione della «norma dichiarata incostituzionale», attiene ai fenomeni caducatori coinvolgenti tutte le disposizioni penali, non solo quelle che prevedono un autonomo titolo di reato
– ergo, le norme incriminatrici in senso stretto –, bensì anche quelle che ineriscono al trattamento sanzionatorio 13.
In senso diametralmente opposto si schierano quelle pronunce che, ancorate a un anacronistico principio di intangibilità della res iudicata penale, sottraggono un potere di siffatta specie al giudice dell’esecuzione, non riuscendone a scorgere il relativo fondamento normativo 14: e, invero – si legge nella motivazione –, l’art. 673 c.p.p., pacificamente inapplicabile perché concerne «il caso della radicale obliterazione del carattere della illiceità penale della condotta, già tipizzata, per effetto della eliminazione di
ogni pena relativa», avrebbe implicitamente abrogato l’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953 che, da un lato,
«si riferisce alle sole norme incriminatrici dichiarate incostituzionali» e, dall’altro, siccome prevede la
cessazione non solo dell’esecuzione, ma anche di «tutti gli effetti penali» della sentenza irrevocabile di
condanna, «implica necessariamente – alla evidenza – il radicale presupposto della abolitio criminis».
In definitiva, integralmente assorbito, nell’art. 673 c.p.p., il contenuto dell’art. 30, comma 4, l. n. 87/
1953, non residua altra possibilità se non quella di ricondurre la fattispecie in esame alla disciplina generale di cui all’art. 2, comma 4, c.p., che, com’è noto, oppone il giudicato quale sbarramento all’applicazione della lex mitior posteriore più favorevole 15.
10
Così G.D. Perrini, Le Sezioni Unite sul potere del Giudice dell’esecuzione di rimodulare la pena, cit.; in arg. cfr. A. Scalfati, La pronuncia di abolitio criminis nel vigente assetto dell’esecuzione penale, in Arch. pen., 1997, p. 61.
11
Il citato art. 30, ai commi 3 e 4, stabilisce quanto segue: «Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal
giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali».
12
Questa impostazione, definita “avanguardista” da A. Franceschini, La fragilità del giudicato al cospetto di una pena costituzionalmente illegittima, in www.neldiritto.it, è stata inaugurata da Cass., sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977, in Cass. pen., 2012, p. 1660, con
nota di M. Gambardella, Annullamento di circostanze aggravanti incostituzionali e revoca parziale del giudicato di condanna, che, intervenuta sul tema delle ricadute prodotte, in sede applicativa, dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della circostanza
aggravante c.d. “di clandestinità” ex art. 61, comma 1, n. 11 bis, c.p., di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 249/2010,
ha affermato il principio della «non eseguibilità del giudicato di condanna per la parte in cui è riferibile all’applicazione della
circostanza aggravante colpita da declaratoria d’illegittimità costituzionale». In senso conforme, Cass., sez. I, 12 giugno 2012, n.
40464, non mass.; Cass., sez. I, 25 maggio 2012, n. 26899, in CED Cass. n. 253084; Cass., sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361, in CED
Cass. n. 253338, le quali tutte hanno affrontato l’identico problema dell’eseguibilità della porzione di pena inflitta in applicazione dell’aggravante prevista dall’art. 61, comma 1, n. 11-bis, c.p..
L’applicabilità dell’art. 30, comma 4, l. n. 87 del 1953 nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme penali
sostanziali diverse da quelle incriminatrici è stata incidentalmente riconosciuta anche da Cass., sez. VI, 16 maggio 2013, n.
21982, in CED Cass. n. 255674 e da Cass., sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 2295, in CED Cass. n. 257767, entrambe relative a vicende
analoghe a quella da cui trae origine il giudizio in commento.
13
In definitiva, il “divieto” in parola può riguardare anche solo una parte dell’esecuzione della sentenza irrevocabile, quale,
appunto, quella relativa alla porzione di pena irrogata in attuazione della norma dichiarata costituzionalmente illegittima.
14
L’impostazione – definita “integralista” da A. Franceschini, La fragilità del giudicato, cit. – propugnata anche in sede di rimessione della decisione alle Sezioni Unite in commento (Cass., sez. I, 20 novembre 2013, n. 4725, cit.) –, è stata aperta da Cass.,
sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640, in CED Cass. n. 253384; pronuncia che trae origine – come la contrapposta n. 977/2011 – dalla
sentenza di illegittimità costituzionale n. 249/2010 dell’aggravante “di clandestinità” ex art. 61, comma 1, n. 11 bis, c.p.
15
In proposito, nell’ordinanza di rimessione si fa esplicito riferimento alla giurisprudenza successiva a una risalente declaratoria di illegittimità costituzionale (C. cost., sent. 27 maggio 1982 n. 103 in G.U. 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale n.150 del 2
giugno 1982) che aveva dichiarato illegittimi gli artt. 186, secondo ed ultimo comma, e 189, comma 1, c.p.m.p. (nel testo previgente alla novella del 26 novembre 1985, n. 689) nella parte relativa alle sanzioni, senza incidere sul perdurante carattere crimi AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DI UNA NORMA PENALE
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LA SOLUZIONE DELLE
GIUDICATO
74
SEZIONI UNITE: LA PREVALENZA DEL FAVOR LIBERTATIS SULL’INTANGIBILITÀ DEL
Per le Sezioni Unite il giudicato non rappresenta “il punto di arresto” all’espansione della retroattività
delle pronunce di incostituzionalità incidenti su norme penali non strettamente incriminatrici che ridondino in melius per il condannato: il giudice dell’esecuzione può rimediare all’“incompletezza” della
formulazione testuale contenuta nell’art. 673 c.p.p. utilizzando l’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953.
Così, il Supremo Collegio prende appassionatamente le difese del favor libertatis e, con una certa durezza, frantuma puntigliosamente l’intero apparato argomentativo dell’ordinanza di rimessione – che
propugna l’impostazione avversa –, portando alla luce le fragili fondamenta su cui esso poggia.
Innanzi tutto, l’art. 673 c.p.p. non ha implicitamente abrogato l’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953: la
perdurante operatività nell’ordinamento giuridico di simile disposizione, oltre ad essere stata affermata
ripetutamente dalla Corte costituzionale 16 e dalla Corte di cassazione 17, si evince chiaramente dal principio generale secondo cui non può esservi abrogazione implicita di una disposizione sostanziale ad
ampio spettro – qual è il comma 4 del richiamato art. 30 – ad opera di una norma processuale di latitudine inferiore quale l’art. 673 c.p.p.
In secondo luogo, la disciplina di cui all’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953 non attiene solo alle disposizioni penali incriminatrici in senso stretto: la citata norma – conforme, al pari del meccanismo ex art.
673 c.p.p., «ai principi di personalità, proporzionalità e rimproverabilità desumibili dall’art. 27 Cost.,
che investono la funzione della pena dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione»,
e, più in generale, «all’insieme dei principi costituzionali che regolano l’intervento repressivo penale e
che impediscono di ritenere costituzionalmente giusta, e perciò eseguibile, anche soltanto una frazione
di pena, se essa consegue all’applicazione di una norma contraria a Costituzione» –, contiene un riferimento volutamente generico, che consente di estendere il suo raggio d’azione a tutte le disposizioni penali sostanziali: certamente a quelle incriminatrici (da cui il riferimento alla cessazione di «tutti gli effetti penali della condanna»), ma anche a quelle relative al trattamento sanzionatorio, in conformità alla
nozione ampia di “norma penale sostanziale”, che si configura «tutte le volte in cui è stabilita una sanzione penale per un aspetto dell’agire umano, essendo indifferente, da tale punto di vista, che la norma
disciplini un autonomo titolo di reato o una circostanza aggravante» 18.
In terzo luogo, il fenomeno che deriva dalla declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma
penale che colpisce la sola parte relativa alla sanzione non può essere ricondotto alla disciplina di cui
all’art. 2, comma 4, c.p. Limitandosi a trarre logiche conclusioni da affermazioni consolidate da decenni
nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, le Sezioni Unite precisano, sul punto, come l’impostazione avversa finisca per “confondere”/”sovrapporre” due fenomeni giuridici che «non sono identici tra loro, si muovono su piani diversi, con competenze diverse e con effetti diversi» 19: l’abrogazione
conseguente a ius superveniens – che consiste in un mutamento di disciplina che presuppone una «diversa valutazione del disvalore penale di un fatto, fondata sull’opportunità politica e sociale, operata
dal Parlamento» – è regolata dall’art. 2, comma 4, c.p.; in quanto fenomeno “fisiologico” dell’ordinamento giuridico, risulta perfettamente giustificabile il limite dell’intangibilità del giudicato, teso a conferire certezza e stabilità ai rapporti giuridici già presi in considerazione, con carattere di definitività,
dal potere giurisdizionale.
noso dei fatti. La Cassazione ritenne che la sentenza della Corte costituzionale non poteva produrre effetti sulle situazioni esaurite attraverso il giudicato: e ciò perché la fattispecie non era riconducibile al comma 4 dell’art. 30 l. n. 87 del 1953 – riguardante,
con effetti analoghi a quelli del comma 2 dell’art. 2 c.p., il caso dell’abolitio criminis – bensì a quella dell’allora comma 3 del citato
art. 2 c.p., secondo cui disposizioni più favorevoli al reo non sono operative qualora sia stata pronunciata sentenza irrevocabile
(Cass., sez. 1, 1˚ luglio 1983, n. 1375, in CED Cass. n. 160030).
16
V., tra le altre, Cort. cost., sent. n. 210 del 2013, cit.; C. cost., ord. 29 aprile 1999 n. 165, in www.giurcost.org; Corte cost., ord.
7 maggio 1997 n. 130, in www.giurcost.org.
17
Che più volte ne hanno fatto applicazione: tra le tante, cfr. Cass. sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 2295, cit.; Cass., sez. VI, 16
maggio 2013, n. 21982, cit.; Cass., sez. I, 12 giugno 2012, n. 40464, cit.; Cass., sez. I, 25 maggio 2012, n. 26899, cit.; Cass., sez. I, 24
febbraio 2012, n. 19361, cit.; Cass., sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977, cit.
18
Così si esprime Cass., sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977, cit., e numerose altre a essa conformi, tra cui: Cass., sez. VI, 16 maggio
2013, n. 21982, cit.; Cass., sez. I, 25 maggio 2012, n. 26899, cit.
19
La locuzione è tratta dal Supremo Collegio da C. cost., sent. 5 giugno 1956, n. 1, in www.giurcost.org.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DI UNA NORMA PENALE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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La declaratoria di illegittimità costituzionale – attestante che quella norma, di qualsiasi natura essa
sia, incompatibile ab origine rispetto all’ordinamento costituzionale, «mai avrebbe dovuto essere introdotta
(…)» – trova aliunde la propria regolamentazione: in particolare, essa si desume dal complesso unitario
costituito dall’art. 136, comma 1, Cost., dalla l. costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e dalla più volte citata l.
n. 87 del 1953, che sanciscono il principio assoluto, senza deroghe, della “cessazione di efficacia 20”/
“divieto di applicazione” 21 della norma dichiarata incostituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. In quanto evento di “patologia normativa” 22, appare assolutamente comprensibile la mancata menzione del limite dell’intangibilità del giudicato: se, infatti, la pronuncia di incostituzionalità certifica la definitiva uscita dall’ordinamento di una norma geneticamente invalida –
che, in quanto tale, deve considerarsi tamquam non fuisset –, tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da
una sentenza penale di condanna fondata, sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico 23.
Infine, l’affermazione – contenuta sempre nell’ordinanza di rimessione – secondo cui «il giudicato
rappresenta “il punto di arresto” all’espansione della retroattività delle sentenze della Corte costituzionale, salvo che concernano la norma incriminatrice», muove da una concezione “assolutistica” di giudicato penale – quale «norma del caso concreto insensibile alle evenienze giuridiche successive all’irrevocabilità della sentenza» – che si innesta perfettamente nel contesto culturale ante Costituzione – caratterizzato dall’affermato ed egemone primato del potere statuale su qualsiasi diritto della persona –, ma
che stride del tutto col nuovo scenario costituzionale, il quale impone una “rilettura” dell’istituto, fondata sui diritti della personalità, sul diritto di difesa e sul principio della “finalizzazione” della pena alla risocializzazione del condannato.
Più precisamente, ricostruito in chiave storico–politica, prima ancora che giuridica, quel processo di
continua e lenta erosione di ciò che, già a metà del Novecento, veniva definito il “mito del giudicato” –
al quale hanno contribuito, sia pure con tempi e intensità diversi, dottrina 24, giurisprudenza 25 e legisla-
20
L’art. 136, comma 1, Cost. sancisce che «Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di
atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione».
21
L’art. 30, comma 3, l. n. 87 del 1953 stabilisce che «Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione
dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione».
22
Sul punto, le Sezioni Unite richiamano Cass., sez. un., 7 luglio 1984, n. 7232, in CED Cass. n. 165563, la quale, in un panorama giurisprudenziale ancora caratterizzato da una notevole confusione tra i due istituti, aveva rilevato come la declaratoria di
incostituzionalità di una norma abbia efficacia invalidante e non abrogativa, poiché riconducibile a un fenomeno patologico,
non già fisiologico (come lo ius superveniens), dell’evoluzione dell’ordinamento giuridico.
23
Come è noto, a tale principio, la giurisprudenza, pur senza esplicita base testuale nell’art. 136 Cost. e nell’art. 30 l. n. 87 del
195, ha opposto il limite delle “situazioni giuridiche esaurite”, rispetto alle quali non sarebbe possibile ripristinare lo status quo
ante. Sul punto v. infra, § successivo.
24
V., ex plurimis, A. Giovene, Giudicato, in Dig. pen., V, Torino, 1991, p. 423 ss. che riteneva superata la concezione tradizionale di
“giudicato penale” sulla base, altresì, di alcuni argomenti di teoria generale del diritto, secondo cui il “giudicato penale” sarebbe
caratterizzato da una struttura bipartita, componendosi, infatti, di una porzione intangibile, concernente l’accertamento del fatto e
della responsabilità personale del reo e di una porzione flessibile, contenente, appunto, la disciplina sanzionatoria del caso concreto
sottoposto a giudizio, funzionale al perseguimento degli obiettivi costituzionali di proporzionalità della pena e di rieducazione del
condannato, fisiologicamente manipolabile ad opera del giudice dell’esecuzione e della magistratura di sorveglianza, in funzione
teleologicamente orientata a perseguire l’obiettivo costituzionale della rieducazione del condannato (art. 27, comma 3, Cost.).
25
V. C. cost., sent. 25 marzo 1996 n. 96, in www.giurcost.org; C. cost., sent. 3 luglio 1987 n. 267, in www.giurcost.org; C. cost.,
sent. 27 gennaio 1987 n. 115, in www.giurcost.org; nonché Cass., sez. un., 21 giugno 1986, n. 7682, in Giur. it., 1987, p. 34, e Cass.,
sez. un., 19 giugno 1982, n. 9559, in Giur. it., 1983, p. 314, le quali, dopo un lungo travaglio ermeneutico, hanno riconosciuto, in
ossequio ai principi del favor rei, la possibilità, per il giudice dell’esecuzione, di applicare il vincolo della continuazione di cui
all’art. 81 c.p. (con conseguente diminuzione della pena) successivamente alla formazione del giudicato penale di condanna.
Cfr., altresì, in tema di sospensione condizionale della pena, C. cost., sent. 8 luglio 1993 n. 306, in www.giurcost.org, secondo
la quale l’art. 27, comma 3, Cost. garantisce al condannato «il diritto a vedere riesaminato se la quantità di pena espiata abbia o
meno assolto positivamente al suo fine rieducativo»; Corte cost., 25 maggio 1989 n. 282, in www.giurcost.org, ad avviso della quale il giudicato va considerato intangibile, ma solo «nel senso che non può mai aumentarsi l’afflittività implicita della pena stabilita nella sentenza di condanna», rimanendo invece l’esecuzione della pena, anche nelle sue modalità e nel quantum, relativamente flessibile in favorem rei; cfr., anche, Cass., sez. un., 20 dicembre 2005, n. 4687, in CED Cass. n. 232610, che ha affermato la
possibilità per il giudice dell’esecuzione – qualora, ex art. 673 c.p.p., pronunci, per intervenuta abolitio criminis, ordinanza di revoca di precedenti condanne, le quali siano state di ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena per altra
condanna – di concedere, nell’ambito dei «provvedimenti conseguenti» alla suddetta pronuncia, il beneficio de quo.
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tore 26 e che ha subito recentemente una forte accelerazione, complice la necessità di dare esecuzione
agli obblighi comunitari 27 –, le Sezioni Unite ritengono doveroso «privilegiare le esigenze di giustizia
rispetto a quelle formali dell’intangibilità del giudicato», il cui fondamento giustificativo, «per quanto
rilevante, è di natura eminentemente pratica, così che ben può essere sacrificato in nome di esigenze
che rappresentano l’espressione di superiori valori costituzionali».
In definitiva, chi ha subito in sede di condanna un trattamento sanzionatorio determinato alla luce
di una norma poi dichiarata incostituzionale ha patito una pena illegittima sia sotto un profilo oggettivo – in quanto derivante dall’applicazione di una norma di diritto penale sostanziale dichiarata “geneticamente invalida” dalla Consulta dopo la sentenza irrevocabile –, sia sotto il profilo soggettivo, «in quanto, almeno per una sua parte, non potrà essere positivamente finalizzata alla rieducazione del condannato e costituirà, anzi, un ostacolo al perseguimento di tale scopo perché sarà
inevitabilmente avvertita come ingiusta da chi la sta subendo, per essere stata determinata dal
giudice nell’esercizio dei suoi legittimi poteri, ma imposta da un legislatore che ha violato la Costituzione».
SEGUE: I LIMITI ALLA “TANGIBILITÀ” DEL GIUDICATO
Chiarito che al profondo ridimensionamento del significato “totalizzante” attribuito al giudicato corrisponde un rafforzamento della sua valenza di garanzia individuale – dunque, suscettibile di limitazioni
fondate sulle esigenze sottese al principio del favor libertatis –, le Sezioni Unite si preoccupano di fissare
gli argini a tale proclamata “tangibilità” del giudicato, insormontabili anche dalla “forza” retroattiva
delle pronunce di incostituzionalità incidenti favorevolmente sul trattamento sanzionatorio.
Su un fronte, il rapporto esaurito: “fatta giustizia” 28 in modo definitivo del formalismo al quale una
certa giurisprudenza si ancorava per suffragarne un’idea preclusiva di interventi sul giudicato anche in
caso di dichiarazione di incostituzionalità della norma applicabile 29, per il Supremo Collegio l’elemento
26
Le Sezioni unite passano in rassegna i vari strumenti introdotti dal legislatore che consentono una rimodulazione della
pena inflitta al condannato: come gli istituti “revocatori” volti a porre rimedio a patologie intervenute nel processo conclusosi
con sentenza irrevocabile (artt. 629-647 c.p.p., in tema di revisione; art. 625-bis c.p.p., in tema ricorso straordinario per errore materiale o di fatto; art 625-ter c.p.p., in tema di rescissione del giudicato) e quelli che permettono al giudice dell’esecuzione di incidere sul giudicato (come gli artt. 667-668 c.p.p., in tema di dubbio sull’identità fisica della persona detenuta e persona condannata per errore di nome; l’art. 669 c.p.p., per l’ipotesi di pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona; l’art.
2, comma 3, c.p. per la sopravvenuta modificazione normativa di pena detentiva in pena pecuniaria).
27
Cfr. Corte cost., sent. 7 aprile 2011, n. 113, in www.giurcost.org, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., e dell’art. 46 Cedu – l’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede la possibilità di chiedere
la revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, Cedu, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo:
secondo la Consulta, non è contraria a Costituzione – pur nella indubbia rilevanza dei valori della certezza e della stabilità della
cosa giudicata – la previsione del venir meno dei relativi effetti preclusivi in presenza di compromissioni di particolare pregnanza, accertate dalla Corte di Strasburgo, delle garanzie attinenti a diritti fondamentali della persona che, con particolare riguardo alle previsioni dell’art. 6 Cedu, trovano ampio riscontro nel vigente testo dell’art. 111 Cost.
V., anche, Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, cit., che, all’esito di un complesso iter giudiziario che ha visto l’interazione tra giudice di legittimità e Corte costituzionale (v., sul punto, retro, nota 2), hanno consentito al giudice dell’esecuzione di
sostituire direttamente a favore del reo la pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di reclusione, inflitta all’esito del giudizio
abbreviato, ritenendo che, di fronte a violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, stigmatizzate in sede europea, è
doveroso un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità
convenzionale, anche sacrificando il valore della intangibilità del giudicato.
28
L’espressione è di G. Romeo, Le Sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di pena “incostituzionale”, in Dir. pen.
cont., 17 ottobre 2014.
29
Nell’ordinanza di rimessione si rileva che la giurisprudenza, nell’affermare il consolidato principio di diritto secondo il
quale le sentenze di accoglimento della Corte costituzionale operano ex tunc perché producono i loro effetti anche sui rapporti
sorti anteriormente alla pronuncia di illegittimità, aveva, nel contempo, pacificamente riconosciuto che l’efficacia retroattiva della pronuncia di illegittimità costituzionale incontra un limite, nel senso che restano definitivamente regolati dalla legge dichiarata invalida i “rapporti esauriti”. V., sul punto, la pronuncia della Corte costituzionale (Corte cost., sent. 7 maggio 1984 n. 139, in
www.giurcost.org) in tema di norme sui contratti agrari e in materia di affitto di fondi rustici – evocata nell’ordinanza di rimessione –, che definiva esauriti i rapporti «che sul piano processuale hanno trovato la loro definitiva e irretrattabile conclusione
mediante sentenza passata in giudicato, i cui effetti non vengono intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalità».
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qualificante è costituito dalla “irreversibilità” degli effetti 30; condizione, questa, che si realizza senz’altro qualora la pena, pur costituzionalmente illegittima, sia stata già interamente espiata dal condannato.
In siffatta ipotesi, dunque, l’efficacia retroattiva della sentenza di incostituzionalità non potrebbe, realisticamente, costituire un rimedio alla “patologica” sanzione che, applicata ed eseguita in toto, risulta
oramai “consumata” 31.
Sul secondo fronte, il dictum del giudice di cognizione. Il punto necessita di una regressione.
Le Sezioni Unite fissano non solo la base giuridica sostanziale ma anche quella processuale che consentirebbe al giudice di intervenire sul giudicato di condanna, rimodulando in melius la pena inflitta.
Esclusa in radice la possibilità di attivare il procedimento di revisione di cui all’art. 630 ss. c.p.p. –
«per assoluta mancanza dei presupposti» –, nonché il rimedio ex art. 673 c.p.p. – non sussistendo «alcun
motivo per revocare un giudicato di condanna la cui parte essenziale, ossia l’accertamento del fatto costituente reato e la sua attribuzione alla persona condannata, rimane ferma perché non coinvolta, neppure indirettamente, da una declaratoria di incostituzionalità limitata al trattamento sanzionatorio» –,
ripercorrono il solco già tracciato qualche mese prima con la pronuncia Ercolano 32 e individuano – in
assenza «di altra norma processuale ad hoc» – nell’incidente di esecuzione ex art. 666 c.p.p. il mezzo che
consentirebbe al giudice di “rimuovere” la sopravvenuta illegittimità del titolo esecutivo. Egli, in tale
sede, potrà, dunque, su richiesta del pubblico ministero, procedere a quel giudizio di prevalenza della
circostanza attenuante del “fatto di lieve entità” sulla circostanza aggravante della “recidiva reiterata” –
“illegittimamente” inibito al giudice della cognizione –, utilizzando quegli «ampi margini di manovra»
che non sono circoscritti alla sola verifica della validità e dell’efficacia del titolo esecutivo, potendo, «allorquando imprescindibili esigenze di giustizia, venute in evidenza dopo l’irrevocabilità della sentenza,
lo esigano» 33, incidere anche sul contenuto di esso 34, salvo – ed ecco il limite – il dictum del giudice di
cognizione: in sede esecutiva, a meno di non stravolgere ab imis il volto del processo, il giudice non potrà assumere provvedimenti idonei a contraddire le valutazioni già espresse in sede cognitiva, come risultanti dal testo della sentenza irrevocabile. In conclusione, potrà pervenire al giudizio di prevalenza
sempre che lo stesso non sia stato precedentemente escluso nel giudizio per ragioni di merito, ossia indipendentemente dalla circostanza che illo tempore sussistesse il divieto ex art. 69, comma 4, c.p. 35.
L’ART. 670 C.P.P. QUALE STRUMENTO PROCESSUALE PER RIMODULARE LA PENA IN MELIUS: UNA STRADA
PERCORRIBILE?
Il problema dell’individuazione dello strumento processuale che consente di rimodulare in melius la
pena dopo il passaggio in giudicato della sentenza appare delicatissimo, a fronte del generale principio
scolpito nell’art. 101, comma 2, Cost. – secondo cui il giudice è subordinato soltanto alla legge – e di
quello di legalità ex art. 111 Cost., che informa il “giusto processo” 36.
Condivisibile la scelta delle Sezioni Unite di non far leva sul procedimento di revisione – non rientrando, l’ipotesi de qua, in alcuna di quelle descritte nell’art. 630 c.p.p., peraltro, recentemente integrato
dalla sentenza additiva della Consulta nel noto caso Dorigo 37 –, nonché quella di “accantonare” la disposizione processuale ex art. 673 c.p.p.: come più volte detto, questa norma prende chiaramente in
30
E non più dalla «definitiva e irretrattabile conclusione mediante sentenza passata in giudicato», secondo la tradizionale
definizione data dalla Corte costituzionale con la pronuncia n. 139 del 1984 (v. retro, nota 29).
31
V., sul punto, Cass., sez. I, 30 novembre 2012, n. 49544, ined. – richiamata dalle Sezioni Unite – che ha dichiarato
l’inammissibilità, per mancanza di interesse, del ricorso di un condannato per il reato previsto dall’art. 337 c.p., aggravato
dall’art. 61, comma 1, n. 11 bis, c.p., che aveva espiato completamente la pena inflitta.
32
Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, cit.
33
Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, cit.
34
La maggiore latitudine dei poteri di cui è stato dotato il giudice dell’esecuzione è stata recentemente ribadita dalla Corte
costituzionale nella più volte richiamata sentenza n. 210 del 2013, la quale ha precisato come tale giudice «non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso
(artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 c.p.p.)».
35
Sul punto v. G. Romeo, Le Sezioni unite sui poteri del giudice, cit.
36
Così F. Viganò, Pena illegittima e giudicato, cit., 255.
37
C. cost., sent. 4 aprile 2011 n. 113. V. retro, nota 27.
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considerazione i fenomeni abolitivi della fattispecie incriminatrice per mano del legislatore o della Corte Costituzionale; prevede, poi, l’adozione dei «provvedimenti conseguenti», nel cui ambito deve certamente farsi rientrare la rimodulazione del trattamento sanzionatorio relativo, ad esempio, ad altri illeciti eventualmente confluiti – per la ritenuta sussistenza del vincolo della continuazione o del concorso
formale col fatto non previsto più dalla legge come reato – nella pronuncia del giudice della cognizione
e non coinvolti nell’abolitio criminis 38; non lascia spazio, però, ad una interpretazione tesa a legittimare
un intervento selettivo del giudice dell’esecuzione sul giudicato formale nella sola parte relativa
all’aspetto sanzionatorio ad esso interno e riferibile al titolo di reato non attinto da perdita di efficacia 39.
Quanto all’incidente di esecuzione, non può sfuggire come, diversamente dalla “più audace” pronuncia Ercolano, le Sezioni Unite percorrano questa strada cum grano salis: non richiamano espressamente l’art. 670 c.p.p., in tema di questioni sul titolo esecutivo 40, ma, più “timidamente”, si limitano a
riconoscere che il genus delle doglianze da cui può essere investito il giudice ex art. 666 c.p.p. comprende «tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti
considerata l’esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo» 41.
Ora, che il giudice dell’esecuzione sia funzionalmente competente ex art. 666 c.p.p. a modificare il
trattamento sanzionatorio nel caso in esame, pur mancando una norma processuale che lo legittimi in
tal senso, appare indiscutibile. D’altronde, nel codice di rito manca anche una specifica norma che consenta a tale giudice di sostituire, nell’ipotesi prevista dall’art. 2, comma 3, c.p. – come interpolato
dall’art. 14 l. 24 febbraio 2006, n. 85 –, la pena detentiva in pena pecuniaria, eppure nessuno dubita che
per togliere effetti alla statuizione del giudicato di condanna a pena detentiva sia richiesta un’ordinanza
ai sensi dell’art. 666 c.p.p. 42.
Ma anche l’applicabilità dell’art. 670 c.p.p. sembra plausibile. È vero che il procedimento in questione attiene, per espressa previsione normativa, unicamente alle ipotesi in cui il provvedimento decisorio
«manchi» o non sia «divenuto esecutivo», ma è pur vero che un’interpretazione analogica della predetta norma consentirebbe al giudice dell’esecuzione di estendere la relativa disciplina anche al caso di
“parziale inesecutività” del titolo, come quello in analisi: il rimedio previsto – “sospensione dell’esecuzione” –, trasposto sul terreno della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incidente
sul trattamento sanzionatorio, si risolverebbe in una “parziale ineseguibilità” della porzione di pena
che è stata inflitta, con sentenza definitiva di condanna, sulla base della norma dichiarata incostituzionale 43.
38
V., sul punto, retro, nota 25.
39
Come espressamente affermato da Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, cit.
Non manca dottrina che ritiene, al contrario, possibile un’interpretazione analogica dell’art. 673 c.p.p. tale da consentirne
l’applicazione anche al caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale non stricto sensu incriminatrice.
Sul punto v. infra nota 43.
40
Al contrario, nella pronuncia Ercolano le Sezioni Unite avevano espressamente evidenziato come l’incidente di esecuzione
disciplinato dall’art. 670 c.p.p., «pur sorto per comporre i rapporti con l’impugnazione tardiva e la restituzione nel termine, implica necessariamente, al di là del dato letterale, un ampliamento dell’ambito applicativo dell’istituto, che è un mezzo per far
valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo».
41
La locuzione, presente, col virgolettato, nella motivazione della sentenza in commento, è tratta dalla pronuncia Ercolano
(Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, cit.).
42
Il rilievo è fatto sempre da Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, cit.
43
Contra, A. Franceschini, La fragilità del giudicato, cit., ad avviso del quale la scelta di ricorrere all’art. 670 c.p.p. nel caso in
questione si rivela inappagante, atteso che «la porzione di pena dichiarata “non eseguibile” sopravvivrebbe comunque nell’ordinamento giuridico, rimanendo avviluppata in una sorta di “limbo” o “zona morta” di difficile interpretazione».
Secondo tali voci critiche dottrinali, la Suprema Corte avrebbe dovuto optare per una soluzione ermeneutica che valorizzasse la portata operativa dell’art. 673 c.p.p., procedendo, in particolare, a una interpretazione analogica dello stesso tale da consentirne l’applicazione anche al caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale non stricto sensu incriminatrice. Interpretando analogicamente l’articolo 673 c.p.p. – si dice – si potrebbe consentire al giudice dell’esecuzione di esercitare un potere di revoca parziale (e non di inappagante “dichiarazione di ineseguibilità”) del provvedimento decisorio, così
espungendo la parte di pena costituzionalmente illegittima dall’ordinamento giuridico.
Non esclude una possibile interpretazione estensiva dell’art. 673 c.p.p. anche G. Romeo, Poteri del giudice dell’esecuzione dinanzi a dichiarazione di incostituzionalità di norma penale ‘non incriminatrice’: metamorfosi di una questione rimessa alle Sezioni unite, in
Dir. pen. cont., 24 febbraio 2014, p. 9 e s., il quale richiama alcune pronunce di legittimità che hanno già dilatato i confini applica AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DI UNA NORMA PENALE
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Fedeltà alla legge e legalità processuale non significano che il giudice non possa – anzi, non debba –
utilizzare tutti gli strumenti ermeneutici a propria disposizione per realizzare obiettivi di tutela dei diritti fondamentali della persona. E, tra tali strumenti, va annoverata certamente l’analogia, legis et iuris,
non vietata in materia di diritto processuale 44.
Almeno in attesa che al “riempimento” della lacuna provveda ex professo il legislatore 45.
Residuerebbe – in astratto – un’altra possibilità: invocare un intervento “correttivo” della Corte costituzionale sull’art. 670 c.p.p. 46. Ma probabilmente – anzi, sicuramente –, stando ai precedenti della
Consulta 47, la questione si rivelerebbe sterile: l’inadeguato sforzo del rimettente nella ricerca di un significato conforme a Costituzione della disposizione censurata, nel modello del giudizio incidentale di
costituzionalità, integra un’omissione significativa che impone una pronuncia di manifesta inammissibilità.
UNA POSTILLA
Un’ultima precisazione si impone.
La Consulta 48, pronunciatasi nelle more della decisione in esame, sulla legittimità costituzionale della modifica apportata dalla c.d. l. “Fini-Giovanardi” 49 alla fattispecie di reato di cui all’art. 73 d.p.r. n.
309/1990 – con la quale si era uniformato il trattamento sanzionatorio relativo alle ipotesi di reato concernenti le c.d. “droghe leggere” con quelle riferite alle c.d. “droghe pesanti” 50-, ha annullato simile
equiparazione quoad poenam: ripristinando l’originario testo dell’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309/1990 –
che prevedeva una cornice edittale di maggiore o minore severità in relazione alla specifica natura della
sostanza stupefacente considerata 51 –, ha modificato l’ordinamento penale in senso più favorevole per
il soggetto ritenuto responsabile del reato di detenzione o cessione di “droghe leggere” 52.
tivi della norma in esame: Cass., sez. I, 19 ottobre 2007, n. 42407, in CED Cass. n. 237968, la quale ha stabilito che l’abrogazione
della norma incriminatrice intervenuta in fase esecutiva comporti la revoca della sentenza di patteggiamento, che pure non è
una sentenza di condanna; Cass., sez. I, 29 aprile 2011, n. 20130, in Cass. pen., 2011, p. 3763, secondo cui nel concetto di abrogazione rientra anche quella conseguente a sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che abbia ravvisato
l’incompatibilità tra la normativa comunitaria e la norma incriminatrice interna; Cass., sez. IV, 30 gennaio 1996, n. 255, in CED
Cass. n. 205304, con cui la Suprema Corte ha chiarito come la norma de qua sia applicabile anche nel caso di abolitio criminis per
effetto del referendum abrogativo.
Sulla stessa lunghezza d’onda v. G.D. Perrini, Le Sezioni Unite sul potere del Giudice dell’esecuzione di rimodulare la pena, cit., che
auspica un intervento correttivo del legislatore, teso ad ampliare la portata operativa dell’art. 673 c.p.p. alle ipotesi di dichiarazione di illegittimità costituzionale di norma penale diversa da quella propriamente incriminatrice.
Desta qualche perplessità la soluzione suggerita dalla richiamata dottrina: un’interpretazione analogica dell’art. 673 c.p.p.
nel caso in questione appare una forzatura ermeneutica difficile da accettare, presupponendo, la relativa disciplina – come
espressamente precisato anche in rubrica –, l’“abolizione del reato”. D’altronde, le pronunce richiamate da G. Romeo, Poteri del
giudice dell’esecuzione dinanzi a dichiarazione di incostituzionalità di norma penale ‘non incriminatrice’: metamorfosi di una questione rimessa alle Sezioni unite, cit., a conforto della soluzione prospettata, a ben vedere, non militano affatto verso quella direzione: esse
consentono sì un’interpretazione estensiva dell’art. 673 c.p.p. ma in fattispecie che hanno, tutte, come inderogabile premessa,
un’abolitio criminis.
44
Aggiunge, sul punto, F. Viganò, Pena illegittima e giudicato, cit., p. 255, come: «L’unico, vero ostacolo all’analogia potrebbe essere
l’esistenza di una inequivoca volontà contraria del legislatore, espressa attraverso una norma il cui dato letterale costituisca un ostacolo insuperabile rispetto a una data soluzione ermeneutica. Ma di tale insuperabile ostacolo testuale, che si opponga alla possibilità per il giudice
dell’esecuzione di ricondurre la pena a una dimensione legittima, davvero non vi è traccia nel sistema processuale vigente».
45
Estendendo, claris verbis, il raggio d’azione dell’art. 670 c.p.p. anche al caso di “parziale non esecutività” del titolo.
46
Che dichiarasse, cioè, illegittimo l’art. 670 c.p.p. nella parte in cui non autorizza il giudice dell’esecuzione, nel caso di
“parziale non esecutività del titolo”, ad adottare il rimedio della “parziale ineseguibilità”.
47
V., ex plurimis, Corte cost., ord. 18 maggio 2009 n. 171, in www.giurcost.org; C. cost., ord. 6 maggio 2009 n. 155, in
www.giurcost.org; C. cost., ord. 22 aprile 2009, n. 117, in www.giurcost.org.
48
C. cost., sent. 12 febbraio 2014 n. 32, cit.
49
In particolare, dagli artt. 4-bis e 4-vicies ter, d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, conv., con mod., in l., 21 febbraio 2006, n. 49.
50
Il comma 5 dell’art. 73 d.p.r. n. 309 del 1990, come modificato dalla c.d. l. Fini-Giovanardi, così stabiliva: «Quando, per i
mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000».
51
Il comma 5 del citato art. 73 era stato ripristinato nei seguenti termini: «Quando, per i mezzi, per la modalità o le circostanze
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Dunque, nel caso in questione 53, il giudice dell’esecuzione, nella rimodulazione della pena, dovrà
senz’altro tenere conto della versione originaria dell’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309/1990, tornata ipso iure in vigore a seguito dell’intervento del Giudice delle leggi: la declaratoria di incostituzionalità, avendo
forza invalidante ex tunc, va ad incidere sull’esecuzione ancora in corso della pena illegittimamente inflitta al condannato, imponendone la rideterminazione.
È appena il caso di precisare 54 – alla luce delle argomentazioni che precedono sulla differenza tra il fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo e quello della declaratoria di illegittimità costituzionale –
che, intervenuta l’irrevocabilità della sentenza di condanna, al giudice dell’esecuzione è inibito, invece, ai sensi dell’art. 2, comma 4, c.p., applicare norme più favorevoli successivamente approvate dal legislatore.
Pertanto, quand’anche si ritenesse che la recente l. 21 febbraio 2014, n. 10 55 e quella 16 marzo 2014, n.
56
79 – che hanno ancora una volta travolto l’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309/1990: la prima, trasformando
la circostanza attenuante del “fatto di lieve entità” in una fattispecie autonoma di reato 57, e, la seconda,
modificando ex novo il quadro edittale 58 – abbiano introdotto un regime sanzionatorio complessivamente di maggior favore per il reo 59, la questione non avrebbe rilievo nella vicenda in esame: la pena
inflitta non potrebbe essere rideterminata sulla base della nuova norma, sopravvenuta al passaggio in
giudicato della sentenza.
dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene
della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 2.582 (lire cinque milioni) a euro 25.822 (lire cinquanta milioni) se si tratta di
sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’articolo 14, ovvero le pene della reclusione da sei mesi a quattro
anni e della multa da euro 1.032 (lire due milioni) a euro 10.329 (lire venti milioni) se si tratta di sostanze di cui alle tabelle II e IV».
52
In argomento, cfr. C. Cupelli, Incostituzionalità per vizio procedurale, reviviscenza della normativa abrogata e riserva di legge in
materia penale, in Giur. cost., 2014, p. 505; G. La Cute, Sulla illegittimità delle modifiche alla legge sugli stupefacenti attuate con eterogenee disposizioni aggiunte nella conversione di decreto-legge, in Riv. polizia, 2014, p. 133; B. Lavarini, Incostituzionalità della disciplina
penale in materia di stupefacenti e ricadute ante e post iudicatum, in Giur. cost., 2014, p. 1903.
53
Ove l’imputazione – ricordiamo – era di detenzione al fine di cessione a terzi di sostanze stupefacenti “leggere” (marijuana) e “pesanti” (cocaina).
54
E la precisazione viene fatta dalle stesse Sezioni unite a conclusione della motivazione della sentenza in commento.
55
Recante «Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione
carceraria», di conversione del d.l. 23 dicembre 2013, n. 146.
56
Recante «Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di
impiego di medicinali», di conversione del d.l. 20 marzo 2014, n. 36. In arg. cfr. G. Amato, Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309, nonché di impiego di medicinali, in Guida al dir., 2014, fasc. 15, p. 32.
57
L’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990, così come interpolato, stabiliva che: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato,
chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero
per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa
da euro 3.000 a euro 26.000».
58
Secondo l’ultima formulazione, l’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990 sancisce che: «Salvo che il fatto costituisca più
grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze
dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a
quattro anni e della multa da Euro 1.032 a Euro 10.329».
Dunque, con quest’ultimo intervento normativo, si è ripristinato il vecchio quadro edittale fissato nel testo originario del t.u.
per i fatti di lieve entità aventi ad oggetto le “droghe leggere” estendendolo, peraltro, anche ai fatti corrispondenti aventi ad oggetto “droghe pesanti”, per i quali il t.u. originario prevedeva, invece, la pena, più afflittiva, della reclusione da uno a sei anni.
59
La nuova disciplina è, rispetto alla precedente, senz’altro più favorevole per quanto riguarda i fatti aventi ad oggetto droghe “pesanti”, mentre rispetto ai fatti aventi ad oggetto droghe “leggere” si dovrà stabilire caso per caso quale sia la disciplina
più favorevole, in relazione alla natura meramente circostanziale del comma 5 nella sua versione originaria e alla sua attuale
natura di fattispecie autonoma. In tema v. A. Vallini, L’incostituzionalità sopravvenuta del trattamento sanzionatorio del reato satellite,
Giur. it., 2014, p. 2577. In giurisprudenza, cfr. Cass., sez. VI, 24 gennaio 2014, n. 6142, in CED Cass. n. 259351, secondo la quale il
nuovo regime sanzionatorio si rivela complessivamente di maggior favore per il reo, non consentendo più il giudizio di bilanciamento con le circostanze aggravanti (In applicazione del principio la Corte ha annullato la sentenza impugnata, rilevando
d’ufficio che la novella legislativa dell’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309/1990 comportava un trattamento sanzionatorio di maggior
favore per l’imputato, giacché non consentiva il bilanciamento con la ritenuta recidiva ex art. 69 c.p.); sulla stessa lunghezza
d’onda, Cass., sez. IV, 11 febbraio 2014, n. 11525, in CED Cass. n. 258189. Precisa come spetti al giudice di merito, ai sensi
dell’art. 2 c.p., individuare quale sia la disposizione più favorevole all’imputato tra quelle succedutesi nel tempo e determinare
il trattamento sanzionatorio irrogabile, Cass., sez. IV, 14 marzo 2014, n. 15048, in CED Cass. n. 259369; in linea, Cass., sez. III, 13
marzo 2014, n. 23904, in CED Cass. n. 259377.
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Chiamata di correo e valutazione
di attendibilità preliminare del chiamante
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 6 OTTOBRE 2014, N. 41347 – PRES. MANNINO; REL. ACETO
La problematica centrale in tema di utilizzo di dichiarazioni di pentiti attiene alla necessaria approfondita delibazione di attendibilità personale dei collaboranti, esame preventivo, generale e indefettibile, senza il quale quelli successivi di credibilità intrinseca di coerenza e logica interna e di ricerca di riscontri esterni appaiono incompleti e
non autosufficienti oltre che secondari.
[Omissis]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza del 23 maggio 2013 la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del
19/07/2011 con la quale il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva dichiarato F.M., Fr.Mi., N.F.,
B.F., R.S. e S.G. colpevoli dei reati di cui al d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74, commi 1, 2 e 3, d.l. 13
maggio 1991, n, 152, art. 7, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 luglio 1991, n. 203 (capo A) (B.F., R.
S. e S.G. limitatamente al periodo che dal 1996 al 18 luglio 1997), nonché i soli F.M. e F.M. anche dei reati di cui all’art. 81 c.p.v. c.p., l. 14 ottobre 1974, n. 497, artt. 10 e 14, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, cit.
(capo C), l. 18 aprile 1975, n. 110, art. 23, commi 1 e 3, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, cit. (capo D),
artt. 81 cpv. e 648 c.p., d.l. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, cit. (capo E) e, ritenuta la continuazione tra tutti
i reati, riconosciuta al Fr.M. la circostanza attenuante di cui al d.l. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, ritenuta
prevalente sulla circostanza aggravante di cui al d.p.r. n. 309 del 1990, art. 74, comma 3, li aveva condannati alla pena rispettivamente di: dieci anni di reclusione il Fr. M.; sedici anni di reclusione il F.M.;
ventiquattro anni di reclusione N.F.; quattordici anni di reclusione ciascuno B.F., R.S. e S.G., oltre, per
tutti, le statuizioni accessorie.
Si contesta agli imputati di esserci associati fra loro, e con altre persone giudicate separatamente, allo
scopo di commettere più delitti di cui al d.p.r. n. 309/1990, art. 73 ed, in particolare, di immettere nel
mercato di Caserta e provincia sostanza stupefacente di tipo cocaina, agevolando l’associazione camorristica del clan B., avvalendosi delle condizioni di assoggettamento omertoso da essa imposte e versando al gruppo una parte dei ricavi dell’illecito mercato in cambio dell’esclusiva ad operare nel territorio
casertano di riferimento. In tale contesto associativo, si imputa al N. il ruolo di promotore, capo ed organizzatore, nonché di procacciatore della sostanza e di addetto alla distribuzione della stessa al proprio sottogruppo; stesso compito, quest’ultimo, attribuito a Fr.Mi.; a F.M. e Fr.Fr. è contestato il compito
di raccordo tra N.F. e Fr.Mi. da un lato e gli spacciatori al minuto, R., S. e B., dall’altro (questi ultimi anche di corrieri della droga); a Fr.Mi. e N.G. è altresì attribuito il ruolo di provvedere alla vendita al dettaglio dello stupefacente, al suo ritiro e al presidio dell’abitazione del Fr.Mi., al fine di tenerla indenne
dal controllo delle Forze dell’Ordine (capo A della rubrica).
Con le ulteriori ipotesi delittuose si contesta agli odierni ricorrenti di aver illegalmente detenuto e
portato in luogo pubblico armi da guerra e armi comuni da sparo (capo C), alcune delle quali clandestine (capo D), altre anche rubate (capo E), allo scopo di agevolare l’organizzazione dei B., nel caso in
cui vi fosse la necessità di compiere attività illecite quali estorsioni o riaffermare il predominio sul territorio con la forza.
1.1. Nel superare tutti i rilievi difensivi, la Corte di appello ha, sinteticamente:
a) ritenuto la piena attendibilità dei principali collaboratori di giustizia/chiamanti in correità, Fr.Mi.
(nipote di Fr.Ma. e fratello di Fr.) e N.G., attendibilità non inficiata dalla non perfetta sovrapponibilità
delle rispettive dichiarazioni tra loro e con quelle rese da altri collaboratori di giustizia;
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2. Ricorrono per Cassazione, per il tramite dei rispettivi difensori, F.M., N.F., B.F., R.S. e S.G..
3. L’Avv., per conto del F.M., articola tre motivi a sostegno del proprio ricorso.
3.1. Con il primo eccepisce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), violazione degli artt.
192 e 530 c.p.p., d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, artt. 73 e 74.
Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale, compulsata a motivare sulla contestata credibilità dei
collaboratori di giustizia, in taluni casi si è rifugiata in vuote formule di stile, evitando di scendere nel
merito delle questioni poste, in altri è incorsa in veri e propri manifesti errori di fatto. La Corte d’appello non aveva compiuto alcun preliminare esame della credibilità dei singoli dichiaranti, omettendo
di valutarne personalità, condizioni socio-economiche e familiari, il passato, i rapporti con i chiamanti
in correità, la genesi remota e prossima della loro risoluzione alla confessione ed all’accusa. Tanto più
che nei motivi di appello si evidenziava che il N.G. (uno dei chiamanti in correità) era stato condannato
per calunnia; ma su questo punto specifico – continua il ricorrente –non v’è alcuna motivazione in sentenza. Essa ha piuttosto attinto alle dichiarazioni dei singoli collaboratori in modo globale, ritenendo
che si riscontrassero reciprocamente, nonostante si limitassero a generiche indicazioni su presunte attività da lui poste in essere, senza che in alcun caso due, o più, dichiaranti avessero mai fatto riferimento
allo stesso episodio criminoso. La Corte territoriale infatti è stata costretta a giudicare come apparenti,
non decisive, trascurabili, o frutto di un cattivo ricordo, le numerosissime divergenze tra le dichiarazioni rese dal Fr.Mi. e quelle rese dal N.
La sentenza impugnata, inoltre, è affetta da vizio di travisamento della prova poiché la Corte
d’appello, nel richiamare una parte della motivazione della sentenza di primo grado, è incorsa nello
stesso errore di ritenere che il Fr.Mi. avesse ammesso, sia pure in un secondo momento, che il fratello
Fr. spacciava ed era coinvolto in episodi di estorsione. In realtà non esiste alcun verbale nel quale il
Fr.Mi. abbia mosso accuse al fratello, come peraltro già evidenziato da questa Corte di cassazione in sede di annullamento della sentenza di condanna emessa dalla stessa Corte d’appello nei confronti di
Fr.Fr.
Peraltro, come pure si era fatto notare nei motivi di appello, il Fr.Mi. aveva taciuto anche su un presunto acquisto di circa 10 chili di cocaina che, secondo il N., il Fr. F. avrebbe effettuato per conto del fratello Mi., nonché su un viaggio in Francia nel corso del quale il Fr. avrebbe acquistato, sempre secondo
il N. (ritenuto dalla Corte territoriale non credibile sul punto), cocaina per un importo pari ad Euro
300.000 messi a disposizione proprio dal Mi. che, in quel periodo, non era detenuto. Non è dunque vero, come sostiene la Corte d’appello, che il Fr.Mi. non aveva accusato il fratello Fr. in ordine ai traffici
da questi svolti perché posti in essere quando il Mi. era detenuto.
3.2. Con il secondo eccepisce violazione degli artt. 192 e 530 c.p.p., l. n. 497/1994, artt. 10, 12 e 14, l. n.
110/1975, art. 23, art. 648 c.p., l. n. 203/1991, art. 7.
Eccepisce il ricorrente, quanto all’affermazione di colpevolezza in ordine ai delitti di cui ai capi C, D
ed E, che il N.G., le cui dichiarazioni, in ordine alle armi di cui alla rubrica ed al ruolo di custode delle
stesse svolto dal F.M., sono state considerate ulteriore riscontro alle dichiarazioni rese dal Fr.Mi., in
realtà non aveva mai parlato di queste armi, né quest’ultimo aveva mai affermato che lo zio M. fosse a
conoscenza della presenza delle armi custodite nell’appartamento del quale il dichiarante aveva la disponibilità, benché lo zio provvedesse al solo pagamento dei canoni di locazione. In ogni caso, afferma
il ricorrente, l’eventuale consapevolezza che il nipote custodisse armi proprie in quella abitazione non
lo renderebbe automaticamente colpevole della detenzione delle stesse ascrivibile solo al nipote.
Quanto all’aggravante di cui alla l. n. 203/1991, art. 7, il ricorrente lamenta la omessa motivazione in
ordine alla sua sussistenza.
3.3. Con l’ultimo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), violazione
dell’art. 62-bis c.p.
Lamenta il ricorrente l’insufficienza della motivazione in ordine al diniego della concessione delle
circostanze attenuanti generiche fondato sulla ritenuta responsabilità per i delitti in materia di armi.
4. L’Avv., per conto di N.F., lamenta, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), violazione dell’art. 649 c.p.p.,
nonché mancanza ed illogicità della motivazione.
4.1. Lamenta, in particolare, che, come il Tribunale in primo grado, anche la Corte d’appello ha erroneamente affrontato il problema avendo riguardo non alla sentenza del GIP di Napoli del 04/12/2012,
bensì a quella del Tribunale di Nola del 12 ottobre 2001.
Nel caso in esame, inoltre, soccorrono tutti gli indici per ritenere l’identità del fatto poiché il sodalizio operava nello stesso territorio (M. e provincia), con le stesse modalità esecutive, perseguendo gli
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stessi scopi, nello stesso arco temporale (dal 1996 al 18 luglio 1997) e con lo stesso ruolo di capo.
Non rileva, in senso contrario, citando a sostegno Sez. II, 18 gennaio 2005, n. 8967, la parziale differente composizione dei sodalizi.
In ogni caso, prosegue, l’assunto che la sentenza di assoluzione si riferirebbe ad un fenomeno delittuoso avvenuto prima del passaggio al clan B. è circostanza che contrasta con le acquisizioni probatorie
ed, in particolare, con le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Ge.An. e Fr.Mi. (che riporta in
parte) che avevano collocato nel 1996 tale passaggio (il F. addirittura nel 1995).
4.2. Con riferimento alla affermazione della propria responsabilità per il periodo successivo al 5 novembre 2005, lamenta che la Corte territoriale, nel ritenere attendibili le dichiarazioni accusatorie del F.,
ha fatte proprie le valutazioni del giudice di prime cure senza però considerare i rilievi circa le incongruenze, inverosimiglianze e contraddizioni contenute nel racconto del F. (che riporta per brani), senza
tenere nel debito conto che il N.F. era stato indagato, arrestato e condannato per l’omicidio di F.R., fratello del dichiarante, e che nessun elemento di riscontro si rinviene nelle dichiarazioni degli altri collaboranti.
4.3. Quanto all’aggravante di cui alla l. n. 203/1991, art. 7, lamenta che né il GIP (sic), né la Corte
d’appello hanno spiegato le ragioni per le quali si debba ritenere sussistente l’aggravante in questione,
giacché, afferma, la motivazione è limitata esclusivamente ad un’affermazione apodittica circa la sussistenza del dolo specifico.
4.4. Con ulteriore motivo, il ricorrente lamenta il silenzio della Corte territoriale sul motivo di appello con il quale si contestava l’aggravante di cui al d.p.r. n. 309/1990, art. 74, comma 3, sul rilievo che
l’imputazione fa riferimento a 8 persone identificate senza alcun riferimento alle ulteriore persone nei
confronti delle quali si procede separatamente.
5. L’Avv., per conto di B.F. e N.F., articola, a sua volta, 5 motivi di ricorso.
5.1. Con il primo lamenta violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed c), per illogicità della motivazione in ordine alla richiesta difensiva di parziale rinnovazione del dibattimento in
ordine alla acquisizione delle dichiarazioni rese dal collaboratore C.D. o alla sua escussione ex art.
603 c.p.p.
Lamenta, in particolare, il difensore che, trattandosi di procedimento fondato essenzialmente sulle
dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, riscontrate da dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia, era stata chiesta la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per acquisire i verbali delle dichiarazioni rese da C.D. ovvero per escutere lo stesso. Il motivo del rigetto è assolutamente carente e lacunoso avuto riguardo alle precise indicazioni fornite con motivi di appello ed oralmente.
5.2. Con il secondo motivo lamenta violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), per:
a) erronea applicazione ed interpretazione delle norme in tema di valutazione della prova di cui all’art.
187 e 192 c.p.p., in relazione al delitto contestato e travisamento della prova in ordine alla sussistenza
dei riscontri, in tema di concorso di persone nel reato per quanto concerne la responsabilità di B.F. e di
N.F., per quest’ultimo anche con riferimento alla condotta successiva all’anno 2005; b) omessa motivazione in relazione alle puntuali censure mosse dalla difesa, in violazione dell’art. 546 c.p.p., comma 1,
lett. e).
5.2.1. Con specifico riferimento alla prima articolazione del motivo, il difensore lamenta che la Corte
territoriale, violando gli insegnamenti di Sez. un., del 29 novembre 2012, n. 20804 ha sostanzialmente
sorvolato su alcuni aspetti che minano la credibilità del chiamate in correità F. ed, in particolare: 1) il
fatto che il N.F. era l’assassino del fratello; 2) l’atteggiamento omertoso serbato in relazione al proprio
fratello Fr.; 3) il fatto che egli fosse, per i fatti successivi al novembre 2005, chiamante de relato (non potendosi ritenere riscontro la dichiarazione della moglie del G. di aver incontrato a casa del N. una persona qualificatasi come G. ò pazzo); 4) il fatto che il N., il B., il C., il Fa. ed il Ge. avessero riferito di non
aver mai avuto contatti con il N. per l’attività di spaccio di sostanze stupefacenti.
Inoltre, prosegue, manca la convergenza tra le dichiarazioni dei collaboratori Ge. e F., manca il requisito della indipendenza delle chiamate, manca il requisito della specificità, mancano i riscontri ai
viaggi effettuati a Roma.
La Corte d’appello non ha offerto alcuna prova della partecipazione del B. e del N. al reato associativo, soprattutto per quanto riguarda il B., mancando ogni riscontro al ruolo che gli viene attribuito dal
Ge.
Non risulta dimostrato il dolo specifico del reato associativo.
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5.2.2. Con la seconda articolazione del motivo, lamenta la omessa motivazione in ordine alle puntuali censure mosse dalla difesa in tema di valore probatorio delle chiamate in correità del collaboratore F.,
con particolare riferimento ai seguenti temi di prova: 1) l’impossibilità che il dichiarante potesse aver
appreso le notizie sulle condotte del N., successive al 2005, proprio da quest’ultimo e durante un colloquio avvenuto presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, posto che il N. nelle circostanze di tempo di luogo indicate dal collaboratore si trovava recluso in regime di isolamento psichiatrico e
non avrebbe quindi potuto incontrarlo da solo; 2) l’impossibilità che il N. possa aver fornito cocaina al
dichiarante per il tramite del cugino, Fe. di Nola, deceduto il (OMISSIS), e ciò a prescindere da ogni accertamento, mai effettuato, sul fatto che l’imputato avesse cugini con tale nominativo; 3) il fatto che il
controllo a carico del B.F. era avvenuto il 23 settembre 1998 e non nel 1997, posto che nel 1998 il N. F.
era detenuto da oltre un anno.
5.3. Con il terzo motivo lamenta violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), per illogicità della motivazione in relazione alla violazione ed erronea interpretazione dell’art. 649 c.p.p., e travisamento delle prove prodotte dalla difesa.
Lamenta il ricorrente che dall’esame delle sentenze prodotte con gli atti di appello (sentenza del Tribunale di Nola del 12 ottobre 2001 e della Corte di appello di Napoli del 07 marzo 2007), in applicazione dei principi di cui a Sez. U, n. 34655 del 28 giugno 2005, la Corte di appello avrebbe dovuto ritenere
l’identità dei fatti e dichiarare l’improcedibilità dell’azione.
5.4. Con il quarto motivo lamenta violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), per
violazione ed erronea applicazione dell’art. 81 cpv. c.p.p., nonché per illogicità e contraddittorietà della
motivazione anche alla luce dell’avvenuto riconoscimento dell’aggravante di cui alla l. n. 203 del 1991,
art. 7.
Lamentano i ricorrenti il mancato riconoscimento della continuazione tra i fatti oggetto del presente
giudizio ed il reato di cui all’art. 416-bis c.p., oggetto della condanna inflitta con la citata sentenza del
Tribunale di Nola, e, per quanto riguarda il N., anche il reato di cui al d.p.r. n. 309 del 1990, art. 73, di
cui alla sentenza di condanna della Corte d’appello di Napoli.
Le argomentazioni utilizzate dalla Corte – affermano – si pongono in contrasto con l’incipit stesso
della sentenza che riconosce che l’associazione per la quale si procede era collegata e funzionale agli interessi del clan camorristico B.. Anche la sentenza del Tribunale, richiamata a pag. 12 della gravata sentenza, sia pure al contraddittorio fine di confermare la sussistenza dell’aggravante di cui al d.l. n. 203
del 1991, art. 7, afferma che, almeno fino al 2002, vigeva l’obbligo, per i gruppi che gestivano il traffico
di droga, di rifornirsi presso fornitori dello stesso clan B.
Il diniego è in contraddizione con il riconoscimento dell’aggravante di cui alla l. n. 203 del 1991, art.
7, con quanto emerge dalla lettura delle sentenza del Tribunale di Nola, di cui la Corte territoriale da
ampiamente conto, sia pure al solo fine di escludere la sussistenza dell’identità dei fatti, con la stessa
decisione della Corte di appello di Napoli che, nel 2007, nel condannare il N. per il delitto di cui al d.p.r.
n. 309/1990, art. 73, ha posto il reato in continuazione con i fatti di cui alla più volte citata sentenza del
Tribunale di Nola.
5.5. Con l’ultimo motivo lamenta violazione di legge, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui alla l. n. 203 del
1991, art. 7, alla luce della mancata applicazione del beneficio della continuazione.
Le motivazioni che hanno indotto la Corte territoriale a respingere la richiesta di continuazione
avrebbero dovuto indurre, logicamente, a ritenere insussistente l’aggravante di cui alla l. n. 203/1991,
art. 7.
6. L’Avv., per conto di S.G., articola due motivi di ricorso.
6.1. Con il primo lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e), per inosservanza delle norme
processuali stabilite a pena di nullità ovvero per mancanza o contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 e art. 530 c.p.p.
In via generale, il ricorrente deduce che la Corte territoriale si è limitata a riportarsi, per relationem,
alla motivazione della sentenza di primo grado, senza procedere ad una valutazione autonoma sui
punti di doglianza indicati espressamente nei motivi di gravame.
Nello specifico denunzia le seguenti criticità:
1) l’inattendibilità personale del F., ritenuto invece dalla Corte territoriale credibile in contrasto con
le emergenze processuali e con i principi stabiliti in materia da questa Corte di cassazione.
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Riprendendo il tema già affrontato da altri ricorrenti, l’Avv. evidenzia in primo luogo il tentativo del
F. di salvare il fratello, quindi il fatto che la sua credibilità non sia stata oggetto di specifico ed autonomo scrutinio;
2) la genericità e l’inconsistenza della chiamata in correità ed il contrasto, sul ruolo di corriere attribuitogli dal F., con le dichiarazioni rese dal Ge. (delle quali vengono riportati stralci), che viene immotivatamente addotto quale elemento di riscontro alla chiamata in correità;
3) il contrasto con il fatto che il S. non avrebbe mai potuto utilizzare la Fiat Marea (indicata dal F.
come l’auto utilizzata per il trasporto della droga), poiché tale autovettura fu acquistata il giorno stesso
dell’arresto del S., e non era mai stato controllato dalla forze di Polizia insieme con i suoi sodali;
4) l’assenza di riscontri individualizzanti, non potendosi ritenere tali le dichiarazioni de relato del
Ge. il quale riferisce di fatti appresi dal S. e dalla moglie di questi.
6.2. Con il secondo motivo lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), per inosservanza o erronea applicazione della legge penale e mancanza, contraddittorietà ovvero manifesta illogicità della
motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche ed alla quantificazione
della pena.
Lamenta il ricorrente che la gravata sentenza non motiva adeguatamente sul punto relativo alla
quantificazione della pena e non motiva affatto in punto di concessione delle circostanze attenuanti generiche.
7. L’Avv. propone ricorso nell’interesse di R. S. articolando due motivi di ricorso.
7.1. Con il primo lamenta violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), per erronea
applicazione ed interpretazione delle norme in tema di valutazione della prova di cui agli artt. 187 e 192
c.p.p., in relazione al delitto contestato e travisamento della prova in ordine alla sussistenza dei riscontri, in tema di concorso di persone nel reato per quanto concerne la responsabilità del proprio assistito.
Il Ge. ed il F., afferma, non avrebbero potuto essere a conoscenza di fatti commessi quando il primo
era un ragazzino, non inserito nel clan B., ed il secondo non faceva parte dell’associazione, come la stessa rubrica – che colloca il periodo iniziale nel (OMISSIS) – recita.
La Corte territoriale – afferma – ha sottovalutato il fatto che il R. operava, secondo le propalazioni
del F., per conto del N., condannato però per l’omicidio del fratello del F. stesso. Tre le varie incongruenze, tutte superate dalla Corte territoriale con argomentazioni ritenute illogiche, maggior peso assume l’errata collocazione del controllo effettuato nell’abitazione di Sc.Vi. che il F. colloca nel 1997 e che
invece era stato effettuato nel settembre 1998, in epoca cioè successiva alla cessazione della condotta
ascritta (18 luglio 1997). In detta occasione, a detta del F., il B. ed il S. avrebbero consegnato 1 kg di cocaina a Sc.Vi. per conto del N.F. che, tuttavia, era detenuto dal luglio 1997 e dunque nel 1998 non
avrebbe potuto consegnare alcunché ai due corrieri. Alcun riscontro vi sarebbe, inoltre, alle altre affermazioni circa il ruolo svolto dal ricorrente nell’associazione in questione.
Le dichiarazioni del Ge. – di per sé non attendibili perché provenienti da persona non inserita nel
clan e perché relative a comportamenti logicamente inaccettabili – non costituiscono in ogni caso riscontro individualizzante sufficiente, trattandosi di dichiarazioni de relato degli imputati. Inoltre, prosegue,
manca la convergenza tra le dichiarazioni dei collaboratori Ge. e F., manca il requisito della indipendenza delle chiamate, manca il requisito della specificità.
7.2. Con il secondo motivo lamenta violazione di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per
violazione dell’art. 133 c.p., per la ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui alla l. n. 203 del 1991, art. 7
e l’esclusione delle circostanze attenuanti generiche.
Rileva il ricorrente che è illogica la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche alla
luce del fatto che egli era ignoto agli altri sodali (sicuramente prova di un suo apporto minimo) ed in
assenza di qualsiasi ulteriore elemento (numero dei viaggi a Roma, entità delle sostanze trasportate) atto ad aggravare la sua posizione.
Per altro verso il ricorrente lamenta l’applicazione della circostanza aggravante di cui alla l. n.
203/1991, art. 7, in assenza di prova alcuna che egli abbia utilizzato il metodo mafioso.
8. L’Avv., per conto del R., censura il difetto di motivazione della sentenza.
Lamenta, in particolare, che la Corte d’appello ha omesso di motivare sui seguenti aspetti della vicenda pure evidenziati in sede di appello:
1) la non idoneità delle dichiarazioni del F. e del Ge. a fungere da riscontro reciproco, l’una con
l’altra (come già evidenziato dal Tribunale del riesame);
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2) il fatto che il R. fosse sconosciuto agli altri collaboratori di giustizia sentiti in dibattimento;
3) nei confronti del R. non fu mai svolta alcuna indagine, né alcun controllo, né fu mai effettuato un
sequestro o riscontrato un viaggio;
4) l’errata datazione dell’incontro a casa di Sc.Vi.
Per altro verso denunzia l’assurdità e contraddittorietà della motivazione con la quale la Corte
d’appello ha ritenuto di superare il rilievo difensivo secondo il quale egli non avrebbe potuto esporsi
accompagnando il G. in Tribunale, e la totale mancanza di motivazione circa il diniego delle circostanze
attenuanti generiche.
MOTIVI DELLA DECISIONE
9. 1 ricorsi sono fondati nei termini qui di seguito illustrati.
10. La trama comune che trasversalmente informa di sé tutti i ricorsi riguarda la attendibilità delle
chiamate di correità dei singoli dichiaranti, collaboratori di giustizia.
10.1. Si tratta di censure il cui esame precede, su un piano logico, ogni altra questione poiché coinvolge le basi fattuali della confermata affermazione di responsabilità degli odierni ricorrenti, della affermata diversità del sodalizio per cui è processo (d.p.r. n. 309/1990, art. 74,) rispetto a quello capeggiato dal clan B. (art. 416-bis c.p.), della conseguente sussistenza dell’ipotizzata aggravante di cui alla l. n.
203/1991, art. 7.
10.2. La Corte di appello ha ritenuto di superare le numerose e articolate censure mosse all’attendibilità dei chiamanti in correità ritenendo sufficiente l’esame della loro credibilità intrinseca ed estrinseca
condotto attraverso l’analisi dei riscontri con altri elementi di prova, ivi comprese le altre chiamate in
correità; ma si tratta di metodologia non corretta.
10.3. È opportuno ricordare che questa Suprema Corte, in sede di annullamento di altra sentenza con
la quale la medesima Corte di appello di Napoli aveva confermato la condanna di Fr.F., fratello di Mi.,
per la partecipazione al medesimo sodalizio oggetto di odierno processo, aveva stigmatizzato il comportamento della corte territoriale che non aveva affrontato la problematica centrale in tema di utilizzo
di dichiarazioni di pentiti ed aveva omesso la necessaria approfondita delibazione di attendibilità personale dei collaboranti, “esame preventivo, generale e indefettibile, senza il quale quelli successivi di
credibilità intrinseca di coerenza e logica interna e di ricerca di riscontri esterni appaiono incompleti e
non autosufficienti oltre che secondari. In altri termini – aveva affermato questa Corte di cassazione –
doveva essere valutata la personalità di ogni singolo collaborante, le sue condizioni socio-familiari, il
suo pregresso delinquenziale, i rapporti con i chiamanti in correità o con sodali del reato al fine di radicare nel contesto ambientale del soggetto, le modalità di apprensione delle notizie che si vogliono far
valere onde testare la “qualità” della fonte probatoria. Sotto questo profilo era importante che si addivenisse non solo all’illustrazione della “biografia giudiziaria” del collaboratore, ma anche alla sua storia
di collaborante, a partire dalla genesi della collaborazione, onde pervenire alla verificazione di affidabilità sul campo, se vi è stata, del contenuto delle sue propalazioni e dunque della loro resa in termini
giudiziari, non mancando di asseverare se le dichiarazioni siano state rese in modo indipendente e
spontaneo tra loro, non siano frutto di strumentalizzazione deviante o di mera concertazione, e non abbiano un movente calunniatore o di rivalsa o una comune fonte informativa di scaturigine. La Corte
territoriale si è limitata per contro solo a poche righe apodittiche di stile, prive di un’adeguata argomentazione che dia conto del vaglio di affidabilità, limitandosi a riportare il contenuto delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come aveva fatto il precedente giudice di appello, rinnovando, senza
emendarlo, il medesimo errore già commesso” (Sez.I, 15 novembre 2013, n. 3761 – dep. il 28 gennaio
2014).
10.4. Ma ancor prima, con la sentenza Sez. V, del 16 dicembre 2011, n. 1810 (dep. il 17 gennaio 2012)
con la quale era stata già una prima volta annullata la sentenza nuovamente annullata con la citata Sez.
I, 3761/2013, questa Suprema Corte aveva affermato la necessità della doverosa verifica dell’attendibilità intrinseca dei collaboranti, “verifica che, secondo il noto e consolidato orientamento di questa
Corte (ved. in particolare, Cass., Sez. II, 21 dicembre 2004 – 26 gennaio 2005, n. 2350, Papalia ed altri, RV
230716; Cass. 2, 12 dicembre 2002 – 3 aprile 2003 n. 15756, PG in proc. Contrada, RV 225565), avrebbe
dovuto avere carattere pregiudiziale rispetto a quella dei c.d. “riscontri esterni” (ivi compresi, quindi,
quelli ravvisabili, come nella specie, nella c.d. “convergenza del molteplice”) e che, invece, risulta del
tutto trascurata dalla corte territoriale, essendosi questa preoccupata quasi esclusivamente di richiama AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | CHIAMATA DI CORREO E VALUTAZIONE DI ATTENDIBILITÀ DEL CHIAMANTE
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re sommariamente il contenuto delle singole dichiarazioni accusatorie e di mettere in luce la loro concordanza, senza minimamente chiarire, se non con un generico ed onnicomprensivo richiamo a quanto
si dice già illustrato alle pp. 4 ss. della sentenza di primo grado, le ragioni della ritenuta attendibilità intrinseca di ciascun collaborante”.
10.5. Si tratta, del resto, di affermazioni che fanno coerente applicazione del principio secondo il
quale “ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità a mente del disposto dell’art. 192
c.p.p., comma 3, il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità del dichiarante
(confitente e accusatore) in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima
della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e complici; in secondo luogo deve verificare l’intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri
quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni. L’esame del giudice deve esser compiuto seguendo l’indicato
ordine logico perché non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli
“altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità” se prima non si chiariscono gli eventuali
dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa” (Sez. un., 21 ottobre 1992, n. 1653 Marino, Rv. 192465).
10.6. Orbene, l’odierna sentenza effettua lo stesso errore di impostazione metodologici di quelle già
annullate da questa Corte di cassazione; i giudici territoriali non affrontano l’argomento legato alla credibilità dei dichiaranti, esame di per sé imprescindibile nei confronti di tutti i chiamanti in correità, ma
reso oltre: o necessario perché espressamente sollecitato – con effetto oggettivo e estensivo – da uno dei
ricorrenti e perché imposto dalla particolare natura dei rapporti conflittuali tra il F. ed il N.
10.7 La fondatezza della censura, per la sua natura oggettiva e perché, come detto riguarda le basi
fattuali dell’affermazione di responsabilità di tutti i ricorrenti assorbe e rende superflua, per le ragioni
già indicate, ogni ulteriore questione ad essa conseguente.
10.8. La sentenza deve così essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli che, nel riesaminare la vicenda, dovrà attenersi al principio di diritto sopra indicato.
[Omissis]
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FRANCESCA TRIBISONNA
Assegnista di ricerca in Diritto processuale penale – Università degli Studi di Cagliari
Sull’attendibilità del pentito
quale logico presupposto di una valida chiamata in correità
About the confident’s liability
as a logical assumption of a valid accomplice evidence
In tema di chiamata in correità, oltre alla ricerca dei riscontri, la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato ulteriori specifici criteri, che costituiscono delle linee guida funzionali al vaglio delle deposizioni dei collaboratori. In questi
casi, la valutazione da parte del giudice non può prescindere da un esame accurato in ordine all’attendibilità del
singolo dichiarante. Solo una preliminare delibazione di questo tipo costituisce logico presupposto di una valida
chiamata in correità.
About the theme of accomplice evidence, in addition to corroborations, academic jurisprudence and case law
have elaborated some more specific criteria, which represent useful guide-lines to evaluate the confidents’ statements of fact. In these cases, the Court’s evaluation isn’t able to leave something out of consideration from a
careful inspection about the single confident’s liability. Only a preliminary decision of this kind represent a logical
assumption of a valid accomplice evidence.
IL CASO SOTTOPOSTO ALL’ATTENZIONE DELLA CORTE
Il tema affrontato dalla suprema Corte di cassazione rappresenta un evergreen in punto di valutazione
della prova dichiarativa e, nello specifico, di quella peculiare dichiarazione che viene resa nel corso di
un procedimento penale da parte di un collaboratore di giustizia chiamante in correità.
Non si tratta di problematiche squisitamente teoriche o limitate alle valutazioni tecniche relative all’utilizzo di simili contributi in particolari procedimenti, quali quelli in materia di criminalità organizzata, ma di questioni di più ampio spessore che sovente assumono rilievo culturale e finanche politico.
L’importanza di una chiara disciplina sul punto discende, dunque, dalla primaria esigenza di individuare una serie di criteri valutativi che siano tali da consentire il conferimento di valore probatorio
alle predette dichiarazioni, le quali, solo laddove risultino sottoposte ad adeguato vaglio da parte del
giudicante, potranno contribuire alla formazione del suo libero convincimento.
Così i giudici di legittimità hanno chiarito come fosse una metodologia non corretta quella seguita
da una Corte territoriale che, investita di una serie di censure relative all’attendibilità dei chiamanti in
correità in seno ad un’associazione per delinquere dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti, aveva
ritenuto sufficiente l’esame della loro credibilità intrinseca ed estrinseca condotto attraverso la mera
analisi dei riscontri con altri elementi di prova.
La rilevanza delle problematiche sottese al tema in questione ha fatto sì che, nonostante la molteplicità di pronunce sul punto, i giudici di Piazza Cavour, annullando la sentenza di merito con rinvio, abbiano sentito la necessità di precisare ancora una volta ciò che, evidentemente, ovvio non era: la valutazione della chiamata in correità da parte del giudice non può prescindere da un vaglio accurato e scrupoloso in ordine all’attendibilità del singolo dichiarante. Solo una preliminare delibazione di questo tipo costituisce logico presupposto di una valida chiamata in correità.
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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IMPORTANZA DELLA PROVA DICHIARATIVA. LA CHIAMATA IN CORREITÀ
Ultimamente si è soliti affermare che la prova dichiarativa, la quale storicamente riveste un ruolo di
primario rilievo nella dinamica del processo penale, stia subendo, con l’evoluzione della tecnica un
processo di erosione volto a minarne la valenza quasi monopolistica, essendo sempre più surclassata
dal ruolo che sta conquistando negli anni il mezzo peritale. Tuttavia, non sempre è possibile disporre di
elementi indiziari o probatori traibili attraverso l’ausilio della scienza. In determinati settori, infatti, e
per particolari categorie delittuose, non si può prescindere dal contributo di chi, avendo fatto parte di
determinate organizzazioni dall’interno, ricopra una posizione privilegiata, tanto da essere in grado di
offrire informazioni preziosissime per indirizzare le indagini degli organi inquirenti e talvolta infungibili per la stessa decisione giudiziale.
É questo il caso della chiamata in correità proveniente dai c.d. collaboratori di giustizia.
Si tratta di un contributo complesso al quale il nostro ordinamento, nonostante l’accennato sviluppo
delle tecniche con il correlato demansionamento della parola, non è in grado di rinunciare se solo si
pensa all’importanza che simili dichiarazioni accusatorie hanno assunto e assumono quotidianamente
nelle complesse indagini in materia di criminalità organizzata.
In queste ipotesi il pentito, trovando il coraggio di abbattere il legame con il sodalizio che lo ha visto
coinvolto, rappresenta un elemento di rottura con il passato e si pone a disposizione della giustizia per
offrire un patrimonio di conoscenze funzionali, anche in via indiretta, allo smantellamento dell’organizzazione delittuosa. Sono dichiarazioni dal contenuto più vario, ma spesso tendenti alla collocazione
dei vari adepti nel ruolo precipuo ricoperto all’interno del gruppo, nonché all’individuazione delle attività svolte, delle finalità perseguite, dei programmi rassegnati, delle strategie di intervento, delle alleanze, delle affiliazioni.
Data l’importanza di simili informazioni e la necessità di poterne disporre validamente in seno al
procedimento penale, con l’avvento del nuovo codice ci si interrogò subito in ordine alla loro corretta
collocazione tra gli strumenti codicistici. Il silenzio sul punto da parte del codice abrogato aveva infatti
dato la stura ad una serie di problematiche definitorie, cui si ricollegava quale logico corollario un acceso dibattito in ordine alla relativa valenza probatoria.
Il percorso volto all’inquadramento della chiamata di correo in una categoria giuridica ben definita è
stato piuttosto travagliato e, senza volerne in questa sede ripercorrere le tappe più significative, basti
ricordare come si siano alternate differenti impostazioni dogmatiche e giurisprudenziali che l’hanno di
volta in volta collocata tra gli elementi di prova, le prove atipiche, gli indizi, i sospetti, la notitia criminis,
i meri spunti investigativi.
Dai lavori preparatori 1, dalla collocazione sistematica della norma, dalla natura accusatoria del sistema in cui è inserita 2, dalla rubrica dell’art. 192 c.p.p. e dal tenore letterale prescelto dal legislatore si
è quindi pervenuti al riconoscimento della valenza di “elemento di prova” alla chiamata in correità 3,
suscettibile in quanto tale di acquisire l’efficacia dimostrativa propria della prova 4 in presenza di “elementi che ne confermino l’attendibilità”, ossia i c.d. “riscontri”.
1
Cfr. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, n. 250, Serie Generale, Suppl. ord.
n. 2, p. 61, che si riferisce alla «necessità di circondare con maggiori cautele il ricorso ad una prova, come quella proveniente da
chi è coinvolto negli stessi fatti addebitati all’imputato o ha comunque legami con lui, alla luce della sua attitudine ad ingenerare un erroneo convincimento giudiziale».
2
Si badi come le caratteristiche dell’istituto de quo affondino le proprie origini nella cultura del sistema accusatorio, poiché
nei paesi in cui è adottato questo modello processuale la valutazione della accomplice evidence (testimonianza del complice) è
sempre supportata dalla c.d. corroboration. In dottrina, sul punto, E. Amodio, La testimonianza del coimputato nell’esperienza di
Common Law: modelli premiali, prassi negoziali e collaborazione coatta, in AA.VV., La legislazione premiale, Milano, 1987, p. 191 s.
3
Con una decisione delle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 19 marzo 1988, n. 3592, in Rabito ed altri, inedita) che è stata poi integralmente recepita dal legislatore e normativizzata con il comma 3 dell’art. 192 c.p.p.
4
Nella sua chiarezza si ricordi Cass., sez. un., 1 febbraio 1992, n. 1048, in CED Cass. n. 189182, secondo cui «l’art. 192, commi 3 e
4, del codice di procedura penale non ha svalutato sul piano probatorio le dichiarazioni rese dal coimputato di un medesimo reato
o da persona imputata in un procedimento connesso ex art. 12 c.p.p. o di un reato collegato a quello per cui si procede nel caso previsto dall’art. 371, comma 2, lett. b) c.p.p. perché ha riconosciuto a tali dichiarazioni valore di prova e non di mero indizio e ha stabilito che esse debbano trovare riscontro in altri elementi o dati probatori che possono essere di qualsiasi tipo o natura››.
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DEBOLEZZA INTRINSECA DELLA CHIAMATA IN CORREITÀ
La prova dichiarativa in generale è per definizione una prova debole per le sue caratteristiche intrinseche, ossia per il fatto di essere soggetta a diversi fattori di distorsione capaci di influire sulla stessa.
Come dimostra l’esperienza quotidiana delle aule di giustizia, fatta di amnesie, rimozioni, sovrapposizioni mnemoniche, tale tipo di prova è insidiata costantemente da fallibilità percettivo-mnemonicolinguistica 5. Si tratta dunque di uno strumento utile ma che annovera in sé un peccato originario difficilmente scardinabile, ossia il fatto di provenire da esseri umani, essendo inevitabilmente soggetta alla
possibile fallacia del loro ricordo.
Ciò nonostante, la rilevanza e la forza persuasiva che storicamente è stata attribuita alla prova regina
del processo penale è chiara riprova del fatto che l’uomo sia portato per natura ad esprimere fiducia
verso il contributo cognitivo proveniente da suoi pari, fermo restando che, allorquando entri in gioco la
valutazione di una dichiarazione proveniente da chi abbia un determinato ruolo nella vicenda – quale
quello della persona offesa – o appartenga ad un contesto sociale di più infima moralità – quale quello
del chiamante in correità – più facilmente si possa essere portati a dubitare della genuinità della stessa 6.
Se per la vittima il pericolo da cui ci si deve guardare è quello di possibili ritrattazioni, più o meno
frequente in considerazione della natura dei reati subiti e dell’esistenza di un legame personale con
l’autore del fatto di reato, nel caso della chiamata in correità il rischio cui si va incontro è piuttosto quello dell’esposizione opportunistica di fatti e circostanze non corrispondenti alla realtà.
Mentre in un caso, dunque, bisogna salvaguardare la persistenza del contributo dichiarativo garantendo la possibilità di recuperare eventuali dichiarazioni precedentemente rese, nell’altro, maggiore rilevanza assumerà la valutazione delle motivazioni che abbiano indotto quella peculiare deposizione. In
entrambe le evenienze si pone un problema di attendibilità del dichiarante.
Nell’ipotesi della chiamata in correità, poi, ai limiti ordinari della prova dichiarativa si aggiungono
ulteriori potenziali fattori di debolezza che la rendono una prova peculiare, non una probatio minor, ma
certamente una prova che impone una più attenta verifica al fine di colmare quel deficit che non le consente di essere autosufficiente. Infatti, mentre la prova dichiarativa per eccellenza, ossia la testimonianza, è utilizzabile ex se, in quanto autonomamente capace di far ritenere provato un fatto solo perché una
persona lo ha riferito, nel caso delle dichiarazioni accusatorie del correo, oltre ai controlli intrinseci ed
estrinseci, si impongono ulteriori valutazioni 7.
In questa direzione, elementi di possibile diffidenza sono riscontrabili laddove si consideri come tali
dichiarazioni provengano da soggetti, non solo in sé fallibili, ma ulteriormente suscettibili di condizionamenti per la posizione rivestita all’interno del procedimento penale, non potendo dirsi estranei allo
stesso, ma, al contrario, fortemente interessati e coinvolti.
Un’ulteriore forma di diffidenza discende non solo dalla difficile valutazione della personalità del
dichiarante, ma anche dall’esistenza nel nostro sistema processuale penale di una serie di benefici premiali che rappresentano un forte incentivo alla collaborazione da parte dei pentiti. Come è stato correttamente osservato, è dunque necessario guardarsi da un uso opportunistico dell’istituto, quale può essere quello di rendere dichiarazioni mendaci al fine di ottenere un corrispettivo o di indirizzare stru-
5
Per simili considerazioni v. A. Bevere, La chiamata di correo, Milano, 2001, p. 73.
6
Si ricordi che secondo Cass., sez. un., 19 luglio 2012, n. 41461, in CED Cass. n. 253214, le dichiarazioni della persona offesa
«possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa
verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di
qualsiasi testimone». Nello stesso senso, Cass., sez. III, 11 dicembre 2012, n. 4127, in www.dirittoegiustizia.it, nonché Cass., sez.
IV, 18 ottobre 2011, n. 44644, in CED Cass. n. 251661; Cass., sez. III, 3 maggio 2011, n. 28913, in CED Cass. n. 251075; Cass., sez.
VI, 1 aprile 2008, n. 27322, in CED Cass. n. 240524; Cass., sez. III, 5 aprile 2007, n. 14182, in Guida dir., 2007, 19, p. 102; Cass., sez.
III, 18 ottobre 2001, n. 43303, in CED Cass. n. 220362, ove si sottolinea che le dichiarazioni rese non necessitano di riscontri esterni, i quali sono invece richiesti, come prescritto ex art. 192, comma 3, c.p.p., per valutare le dichiarazioni rese da coimputati o da
imputati in procedimenti connessi. In questi termini, Cass., sez. III, 3 dicembre 2010, n. 1818, in CED Cass. n. 249136; Cass., sez.
III, 8 maggio 2007, n. 27738, in Guida dir., 2007, 37, p. 92.
7
Si badi come tuttavia non siano mancate, soprattutto in passato, pronunce in giurisprudenza che abbiano teso ad evidenziare l’identità concettuale e psicologica di una semplice testimonianza disinteressata e della chiamata in correità. In tal senso,
Cass., sez. II, 19 febbraio 1988, in Cass. pen., 1989, n. 1118 ha riconosciuto come una ben calibrata chiamata di correo possa soverchiare in efficacia persuasiva una testimonianza, pur se questa non appaia connotata da patologica falsità.
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mentalmente la giustizia contro un rivale; ovvero, in senso opposto, di alimentare teoremi investigativi,
privi di ancoraggio alla realtà, con pseudo conferme, da essi stessi prodotte, non suffragate dai fatti 8.
Ne discende la debolezza dello strumento probatorio, cui è strettamente connessa un altrettanto impegnativa valutazione in punto di attendibilità del dichiarante.
VAGLIO PRELIMINARE IN PUNTO DI ATTENDIBILITÀ
L’odierno sistema processuale penale rifugge dal sistema delle cd. “prove legali”, affidando, invece, così come sancito ex art. 192, comma 1, c.p.p., al giudice il compito di valutare la prova secondo quello che
sarà il suo libero convincimento 9. Il principio della intime conviction non può e non deve trovare alcuna
limitazione; possono solo esprimersi delle indicazioni che valgano in qualche modo ad orientarlo nella
sua libera esplicazione.
Tuttavia, considerando questo il punto di partenza ed applicando, anche in subiecta materia, tutte
quelle considerazioni ordinariamente valevoli in tema di potere valutativo del giudice, che dovrà vagliare quelli che sono i criteri comuni relativi all’attendibilità soggettiva del teste ed oggettiva del narrato, è bene ribadire come ciò non sia sufficiente in tema di chiamata in correità, in questo caso, oltre alla
precisata ricerca dei riscontri, la dottrina 10 e la giurisprudenza hanno, infatti, elaborato ulteriori specifici criteri, che costituiscono delle linee guida funzionali al vaglio delle deposizioni dei collaboratori.
Ad indicare la strada maestra da percorrere per il giudice in punto di valutazione della chiamata in
correità è stata la nota pronuncia a Sezioni Unite Marino, richiamata dalla sentenza in commento, con la
quale si è chiarito che «ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità a mente del disposto
dell’art. 192 c.p.p., comma 3, il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità del
dichiarante (confitente e accusatore) in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e
prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e complici; in secondo luogo
deve verificare l’intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di
criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine
egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni» 11.
Il giudice non può appiattirsi sulla chiamata, limitandosi a valutare la sussistenza di riscontri con altre fonti o la convergenza di più dichiarazioni accusatorie tra loro, così come sembrava aver fatto nel
caso de quo; costui deve prima di tutto focalizzare il proprio vaglio sul chiamante in sé, da sondare in
quanto criterio argomentativo prioritario nell’operazione intellettiva di valutazione della prova. La verifica incrociata di quanto narrato dai collaboratori di giustizia con gli altri elementi di prova raccolti,
cercando un parametro di conferma o di smentita alle dichiarazioni rese, sarà un passaggio da valutarsi
in un secondo momento, solo se ed in quanto sia stata positivamente superata la verifica circa l’attendibilità intrinseca del chiamante.
É, dunque, triplice il vaglio richiesto al giudicante per la formazione del suo convincimento, dovendo il suo iter valutativo soffermarsi prioritariamente sulla credibilità del dichiarante, quindi sulla attendibilità della chiamata e, infine, concentrarsi sulla disamina dei riscontri esterni.
8
Cfr. A. Nappi, Il problema della prova dei reati associativi, in AA.VV., I reati associativi, Milano, 1998, p. 210.
9
Per un’impostazione secondo la quale il legislatore del 1988 abbia optato per una sorta di recupero del principio di legalità
della prova, volto ad evidenziare la funzionalità delle regole di acquisizione probatoria rispetto alla formazione del convincimento giudiziale, cfr. E. Amodio, Libero convincimento e tassatività dei mezzi di prova: un approccio comparativo, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1999, p. 3 nonché V. Grevi, Prove, in G. Conso-V. Grevi (a cura di), Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1996,
p. 227, che ha rilevato come le “disposizioni generali” collocate a guisa di preambolo del libro III del codice dedicato interamente alle prove fungano da «catalogo dei principi guida da osservarsi in materia probatoria».
10
Secondo O. Dominioni, La valutazione delle dichiarazioni dei pentiti, in Riv. dir. proc., 1986, p. 755, in questi casi ‹‹alla generale
affidabilità si sostituisce la generale diffidenza, così da essere portati a ritenere che la dichiarazione probatoria del chiamante in
correità riesce verificata nella sua veridicità in quanto risulti corrispondere a determinati requisiti››.
11
Cass., sez. un., 21 ottobre 1992, n. 1653, in CED Cass. n. 192465. Nello stesso senso, più di recente, v. Cass., sez. II, 7 maggio
2013, n. 21171, in CED Cass. n. 255553; Cass., sez. VI, 20 dicembre 2011, n. 16939, in CED Cass. n. 252630; Cass., sez. II, 3 maggio
2005, n. 21998, in Guida dir., 2005, 31, p. 71; Cass., sez. II, 21 dicembre 2004, n. 2350, in CED Cass. n. 230716; Cass., sez. IV, 10 dicembre 2004, n. 5821, in Guida dir., 2005, 9, p. 99; Cass., sez. I, 26 gennaio 2004, n. 8415, in Guida dir., 2004, 19, p. 83; Cass., sez. II,
10 aprile 2003, n. 24097, in Guida dir., 2003, 36, p. 93.
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In questa sede, si avrà cura di soffermarsi su quanto costituisce oggetto del primo step di verifica richiesto all’organo decidente.
Come in ogni buon progetto di ricerca che si rispetti, non si può procedere al vaglio del merito delle
argomentazioni qualora non si sia certi della bontà delle fonti utilizzate, così, in caso di valutazione di
una chiamata in correità, prima di sottoporre ad attenta analisi la dichiarazione resa, sarà necessario
“passare ai raggi x” l’affidabilità del dichiarante.
Sarà solo la accertata qualità della fonte, in sé “impura” 12, a rappresentare il valido presupposto logico per tutte le valutazioni successive. Sarà solo il superamento dei controlli di qualità sul loquens a
consentire l’accertamento della qualità del contributo e, poi, la verifica ab externo attraverso i citati riscontri, in quanto, come chiarito in giurisprudenza, una volta verificata l’attendibilità intrinseca del
chiamante in correità, il procedimento logico non potrà pervenire, “omisso medio” all’esame dei riscontri
esterni della chiamata, occorrendo in ogni caso che il giudice verifichi se quella singola dichiarazione,
resa da soggetto attendibile, sia a sua volta attendibile 13.
Sul punto, si è anche ulteriormente osservato che «la verifica intrinseca ed estrinseca della chiamata
rappresentano due temi di indagine strettamente interdipendenti: nel senso che un giudizio fortemente
positivo di attendibilità intrinseca ben può bilanciare la minor valenza dei riscontri esterni, che devono
essere comunque sussistenti, allo stesso modo in cui il grado minore di intrinseca attendibilità delle accuse postula il concorso di riscontri esterni di più accentuato spessore, anche riguardo alla personalizzazione delle imputazioni; tra questi elementi intercorre quindi un rapporto di proporzionalità inversa» 14.
Va da sé, ad ogni modo, che la totale mancanza di credibilità della fonte – rappresentando un prius
logico – non possa essere tale da consentire una valida utilizzazione ai fini decisori dello strumento
probatorio, non potendosi nemmeno pervenire alla valutazione del posterius in assenza di questa preliminare delibazione. In questi termini, la Corte adita ha infatti chiarito, con la pronuncia in esame, come
un tale vaglio si ponga quale «esame preventivo, generale e indefettibile, senza il quale quelli successivi
di credibilità intrinseca, di coerenza e logica interna e di ricerca di riscontri esterni apparirebbero incompleti e non autosufficienti oltre che secondari», così ancor meglio esplicitando quel concetto ormai
assodato secondo cui «un’accurata analisi della affidabilità del chiamante è la base verificatoria dalla
quale pervenire ad ogni ulteriore apprezzamento» 15.
Non pare trattarsi di una gerarchia di valore, tale da limitare il libero convincimento giudiziale,
quanto piuttosto di un’indicazione metodologica, da vagliarsi sempre unitariamente, in quanto il percorso valutativo del giudice non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, non indicando l’art. 192, comma 3, c.p.p. alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale 16.
In particolare poi – come aveva già affermato la stessa Corte di cassazione – nella fase di verifica della credibilità soggettiva del dichiarante, «doveva essere valutata la personalità di ogni singolo collaborante, le sue condizioni socio-familiari, il suo pregresso delinquenziale, i rapporti con i chiamanti in
correità o con sodali del reato al fine di radicare nel contesto ambientale del soggetto, le modalità di
apprensione delle notizie che si vogliono far valere onde testare la “qualità” della fonte probatoria. Sot-
12
La locuzione è di V. Grevi, Le “dichiarazioni” rese dal coimputato nel nuovo codice di procedura penale, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1991, p. 1173.
13
Così Cass., sez. I, 11 gennaio 2001, n. 7686, inedita.
14
I. Criscuolo, La valutazione della chiamata in correità, in Arch. pen., 2014, p. 27.
15
Così, ex multis, Cass., sez. II, 12 dicembre 2002, n. 15756, in CED Cass. n. 225565.
16
Così, di recente, Cass., sez. un., 29 novembre 2012, n. 20804, in CED Cass. n. 255145. Parla, invece, di un preciso ordine logico Cass., sez. VI, 20 dicembre 2011, n. 16939, in CED Cass. n. 252630. Si veda, altresì, Cass., sez. II, 16 febbraio 2009, n. 21599, in
CED Cass. n. 244541, secondo cui «in tema di chiamata in correità, devono essere unitariamente considerate la credibilità soggettiva del dichiarante e la attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni, sicché, in presenza di elementi incerti in ordine all’attendibilità del racconto occorre vagliarne la tenuta probatoria alla luce delle complessive emergenze processuali, salvo il caso
estremo di sicura inattendibilità del dichiarato». Si badi tuttavia come, secondo quanto affermato da Cass., sez. V, 18 gennaio
2000, n. 4888, in Guida dir., 2000, 21, p. 71, «ai sensi del combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 192 c.p.p., nel caso in cui
sussistano dei dubbi sulla credibilità personale del chiamante in correità o sull’attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni, il
giudice dovrà egualmente valutare la chiamata in correità (di cui non sia accertata l’oggettiva inattendibilità) ai sensi del comma
2 del citato articolo, anziché ai sensi del successivo comma 3, come “indizio” dei fatti oggetto del giudizio e non come prova diretta di quegli stessi fatti».
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to questo profilo era importante che si addivenisse non solo all’illustrazione della “biografia giudiziaria” del collaboratore, ma anche alla sua storia di collaborante, a partire dalla genesi della collaborazione, onde pervenire alla verificazione di affidabilità sul campo, se vi è stata, del contenuto delle sue propalazioni e dunque della loro resa in termini giudiziari, non mancando di asseverare se le dichiarazioni
siano state rese in modo indipendente e spontaneo tra loro, non siano frutto di strumentalizzazione deviante o di mera concertazione, e non abbiano un movente calunniatore o di rivalsa o una comune fonte
informativa di scaturigine» 17.
In questa direzione, provando a riassumere quanto icasticamente affermato dai giudici di legittimità
e a prospettare una sorta di “protocollo operativo” – tanto in voga nell’attuale momento storico – potrebbero forse essere individuati tre criteri di indirizzo di massima per il giudice rappresentanti altrettante macro-aree di indagine, necessarie per fondare il proprio giudizio in ordine all’affidabilità del collaboratore.
Andranno così valutate la persona del chiamante, la sua personalità e le sue condizioni socioeconomiche e familiari, per individuarne, in maniera statica, caratteristiche e propensioni tali da consentire, almeno in astratto, l’offerta di un contributo affidabile. In secondo luogo, il vaglio del giudicante si dovrà spostare sui profili, più propriamente dinamici, inerenti alla biografia giudiziaria del collaboratore. Si analizzerà, così, il suo pregresso delinquenziale, la sua storia di collaborante, a partire dalla
genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla collaborazione, con l’accusa dei
coautori e complici, i rapporti con i chiamati in correità o con sodali del reato, anche al fine di stabilire
che le accuse mosse non abbiano un movente calunniatore o di rivalsa. Infine, per potersi avere una
completa valutazione in ordine all’attendibilità intrinseca del chiamante, risulterà imprescindibile studiare quali siano state, nel caso concreto, le modalità di apprensione delle notizie e vagliarne, in definitiva, la libertà morale. Si tratta dell’indagine volta ad appurare se le dichiarazioni siano state rese in
maniera spontanea, autentica, genuina, senza essere state determinate da eterogenee strumentalizzazioni deviatrici o da concertazioni tra più soggetti.
SEGUE: LA PERSONA DEL CHIAMANTE
Un primo vaglio che si impone come opportuno al fine di valutare l’attendibilità del collaboratore attiene alla disamina del soggetto in sé, così come si presenta – in maniera che potremmo definire “statica” – al momento della collaborazione.
Nella letteratura psicologico-giuridica clinica il concetto di attendibilità viene considerato secondo
due dimensioni: quella dell’accuratezza e quella della credibilità. L’accuratezza riguarda la valutazione
delle competenze di base del soggetto e, in particolare, la percezione, la memoria e il linguaggio; ma valuta anche quanto e come la testimonianza sia accurata, precisa, dettagliata e coerente sotto il profilo
delle competenze/capacità di memoria e di percezione da parte del soggetto. La credibilità attiene agli
aspetti motivazionali della testimonianza e consiste nel valutare eventuali ragioni o fonti di influenzamento che possono avere orientato le dichiarazioni rese 18.
In questa direzione, è richiesto al giudice un compito valutativo piuttosto complesso che – a seconda
dei casi e prima ancora che egli indaghi sulla personalità e sulle condizioni socio-economiche e familiari
del dichiarante – potrebbe necessitare dell’ausilio di un esperto, cui affidare il delicato compito di sondare lo stato di mente di colui che abbia formulato le accuse e l’eventuale sussistenza di anomalie psichiche tali da poterne inficiare l’attendibilità del propalato 19.
A tal proposito, non pare superfluo ricordare come l’apporto della scienza non possa sospingersi fino al punto di stabilire la fedeltà al vero della rappresentazione effettuata dal dichiarante, ma dovrà limitarsi ad offrire un contributo per vagliare la genuinità delle dichiarazioni rese e l’eventuale influenza
sulle stesse di ipotetiche anomalie a livello mentale o volitivo.
17
Cass., sez. I, 15 novembre 2013, n. 3761, inedita, citata dalla sentenza in commento.
18
Per maggiori approfondimenti v. G. De Leo-M. Scali-L. Caso (a cura di), La testimonianza, Bologna, 2005.
19
Nel riferirsi ad un simile vaglio, G. Cavalli, La chiamata in correità, Milano, 2006, p. 96 parla della necessità per il giudice di
tracciare un “identikit psicologico” del chiamante.
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In questi casi non sarà consentito il ricorso allo strumento della perizia psicodiagnostica sulla capacità
di testimoniare ex art. 196 c.p.p. e, dunque, sull’idoneità fisica o mentale del testimone, attesa la diversità
di valenza e peso che hanno tali ultimi soggetti rispetto agli imputati in procedimenti connessi 20 e il
mancato richiamo a tale norma da parte degli artt. 197-bis e 210 c.p.p. Il giudice sarà, tuttavia, legittimato
a conferire incarico peritale ex art. 70 c.p.p. al fine di stabilire, tramite l’ausilio di un esperto, se il soggetto presenti eventuali deficit di natura psichica tali da influire sulla relativa capacità di partecipare coscientemente al processo e, quale conseguenza, di limitarne gli aspetti cognitivi o volitivi e riverberarsi,
in definitiva, sulla bontà del contributo dichiarativo 21. Si recupera, così, attraverso la previsione in disamina, la possibilità per il giudice di sottoporre ad adeguato vaglio medico-legale le capacità mentali dell’imputato, che, inevitabilmente, rifletteranno i loro effetti anche sulla credibilità delle dichiarazioni rese.
Dovranno essere sondati una serie di criteri che la scienza psicologica ha individuato quali il senso
di realtà, la capacità e le qualità dei rapporti interpersonali, il livello di intelligenza, il grado di rigidità delle strutture mentali e psicologiche, la natura, il tipo e l’importanza delle aree di conflittualità,
del grado e della tipologia della manifestazione impulsiva 22, ma anche di rilievo psichiatrico per verificare l’eventuale esistenza di patologie aventi caratteri tali da inficiare l’attendibilità intrinseca del
chiamante.
Si passerà, quindi, alla valutazione della personalità del collaboratore e delle sue condizioni socioeconomiche e familiari; un aspetto di indagine piuttosto ostico per il giudicante, tanto da rivelarsi particolarmente sentito il pericolo di sforamento da considerazioni strettamente logico-giuridiche per addentrarsi nel campo dei giudizi di valore o delle valutazioni di carattere etico o tautologico, non ammesse nell’indagine in questione. In tal senso, ci si dovrà ricordare che la valutazione non potrà soffermarsi sulle qualità morali dell’accusatore, essendo egli stesso generalmente autore di gravi fatti delittuosi 23.
Se, dunque, l’esame sulla personalità non deve indugiare sui connotati di carattere etico e sulla caratura morale del dichiarante 24 – pur sempre da valutarsi 25 – l’indagine parrebbe più opportunamente
doversi spostare sulle caratteristiche personologiche, sul carattere, il temperamento, ma anche – si ritiene – sulle precise spinte psicologiche e sulle ragioni interne che abbiano determinato il pentito alla collaborazione 26.
20
Così Cass., sez. V, 11 gennaio 1993, in Cass. pen., 1994, p. 1393 s.
21
A. Bevere, La chiamata di correo, Milano, 2001, p. 111 fa notare come «in caso di accertamento di una situazione mentale
anomala, può ritenersi sussistente l’ipotesi di impossibilità di ripetizione di dichiarazioni rese in precedente fase o in altro procedimento. Pertanto il giudice dispone l’acquisizione di tali dichiarazioni (v. art. 512 e 238, comma 3, c.p.p.)».
22
Cfr. L. De Cataldo Neuburger, “Arrivare ad una decisione”: analisi dei criteri di giudizio adottati in alcune sentenze e ricerca di regole empiriche per la valutazione della chiamata in correità, in L. De Cataldo Neuburger (a cura di), Chiamata in correità e psicologia del
pentitismo nel nuovo processo penale, Padova, 1992, p. 200.
23
In tal senso, E. Fassone, Pentitismo e Cassazione pentita?, in Cass. pen., 1986, p. 1833 ha osservato come la personalità del
pentito sia inevitabilmente poco commendevole, essendo egli, per definizione, autore di almeno un reato e, spesso, di molti gravi delitti.
24
Sebbene G. Di Martino-T. Procaccianti, La chiamata di correo, Padova, 2007, p. 42 facciano osservare come «ciò non esclude
che il soggetto segua una sua regola di comportamento od abbia una sua, discutibile, personalissima “morale”, come comunemente avviene fra gli appartenenti ad associazioni terroristiche od ad affiliati ad organizzazioni criminali ex art. 416-bis c.p.».
25
Infatti, secondo Cass., sez. I, 6 novembre 2003, n. 47486, in CED Cass. n. 226462, «la negativa valutazione in ordine alla
credibilità intrinseca di un chiamante in correità, in considerazione delle connotazioni personali e caratteriali di costui, non può
precludere in modo assoluto l’esame del contenuto delle sue dichiarazioni, atteso che anche i soggetti più amorali e i mentitori
più inveterati possono, in determinate circostanze e per le più vane ragioni, riferire la verità e, dall’altra parte, dette dichiarazioni costituiscono comunque materiale probatorio ritualmente acquisito, non sottraibile, come tale, al libero apprezzamento da
parte del giudice, ferma restando, naturalmente, la necessità che in tali casi la verifica si compia nel modo più approfondito e
con il massimo senso critico».
26
In giurisprudenza, di recente, si veda Cass., sez. VI, 30 ottobre 2013, n. 46483, in CED Cass. n. 257389, secondo cui «in tema
di dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, il c.d. “pentimento”, collegato nella maggior parte dei casi a motivazioni utilitaristiche ed all’intento di conseguire vantaggi di vario genere, non può essere assunto ad indice di una metamorfosi morale del
soggetto già dedito al crimine, capace di fondare un’intrinseca attendibilità delle sue propalazioni. Ne consegue che l’indagine
sulla credibilità del collaboratore deve essere compiuta dal giudice non tanto facendo leva sulle qualità morali della persona – e
quindi sulla genuinità del suo pentimento – quanto sulle ragioni che possono averlo indotto alla collaborazione e sulla valutazione dei suoi rapporti con i chiamati in correità, oltre che sulla precisione, coerenza, costanza e spontaneità delle dichiarazioni». Cfr. Cass., sez. VI, 3 ottobre 2012, n. 43526, in CED Cass. n. 253709.
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Si tratta di una problematica invero piuttosto dibattuta, non potendosi trarre una soluzione positiva
al quesito dalla mera lettura delle indicazioni contenute nel d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito in l. 15
marzo 1991, n. 82. Allo stesso tempo, però, non può sottacersi come una siffatta valutazione si riveli in
realtà fortemente utile nella pratica, tanto che si ritiene debba essere oggetto precipuo di attenzione da
parte del giudicante. Non si può, infatti, negare come la scelta della collaborazione origini quasi sempre
in valutazioni opportunistiche e calcoli di convenienza che, di per sé soli, non sono tali da privare di validità il contenuto del dichiarato, fermo restando che simili considerazioni non possano essere omesse,
in quanto più disinteressata risulterà essere la scelta collaborativa, tanto maggiore potrà essere la prognosi di attendibilità dell’accusatore.
D’altro canto, in questo come in altri settori, capita di dover acquisire il contributo dichiarativo di
soggetti latori di determinati interessi e, se una tale valutazione non può che imporre maggiore scrupolo e cautela nella delicata fase valutativa 27, del pari non sarebbe corretto, per ciò solo, rinunciare a priori
alla raccolta dell’elemento conoscitivo. A titolo esemplificativo si ricordi come già nel valutare la rilevanza del contributo della parte civile nel processo penale ci si fosse domandati se il fatto che la stessa
fosse portatrice di un interesse nella causa fosse tale da portare all’esclusione della sua testimonianza 28.
Ebbene, anche in quella circostanza si era chiarito come una simile preclusione costituisse un sacrificio
troppo grande alla ricerca della verità processuale e, dunque, dovesse essere ammessa la sua testimonianza, ma con la considerazione del suo ruolo quale uno dei tanti elementi di giudizio di cui il giudice
si dovesse avvalere nell’apprezzare l’attendibilità della prova 29.
Analogamente si dovrà operare in caso di chiamata in correità; il rigore valutativo dovrà essere proporzionalmente commisurato al vantaggio correlato alle dichiarazioni rese ma l’elemento del disinteresse in sé non potrà affatto essere posto come condizione di credibilità del chiamante.
D’altronde, nel caso del collaboratore di giustizia, l’esistenza di una matrice utilitaristica non può pregiudicare la credibilità del loquens in considerazione del fatto che è proprio il sistema sin dagli anni ‘70 ad
aver previsto degli incentivi premiali per la collaborazione (di carattere sanzionatorio, penitenziario, assistenziale, economico) e, in verità, ad averne determinato la perdita in caso di scoperta di falsità. Si tratta
dunque di dati, legati al c.d. “sinallagma del pentitismo” 30, di cui non si può non tener conto. In tal senso
si è sostenuto come un parametro di sicura importanza appaia essere la stima della rilevanza della collaborazione in relazione alla considerazione delle alternative e all’analisi costi-benefici 31. In questa valutazione non si devono, infatti, trascurare anche le possibili conseguenze negative derivanti dalla collaborazione, quali quelle personali legate all’eventuale confessione, nonché il pericolo di ritorsioni o vendette a
sé o ai propri familiari conseguenti alla rivelazioni di dati scomodi per gli accusati.
In definitiva, se è certamente vero che la sussistenza del requisito del disinteresse non sia di per sé
tale da garantire, automaticamente, l’attendibilità della chiamata, del pari la sua mancanza non potrà
assurgere a criterio di valida esclusione della stessa 32.
27
Così Cass., sez. IV, 14 maggio 2004, n. 32924, in CED Cass. n. 229106, che evidenzia come «la presenza di un interesse del
chiamante, alimentando il sospetto che le sue dichiarazioni ne risultino influenzate, deve indurre il giudice a usare maggiore
cautela, accertando, da un lato, se e quanto quell’interesse abbia inciso sulle dichiarazioni e, dall’altro, applicando con il massimo scrupolo gli altri parametri di valutazione offerti dalla esperienza e dalla logica».
28
Si ricordi che, secondo la giurisprudenza di legittimità, «qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia,
perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone, e si può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con
altri elementi». Così Cass., sez. III, 15 giugno 2011, n. 30032, in www.iusexplorer.it, nonché Cass., sez. VI, 23 marzo 2011, n. 22281,
in www.iusexplorer.it. Nello stesso senso, Cass., sez. III, 27 marzo 2003, n. 22848, in www.iusexplorer.it; Cass., sez. I, 14 giugno
2000, n. 7027, in CED Cass. n. 216180; Cass., sez. V, 27 aprile 1999, n. 6910, in www.iusexplorer.it; Cass., sez. I, 8 dicembre 1999, n.
6502, in www.iusexplorer.it. La stessa Corte costituzionale (C. cost., ord., 19 marzo 1992, n. 115 in Cass. pen., 1992, n. 1243 ha affermato che ‹‹alla luce di un ormai fermo orientamento giurisprudenziale, la deposizione della persona offesa dal reato, costituitasi parte civile, deve essere valutata dal giudice con prudente apprezzamento e spirito critico, non potendosi essa equiparare,
puramente e semplicemente a quella del testimone, immune dal sospetto di interesse all’esito della causa››.
29
Cfr. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, n. 250, Serie Generale, Suppl. ord.
n. 2, p. 62.
30
L’espressione è di M. Deganello, I criteri di valutazione della prova penale, Scenari di diritto giurisprudenziale, Torino, 2005, p. 164.
31
Cfr. F. Bruno-F. Biagini, Criminalità organizzata, in V. Volterra (a cura di), Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica,
Milano, 2006, p. 343.
32
Cfr., per simili considerazioni, G.L. Verrina, Valutazione probatoria e chiamata di correo, Torino, 2000, p. 82. In giurispruden-
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SEGUE: LA BIOGRAFIA GIUDIZIARIA DEL COLLABORATORE
Definitiva importanza assume poi l’indagine sulla biografia giudiziaria del collaboratore di giustizia,
ritenuto un passaggio fondamentale nella gnoseologia della fonte. Nessuna dichiarazione potrebbe essere adeguatamente vagliata e considerata attendibile se prima non si scavasse sulla storia del singolo
accusatore, andando a ricercare in itinere, in una prospettiva “dinamica”, le origini, remote e prossime
della collaborazione e dell’eventuale confessione, nonché l’esistenza di ipotetici precedenti giudiziari
significativi, la sua collocazione all’interno di una certa categoria o un determinato gruppo di persone,
per stabilire eventuali rapporti di amicizia, di affari o, al contrario, di astio o concorrenza.
Così, sarà fondamentale indagare sul ruolo ricoperto dall’accusatore, sulla qualità di trasgressore e
sulla posizione eventuale di comando e responsabilità all’interno dell’associazione criminale di provenienza. In tale metro di giudizio non potrà non dedicarsi adeguata attenzione alla verifica circa la
natura anche eventualmente confessoria della dichiarazione resa in quanto, se è ben vero che quest’ultima resti utilizzabile a prescindere da una simile evenienza, è altrettanto certo che l’ipotetica natura auto-accusatoria del contributo offerto debba essere adeguatamente valutata nel quadro complessivo dell’indagine in punto di attendibilità intrinseca del chiamante 33. Se, da una parte, una scelta
che si pone così drasticamente in contrasto con la naturale tendenza umana all’autodifesa potrebbe
indurre ad una valutazione positiva in termini di affidabilità del dichiarante de aliis, dall’altra, potrebbe invece mostrarne una qualche equivocità, risultando dunque da approfondire piuttosto che da
accogliere passivamente. A ben vedere, infatti, la valutazione soggettiva di chi rende dichiarazioni
contra se, pur di primo acchito moralmente apprezzabile e percepibile come eventuale segno di resipiscenza, ad un vaglio più attento potrebbe rivelare motivazioni meno nobili o essere frutto di intendimenti autocalunniatori o costrizioni esterne 34 e far insorgere dubbi circa la rispondenza al vero anche di quanto dichiarato contra alios.
Allo stesso modo, l’analisi della storia giudiziaria del collaboratore nella sua evoluzione dinamica
appare di estrema utilità laddove si voglia collocare in un preciso contesto ambientale la genesi della
scelta effettuata e il ruolo ricoperto dal dichiarante, ivi inclusa la natura dei rapporti, sia pregressi che
attuali fra il chiamante ed il chiamato, nonché la conoscenza delle attività illecite, l’eventuale condivisione di ruoli e di situazioni che vengono riferite, le quali si mostrano funzionali anche a comprendere
la concreta possibilità avuta di percepire quanto poi ha costituito oggetto del fatto narrato.
A seconda della posizione rivestita dal chiamante in seno all’associazione criminale, infatti, si potrà
ritenere più o meno credibile l’offerta all’autorità giudiziaria di una serie di informazioni che, in certi
casi, solo una posizione privilegiata avrebbe consentito di possedere.
Del pari, fondamentale importanza assumerà anche la verifica in ordine al momento processuale in
cui siano intervenute le dichiarazione accusatorie, dovendosi il giudice necessariamente interrogare anche sull’eventualità che le stesse siano state il frutto di influenze o di progressivi adattamenti alle emer-
za si veda Cass., sez. IV, 10 dicembre 2004, n. 5821, in Guida dir., 2005, 9, p. 100, secondo cui «nell’apprezzamento dell’attendibilità delle dichiarazioni di un chiamante in correità sotto lo specifico profilo della credibilità di questi, il giudice non può ovviamente omettere di prendere in considerazione soprattutto quando la circostanza è fatta oggetto di deduzioni e osservazioni
difensive la qualità di “collaborante di giustizia” del dichiarante, il quale rispetto al semplice chiamante in correità, si viene a
trovare nella particolare situazione meritevole di specifica attenzione che collega benefici processuali e patrimoniali alla prestazione di un contributo di conoscenza per la ricostruzione dei fatti-reato e l’individuazione dei responsabili. Va però riconosciuto
che, nell’apprezzamento dell’attendibilità delle dichiarazioni di un chiamante in correità, l’interesse inquinante, che dovrebbe
escludere la valenza probatoria di dette dichiarazioni non può ritenersi ex se in quello generico a fruire dei benefici premiali
previsti dalla legge per i collaboratori di giustizia. Infatti deve ritenersi che l’interesse a collaborare (che può animare il collaborante, in considerazione della possibilità di beneficiare delle misure previste dalle leggi speciali sui collaboratori di giustizia)
non va confuso con l’interesse concreto a rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di terzi. Quindi il genetico interesse a
fruire dei benefici premiali non intacca ex se la credibilità delle dichiarazioni rese dai collaboranti».
33
Cfr. Cass., sez. IV, 3 luglio 1991, in Cass. pen., 1993, 908, n. 560.
34
Si badi come, sul punto, la giurisprudenza abbia chiarito che ‹‹la confessione può costituire prova sufficiente della responsabilità del confidente, indipendentemente dall’esistenza di riscontri esterni (non essendo suscettibili di applicazione analogica i
limiti previsti dall’art. 192 c.p.p. per la chiamata in correità), purché il giudice prenda in esame le circostanze obiettive e subiettive che hanno determinato e accompagnato la dichiarazione e dia ragione, con logica motivazione, delle circostanze che escludono intendimenti autocalunniatori o l’intervenuta costrizione dell’interessato››. Così Cass., sez. VI, 3 ottobre 2013, n. 13085, in
CED Cass. n. 259489. V. anche Cass., sez. V, 18 giugno 2003, n. 30850, in Guida dir., 2003, 45, p. 94.
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genze processuali, anche nel caso in cui il chiamante sia privo di uno specifico interesse processuale 35.
La giurisprudenza di legittimità si è poi soffermata sulla necessità di indagare, a livello motivazionale, sull’eventuale presenza di un movente calunniatorio e di motivi di astio – personale o magari politico – o di risentimento e rivalsa nei confronti dell’accusato, se non addirittura di odio o di inimicizia nei
suoi riguardi. Ci si potrà trovare davanti ad un’accusa calunniosa, ad esempio, laddove vi siano precedenti rapporti con il chiamato e siano magari motivazioni di vendetta ad averla animata. Ancora, potrà
accadere di trovarsi di fronte ad un’accusa falsa, nel caso in cui si agisca allo scopo di estorcere denaro
per la ritrattazione. Difficilmente, come detto, la collaborazione origina da uno spontaneo anelito di
giustizia, da senso civico o dal vivo desiderio che i reali colpevoli vengano puniti, ma sarà certamente
rilevante per il giudice comprendere il contesto in cui la stessa si è originata, per verificare se possa trovare fondamento in mere aspettative personali di carattere premiale o in differenti costruzioni animate
da mala fede del dichiarante. A ben vedere si potrebbe trattare anche di finalità concorrenti, volte da
una parte ad arrecare vantaggi al dichiarante e nocumento a terzi e, anche in una siffatta evenienza, sarà compito del giudice decifrare il comportamento adottato per trarre dallo stesso elementi utili al fine
di verificare la veridicità del fatto storico dichiarato e la sua riferibilità agli autori indicati.
SEGUE: LE MODALITÀ DI APPRENSIONE DELLE NOTIZIE. LA LIBERTÀ MORALE
É necessario poi verificare che le dichiarazioni siano rese in maniera spontanea, autentica, genuina,
senza essere state determinate da eterogenee strumentalizzazioni deviatrici o da concertazioni tra più
soggetti. La spontaneità della dichiarazione implica, da un punto di vista soggettivo, la libertà morale,
l’assenza di suggestioni, di pressioni esterne da parte degli organi inquirenti o di altri collaboratori
chiamanti in correità nel momento in cui il loquens abbia formulato le proprie dichiarazioni accusatorie.
Al fine di valutare adeguatamente questo profilo, potrà venire in rilievo il dato secondo cui tali soggetti siano stati reclusi in determinati ambienti penitenziari da cui magari provengano altri collaboratori, nonché il fatto di essere stati sentiti da certi magistrati, che, portando avanti alcune attività investigative, potrebbero aver esercitato una particolare influenza sugli stessi.
In questi casi, al fine di scongiurare il pericolo di simili inquinamenti, si impone, dunque, separatezza tra i pentiti e una precisa attività di registrazione o meglio di videoripresa degli interrogatori 36.
Quest’ultima, in particolare, assurge a garanzia in ordine alla verificabilità ex post delle modalità acquisitive delle dichiarazioni. Da una parte, consente di valutare anche eventuali comportamenti non verbali del collaboratore e, dall’altra, permette di verificare la professionalità, la tecnica prescelta e l’assenza
di influenze indebite da parte del magistrato, che non dovrà mai carpire alcuna informazione con modalità tali da influire sulla libertà morale del dichiarante, ad esempio attraverso lo strumento della minaccia o sotto la coercizione di una misura cautelare personale, vanificando in questo modo il sacrosanto diritto al silenzio di cui all’art. 64, comma 3, c.p.p.
Ad un tale, ultimo, rilievo, connotato da patologia del meccanismo acquisitivo, fa poi da contraltare
la personale valutazione di inopportunità di un sistema, come quello attuale, che riconosca all’autorità
inquirente intervistante un fisiologico potere di influire in maniera determinante sulle sorti dell’intervistato. Ciò in quanto la regolarità nell’assunzione delle dichiarazioni dei collaboratori da parte degli
organi a ciò preposti assurge a criterio concorrente di attendibilità delle stesse 37 e, dunque, nessuna alea
dovrebbe potersi insinuare nella già difficoltosa operazione di raccolta di questo materiale così infido e
malleabile. Allo stesso modo, si dovrebbe scongiurare l’eventualità di accordi c.d. “sottobanco” tra pentiti volti al confezionamento di una dichiarazione accusatoria comune, finalizzata ad esempio ad inde-
35
Così Cass., sez. I, 1 ottobre 2013, n. 43856, in CED Cass. n. 258123.
36
E. Fassone, Il processo penale e la valutazione dell’apporto probatorio del chiamante in correità, in L. De Cataldo Neuburger (a cura di), Chiamata in correità e psicologia del pentitismo nel nuovo processo penale, Padova, 1992, p. 116 considera, altresì, di grande utilità disporre fin da subito confronti tra chiamanti e chiamati in correità per far sì che l’accusatore non abbia il tempo necessario
per conoscere gli atti del processo e correggere imperfezioni più o meno evidenti della propria dichiarazione.
37
In tal senso si è finanche sostenuto che «l’attendibilità di un pentito non dipende tanto dal contenuto delle sue affermazioni, quanto invece dal giudizio del procuratore che lo interroga e che, in base al nostro sistema, ne diventa di fatto l’unico garante». Cfr. F. Bruno-F. Biagini, Criminalità organizzata, in V. Volterra (a cura di), Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica,
Milano, 2006, p. 343.
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bolire associazioni criminali concorrenti o a sviare le attività di indagine in corso verso un filone investigativo senza sbocchi concreti 38.
DALLA CHIAMATA IN CORREITÀ ALLA VALUTAZIONE DEL GIUDICE
La chiamata in correità è, dunque, una “prova complessa” che richiede grande competenza nella raccolta e una valutazione unitaria da effettuarsi sempre cum grano salis e con estrema capacità tecnica e professionale da parte del giudicante.
Terminata la fase di assunzione della dichiarazione accusatoria, il vero problema passa dalla chiamata in correità alla valutazione del giudice. I riflettori, una volta assunta la prova, non possono omettere di puntarsi anche su chi, questa volta, sia chiamato a pronunciarsi sulla stessa: un giudice sempre
più specializzato, dotato di ampie cognizioni nelle varie branche dello scibile umano e, in particolare,
nella storia del fenomeno della criminalità organizzata e nella psicologia della testimonianza e del
comportamento dell’uomo in generale; un giudice capace di scavare nella psiche umana e di apprezzare anche ciò che strettamente giuridico non sia.
Un ruolo talvolta scomodo, ma dal quale il giudicante non può defilarsi, essendo l’unico soggetto
deputato a fondare il giudizio di sussistenza del fatto e di colpevolezza del suo autore. Come è stato
correttamente osservato, «il giudice, nel procedimento conoscitivo e valutativo, non può, per intuibili
ragioni, far ricorso né a procedimenti scientifici per accertare la fedeltà al vero della rappresentazione
del chiamante in correità, né a regole canonizzate, se non a quella, in negativo, prevista dall’art. 192, 3
comma, c.p.p.: egli deve, quindi, servirsi di regole empiriche, la cui concreta applicazione dipenderà, in
un senso o nell’altro, dalla minore o maggiore esperienza processuale del giudice, dalla sua cultura, dai
suoi valori, dalla sua indipendenza» 39. Paiono essere anche valutazioni di logica, prudenza, buon senso
e comune esperienza a doverne guidare il giudizio.
Un ruolo complesso in cui ulteriori difficoltà potrebbero insorgere anche per le ripercussioni a livello etico, sociale, culturale e politico che inevitabilmente le categorie di reato in questione portano con sé.
Spesso, poi, ci si trova ad operare in contesti ambientali caratterizzati da un clima dominato da una radicata suggestione emotiva, non di rado amplificata dall’elevato clamore mediatico che ordinariamente
accompagna le cronache relative a queste tipologie di crimini e l’eco riservata a talune rivelazioni inaspettate capaci di aprire nuovi scenari di indagine e fondare nuovi impianti accusatori. Al proposito, è
bene osservare che se i media, da una parte, hanno l’indiscutibile merito di consentire conoscibilità a fenomeni che, data la loro intrinseca pericolosità, inevitabilmente mettono a rischio la sicurezza collettiva,
dall’altra parte una cattiva informazione o un’eccessiva pressione ambientale rischia di ingenerare una
situazione di allarme generalizzato, che certo non agevola il delicato compito del soggetto giudicante.
Considerata la vischiosità della prova in questione, a parere di chi scrive, non si dovrebbe forse porre la chiamata a principale fondamento della decisione dell’organo giudicante, scongiurandone un utilizzo eccessivamente disinvolto nelle aule giudiziarie; tuttavia, un tale precetto di carattere quantomeno
prudenziale viene ordinariamente sconfessato. Le indagini dovrebbero più opportunamente essere
estese alla ricerca di prove oggettive, in modo da riservare alla chiamata in correità un ruolo meno pregnante di quanto non si riscontri ordinariamente nelle pronunce di condanna. Una tale cautela si imporrebbe al fine di garantire al più sommo grado il rispetto dei principi del giusto processo, che non
possono e non debbono subire sconti di tutela in tutto il corso del procedimento e, ancor più, nel delicato momento di formazione del convincimento giudiziale in ordine alla colpevolezza o meno
dell’imputato, specie allorquando la sua responsabilità discenda in sommo grado da dichiarazioni etero
accusatorie in sé particolarmente fragili in quanto provenienti da particolari categorie di soggetti.
Data la delicatezza e l’importanza del ruolo assunto dal giudicante in subiecta materia, l’auspicio è
che anche a livello ordinamentale vi possa essere maggiore attenzione per la formazione specifica del
magistrato chiamato ad un simile ruolo e che sia solo un giudice davvero capace, sensibile e preparato
in materia a poter valutare con scrupolo e professionalità la chiamata di correo; una prova tanto complessa e perfino odiosa, ma talmente utile da essere irrinunciabile.
38
Cfr. A. Guarino, Anatomia della calunnia dei cosiddetti “collaboratori della giustizia”, in L. De Cataldo Neuburger (a cura di),
Chiamata in correità e psicologia del pentitismo nel nuovo processo penale, Padova, 1992, p. 242.
39
Così G.L. Verrina, Valutazione probatoria e chiamata di correo, Torino, 2000, p. 81.
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A chiudere il sistema, poi, vengono ancora una volta in rilievo i canoni di valutazione secondo la regola dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”, cui è posto un presidio nell’onere motivazionale imposto al
giudicante. L’importanza del momento valutativo in casi consimili può ben essere colta considerando
che anche la parte motiva della sentenza dovrà tener conto di tutte le variabili considerate e, dunque,
non solo dell’intrinseca coerenza del racconto e dell’esistenza di riscontri esterni, ma, come detto – e
ancor prima – di un adeguato vaglio in punto di credibilità del dichiarante.
Solo attraverso un’accurata operazione valutativa di tal fatta, che dia conto dei risultati acquisiti e
dei criteri liberamente adottati 40, anche attraverso il rispetto delle linee-guida operanti in materia, si potranno scongiurare nuove pronunce della Corte di cassazione quali quella in commento, potendosi così
disporre di un iter logico-argomentativo immune da vizi di legittimità e scandito in passaggi completi,
frazionabili e riconoscibili ab externo.
40
Si badi come in una materia tanto delicata in cui è in discussione non solo la corretta ricostruzione dei fatti, ma anche la
psicologia del comportamento umano, non si possano stabilire delle regole di valutazione generalizzate, dei criteri da applicare
in maniera pedissequa e preordinata, ma sarà necessario valutare caso per caso di modo da pervenire ad una decisione ragionata, rigorosa e sostenuta da un adeguato e scrupoloso compendio motivazionale. In giurisprudenza, si veda Cass., sez. VI, 2 gennaio 2004, n. 17248, in CED Cass. n. 228662, secondo cui «in tema di valutazione della chiamata in correità, i canoni di ordine logico, che devono orientare il giudice di merito nelle scelte da compiere nel proprio lavoro di ricostruzione storica dei fatti da
provare ex art. 187 c.p.p. – programmata, da un lato, per dare contenuto alla formula generale racchiusa nei commi secondo e
terzo dell’art. 192 c.p.p. e, dall’altro, per tracciare un metodo per l’operazione del motivare cui il comma primo dello stesso articolo fa espresso riferimento – non possono prescindere dalla “quaestio facti”, che per le sue intrinseche connotazioni concrete,
che la rendono ancorata al singolo accadimento da provare, non può essere costretta in formule classificate, che sviliscano il
compito del giudice di “valutare e dare conto” dei risultati acquisiti e dei criteri adottati in relazione al singolo caso concreto».
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Sull’applicabilità della procedura della “sentenza pilota”
in caso di revisione
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI, SENTENZA 6 NOVEMBRE 2014, N. 46067– PRES. AGRÒ; REL. BASSI
Non ricorrono le condizioni perché alla sentenza resa dalla Corte e.d.u. nel caso Ocalan possa essere applicata la
c.d. procedura della “sentenza pilota” tracciata dalle Sezioni Unite, secondo cui «le decisioni della Corte e.d.u.,
che evidenzino una situazione di oggettivo contrasto – non correlata in via esclusiva al caso esaminato – della
normativa interna sostanziale con la Convenzione e.d.u., assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello
nell’ambito del quale è intervenuta la pronunzia della predetta Corte internazionale» (Cass., sez. un., 19 aprile
2012, n. 34472). Innanzitutto, v’è da dubitare che la c.d. procedura della “sentenza pilota” possa essere applicata
in caso di revisione, in quanto mezzo straordinario di impugnazione attivabile in casi tassativamente previsti per
esigenze di giustizia sostanziale, dunque istituto eccezionale rispetto al quale occorre procedere con estrema cautela ermeneutica, laddove si viene ad incidere sui valori della certezza e della stabilità della cosa giudicata. Ma anche ad ammettere tale possibilità, il caso consimile rispetto al quale applicare la c.d. procedura della “sentenza pilota” non potrebbe che presupporre che la decisione della Corte e.d.u. sia stata resa nel medesimo ordinamento,
e non un sistema giuridico affatto diverso. E ciò per l’ovvia considerazione che la “situazione di oggettivo contrasto” con i principi della Cedu – idonea, secondo il dictum dei giudici della Consulta, a consentire la riapertura del
processo per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della stessa
Convenzione – non può che riguardare gli stessi termini di raffronto (da un lato, la Cedu, dall’altro, il medesimo ordinamento giuridico), non potendo la rilevata divergenza valere in un sistema di regole appartenente ad altro Stato,
di necessità eterogeneo.
[Omissis]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza del 18 dicembre 2013, la Corte d’Appello di Messina ha dichiarato inammissibile la
richiesta, presentata da S. A., di revisione della sentenza emessa dalla Corte d’assise d’appello di Catania del 5 ottobre 2010, irrevocabile il 10 luglio 2012.
2. Avverso il provvedimento ha presentato ricorso personalmente S.A., chiedendone l’annullamento
per i seguenti motivi.
2.1. Violazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per manifesta illogicità del provvedimento emergente dal testo impugnato laddove la Corte si è sforzata di sostenere che la sentenza della Corte EDU
nel caso Ocalan contro Turchia non costituisce una “sentenza pilota”, ma, nel contempo, ha richiamato i
principi affermati nell’ordinanza della Corte di cassazione a Sezioni Unite n. 34472/2012, che ha riconosciuto alla sentenza della Corte EDU nel caso Scoppola contro Italia i connotati di “sentenza pilota”,
trascurando altresì di considerare che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 143/2013, ha affermato
che il caso Ocalan affrontato dalla Corte Europea presenta significative assonanze con quello sottoposto
al vaglio dello stesso giudice costituzionale. La Corte territoriale sarebbe, inoltre, incorsa in un travisamento dei fatti dal momento che il ricorrente chiedeva la revisione sulla base, non della dichiarazione
di incostituzionalità dell’art. 630 c.p.p., bensì dei principi espressi nelle pronunce della Corte Costituzionale n. 113/2011, n. 143 del 2013 e n. 210/2013, nella sentenza della Corte EDU nel caso Ocalan contro Turchia e nell’ordinanza n. 34472/2012 della Corte di cassazione a Sezioni Unite. Il ricorrente ha
quindi insistito per la sussistenza nella specie i presupposti per la revisione, considerato che: a) la Corte
EDU si è pronunciata, nella “sentenza Ocalan”, in un caso che presenta significative assonanze con la
limitazione dei colloqui visivi e telefonici con il difensore per i detenuti in regime di detenzione speciale ex art. 41 bis Ord. Penit., limitazione appunto dichiarata incostituzionale con sentenza n. 143/2013; b)
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SULL’APPLICABILITÀ DELLA PROCEDURA DELLA “SENTENZA PILOTA”
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che le Sezioni Unite hanno affermato che, in caso di “sentenza pilota sostanziale”, non v’è affatto bisogno che chi si trova nelle stesse condizioni adisca la Corte Europea; c) che la Corte costituzionale ha indicato che, in tali ipotesi, la strada da seguire è appunto quella della revisione ai sensi dell’art. 630 c.p.p.
2.2. Violazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all’art. 117 Cost., ed all’art. 6, comma
3, lett. b), CEDU, nella parte in cui prevedono che la legislazione interna si conformi ai vincoli derivanti
dagli obblighi internazionali.
2.3. Violazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per manifesta illogicità e travisamento dei fatti,
nella parte in cui la Corte ha escluso che la pronuncia di incostituzionalità della limitazione dei colloqui
visivi e telefonici non sia estendibile alla posizione di S., laddove il soggetto interessato dalla pronuncia
di incostituzionalità versava in una condizione meno grave di quella del ricorrente.
3. Nella requisitoria scritta, il Procuratore generale ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi.
2. In via preliminare, mette conto ripercorrere sinteticamente la puntuale ed argomentata motivazione della decisione di rigetto della richiesta di revisione avanzata da S.A.
La Corte d’appello ha premesso:
– che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 113/2011, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di consentire la riapertura del processo quando ciò sia necessario, ai sensi
dell’art. 46, par. 1, Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (di qui in avanti CEDU), per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea per
i Diritti dell’Uomo (di qui in avanti Corte EDU) che abbia accertato una violazione alla medesima Convenzione;
– che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 143/2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 41 bis, comma 2-quater; b), comma 2-quater, lett. b), ultimo periodo, Ord. Penit., nella parte in cui
prevede il limite di tre telefonate e colloqui settimanali con il difensore per i detenuti soggetti al regime
disciplinato da tale norma;
– che la Corte di cassazione a Sezioni Unite, con ordinanza n. 34472/2012, ha affermato che la Corte
EDU, quando è chiamata al compito istituzionale di interpretare ed applicare la Convenzione EDU ed
accerta violazioni della stessa connesse a problemi sistematici e strutturali dell’ordinamento giuridico
nazionale, pone in essere una cosiddetta procedura di “sentenza pilota”, al fine di aiutare gli Stati contraenti a risolvere a livello nazionale il rilevato contrasto e di riconoscere alle persone interessate, che
versano nella stessa condizione già presa specificamente in considerazione, i diritti e le libertà convenzionali in tempi più rapidi, alleggerendo il carico della stessa Corte EDU. Ciò posto, la Corte messinese ha
evidenziato che l’istante, con la documentazione prodotta del Ministero di giustizia del 23 ottobre e 5 novembre 2013, assume di avere provato, in ragione delle limitazioni derivanti dalla sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis, comma 2 quater, lett. b), ultimo periodo, Ord. Penit, un vulnus al diritto di difesa,
durante un apprezzabile segmento dell’iter processuale, ed ha pertanto richiesto la revisione del processo
in relazione alla “nuova” ipotesi introdotta con sentenza della Corte costituzionale n. 113/2011.
La Corte territoriale ha quindi rilevato:
– che l’istante non ha provato di essersi rivolto all’organo di giustizia sovrannazionale e di aver ottenuto una pronuncia favorevole cui sia necessario conformarsi in tale sede, ma ha implicitamente
escluso tale evenienza essendosi limitato ad invocare a suo favore il meccanismo della cosiddetta “sentenza pilota”, tipizzato dall’art. 61 del regolamento della Corte EDU;
– che non risulta pendente una procedura per “causa pilota” nei confronti dell’Italia e che la “sentenza pilota” applicabile al caso di specie non può individuarsi in quella emessa dalla Corte EDU il 12
marzo 2003 nel caso Ocalan contro Turchia, in quanto riguardante uno Stato diverso dall’Italia;
– che il richiamo, incidenter tantum, alla “sentenza Ocalan” contenuto nella sentenza della Corte costituzionale n. 143/2013 non produce l’effetto di legittimare il condannato a proporre istanza di revisione nel
processo eventualmente celebratosi sotto la precedente vigenza della norma dichiarata incostituzionale;
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SULL’APPLICABILITÀ DELLA PROCEDURA DELLA “SENTENZA PILOTA”
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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– che il caso sottoposto all’attenzione della Corte costituzionale nel caso deciso con la sentenza n.
143/2013 presentava connotazioni del tutto particolari, non sussistenti nell’ipotesi in oggetto.
3. Come si evince dal paragrafo 2 del ritenuto in fatto, tutte le censure mosse dal ricorrente ruotano
intorno alla possibilità di ammettere la revisione della sentenza di condanna irrevocabile pronunciata
nei confronti di S.A., alla luce della nuova ipotesi di revisione introdotta nel nostro sistema processuale,
a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 113/2011.
Giova rammentare che, con tale pronuncia, il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione al fine di conseguire la riapertura del processo quando sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo I, CEDU, conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU, e ciò ai fini della restitutio in integrum in favore del
medesimo in relazione alle garanzie riconosciute dalla Convenzione, particolarmente in tema di equo
processo. In sintesi, la “nuova” ipotesi di revisione presuppone che, sulla medesima vicenda oggetto
del processo, sia intervenuta una pronuncia irrevocabile della Corte Europea, rispetto alla quale sia
dunque necessario adeguarsi, così da assicurare il rispetto delle garanzie e dei diritti espressamente
salvaguardati dalla CEDU.
4. Così delineato l’ambito di operatività della “nuova” ipotesi di revisione, risulta di tutta evidenza
l’insussistenza nella specie delle condizioni per procedere all’invocata revisione della sentenza, così
come concluso dalla Corte territoriale.
Ed invero, nel caso in oggetto, la revisione viene richiesta al fine di consentire l’applicazione nel processo, non di una pronuncia della Corte Europea, bensì di una sentenza di incostituzionalità della Corte
Costituzionale nazionale, segnatamente della sentenza n. 143 del 2013, con la quale è stata dichiarata
l’incostituzionalità dell’art. 41 bis, comma 2, quater lett. b), ultimo periodo, Ord. Penit., nella parte in cui
prevede limitazioni al diritto ai colloqui con i difensori nei confronti dei detenuti sottoposti al regime
previsto dallo stesso art. 41 bis.
Nel caso di specie, si versa dunque completamente al di fuori del perimetro delle ipotesi nelle quali
è possibile azionare il mezzo straordinario di impugnazione previsto dall’art. 630 c.p.p.
5. Né i presupposti per la “nuova” ipotesi di revisione potrebbero ritenersi sussistenti seguendo il
percorso argomentativo suggerito dal ricorrente, secondo cui, nella citata sentenza n. 143/2013 di incostituzionalità dell’art. 41 bis Ord. Penit., la Corte costituzionale avrebbe recepito i principi affermati dalla Corte EDU nella decisione resa nel caso Ocalan contro Turchia del 12 marzo 2003 (in effetti, richiamata incidentalmente nella motivazione), di tal che quest’ultima decisione dovrebbe considerarsi quale
“sentenza pilota”, rilevante anche nel caso in oggetto secondo i principi fissati da questa Corte di cassazione a Sezioni unite nell’ordinanza 19 aprile 2012, n. 34472 (ric. Ercolano, Rv. 252933) e, dunque, idonea a fungere da decisione – presupposto per la revisione de qua.
Ed invero, la tesi sostenuta dal ricorrente, seppure suggestiva, non regge a plurime obiezioni, tutte
insormontabili.
5.1. Per un verso, deve essere posto in risalto che la nuova ipotesi di revisione introdotta dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n. 113/2011 presuppone che la decisione della Corte EDU cui sia necessario conformarsi sia stata resa sulla medesima vicenda oggetto del processo definito con la sentenza
passata in giudicato, di tal che è da escludere in radice che tale procedura possa essere attivata in relazione ad una sentenza pronunciata dalla Corte EDU in un caso completamente diverso da quello sub
iudice.
5.2. Per altro verso, non ricorrono le condizioni perché alla sentenza resa dalla Corte EDU nel caso
Ocalan possa essere applicata la c.d. procedura della “sentenza pilota” tracciata dalle Sezioni Unite di
questa Corte, secondo cui “le decisioni della Corte EDU, che evidenzino una situazione di oggettivo
contrasto – non correlata in via esclusiva al caso esaminato – della normativa interna sostanziale con la
Convenzione EDU, assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale è intervenuta la pronunzia della predetta Corte internazionale” (Cass. Sez. U, 19 aprile 2012, n. 34472, Ercolano, Rv. 252933).
E ciò per una serie di ragioni.
5.3. In primo luogo, v’è da dubitare che la c.d. procedura della “sentenza pilota” possa essere applicata in caso di revisione, in quanto mezzo straordinario di impugnazione attivabile in casi tassativamente previsti per esigenze di giustizia sostanziale, dunque istituto eccezionale rispetto al quale occorre procedere con estrema cautela ermeneutica, laddove si viene ad incidere sui valori della certezza e
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SULL’APPLICABILITÀ DELLA PROCEDURA DELLA “SENTENZA PILOTA”
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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della stabilità della cosa giudicata. Ma anche ad ammettere tale possibilità, il caso consimile rispetto al
quale applicare la c.d. procedura della “sentenza pilota” non potrebbe che presupporre che la decisione
della Corte EDU sia stata resa nel medesimo ordinamento, e non un sistema giuridico affatto diverso. E
ciò per l’ovvia considerazione che la “situazione di oggettivo contrasto” con i principi della CEDU –
idonea, secondo il dictum dei giudici della Consulta, a consentire la riapertura del processo per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU ai sensi dell’art. 46, paragrafo I, della stessa Convenzione – non può che riguardare gli stessi termini di raffronto (da un lato, la CEDU, dall’altro, il medesimo ordinamento giuridico), non potendo la rilevata divergenza valere in un sistema di regole appartenente ad altro Stato, di necessità eterogeneo.
5.4. D’altra parte, come questa Corte ha avuto di recente modo di chiarire, la natura di “sentenza pilota”, anche solo da un punto di vista “sostanziale”, della sentenza resa dalla Corte EDU nel caso Ocalan risulta smentita da più parti (Cass., Sez. 6, 29 maggio 2014, n. 39925, ric. Attanasio).
La lettura della pronuncia di incostituzionalità n. 113/2011 evocata dal ricorrente evidenzia come il
giudice delle leggi abbia ravvisato nella sentenza resa dalla Corte Europea nel caso Ocalan soltanto delle “significative assonanze” rispetto al caso sottoposto al proprio vaglio nel passaggio d’interesse si
legge infatti:
“Significativo, al riguardo, è che la Corte di Strasburgo – tenuto conto della complessità della singola
vicenda giudiziaria nella quale il ricorrente era coinvolto – abbia reputato lesiva del diritto all’equo
processo una limitazione che presenta significative assonanze con quella in esame (sentenza 12 marzo
2003, Ocalan c. Turchia, relativa a fattispecie nella quale erano stati consentiti all’imputato, durante il
corso del processo, solo due colloqui a settimana con i propri difensori, della durata di un’ora l’uno)”.
Il richiamo incidenter tantum alla “sentenza Ocalan” ha dunque carattere meramente argomentativo
– quale precedente autorevole in tema di lesione del principio all’equo processo –, di per sé inidoneo a
riconoscere alla pronuncia la valenza di “sentenza pilota”.
5.5. Inoltre, come questa Corte ha chiarito a Sezioni Unite (nell’ordinanza di rimessione della questione di legittimità costituzionale del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, artt. 7 e 8, convertito dalla L. n. 4
del 2001, in riferimento agli artt. 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione EDU), la “rilevanza” del decisum della Corte di Strasburgo reso in un determinato caso (nella
specie, S. contro Italia), suscettibile di produrre effetti anche a favore di persone che non abbiano proposto un ricorso innanzi Corte Europea, riguarda esclusivamente coloro che si trovino in un’identica
“condizione sostanziale” (Cass., Sez. U, ordinanza 19/04/2012, Ercolano).
E proprio pronunciandosi sulla sollevata questione di legittimità costituzionale (e nel dichiarare
l’incostituzionalità del citato art. 7 d.l. n. 341/2000), il giudice delle leggi ha ripreso l’argomento svolto
dalle Sezioni Unite, laddove ha rilevato che: “si tratta, com’è chiaro, di una conclusione che riguarda
esclusivamente l’ipotesi in cui si debba applicare una decisione della Corte Europea in materia sostanziale, relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non richieda la riapertura del processo, ma
possa trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva. Le stesse Sezioni Unite hanno avvertito che
diverso è il caso di una pena rivelatasi illegittima, esclusivamente perché inflitta all’esito di un giudizio
ritenuto dalla Corte EDU non equo, ai sensi dell’ad. 6 CEDU: in questa ipotesi, l’apprezzamento, vedendo su eventuali errores in procedendo e implicando valutazioni strettamente correlate alla fattispecie
specifica, non può che essere compiuto caso per caso, con l’effetto che il giudicato interno può essere
posto in discussione soltanto di fronte ad un vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie” (Corte cost., 18 luglio 2013, n. 210).
Ne discende che la natura di “sentenza pilota” non può che riguardare identiche situazioni sostanziali, e non processuali.
5.6. Le condivisibili conclusioni della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite di questa Corte trovano, del resto, un solido appiglio nel nuovo testo dell’art. 61 del Regolamento della Corte EDU (introdotto il 1 aprile 2011), che ha sancito in modo formale la possibilità per la Corte di emettere delle “sentenze pilota”, possibilità affermata sino a tale momento solo per via giurisprudenziale.
Nel definire rigorosamente i presupposti dell’istituto, la norma prevede l’avvio della procedura allorché
ci si trovi innanzi ad un problema strutturale o sistematico, a disfunzionalità che lo Stato possa risolvere
adottando misure ad hoc; stabilisce che l’obbligo di esecuzione della pronuncia si estende in favore di tutti
coloro che si trovino in situazioni “analoghe”; prevede che la Corte indichi nello stesso dispositivo della decisione quale misura di tipo generale (in campo legislativo, amministrativo, ecc.) lo Stato dovrebbe prendere
a livello nazionale per farvi fronte, stabilendo altresì un termine entro il quale conformarsi.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SULL’APPLICABILITÀ DELLA PROCEDURA DELLA “SENTENZA PILOTA”
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Il che conferma per tabulas che la “sentenza pilota” non può che riguardare una situazione analoga e,
soprattutto, non può che valere nel medesimo ordinamento giuridico rispetto al quale sia stata resa.
6. Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali ed al pagamento della somma a favore della Cassa della Ammende, che si ritiene congruo fissare nella misura di 1000 Euro.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SULL’APPLICABILITÀ DELLA PROCEDURA DELLA “SENTENZA PILOTA”
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ROBERTA GRECO
Dottore di ricerca in diritto internazionale – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Avvocato – Foro di Roma
Le sentenze “pilota” della Corte europea dei diritti dell’uomo:
efficacia ultra partes?
Pilot judgments of the European Court of Human Rights:
ultra partes effects?
La pronuncia in commento attiene alla possibilità di riconoscere efficacia ultra partes alle sentenze pilota della Corte europea dei diritti dell’uomo rese nei confronti di un ordinamento diverso da quello italiano, su una questione
avente assonanze con quella interna, al fine di consentire la revisione della sentenza passata in giudicato. La Suprema Corte nega tale possibilità, in quanto la sentenza pilota è adottata dalla Corte di Strasburgo avendo riguardo
alle specificità di un determinato ordinamento, il solo chiamato a prendere le misure riparatorie in applicazione del
dispositivo della sentenza.
The decision of the Italian Supreme Court at issue concerns the possibility for the Italian courts to recognize ultra
partes effects to a “pilot judgement” of the European Court of Human Rights (adopted vis-à-vis a foreign State
Party in a case which presents similarities with a domestic one (in order to review a domestic final judgment. The
Supreme Court denies such a possibility on the grounds that when the European Court adopts a pilot judgment, it
addresses the peculiarities of the specific legal system concerned, which is the only one requested to take remedial measures by virtue of the operative provision of the judgment.
LA QUESTIONE
La sentenza della Corte di Cassazione, sez. IV, 6 novembre 2014, n. 46067, torna sulla questione degli effetti
delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano, iscrivendosi nel solco di
quella giurisprudenza che si sforza di chiarire i rapporti tra giudicato interno e giudicato internazionale.
La questione di diritto affrontata nella sentenza in commento riguarda la possibilità di attribuire efficacia
ultra partes alle sentenze “pilota” della Corte di Strasburgo. Segnatamente, affronta il tema della rimozione
degli effetti del giudicato interno in forza di una sentenza “pilota” (o “sostanzialmente” tale (della Corte
EDU, emanata nei confronti di un ordinamento diverso da quello nel quale se ne chiede l’esecuzione.
Al fine di comprendere meglio la sentenza in argomento occorre sintetizzare brevemente i fatti di causa.
L’istante, il sig. S.A., soggetto allo speciale regime di sospensione delle regole di trattamento previste
dall’Ordinamento penitenziario, ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), ord. penit. (come modificato dall’art. 2, comma 25, lett. f), n. 2), l. 15 luglio 2009, n. 94), viene condannato dalla Corte d’assise
d’appello di Catania con sentenza del 5 ottobre 2010, irrevocabile il 10 luglio 2012.
Successivamente alla condanna, la Corte costituzionale, con sentenza del 17 luglio 2013, n. 143, dichiarava costituzionalmente illegittimo il summenzionato art. 41 bis, comma 2quater, lett. b), ord. penit., nella
parte in cui limitava i colloqui con i legali dei detenuti in regime di c.d. “carcere duro” «fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i
familiari» 1.
1
Cfr. M. Ruotolo, Le irragionevoli restrizioni al Diritto di difesa dei detenuti in regime di 41-bis, in www.giurcost.org, 2013.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LE SENTENZE “PILOTA” DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
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Il sig. S.A., lamentando di non aver avuto la possibilità di predisporre un’adeguata difesa a causa
delle limitazioni quantitative imposte ai suddetti colloqui in forza dell’art. 41 bis, domandava alla Corte
d’Appello di Messina la revisione della sentenza di condanna emessa dalla Corte d’assise d’appello di
Catania.
In breve, a fondamento della propria richiesta il ricorrente poneva la seguente motivazione. Poiché
nella citata pronuncia n. 143/2013, la Corte costituzionale aveva richiamato, a sostegno delle proprie argomentazioni, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Öcalan 2 – in cui quest’ultima aveva ritenuto che la limitazione a soli due colloqui settimanali con i propri difensori, della
durata di un’ora l’uno, fosse lesiva del diritto all’equo processo – il ricorrente domandava la revisione
della propria sentenza di condanna sulla base della nuova ipotesi di revisione introdotta dalla Corte costituzionale con sentenza del 7 aprile 2011, n. 113, ossia quando ciò sia necessario per conformarsi ad
una sentenza definitiva della Corte europea.
Con sentenza del 18 dicembre 2013, la Corte d’Appello di Messina dichiarava inammissibile la richiesta di revisione per asserita violazione del diritto di difesa del ricorrente derivante dall’applicazione del regime carcerario di cui all’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), ord. penit., cui egli era stato sottoposto.
Per l’annullamento di tale provvedimento il sig. S.A. ha presentato ricorso in Cassazione, la quale,
sulla base di una serie di condivisibili considerazioni, lo ha dichiarato inammissibile. Le ragioni della
Suprema Corte potranno essere meglio apprezzate se inquadrate all’interno del filone giurisprudenziale in cui si inseriscono.
LA REVISIONE DEL GIUDICATO PER CONTRASTO CON UNA PRONUNCIA DELLA CORTE EDU
La problematica degli effetti delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sul giudicato nazionale 3 è stata oggetto di attenzione da parte del legislatore 4, della dottrina 5 e della giurisprudenza 6 italiani.
In particolare, nel noto caso Dorigo 7, la Corte costituzionale è stata chiamata a valutare la legittimità
costituzionale dell’art. 630 c.p.p., sotto il profilo della violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. e dell’art.
46 Cedu, nella parte in cui non prevedeva la rinnovazione del processo per contrasto della sentenza o
decreto penale di condanna con la sentenza definitiva della Corte EDU In tale occasione la Consulta ha
affrontato, risolvendolo, il problema della riapertura del processo, per la revisione del giudicato interno, al fine di dare esecuzione alla sentenza di Strasburgo che avesse riscontrato la violazione dei principi dell’equo processo sanciti dall’art. 6 Cedu 8.
2
Corte EDU, Grande Camera, 12 marzo 2003, Öcalan c. Turchia.
3
Il problema si è posto quando la Corte europea ha iniziato ad indicare agli Stati convenuti le misure individuali e generali
da adottare per porre rimedio alle riscontrate violazioni della Cedu in maniera più puntuale rispetto al passato, chiedendo, ad
esempio, di adottare misure volte a consentire la revisione della sentenza penale di condanna emanata al termine di un procedimento giudicato non equo da Strasburgo e la riapertura del relativo processo. Sul punto cfr. P. Pustorino, Esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti umani e revisione dei processi penali: sviluppi nella giurisprudenza italiana, in Diritti Umani e Dir. Internaz., 2007, pp. 682-683.
4
Cfr. art. 1, comma 1, lett. c), d.l. 21 febbraio 2005, n. 17, convertito, con modificazioni, nella l. 22 aprile 2005, n. 60, che ha
modificato l’art. 175 c.p.p. inserendovi il comma 2 bis, a seguito della sentenza della Corte europea nel caso Sejdovic (Corte EDU,
10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia), così da consentire la restituzione nei termini per impugnare la sentenza di condanna
all’imputato rimasto contumace per non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento.
5
Cfr. M.L. Padelletti, L’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti umani tra obblighi internazionali e rispetto delle norme
costituzionali, in Diritti umani e Dir. internaz., 2008, p. 349 ss.; F.M. Palombino, Gli effetti della sentenza internazionale nei giudizi interni, Napoli, 2008; A. Saccucci, Obblighi di riparazione e revisione dei processi nella Convenzione europea dei diritti umani, in Riv. dir.
internaz., 2002, p. 618 ss.; D. Vitiello, La Corte di cassazione italiana e l’incidenza delle sentenze di Strasburgo sulle pronunce interne passate in giudicato, in Diritti Umani e Dir. Internaz., 2013, p. 196 ss.
6
Cfr. Cass., sez. I, 3 ottobre 2006, n. 32678, par. 11, CED Cass., 235036; Cass., sez. I, 25 gennaio 2007, n. 2800, par. 6, CED Cass.,
235447; C. cost., sent., 7 aprile 2011, n. 113, par. 8, http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2011&numero=113.
7
Su cui cfr. App. Bologna, ord. 23 dicembre 2008, n. 303; C. cost., 30 aprile 2008, n. 129; S. Dorigo e P. Pustorino, Diritto a una tutela
giurisdizionale effettiva e revisione de processi penali: la Corte costituzionale e il caso Dorigo, in Diritti Umani e Dir. Internaz., 2009, p. 85 ss.
8
Cfr. C. cost., 7 aprile 2011, n. 113, cit..
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LE SENTENZE “PILOTA” DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
107
La Consulta, riscontrando l’impossibilità di ricondurre il contrasto tra il giudicato della Corte europea e quello del giudice italiano alle ipotesi di revisione delle sentenze definitive di condanna contemplate dall’art. 630 c.p.p., ha ritenuto detta norma inconciliabile con la previsione dell’art. 46 Cedu, secondo cui gli Stati parte della Convenzione devono conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea sulle controversie di cui sono parti. Di conseguenza, ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale
dell’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai
sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo».
Per effetto di questa sentenza additiva di principio della Corte costituzionale è stato dunque introdotto un limitato meccanismo di adeguamento dell’ordinamento interno alle pronunce della Corte europea, attraverso la previsione di un’ulteriore ipotesi di revisione della sentenza o del decreto penale di
condanna, ove ciò sia necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva di Strasburgo.
Di questo nuovo meccanismo voleva avvalersi il sig. S.A. nel caso in oggetto, sostenendo che in forza del richiamo operato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 143 del 2013 – la quale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della medesima norma censurata dal ricorrente (l’art. 41 bis, comma 2 quater, lett. b)) – alla pronuncia della Corte EDU nel caso Öcalan, il giudice avrebbe dovuto riaprire
il procedimento interno per dare esecuzione ai principi sanciti dalla Corte europea.
Tuttavia, poiché a differenza del caso Dorigo, il sig. S.A. non aveva introdotto alcun ricorso dinanzi
alla Corte europea e non vantava alcun giudicato internazionale di cui chiedere l’esecuzione in Italia, la
richiesta di revisione poggiava su due ulteriori argomenti, segnatamente: i) l’efficacia ultra partes delle
sentenze pilota nei confronti di soggetti che si trovano nella medesima situazione del ricorrente a favore del quale la sentenza internazionale è resa; ii) l’efficacia ultra partes delle sentenze “pilota” nei confronti di Stati diversi da quelli contro i quali la sentenza è resa.
L’EFFICACIA ULTRA PARTES DELLE SENTENZE PILOTA SUL GIUDICATO INTERNO
Le Sezioni Unite della Cassazione e la Consulta hanno affrontato la questione dell’efficacia ultra partes delle
sentenze della Corte europea, con riferimento alla possibilità, per il giudice interno, di modificare il giudicato – applicando una pena più mite – in attuazione dei principi dettati da una sentenza della Corte EDU,
seppure emanata nei confronti di un soggetto diverso dal richiedente la rideterminazione della pena.
Nello specifico, a seguito della pronuncia della Corte di Strasburgo nel caso Scoppola 9 (in cui la
Grande Camera aveva censurato l’efficacia retroattiva in malam partem della norma d’interpretazione
“autentica” dell’art. 442, comma 2, c.p.p., ritenuta lesiva del principio dell’irretroattività della legge penale più sfavorevole, di cui all’art. 7 Cedu 10 (la Corte di Cassazione aveva rideterminato, in senso più
mite, la pena in favore del ricorrente (30 anni di reclusione in luogo dell’ergastolo). Essendosi la Corte
europea limitata a richiedere allo Stato italiano l’adozione di misure individuali consistenti nel sostituire la pena dell’ergastolo inflitta al sig. Scoppola con una conforme ai principi enunciati in sentenza, si
poneva il problema di tutti quei soggetti i quali, seppure si trovassero nella medesima situazione del
ricorrente, diversamente da quest’ultimo non avevano esperito il rimedio di cui all’art. 34 Cedu (ricorso
individuale) e, di conseguenza, non disponendo di una sentenza internazionale di cui chiedere l’esecuzione, rimanevano sottoposti alla pena dell’ergastolo.
Si tratta della vicenda, ampiamente nota, dei c.d. “fratelli minori” di Scoppola, su cui sono intervenute dapprima le Sezioni Unite della Suprema Corte, successivamente la Consulta e, da ultimo, nuovamente le Sezioni Unite 11.
9
Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia. In questa pronuncia, per la prima volta, la Corte di Strasburgo interpreta il principio di irretroattività della legge penale, di cui all’art. 7 Cedu, nel senso di ricomprendere anche la retroattività della legge penale più favorevole (cfr. par. 109).
10
Si trattava dell’art. 7, comma 1, d.l. 24 novembre 2000, n. 341.
11
Cfr. F. Viganò, Figli di un dio minore? Sulla sorte dei condannati all’ergastolo in casi analoghi a quello deciso dalla Corte EDU in
Scoppola c. Italia, in Diritto Penale Contemporaneo, 2012; F. Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia
delle Sezioni Unite che chiude la saga dei “fratelli minori” di Scoppola, in Diritto Penale Contemporaneo, 2014, p. 250 ss; M. Bignami, Il
giudicato e le libertà fondamentali: Le Sezioni Unite concludono la vicenda Scoppola-Ercolano, in Diritto Penale Contemporaneo, p. 1 ss.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LE SENTENZE “PILOTA” DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
108
Con ordinanza del 19 aprile 2012, n. 34472, la Cassazione, dopo aver premesso che sebbene la sentenza Scoppola non costituisse esattamente una sentenza pilota, seppure ne presentasse i «connotati sostanziali» 12 – in quanto «pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, evidenzia comunque l’esistenza, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale» dovuto alla non conformità di una norma interna, nell’interpretazione datane dalle corti interne 13 – esprimeva la necessità di trovare una soluzione anche per i detenuti che, come il ricorrente, pur trovandosi nella medesima situazione del sig. Scoppola, rimanevano condannati all’ergastolo.
Riteneva la Corte che: «[d]i fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già in precedenza stigmatizzate in sede europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all’art.
34 EDU (ricorso individuale) e la conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte
EDU cui dare esecuzione non possono essere di ostacolo ad un intervento dell’ordinamento giuridico
italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando il valore della certezza del giudicato» 14.
Per porre termine «alla situazione di illegalità convenzionale» la Cassazione sollevava d’ufficio la
questione di legittimità costituzionale della norma censurata (art. 7, d.l. n. 341/2000) per contrasto con
l’art. 117, comma 1 Cost., in relazione all’art 7 Cedu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo 15.
La Corte costituzionale, con sentenza del 3 luglio 2013, n. 210, ha ritenuto fondata la questione di legittimità della norma censurata per violazione dell’art. 7 Cedu, così come interpretato dalla Corte EDU,
che integra, quale norma interposta, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, comma 1, Cost. Il
giudice delle leggi ha stabilito che, nelle fattispecie uguali a quella del sig. Scoppola, sulle quali si era
già formato il giudicato, il procedimento da seguire per conformarsi alle sentenze della Corte europea
non fosse quello della revisione del giudicato, ex art. 630 c.p.p. (in quanto non sussisteva la necessità di
riaprire il processo di cognizione (bensì la procedura dell’incidente di esecuzione, in modo da consentire al giudice dell’esecuzione di incidere direttamente sul titolo esecutivo 16.
La Consulta ha però tenuto a precisare che l’esigenza di incidere sul giudicato, in assenza di una
specifica pronuncia della Corte europea, non derivava dalla Cedu, «che non la esige», ma dallo stesso
ordinamento nazionale, che nell’ambito del diritto penale sostanziale, reputa il valore del giudicato recessivo di fronte ad una pena prevista da una norma di cui sia stata riconosciuta l’illegittimità convenzionale 17. In altre parole, ove tra giudicato interno ed internazionale vi sia coincidenza di petitum e causa petendi, ma non di parti processuali (segnatamente di ricorrenti individuali , dichiarata l’illegittimità
costituzionale della disposizione interna censurata per contrasto con la Cedu, è ammessa la possibilità
per il giudice interno di modificare direttamente il giudicato.
Da ultimo, le Sezioni Unite, riassunto il giudizio sospeso a seguito dell’attivato incidente di costituzionalità, hanno affermato che la pena dell’ergastolo, inflitta all’esito del giudizio abbreviato conclusosi
nel vigore della successiva e più rigorosa disciplina dettata dal citato art. 7, comma 1, d.l. 341 del 2000, e
in concreto applicata, «non può essere ulteriormente eseguita, essendo stata quest’ultima norma ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7,
12
Parte della dottrina definisce “quasi-pilot judgments” le sentenze che, come nel caso Scoppola, dopo aver riscontrato una violazione sistemica della Convenzione dovuta ad un problema strutturale dell’ordinamento interno ed invocato l’art. 46 Cedu, per
ricordare allo Stato convenuto di avere assunto l’obbligo di adottare le misure necessarie a dare esecuzione alla sentenza della
Corte di Strasburgo, non indicano le misure generali da adottare nella parte dispositiva della pronuncia. Cfr. P. Leach, H.
Hardman, S. Stephenson, B. K. Blitz, Responding to Systemic Human Rights Violations. An Analysis of the ‘Pilot Judgments’of the European Court of Human Rights and their Impact at National Level, Antwerp/Oxford/Portland, 2010, pp. 24-25.
13
Cass., sez. un., 19 aprile 2012, n. 34472, par. 3 del Considerato in Diritto, CED Cass., 252934.
14
Ibidem, par. 2.
15
Nello specifico, la Corte di Cassazione aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del d.l. 24
novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla l. 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui tali disposizioni operavano
retroattivamente in relazione a coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della l. 16 dicembre 1999, n. 479, erano stati giudicati successivamente quando, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000, era entrato
in vigore il citato d.l. n. 341/2000, con conseguente applicazione del trattamento sanzionatorio più sfavorevole previsto dal medesimo d.l. n. 341/2000. Cfr. M. Gambardella, Declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma penale non incriminatrice e intangibilità del giudicato, in Dir. pen. proc., 2014, pp. 65-69.
16
C. cost., sent. 3 luglio 2013, n. 210, par. par. 7-8, http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do.
17
Ibidem, par. 7.3.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LE SENTENZE “PILOTA” DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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par. 1, CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, e dichiarata incostituzionale per contrasto con l’art.
117, comma primo, Cost.» 18.
Con riferimento allo strumento processuale volto a consentire l’intervento correttivo sul giudicato, le
S.U. hanno indicato la strada dell’incidente di esecuzione, in quanto nel caso di specie non era necessario un nuovo accertamento di merito che avrebbe imposto la riapertura del processo, ma occorreva
«semplicemente incidere sul titolo esecutivo, per sostituire la pena inflitta con quella conforme alla
CEDU, corretta costituzionalmente e già determinata, nella specie e nella misura, dalla legge» 19.
Occorre sottolineare che nel giungere a tale conclusione la Cassazione ha ribadito quanto affermato
nell’ordinanza del 19 aprile 2012, e successivamente confermato dalla Consulta nella sentenza n. 210/
2013, ossia la necessità che «l’accoglimento della questione sollevata deve essere l’effetto di una operazione sostanzialmente ricognitiva e non deve richiedere la riapertura del giudicato». Ad avviso della
Suprema Corte è diverso il caso in cui la pena si sia rivelata illegittima perché irrogata all’esito di un
processo considerato non equo dalla Corte di Strasburgo, ai sensi dell’art. 6 CEDU, poiché «in questa
ipotesi, l’apprezzamento vertendo su eventuali errores in procedendo e implicando valutazioni strettamente correlate alla fattispecie specifica, non può che essere compiuto caso per caso, con l’effetto che il
giudicato interno può essere posto in discussione soltanto di fronte a un vincolante dictum della Corte
di Strasburgo sulla medesima fattispecie e attraverso lo strumento della revisione ex art. 630 c.p.p. (come integrato dalla sentenza n. 113/2011 Corte cost.), che comporta la riapertura del processo» 20.
LA RILEVANZA NELL’ORDINAMENTO INTERNO DELLE SENTENZE PILOTA RESE NEI CONFRONTI DI ALTRI
STATI PARTE DELLA CEDU
Sulla scorta dell’ordinanza n. 34472/2012 delle Sezioni Unite nel caso Ercolano, l’istante suggerisce di
estendere ulteriormente l’efficacia soggettiva delle sentenze c.d. “pilota” (o “sostanzialmente” tali (della
Corte EDU; non solo a soggetti diversi dal ricorrente a Strasburgo (che si trovino nella sua stessa situazione), ma altresì a Stati convenuti diversi da quelli nei cui riguardi la sentenza europea è stata resa. In
breve, si chiede al giudice interno di rimuovere il giudicato al fine di dare esecuzione in Italia ad una
sentenza della Corte EDU emanata avverso la Turchia, sul presupposto che, trattandosi di una sentenza
“pilota”, essa detti principi di portata generale da applicarsi in tutti gli ordinamenti parte della Convenzione.
Ad avviso dell’istante, sussistevano, nel caso che ci occupa, tutti i presupposti per la revisione della
sentenza interna in quanto occorreva che l’ordinamento italiano si conformasse ai principi enunciati
dalla Corte EDU nel caso Öcalan con riferimento alle limitazioni ai colloqui con i difensori, ed in quanto, in applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, ove una pronuncia di Strasburgo presenti i
connotati di una “sentenza pilota sostanziale” (come nel caso Öcalan (non è necessario per chi si trova
nelle stesse condizioni aver previamente adito la Corte europea.
A nostro avviso, la summenzionata tesi difensiva poggia su un iter argomentativo errato, come evidenziato nella sentenza d’inammissibilità in commento, per i seguenti motivi: i) l’ipotesi di revisione
del giudicato per conformare l’ordinamento interno alle pronunce della Corte europea riguarda i soli
casi in cui la sentenza da eseguire sia resa nei confronti delle medesime parti; ii) qualificare una sentenza come “sostanzialmente” pilota, non equivale ad attribuire alla stessa i medesimi effetti delle sentenze “propriamente” pilota, ossia quelli di imporre allo Stato convenuto l’adozione di misure generali per
porre rimedio ai problemi strutturali presenti nell’ordinamento interno, i quali possono dar luogo a casi
ripetitivi di fronte alla Corte EDU; iii) le Sezioni Unite della Cassazione, nell’ordinanza n. 34472 del
2012, hanno ammesso la possibilità di rideterminare la pena in favore di soggetti condannati in via definitiva sulla base di una disposizione giudicata contraria alla Cedu – a prescindere da se abbiano o
meno adito la Corte europea – nella limitata ipotesi in cui l’accoglimento della domanda non richieda la
riapertura del processo.
i) Con riferimento alla prima questione, occorre ricordare sia la formulazione letterale dell’art. 46
18
Cfr. Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, par. 10 del Considerato in diritto, CED Cass., 258649-50-51.
19
Ibidem, par. 8.
20
Ibidem, par. 9.
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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Cedu, sia i termini nei quali si è espressa la Corte costituzionale nel dettare la nuova ipotesi di revisione
della sentenza per contrasto con il giudicato della Corte europea.
A conferma del fatto che la sentenza della Corte europea debba essere eseguita obbligatoriamente
solo all’interno dell’ordinamento verso il quale essa è pronunciata, si pone l’art. 46 della Convenzione a
mente del quale: «Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze della Corte sulle
controversie nella quali sono parti» (corsivo aggiunto) 21. L’art. 46 della Convenzione, così come modificato dal Protocollo n. 14 22, richiede infatti che sia lo Stato destinatario della pronuncia a darvi esecuzione
e, ove questi manchi di ottemperare all’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea, attribuisce al Comitato dei Ministri la competenza a richiedere alla medesima Corte una sentenza interpretativa sull’esatto adempimento della propria pronuncia, ovvero una sentenza di inottemperanza, con
cui la Corte accerti che lo Stato in questione ha mancato di dare esecuzione alla precedente sentenza,
ipotesi quest’ultima in cui il Comitato dei Ministri potrà assumere le decisioni del caso al fine di indurre lo Stato ad ottemperare 23.
Ebbene, il procedimento brevemente descritto trova attuazione solo rispetto all’ordinamento cui la
sentenza si riferisce e non anche nei riguardi di Stati terzi che non si siano conformati ai principi enunciati dalla Corte.
Del resto, anche la dottrina che si è occupata dell’esecuzione delle sentenze di Strasburgo ha evidenziato che: «[l]’obligation de se conformer aux arrêts définitifs de la Cour (article 46 al. 1 CEDH) ne vaut
que dans les limites formées par l’étendue ratione personae, ratione materiae et ratione temporis de l’autorité
de chose jugée». Quanto all’estensione del giudicato internazionale ratione personae, «[l]’autorité de chose
jugée des arrêts de la Cour n’ayant qu’un portée inter partes, l’obligation de se conformer aux arrêts de la
Cour ne lit que les parties à la procédure devant la Cour. Ainsi, les Etats tiers, qui ne sont pas parties à la
procédure, n’ont pas l’obligation de se conformer à l’arrêt de la Cour» 24.
Né quanto stabilito dall’art. 46, comma 1, Cedu, in relazione all’efficacia soggettiva delle sentenze
della Corte EDU, varia con riferimento alle sentenze pilota della Corte europea. Il nuovo art. 61 del Regolamento della Corte, che introduce l’istituto di origine giurisprudenziale della sentenza pilota, non fa
alcun riferimento all’efficacia ultra partes di tali sentenze verso Stati terzi. D’altronde, ove si volesse attribuire una tale efficacia alle sentenza della Corte europea, si dovrebbe procedere ad emendare le disposizioni convenzionali.
Quanto alla nuova ipotesi di revisione della sentenza o decreto penale di condanna introdotta dalla
sentenza della Corte cost. n. 113/2011, essa è prevista «quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per
conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo» (corsivo aggiunto),
ossia solo ove occorra che lo Stato dia applicazione ad un contrastante giudicato della Corte EDU, di cui
esso sia parte.
ii) Avendo riguardo alla seconda questione relativa alla portata soggettiva delle sentenze c.d. “sostanzialmente pilota” (ossia delle sentenze che presentano i connotati sostanziali di una “sentenza pilota” 25 (occorre in primo luogo sottolineare che tale nozione non trova alcun corrispondente né all’interno della Convenzione, né del Regolamento della Corte europea, il quale, all’art. 61, si limita a discipli-
21
P. Pirrone, Art. 46, in S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, Padova, 2012, p. 760 ss.; D. J. Harris-M. O’Boyle-E. P. Bates-C.M. Buckley, The European Court of Human Rights: Organization, Practice, and Procedure, in D. J. Harris-M. O’Boyle-E. P. Bates-C.M. Buckley (a cura di), Law of the European Convention on
Human Rights, Oxford, 2014, p. 162 ss; A. Saccucci, Obblighi di riparazione e revisione dei processi, cit., p. 623.
22
Adottato il 13 maggio 2004 ed entrato in vigore il 1° giugno 2010, il Protocollo n. 14 alla Cedu emenda il sistema di controllo della Convenzione e a tal fine modifica, tra l’altro, l’art. 46 Cedu, introducendo un nuovo ricorso per inadempimento
dell’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte EDU Sul punto cfr. F. Salerno, Le modifiche strutturali apportate dal protocollo
n. 14 alla procedura della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. internaz. priv. e proc.,2006, p. 377 ss.; A. Saccucci, L’entrata in
vigore del Protocollo n. 14 e le nuove regole procedurali per la sua applicazione, in Diritti Umani e Dir. Internaz., 2010, p. 319 ss.
23
Cfr. J. Gerards, The Pilot Judgment Procedure Before the European Court of Human Rights as an Instrument for Dialogue, in M.
Claes-M. de Visser-P. Popelier-C. Van de Heyning (a cura di), Constitutional Conversations in Europe. Actors, Topics and Procedures,
Cambridge, 2012, p. 371 ss.
24
X-B. Ruedin, Exécution des arrêts de la Cour européenne des droits de l’homme. Procedure, obligations des Etats, pratique et réforme,
Bâle/Paris, Bruxelles, 2009, pp. 109-110.
25
Cfr. Cass. sez. un., 19 aprile 2012, cit., par. 3.
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nare la sola procedura delle sentenze pilota 26.
Queste ultime si caratterizzano per il fatto che la Corte europea, quando constata che i fatti all’origine di un ricorso rilevano l’esistenza di un problema strutturale dell’ordinamento interno (di tipo legislativo, ma non solo), causa di una attuale o potenziale violazione generalizza di una o più disposizioni
convenzionali, può richiedere (nella parte dispositiva) allo Stato convenuto l’adozione di misure di carattere generale per porvi rimedio.
Inoltre, la Corte può “congelare” i ricorsi simili pendenti fino al termine del periodo concesso allo
Stato per adottare le misure necessarie a porre termine alla violazione riscontrata. Se quest’ultimo esegue quanto richiesto dalla sentenza pilota le cause pendenti vengono dichiarate improcedibili o cancellate dal ruolo. In caso contrario, ove lo Stato condannato non adotti le misure necessarie, la Corte riprende l’esame delle cause sospese 27. È unicamente sotto questo limitato profilo che si potrebbe parlare
di un’estensione della portata soggettiva delle sentenze pilota rispetto a soggetti terzi, ma si badi, limitatamente alla parte ricorrente, e non nei confronti dello Stato convenuto.
Le supreme corti del nostro ordinamento hanno ritenuto di attribuire alle sentenze della Corte europea “sostanzialmente” pilota un’efficacia più ampia rispetto a quella stabilita dalla Convenzione. Hanno in altri termini stabilito che anche laddove nel dispositivo di una sentenza della Corte EDU non sia
richiesta allo Stato convenuto l’adozione di misure di carattere generale, a determinate condizioni, occorre ritenere regressivo il dogma del giudicato rispetto all’esecuzione di pene non conformi alla Cedu
e consentire la rideterminazione della pena in favore di tutti coloro che si trovano a scontare una condanna “convenzionalmente” ingiusta.
Né la Convenzione, né tantomeno la giurisprudenza interna, ampliano invece la portata soggettiva
del giudicato di Strasburgo sino al punto da attribuire efficacia vincolante alle sentenze pilota della
Corte europea rese nei confronti di Stati terzi. Al contrario, la dottrina che ha approfondito l’evoluzione
della giurisprudenza di Strasburgo ha evidenziato come: «(…) le indicazioni della Corte ex articolo 46
sembrano maggiormente espressione, rispetto al passato, di un’analisi dettagliata del contesto normativo nazionale e delle eventuali lacune riscontrabili nell’ordinamento dello Stato convenuto in giudizio.
Pertanto, le misure generali o individuali stabilite dalla Corte appaiono più strettamente collegate alla
natura ed alle caratteristiche peculiari del singolo sistema normativo» 28.
Neppure soddisfa l’argomento secondo il quale la portata generale delle sentenze della Corte EDU
non si esaurisce nell’indicazione di misure di carattere generale, ma si esprime altresì nell’autorità di
cosa interpretata 29 di tali pronunce, che varrebbero quale “regola di giudizio” da applicare nei casi futuri 30.
Le disposizioni convenzionali vivono nell’interpretazione datane dalla Corte europea 31, interprete
ultimo della Convenzione (ex art. 32 Cedu), la cui giurisprudenza, secondo la Consulta, contribuisce a
precisare il contenuto degli obblighi internazionali assunti dagli Stati contraenti e ad integrare il parametro costituzionale di legittimità delle norme. Da ciò discende sia l’obbligo dello Stato di adeguare la
propria normativa alle disposizioni del trattato, nel significato loro attribuito dalla Corte europea, sia
quello dei giudici interni di applicare le norme della Convenzione come interpretate da Strasburgo 32.
26
Corte europea dei diritti umani, Rule of the Court, disponibile su http://www.echr.coe.int. L’art. 61 del Regolamento della
Corte è stato introdotto nella precedente versione del Regolamento entrata in vigore il 1 aprile 2011. Cfr. anche a cura della Cancellaria della Corte europea dei diritti umani, The Pilot-Judgment Procedure. Information note, disponibile su http://www.echr.coe.int/
NR/rdonlyres/DF4E8456-77B3-4E67-8944-B908143A7E2C/0/Information_ Note_on_the_PJP_for_Website.pdf.
27
F.M. Palombino, La “Procedura di Sentenza Pilota” nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. internaz. priv. e proc., 2008, p. 110.
28
P. Pustorino, Esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti umani e revisione dei processi penali: sviluppi nella giurisprudenza italiana, in Diritti Umani e Dir. Internaz., 2007, p. 679.
29
Cf. F.M. Palombino, Gli effetti della sentenza internazionale nei giudizi interni, cit., p. 121.
30
Argomento tratto da F. Viganò, Figli di un Dio minore?, cit., p. 9.
31
M. L. Padelletti, L’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti umani tra obblighi internazionali e rispetto delle norme costituzionali, in Diritti umani e Dir. internaz., 2008, pp. 351-252; C. Zanghì, La Corte costituzionale risolve un primo
contrasto con la Corte europea dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzionale: le sentenze del 24 ottobre 2007,
in I diritti dell’uomo cronache e battaglie, 2007, p. 61.
32
C. cost., sent., 24 ottobre 2007, n. 348, par. 4.6 del Considerato in Diritto, http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?
anno=2007&numero=348; C. cost., sent., 24 ottobre 2007, n. 349, par. par. 5-6 del Considerato in diritto, http://www.cortecostituzionale.it/
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In caso di contrasto tra norme interne e disposizioni Cedu, i giudici devono tentare di sanare il conflitto in via interpretativa, attribuendo alle disposizioni interne un significato «convenzionalmente orientato». Tuttavia, ove tale contrasto non sia componibile in via interpretativa, il giudice non può disapplicare la norma interna contraria, ma deve sollevare la questione di legittimità costituzionale. A fortiori, l’autorità di cosa interpretata delle sentenze di Strasburgo non sarà da sola sufficiente a consentire
al giudice di rimuovere il giudicato interno formatosi sulla base di una norma applicata non in senso
convenzionalmente orientato.
Del resto, anche la stessa Corte di Strasburgo, che in linea di principio si conforma ai propri precedenti 33, non considera di esservi necessariamente vincolata, ben potendo discostarsene ove ritenga vi
siano ragionevoli motivazioni per mutare orientamento e modificare l’interpretazione di una disposizione convenzionale fornita in precedenza. La Corte guarda alla Convenzione come ad un “living instrument” da interpretare in maniera evolutiva 34, motivo ulteriore questo per ritenere che l’intangibilità
del giudicato non possa essere messa in discussione di fronte ad un’interpretazione che, per quanto
consolidata, non costituisce una “regola” di giudizio.
iii) Infine, venendo all’ultimo punto da trattare concernente la possibilità indicata dalle S.U. della
Cassazione, nell’ord. n. 34472/2012, di un’applicazione ultra partes della sentenza “sostanzialmente” pilota, essa vale solo nei confronti delle persone condannate in via definitiva sulla base della medesima disposizione giudicata contraria alla Cedu (a prescindere da se abbiano o meno adito la Corte europea) e
solo nella limitata ipotesi in cui l’accoglimento della domanda di revisione della pena non richieda la
riapertura del processo. Entrambe condizioni che non risultano soddisfatte nel caso in esame.
Del tutto diversa è, infatti, l’ipotesi prospettata dal ricorrente con riferimento all’applicazione ultra
partes delle sentenze della Corte EDU nei confronti di Stati terzi, in quanto le misure individuali e generali indicate dalla Corte europea al fine di provvedere all’esecuzione della sentenza sono pensate con
riguardo ad un dato ordinamento giuridico e non valgono che per esso. Poiché ogni ordinamento presenta proprie peculiarità, pretendere che il giudicato interno sia rivisto ogniqualvolta il caso nazionale
presenti assonanze con quello straniero, rischierebbe di portare a risultati inaccettabili.
In particolare, il rischio è di strumentalizzare le pronunce della Corte EDU a fini difensivi svincolandole dal contesto nel quale sono state pronunciate ed attribuendo loro una portata lontana persino da quella
voluta dagli stessi giudici che le hanno emanate. La possibile strumentalizzazione sarebbe tanto più rischiosa quanto più alto è il rango dei principi interni da tutelare, qual è quello dell’intangibilità del giudicato, che rischierebbe di recedere in virtù di una lettura analogica di sentenze che trovano la loro collocazione in ordinamenti giuridici diversi da quello nel quale si pretende di darne applicazione.
Ciò è tanto più vero ove ad essere censurate siano violazioni dell’art. 6 Cedu. Come la dottrina non
ha mancato di rilevare, sussiste il pericolo di “una valanga di ricorsi miranti in particolare a far valere –
vere o presunte – violazioni del “processo equo” secondo i principi stabiliti dalla Giurisprudenza di
Strasburgo, ma mai lamentati in quella sede con riferimento alle singole posizioni dei ricorrenti” 35.
Per tale ragioni la Suprema Corte, nel caso Ercolano, ha circoscritto la possibilità di revisione del giudicato alle ipotesi di violazione dell’art. 7 CEDU, nelle quali è possibile chiedere al giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena sulla base di criteri oggettivi e chiaramente definiti, senza la necessità di
procedere alla riapertura del processo 36.
actionSchedaPronuncia.do?anno=2007&numero=349; C. cost., sent., 16 luglio 2009, n. 239, par. 3, http://www.cortecostituzionale.it/actionSche
daPronuncia.do?anno=2009&numero=239.
33
Cfr. Y. Lupu, E. Voeten, Precedent in International Courts: A Network Analysis of Case Citations by the European Court of Human
Rights, in British Journal of Political Science, 2012, p. 4.
34
Cfr. A. Nowbray, An Examination of the Europea Court of Human Rights’s Approach to Overruling its Previous Case Law, in Human
Rights Law Review, 2009, pp. 179-201; V. Zagrebelsky, Violazioni ‘strutturali’ e Convenzione europea dei diritti umani: interrogativi a proposito
di Broniowsky, in Diritti Umani e Dir. Internaz., 2008, p. 7; M Balcerzak, The Doctrine of Precedent in the International Court of Justice and the
European Court of Human Rights, in Polish Yearbook of International Law, 2004, pp. 131-139. In diverse occasioni la Grande Camera della
Corte europea si è discostata dal proprio precedente ritenendo che: «a failure by the Court to maintain a dynamic and evolutive approach
would risk rendering it a bar to reform or improvement». Cfr., ex multis, Corte EDU, Grande Camera, 19 aprile 2007, Vilho Eskelinen e altri c.
Finalndia, par. 56; Corte EDU, Grande Camera, 12 novembre 2008, Demir e Baykara c. Turchia, par. 153.
35
Cfr. F. Viganò, Figli di un dio minore, cit., p. 3.
36
D. Vitiello, La Corte di cassazione italiana e l’incidenza delle sentenze di Strasburgo sulle pronunce interne passate in giudicato, in
Diritti Umani e Dir. Internaz., 2013, p. 200.
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Diversamente, nel caso di specie, occorrerebbe necessariamente lo svolgimento di un nuovo processo, al fine di eventualmente rideterminare la pena, in quanto l’istante lamenta la violazione di un diritto
processuale, posto a garanzia di equità del processo, di cui all’art. 6, par. 3, lett. c), Cedu, come interpretato dalla Corte europea nel caso Öcalan. Tale richiesta di revisione della sentenza, a ben vedere, evidenzia i rischi, previsti dalla dottrina e dalla giurisprudenza, di strumentalizzazione delle sentenze di
Strasburgo.
Nel caso Öcalan (che a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente non si conclude con una sentenza pilota (il leader del PKK lamentava la violazione dell’art. 6 Cedu a causa di una serie di restrizioni e
difficoltà incontrate nel ricevere assistenza legale, nell’avere accesso ai fascicoli, nel chiamare testimoni
in giudizio e, in generale, nell’accesso ai documenti dell’accusa (§ 119). La Corte di Strasburgo ha ritenuto violato il diritto del ricorrente ad un equo processo ex art. 6, par. 1, letto congiuntamente all’art. 6,
par., 3, lett. b) e c), a causa dell’effetto complessivo di una serie di limitazioni consistenti nel: diniego di assistenza legale durante la prima settimana di interrogatori (nei quali Öcalan aveva reso una serie di dichiarazioni auto-incriminanti divenute essenziali per la sua condanna); divieto di conferire con i propri
legali senza essere ascoltato dalla forze di polizia; diniego di accesso ai documenti del fascicolo fino ad
una fase molto avanzata del processo; divieto di visita da parte dei propri legali per più di un’ora a settima; e, diniego, per gli stessi avvocati, di avere accesso al fascicolo di circa 17.000 pagine, se non tardivamente (circa due settimane prima che il processo avesse inizio) 37.
Per la Corte EDU, dunque, le limitazioni ai contatti di Öcalan con i propri legali costituivano solo
uno dei fattori che avevano ostacolato la preparazione della difesa e che avevano contribuito a violare
l’art. 6 Cedu. Al contrario, nel caso che ci occupa, l’istante chiede la riapertura del processo sul presupposto che la Corte europea abbia indicato, con effetto generalizzato nei confronti di tutti gli ordinamenti degli Stati parte, che limitazioni numeriche e temporali siano da sole sufficienti a ritenere leso il diritto all’equo processo e, di conseguenza, legittimino la riapertura del processo a suo carico (sic!).
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Fatte queste considerazioni, rimane da valutare se, nei casi come quelli in commento, la circostanza di
non poter avvalersi dei principi enunciati in una pronuncia “quasi-pilota”, emanata nei confronti di un
ordinamento diverso da quello nel quale se ne chiede l’applicazione, lasci un qualche vuoto di tutela
che manifesta una carenza nel sistema di diritti fondamentali.
Ad avviso di chi scrive, la necessità di dare applicazione alle norme della Convezione così come interpretate dalla Corte di Strasburgo non può spingersi sino ad imporre la revisione del giudicato per
incompatibilità con i principi esposti dalla Corte europea in una pronuncia riferita ad un ordinamento
diverso da quello nel quale se ne chiede l’esecuzione.
Nel caso in cui sussista una sentenza passata in giudicato, l’esistenza di una pronuncia della Corte
EDU che abbia riscontrato una violazione da parte di un altro ordinamento, in cui sussistono situazioni
non dissimili da quello interno, non appare sufficiente a sacrificare il principio dell’intangibilità del
giudicato, che esprime pur sempre ragioni di certezza del diritto e di stabilità nelle relazioni giuridiche.
In definitiva, nel bilanciamento tra il valore dell’intangibilità del giudicato e il diritto ad un’interpretazione convenzionalmente orientata delle norme da parte del giudice interno, occorre, ragionevolmente,
riconoscere prevalenza al primo.
37
Corte EDU, Grande Camera, cit., par. 148.
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Modifica dell’imputazione e giudizio abbreviato
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 1 DICEMBRE 2014, N. 213 – PRES. NAPOLITANO; REL. FRIGO
È costituzionalmente illegittimo, ex artt. 3 e 24 comma 2 Cost., l’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, quando la nuova contestazione concerne
un fatto che non risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 13 novembre 2013, la Corte d’appello di Lecce ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 516
c.p.p., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il
giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che non risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione
penale.
La Corte rimettente, investita dell’appello avverso una sentenza del Tribunale di Brindisi, riferisce
che i due imputati appellanti erano stati tratti originariamente a giudizio per rispondere di tentata
estorsione aggravata continuata, in concorso tra loro e di altro coimputato. Nel corso del giudizio di
primo grado, il pubblico ministero aveva modificato l’imputazione ai sensi dell’art. 516 c.p.p., contestando – limitatamente ad una delle condotte intimidatorie per le quali si procedeva – la forma consumata, anziché quella tentata del delitto di estorsione: ciò, sulla base delle dichiarazioni rese in dibattimento dal coimputato, stando alle quali l’offeso avrebbe nell’occasione ceduto alle pressioni, versando
agli imputati una somma di denaro. A seguito della modifica, lo stesso pubblico ministero aveva chiesto l’ammissione di una nuova prova, rappresentata dall’esame di un collaboratore di giustizia, mentre
i difensori avevano chiesto ed ottenuto la concessione di un termine a difesa.
Alla successiva udienza, i difensori di tutti gli imputati avevano chiesto che il processo fosse definito
con giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 516 c.p.p., interpretato alla luce della «lettura combinata» delle
sentenze della Corte costituzionale n. 333/2009 e n. 237/2012. In subordine, ove tale interpretazione
non fosse ritenuta praticabile, avevano eccepito l’illegittimità costituzionale del citato articolo per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.
Tanto la richiesta di rito alternativo che l’eccezione di illegittimità costituzionale erano state disattese
dal Tribunale, che aveva quindi condannato il primo degli attuali appellanti alla pena di cinque anni di
reclusione ed euro 2.500 di multa, ritenendolo responsabile di uno solo degli episodi di estorsione tentata; il secondo alla pena di sette anni e sei mesi di reclusione ed euro 3.000 di multa, dichiarandolo colpevole di tutti i fatti oggetto di giudizio, compreso quello di estorsione consumata.
Nel giudizio di appello, i difensori degli imputati avevano riproposto l’eccezione.
Ciò premesso, la Corte leccese rileva che la fattispecie oggetto del giudizio a quo resta estranea alle
dichiarazioni di illegittimità costituzionale di cui alle citate sentenze n. 333/2009 e n. 237/2012, concernenti la preclusione all’accesso al giudizio abbreviato nel caso di nuove contestazioni dibattimentali. La
prima delle due decisioni attiene, infatti, alle sole contestazioni cosiddette “tardive” o “patologiche” –
relative, cioè, a fatti che già risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale – mentre nella specie si discute di una modifica dell’imputazione “fisiologica”, legata alle nuove
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risultanze dell’istruzione dibattimentale. La sentenza n. 237/2012 si riferisce, a sua volta, alla sola contestazione suppletiva “fisiologica” di un reato concorrente ai sensi dell’art. 517 c.p.p., mentre nella specie si è di fronte alla contestazione “fisiologica” di un fatto diverso, ai sensi dell’art. 516 c.p.p.
La Corte rimettente ritiene conseguentemente di dover sollevare questione di legittimità costituzionale di quest’ultima disposizione, nella parte in cui non consente all’imputato di chiedere al giudice del
dibattimento il giudizio abbreviato, relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la
nuova contestazione concerna un fatto non risultante dagli atti di indagine al momento dell’esercizio
dell’azione penale.
Ad avviso del giudice a quo, gli argomenti posti a base della citata sentenza n. 237/2012 – sinteticamente ripercorsi nell’ordinanza di rimessione – varrebbero anche in rapporto alla contestazione dibattimentale “fisiologica” di un fatto diverso: e ciò tanto più quando – come nella specie – quest’ultimo
presenti «connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria», tali da rendere
necessaria «una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato». Anche in questa ipotesi, come in quella della contestazione suppletiva del reato concorrente, l’imputato verrebbe a
trovarsi in posizione diversa e deteriore, quanto alla facoltà di accesso al rito alternativo e alla fruizione
della correlata diminuzione di pena, rispetto a chi fosse chiamato a rispondere della stessa imputazione
fin dall’inizio. Da un lato, infatti, sarebbe evidente come, ai fini di una ponderata scelta riguardo
all’accesso al giudizio abbreviato, non sia indifferente la contestazione di una fattispecie di reato consumata, anziché tentata. Dall’altro lato, non si potrebbe pretendere che l’imputato valuti la convenienza
di detta scelta tenendo conto anche della possibilità che, a seguito del dibattimento, l’accusa originaria
venga diversamente descritta.
Sarebbe, dunque, fonte di ingiustificata disparità di trattamento e di compromissione delle facoltà
difensive la circostanza che, a fronte di tutte le altre forme di esercizio dell’azione penale, l’imputato
possa liberamente optare, senza condizioni, per il giudizio abbreviato, mentre analoga facoltà non gli
sia riconosciuta nel caso di nuove contestazioni, se non nelle limitate ipotesi oggetto delle sentenze n.
333/2009 e n. 237/2012.
L’art. 3 Cost. sarebbe violato anche perché, a fronte della nuova contestazione di cui si discute, l’imputato potrebbe fruire dei vantaggi connessi ad alcuni riti speciali – quali il patteggiamento e l’oblazione, sulla base della normativa risultante dalle sentenze n. 265/1994 e n. 530/1995 della Corte costituzionale – vedendosi invece inibito l’accesso al giudizio abbreviato.
Una ulteriore, ingiustificata disparità di trattamento deriverebbe dal fatto che, nell’ipotesi in questione, l’imputato potrebbe recuperare la facoltà di accedere al giudizio abbreviato per circostanze puramente accidentali che determinino la regressione del procedimento, come quando il fatto diverso contestato in dibattimento rientri tra quelli per cui si procede con udienza preliminare e questa non si sia
tenuta. In tale evenienza, infatti, il giudice – ove la relativa eccezione sia stata sollevata nei prescritti
termini di decadenza – deve disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero (artt. 516, comma 1
ter, e 521, comma 1 bis, c.p.p.), con la conseguenza che l’imputato si vede, di fatto, rimesso in termini
per proporre la richiesta di giudizio abbreviato.
2. Si è costituito P.M., imputato appellante nel giudizio principale, il quale ha chiesto che la questione venga accolta.
La parte privata rimarca come il contenuto dell’imputazione costituisca il primo – per quanto non
unico – elemento alla luce del quale l’imputato si determina alla scelta del rito alternativo, scelta che
rappresenta pacificamente una espressione qualificante del diritto di difesa. In questa prospettiva,
l’«aggiornamento» dell’imputazione dovrebbe sempre comportare la restituzione all’imputato della facoltà di optare per la definizione anticipata del processo.
Conformemente a quanto sostenuto dalla Corte rimettente, d’altro canto, le considerazioni svolte
nella sentenza n. 237/2012 sarebbero estensibili anche all’ipotesi della contestazione dibattimentale del
fatto diverso. Al riguardo, non varrebbe obiettare che, in tale ipotesi, il fatto, pur variando nei suoi «elementi descrittivi», resta comunque il medesimo: circostanza che renderebbe, in assunto, ragionevole il
mancato riconoscimento all’imputato del diritto di chiedere il giudizio abbreviato in relazione all’imputazione modificata. Un simile ragionamento risulterebbe, infatti, «semplicistico», finendo per riconoscere residui spazi di operatività al criterio della «prevedibilità», da parte dell’imputato, dell’evoluzione
(“fisiologica”) dell’accusa in dibattimento; criterio, per converso, disatteso dalla citata pronuncia della
Corte costituzionale.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | MODIFICA DELL’IMPUTAZIONE E GIUDIZIO ABBREVIATO
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Sarebbe, inoltre, significativo che – sia pure con riguardo alla nuova contestazione cosiddetta “patologica” – la sentenza n. 333/2009 abbia esteso, in via consequenziale, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p. anche alla contestazione del fatto diverso, di cui alla norma censurata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La Corte d’appello di Lecce dubita della legittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova
contestazione concerne un fatto che non risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio
dell’azione penale.
Ad avviso della Corte rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, per contrasto con i principi di eguaglianza e di inviolabilità del diritto di difesa, giacché, nel caso considerato, l’imputato verrebbe a trovarsi in posizione diversa e deteriore, quanto alla facoltà di accesso al rito alternativo e alla correlata diminuzione di pena, rispetto a chi fosse chiamato a
rispondere della stessa imputazione sin dall’inizio.
L’art. 3 Cost. sarebbe violato anche sotto due ulteriori profili. In primo luogo, perché, a fronte della
nuova contestazione di cui si discute, l’imputato potrebbe fruire dei vantaggi connessi ad alcuni riti
speciali – quali il patteggiamento e l’oblazione, per effetto delle sentenze n. 265/1994 e n. 530/1995 di
questa Corte – vedendosi, invece, inibito l’accesso al giudizio abbreviato. In secondo luogo, perché, nell’ipotesi in discussione, l’imputato potrebbe recuperare la facoltà di chiedere il giudizio abbreviato per
circostanze casuali che determinino la regressione del procedimento, come quando il fatto diverso contestato in dibattimento rientri fra quelli per cui si procede con udienza preliminare e questa non si sia
tenuta.
2. La questione è fondata.
Con la sentenza n. 237/2012, questa Corte – superando il diverso indirizzo espresso in precedenti
pronunce, risalenti agli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del nuovo codice di rito –
ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di eguaglianza e del diritto di
difesa (artt. 3 e 24, comma 2, Cost.), l’art. 517 c.p.p., nella parte in cui non consente all’imputato di chiedere il giudizio abbreviato al giudice del dibattimento in relazione al reato concorrente oggetto di contestazione suppletiva cosiddetta “fisiologica”: volta, cioè, ad adeguare l’imputazione alle nuove risultanze dell’istruzione dibattimentale.
Le considerazioni poste a base di detta decisione risultano estensibili, con gli opportuni adattamenti,
anche alla contestazione “fisiologica” del fatto diverso, operata ai sensi dell’art. 516 c.p.p.: disposizione
che – sotto la rubrica «Modifica della imputazione» – stabilisce, al comma 1, che «Se nel corso dell’istruzione dibattimentale il fatto risulta diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio, e
non appartiene alla competenza di un giudice superiore, il pubblico ministero modifica l’imputazione e
procede alla relativa contestazione».
Le fattispecie regolate dagli artt. 516 e 517 c.p.p. sono già state, del resto, accomunate da questa Corte nelle analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale inerenti alle contestazioni dibattimentali cosiddette “tardive” o “patologiche”, relative, cioè, a fatti che già risultavano dagli atti di indagine al
momento dell’esercizio dell’azione penale: contestazioni che una consolidata giurisprudenza di legittimità reputa ammissibili, malgrado il tenore letterale apparentemente contrario delle citate disposizioni
del codice di rito (sentenze n. 333/2009 e n. 265/1994, concernenti, rispettivamente, il giudizio abbreviato e il “patteggiamento”). Altrettanto è avvenuto – a prescindere da ogni distinzione fra contestazioni “fisiologiche” e “patologiche” – con riguardo alla mancata previsione della facoltà dell’imputato di
presentare domanda di oblazione in rapporto al reato oggetto della nuova contestazione (sentenza n.
530/1995).
3. È ben vero che tra la contestazione del reato concorrente e la contestazione del fatto diverso vi è
un elemento differenziale. La prima, concernendo un addebito aggiuntivo rispetto a quello originario
(se pure al medesimo connesso, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b), c.p.p.), potrebbe eventualmente
dar luogo anche ad una imputazione autonoma, oggetto di un procedimento distinto; la seconda no,
trattandosi della mutata descrizione del fatto per il quale è già stata esercitata l’azione penale (addebito
sostitutivo). Con la conseguenza che, quando emerga la diversità del fatto, la nuova contestazione dibattimentale rappresenta una soluzione obbligata per il pubblico ministero, non potendo il novum affioAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | MODIFICA DELL’IMPUTAZIONE E GIUDIZIO ABBREVIATO
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rato nell’istruzione dibattimentale formare oggetto di un procedimento separato, stante l’efficacia preclusiva del giudicato.
Tale tratto distintivo non basta, tuttavia, a giustificare discriminazioni tra le due ipotesi sotto il profilo che qui specificamente interessa.
In entrambi i casi, la contestazione interviene quando il termine procedimentale perentorio per la richiesta di giudizio abbreviato è già scaduto (tale termine coincide, infatti, con la formulazione delle
conclusioni nell’udienza preliminare o, nei procedimenti a citazione diretta, con la dichiarazione di
apertura del dibattimento: artt. 438, comma 2, e 555, comma 2, c.p.p.). Anche in rapporto alla contestazione “fisiologica” del fatto diverso vale, quindi, il rilievo di fondo, per cui l’imputato che subisce la
nuova contestazione «viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai
riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio». Infatti, «condizione primaria per l’esercizio del
diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti»: e ciò
particolarmente in rapporto alla «scelta di valersi del giudizio abbreviato», la quale «è certamente una
delle più delicate, fra quelle tramite le quali si esplicano le facoltà defensionali». Di conseguenza, non
solo quando all’accusa originaria ne venga aggiunta una connessa, ma anche quando l’accusa stessa sia
modificata nei suoi termini essenziali, «non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni» (sentenza n. 237/2012).
Al riguardo, giova evidenziare come il dovere del pubblico ministero di modificare l’imputazione
per diversità del fatto risulti strettamente collegato al principio della necessaria correlazione tra accusa
e sentenza (art. 521 c.p.p.), partecipando, quindi, della medesima ratio di garanzia (assicurare il contraddittorio sull’accusa e, con esso, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato). In questa prospettiva, la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che non qualsiasi variazione o puntualizzazione, anche meramente marginale, dell’accusa originaria comporta il suddetto obbligo, ma solo quella che, implicando una trasformazione dei tratti essenziali dell’addebito, incida sul diritto di difesa dell’imputato: in altre parole, la nozione strutturale di «fatto», contenuta nell’art. 516 c.p.p., va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni delle facoltà
difensive. Correlativamente, è di fronte a simili situazioni – e solo ad esse – che emerge anche l’esigenza
di riconoscere all’imputato la possibilità di rivalutare le proprie opzioni sul rito.
Tale esigenza risalta in modo anche più evidente ove si consideri che la modifica dell’imputazione,
oltre ad alterare in modo significativo la “fisionomia” fattuale del tema d’accusa, può avere riflessi di
rilievo sull’entità della pena alla quale l’imputato si trova esposto e, di conseguenza, sulla incidenza
quantitativa dell’effetto premiale connesso al rito speciale (diminuzione della pena di un terzo, nel caso
di condanna). La fattispecie oggetto del giudizio a quo è, per questo verso, esemplare: chiamati inizialmente a rispondere di estorsione tentata – reato punito con la pena detentiva minima di un anno e otto
mesi di reclusione (oltre la multa) – gli imputati si sono visti contestare in dibattimento, in sua vece,
l’estorsione consumata, punita, nel minimo, con pena tripla (cinque anni di reclusione, oltre la multa).
4. Come rilevato nella sentenza n. 237/2012, il regime censurato non può essere giustificato né con
gli obiettivi di deflazione processuale propri del giudizio abbreviato, né facendo leva sulla «prevedibilità» della variazione dibattimentale dell’imputazione in un sistema di tipo accusatorio, fondato sul principio della formazione della prova in dibattimento.
Quanto, infatti, al primo profilo, l’accesso al rito alternativo a dibattimento iniziato rimane comunque idoneo a produrre un effetto di economia processuale, sia pure attenuato, consentendo – quantomeno – al giudice di decidere sulla nuova imputazione senza il supplemento di istruzione previsto
dall’art. 519 c.p.p. In ogni caso, le ragioni della deflazione processuale debbono cedere di fronte alla necessità del rispetto degli artt. 3 e 24, comma 2, Cost.: «se pure è indubbio, in una prospettiva puramente
“economica”, che più si posticipa il termine utile per la rinuncia al dibattimento e meno il sistema ne
“guadagna”, resta comunque assorbente la considerazione che l’esigenza della “corrispettività” fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza
né tantomeno sul diritto di difesa» (sentenza n. 237/2012).
Riguardo, poi, al secondo aspetto, non si può pretendere che l’imputato valuti la convenienza di un
rito speciale tenendo conto anche dell’eventualità che, a seguito dei futuri sviluppi dell’istruzione dibattimentale, l’accusa a lui mossa subisca una trasformazione, la cui portata resta ancora del tutto imprecisata al momento della scadenza del termine utile per la formulazione della richiesta. E ciò, tanto
più ove si consideri che la vigente disciplina consente al pubblico ministero di procedere a nuove conAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | MODIFICA DELL’IMPUTAZIONE E GIUDIZIO ABBREVIATO
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testazioni – sia del fatto diverso, che del reato connesso o della circostanza aggravante – anche nell’ambito del giudizio abbreviato, in presenza di integrazioni probatorie: ipotesi nella quale è espressamente
riconosciuto, peraltro, all’imputato il diritto di rivedere la scelta sul rito, chiedendo che il procedimento
prosegua nelle forme ordinarie (art. 441-bis c.p.p.).
5. Anche in rapporto alla contestazione dibattimentale “fisiologica” del fatto diverso è, d’altro canto,
ravvisabile la ingiustificata disparità di trattamento di situazioni analoghe – rilevata dalla sentenza n.
237 del 2012 – conseguente al possibile recupero, da parte dell’imputato, della facoltà di accesso al giudizio abbreviato per circostanze puramente “occasionali” che determinino la regressione del procedimento.
Ciò si verifica, in specie, allorché, a seguito delle nuove contestazioni, il reato rientri tra quelli per
cui si procede con udienza preliminare e questa non sia stata tenuta. In tale ipotesi, infatti, il giudice –
ove la relativa eccezione sia sollevata nei prescritti termini di decadenza – deve disporre la trasmissione
degli atti al pubblico ministero (artt. 516, comma 1-ter, e 521-bis c.p.p.), con la conseguenza che l’imputato si vede, di fatto, rimesso in termini per proporre la richiesta di rito alternativo.
6. Sussiste, infine, anche con riguardo all’ipotesi in questione, l’ingiustificata disparità di trattamento
tra giudizio abbreviato e oblazione, parimenti riscontrata nella sentenza n. 237/2012.
In forza dell’art. 141, comma 4 bis, disp. att. c.p.p. – che si conforma alla sentenza n. 530/1995 di questa Corte – nel caso di modifica dell’originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile
l’oblazione, l’imputato è, infatti, rimesso in termini per proporre la relativa richiesta.
7. L’art. 516 c.p.p. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova
contestazione.
[Omissis]
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MARCELLO D’AIUTO
Dottore di ricerca in Procedura penale – Università di Roma “Tor Vergata”
Fatto diverso e giudizio abbreviato:
verso una nuova forma di rito premiale?
Different event and summary trial:
towards a new form of rewarding trial?
La Corte costituzionale ritorna sul rapporto tra diritto di difesa e modifica dell’imputazione, consentendo all’imputato di accedere al giudizio abbreviato anche a seguito della contestazione in dibattimento del fatto diverso. La
sentenza, però, non chiude definitivamente la questione e lascia aperti molti interrogativi difficilmente risolvibili sul
piano interpretativo.
The Constitutional Court expresses itself again on the relationship existing between right to defence and modification of the indictment and it authorizes the defendant to be able to benefit from summary trial also after that a
different event has been raised during the hearing. However, the judgment does not clarify the matter once for all
and leaves many questions unanswered.
I PRECEDENTI
La Corte costituzionale, con la sentenza in commento, ha ripreso il tema della possibilità di accedere ad
un rito premiale in caso di modifica dell’imputazione in dibattimento.
Si tratta di una questione complessa, alla quale la Corte si è sempre avvicinata con estrema prudenza, limitandosi a decidere sul petitum di volta in volta proposto dal giudice rimettente 1. Il risultato è
una serie di interventi additivi ciascuno dei quali presupposto del successivo ma nessuno, di per sé, definitivo 2. Del resto il nodo problematico comporta una difficile sintesi dei valori costituzionali, compresi tra la possibilità per il pubblico ministero di modificare l’imputazione e le facoltà difensive concesse
all’imputato 3.
Il punto di partenza risale ad un impianto normativo piuttosto rigido che, nell’originaria disciplina
codicistica, consentiva di emendare l’imputazione ma attribuiva all’imputato il mero diritto di chiedere
un termine per ricalibrare la difesa. Anche la possibilità di ottenere l’ammissione di nuovi mezzi di
1
A giudizio di F. Cassibba, La Consulta accantona la prevedibilità delle nuove contestazioni e compie un’incursione sul diritto vivente, in Arch. pen., 2015, p. 34, la Corte ha riproposto anche nel caso in oggetto quell’approccio casistico che già aveva connotato la
sent. 237 del 2012, fornendo una soluzione ancorata alla rilevanza della questione sottopostale.
2
G. Todaro, Nuove contestazioni dibattimentali e giudizio abbreviato: una incostituzionalità attesa tra spinte antitetiche e dubbi persistenti, in Cass. pen., 2010, p. 2527. Secondo l’A. la storia dei rapporti tra nuove contestazioni dibattimentali e giudizio abbreviato
appare segnata da uno strano paradosso: nonostante quella sorta di “illegittimità virtuale” iscritta nelle trame argomentative
della sentenza n. 265 del 1994 della Corte costituzionale, ci sono voluti ben quindici anni per rimuovere quella immobile staticità che precludeva all’imputato di richiedere il rito premiale in oggetto nelle ipotesi di modifica dell’imputazione.
3
Al riguardo C. Fiorio, Vicende dell’imputazione e giudizio abbreviato, in Giur. cost., 2005, p. 2053, per il quale il tema si colloca
quale terra di confine tra l’esigenza di un’effettiva égalité des armes, la deontologia del pubblico ministero, la scelta del rito ed i
vizi della volontà.
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prova, infatti, era subordinata alla valutazione del giudice ed ai canoni dell’art. 507 c.p.p. 4. Del tutto
prevedibile, allora, che la normativa si sarebbe scontrata con la dinamica dei riti a contenuto premiale,
essendo la loro instaurazione vincolata alla perentorietà dei termini introduttivi.
L’impossibilità di accedere al giudizio abbreviato (o al patteggiamento) in caso di modifica dell’imputazione ha, infatti, sin dai primi anni di vigenza del codice, rimesso alla Corte costituzionale numerosi rilievi di illegittimità degli artt. 516 e 517 c.p.p., per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. 5. Le prime pronunce, però, avevano avallato tale normativa, facendo leva sulla preclusione legata al termine 6. L’imputato, quindi, introdotto il rito ordinario, non aveva più la facoltà di chiedere il patteggiamento o il
giudizio abbreviato 7. La scelta del processo, infatti, postulava, secondo tale ricostruzione, l’implicita accettazione del rischio che, in corso di giudizio, il pubblico ministero potesse modificare l’imputazione 8.
La giurisprudenza dava particolare enfasi al binomio deflazione-premialità facendo ricadere sull’imputato tutta l’alea della scelta 9: l’interesse a beneficiare del rito premiale sarebbe stato tutelabile solo se
avesse consentito una più rapida definizione del processo. La possibilità di innestare il rito alternativo
nel dibattimento sarebbe stato, pertanto, in contrasto con le finalità di economia processuale e, per questo, incompatibile con la ratio della disciplina.
Una prima apertura nella giurisprudenza costituzionale si è avuta con riferimento al patteggiamento
ed alla possibilità di accedervi qualora la modifica della regiudicanda riguardasse elementi di fatto già
risultanti negli atti di indagine 10. In tale evenienza la determinazione dell’imputato sarebbe fuorviata
da un’anomalia riconducibile alla condotta processuale del pubblico ministero, non prevedibile al momento della scelta del rito 11.
Il Giudice delle leggi, però, pur riconoscendo una similitudine tra i procedimenti speciali, escludeva
4
M. D’Agnolo, Nuove contestazioni e giudizio abbreviato: un deciso passo avanti della Corte costituzionale, in questa Rivista, 2012, 3,
p. 70. Secondo l’Autore, prima degli interventi della Corte costituzionale n. 241/1992 e n. 50/1995, l’adeguamento degli addebiti
alle risultanze probatorie sopravvenute, o la loro ricalibratura – in re melius perpensa – in rapporto agli elementi già acquisiti arricchivano l’arsenale difensivo di un mero diritto ad un termine e all’ammissione di nuove prove, assolutamente necessarie.
5
Il problema sottoposto alla Corte riguardava il duplice profilo della lesione del diritto di difesa e del diverso trattamento
dell’imputato a seconda che avesse per tempo chiesto il rito premiale o meno. Cfr. L. Suraci, Il giudizio abbreviato, Napoli, 2008, p.109.
6
Al riguardo C. Fiorio, Vicende dell’imputazione e giudizio abbreviato, cit., 2005, p. 2056, secondo cui la prima stagione della
giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti tra nuove contestazioni e giudizi speciali a contenuto premiale è stato caratterizzato da una strenua difesa dello spatium temporis all’interno del quale le parti hanno l’onere di esercitare le loro prerogative in
ordine alla scelta del rito.
7
La Corte costituzionale, chiamata subito dopo l’entrata in vigore del codice a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale
degli artt. 516 e 517 c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., aveva assecondato il legislatore facendo perno su due principi: innanzitutto che il diritto dell’imputato ad accedere ad un rito premiale fosse subalterno rispetto allo scopo deflattivo ad esso correlato; in secondo luogo che la modifica dell’imputazione fosse un’eventualità assolutamente prevedibile in un sistema imperniato sulla formazione della prova in dibattimento e che pertanto l’imputato dovesse considerare tale eventualità sin
dall’introduzione del giudizio. Il problema è di molto ridimensionato con riguardo alla contestazione del “fatto nuovo”, poiché
l’imputato, negando il consenso alla contestazione, determinerà che si proceda nei modi ordinari; e nell’eventuale separato processo farà liberamente le proprie scelte difensive, ivi inclusa quella di accedere o meno ai riti alternativi. Cfr. T. Rafaraci, Le nuove contestazioni, Milano, 1996, p. 198.
8
Al riguardo, G. Conti, Nuove contestazioni dibattimentali e preclusione al rito abbreviato, in Giur. cost., 1992, p. 2623, secondo cui
la modifica dell’imputazione rappresenta una eventualità del processo il cui rischio dovrebbe essere tenuto in debito conto
dall’imputato in ragione della tempestività del giudizio speciale.
9
Al riguardo si veda, C. cost., 6 luglio 1992, n. 316, in Cass. pen., 1992, p. 2926; C. cost., ord. 11 maggio 1992, n. 213, in Cass.
pen., 1992, p. 2317. Con specifico riferimento al giudizio abbreviato si veda, C. cost. 1 aprile 1993, n. 129, in Cass. pen., 1993, 1907.
In quella circostanza la Corte investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p., laddove non prevedeva o
la possibilità di richiedere il rito abbreviato in relazione alle nuove contestazioni, o la preclusione di contestazioni suppletive, la
Corte aveva ritenuto che nessuna delle due soluzioni prospettate in via alternativa dal giudice remittente potesse considerarsi
costituzionalmente obbligata e quindi legittimasse la pronuncia che le era stata sollecitata. Le stesse argomentazioni, poi, sono
state riprese anche dalla giurisprudenza di legittimità, in alcune pronunce che hanno escluso, in base alle stesse considerazioni,
che alla modifica dell’imputazione o alla contestazione di reati concorrenti in dibattimento conseguisse un’illegittima preclusione alla fruizione dei riti speciali, si veda al riguardo Cass., Sez. V, 4 marzo 2003, Dell’Angelo, in Cass. Pen., 2004, 1668; Sez. VI, 25
ottobre 2002, Cacciapaglia, in CED Cass. 222626.
10
C. cost., 22 giugno 1994, n. 265, in Giur. cost., 1994, 2162, con nota di V. Retico, Contestazione suppletiva e limiti cronologici per
il patteggiamento.
11
Si parla in questa ipotesi di contestazione tardiva in quanto gli elementi prodotti per la nuova contestazione avrebbero già
ab initio costituito materia di accusa se il p.m. avesse più compiutamente valutato le risultanze investigative.
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l’opportunità di giungere ad una pronuncia additiva anche per il rito abbreviato in ragione di una assunta inconciliabilità con il dibattimento 12. Solo a distanza di quindici anni, facendo leva su argomenti
che oggi appaiono quantomeno deboli 13, la Corte ha mutato il proprio orientamento dichiarando
l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 c.p.p. nella parte in cui non prevedano la possibilità di
chiedere il giudizio abbreviato sempre che la modifica risultasse già in nuce negli atti di indagine 14.
Tale conclusione ha rappresentato il necessario adeguamento del sistema ad una prassi giurisprudenziale ormai affermata e che pregiudica fortemente le chance difensive. Seguendo il principio di separazioni delle fasi, infatti, il potere di emendamento del pubblico ministero dovrebbe essere ancorato alle
sole risultanze probatorie del dibattimento. Viceversa la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto la
possibilità di effettuare nuove contestazioni anche ove l’esigenza correttiva emergesse da elementi acquisiti nelle fasi precedenti 15. Le pronunce della Corte, in questo senso, hanno avuto il merito di bilanciare il potere di modifica del pubblico ministero quantomeno nei casi di esercizio “patologico” dello
stesso.
Restava, ad ogni modo, preclusa la possibilità di accedere al rito abbreviato nell’ipotesi in cui la modifica traeva motivo da elementi di prova emersi nel corso del dibattimento. Tale eventualità, infatti,
sarebbe dovuta essere prevista dall’imputato e tenuta in considerazione nel momento in cui rinunciava
alla definizione anticipata del procedimento 16.
L’APPRODO DELLA CORTE
Una vera rivoluzione copernicana sul punto si è avuta quando la Corte, con la sentenza n. 237/2012, ha
abbandonato il riferimento alla “prevedibilità” della contestazione suppletiva, quale criterio preclusivo
del diritto ad accedere al giudizio abbreviato 17. Intervenendo sull’art. 517 c.p.p., il Giudice delle leggi,
infatti, ha stabilito che la modifica dell’imputazione è un fenomeno “connaturale” ad un sistema di tipo
accusatorio per il quale «il criterio della “prevedibilità” della variazione presenta margini intrinseci di
opinabilità». In relazione a ciò, non appare sostenibile un diverso e meno favorevole trattamento delle
nuove contestazioni “fisiologiche”, rispetto a quello riservato, per effetto della sentenza n. 333/2009, alle contestazioni “patologiche”. Anzi, il diritto di difesa è posto in crisi più da elementi emersi ex novo
dall’istruttoria dibattimentale che da circostanze, seppure non oggetto della contestazione, già conosciute dall’imputato 18.
12
O. Bruno, L’ammissibilità del giudizio abbreviato, Padova, 2007, p. 80, riferisce il ragionamento della Corte, secondo cui il consentire
all’imputato di formulare la richiesta di abbreviato a dibattimento già aperto renderebbe necessario individuare la modalità della conversione; cosa che, sussistendo molteplici alternative astrattamente pensabili, non spetta alla Corte ma al legislatore.
13
I motivi alla base del rigetto della medesima richiesta di illegittimità costituzionale sarebbero stati superati dall’introduzione della legge 16 dicembre 1999, n. 479: in ragione di ciò non sussisterebbe quella inconciliabilità tra abbreviato e rito ordinario che aveva giustificato il precedente orientamento. Al riguardo si legga M. Caianello, Giudizio abbreviato a seguito di nuove contestazioni. Il prevalere delle tutele difensive sulle logiche negoziali, in Giur. cost., 2009, p. 4959, secondo cui, considerato come oramai
sia diritto vivente che il pubblico ministero possa rimediare ad errori nella fissazione della regiucanda prima dell’apertura
dell’istruzione dibattimentale, ne derivare l’esigenza di un contrappeso di garanzie per l’imputato, quale la “restituzione in
termini” per chiedere il rito abbreviato.
14
C. cost., 18 dicembre 2009, n. 333, in Giur. cost., 2009, p. 4955.
15
Al riguardo si veda, Cass., sez. un., 28 ottobre 1998, n. 13, in Cass. pen., 1999, 2074, secondo cui la contestazione suppletiva
in dibattimento non pone limiti temporali all’esercizio di tale potere e non consente di fare distinzioni quanto alla fonte degli
elementi dai quali la contestazione suppletiva trae origine. Per una disamina articolata si veda S. Allegrezza, Precocità delle nuove
contestazioni in dibattimento: mera irregolarità o causa di invalidità?, in Cass. pen., 2000, p. 330; G. Lozzi, Modalità cronologiche della
contestazione suppletiva e diritto di difesa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 342.
16
La differenza ipotizzata dalla Corte era fondata sull’ipotesi che i fatti già emersi nel corso delle indagini dovessero far parte dell’iniziale contestazione; il comportamento omissivo del Pubblico ministero, dunque, non poteva ricadere sull’imputato e
comportare la preclusione dell’accesso ad un rito premiale. Al contrario, le contestazioni “fisiologiche”, ovvero quelle emerse
nel corso del giudizio, dovevano essere previste dall’imputato al momento della scelta del rito; il rischio connesso alla modifica
dell’imputazione e dell’impossibilità di accedere all’abbreviato, allora, sarebbe potuto ricadere sull’interessato.
17
Cfr. M. D’Agnolo, Nuove contestazioni e giudizio abbreviato, cit., secondo cui il postulato che l’ampliamento delle facoltà difensive di fronte a una nuova contestazione sia dovuto solo nei casi di modifiche tardive non regge. È altrettanto sostenibile che
il diritto di difesa debba essere maggiormente protetto da addebiti originati da nova emersi solo in dibattimento.
18
C. cost., 22 ottobre 2012, n. 237, in Proc pen. giust., 2012, p.67, con commento di M. D’Agnolo, Nuove contestazioni e giudizio
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D’altro canto, secondo la Corte, è ormai superata normativamente la tesi della libera assunzione del
“rischio” del dibattimento, originariamente legata al fatto che la variazione del tema d’accusa rimanga
preclusa nell’ambito dei riti alternativi. La definizione del giudizio abbreviato, come rito “allo stato degli atti”, infatti, escludeva inizialmente l’applicabilità dell’istituto della modifica dell’imputazione. Novellata la disciplina nel senso di consentire un arricchimento della piattaforma probatoria e la conseguente possibilità per il pubblico ministero di adeguare l’imputazione, il legislatore si è posto il problema di evitare che il “rischio” della modifica ricada solo sull’imputato. Allo scopo, la l. 5 giugno 2000,
n. 144, ha introdotto l’art. 441-bis c.p.p. ed il conseguente diritto dell’imputato, nel caso di modifica
dell’imputazione, di chiedere che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie.
Superati, dunque, i due cardini su cui la giurisprudenza precedente aveva fissato l’esclusione del diritto ad accedere al giudizio abbreviato, la Corte ha finalmente stabilito che, nel tutelare ragioni di economia processuale, la disciplina normativa non può «non tener conto delle contrapposte esigenze di
salvaguardia del diritto di difesa e delle ricadute di segno preclusivo, delle nuove contestazioni dibattimentali sui riti alternativi a contenuto premiale».
Se dal punto di vista concreto la portata della sentenza è limitata alla sola contestazione del reato
concorrente, dal punto di vista del principio enucleato la decisione ribalta completamente il rapporto
tra modifica dell’imputazione e diritto di difesa: il giudizio abbreviato è l’estrinsecazione di una prerogativa difensiva in chiave premiale che non può essere negata all’imputato in ragione di una più ridotta
efficienza “economica” del rito 19. La logica dello scambio tra sconto di pena ed energie processuali cede
all’esigenza di ripristinare la pienezza delle garanzie difensive 20.
La sentenza in commento riparte da tale arresto giurisprudenziale per arricchirlo di un nuovo contenuto: anche dinanzi alla contestazione del fatto diverso, l’imputato ha diritto ad accedere al rito abbreviato 21. A giudizio della Corte «non solo quando all’accusa originaria ne venga aggiunta una connessa, ma anche quando l’accusa stessa sia modificata nei termini essenziali, non possono non essere
restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni». D’altro canto non si può
pretendere che l’imputato valuti l’opportunità di scegliere un rito alternativo tenendo conto anche
dell’eventualità che l’accusa a lui mossa subisca una trasformazione imprecisata: eventualità assolutamente fisiologica, e per questo, dai contenuti imprevedibili.
Il Giudice delle leggi ha equiparato, dunque, le fattispecie di cui agli artt. 516 e 517 c.p.p., come per
altro aveva già fatto in pronunce precedenti, seppure le norme prefigurino due distinte situazioni ed
attribuiscano al pubblico ministero poteri diversi 22. Nel caso di addebito aggiuntivo, infatti, l’organo
dell’accusa può contestare in giudizio il reato ulteriore ovvero decidere di dar luogo ad un esercizio
abbreviato, cit. A giudizio della Corte «il diritto di difesa rischia di essere posto in crisi più dalle modifiche dell’imputazione conseguenti a novità probatorie emerse ex abrupto nel corso dell’istruzione dibattimentale, che da quelle basate su elementi già acquisiti al termine delle indagini preliminari: elementi che l’imputato, grazie al deposito degli atti che precede l’esercizio
dell’azione penale, ha già avuto modo di conoscere e valutare».
19
Cfr. E. Gazzaniga, Un nuovo passo avanti in tema di ampliamento della facoltà di accesso ai riti alternativi in corso di dibattimento,
in Cass. pen., 2013, p. 990, secondo cui la tutela del diritto di difesa e del principio di uguaglianza deve comunque avere la precedenza, rispetto alla logica dello "scambio" fra sconto di pena e risparmio di energie processuali, e non può soccombere di fronte ad essa.
20
Non si può negare che tale decisione rinvenga l’immediato referente nella sentenza n. 333 del 2009 con cui, come noto,
l’imputato era stato restituito in termini per richiedere il rito speciale nelle ipotesi di modifica dell’imputazione ex artt. 516 e 517
c.p.p. relativamente al fatto diverso e al reato concorrente ove la nuova contestazione già risultasse apprezzabile sulla base degli
atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale. Tuttavia, sarebbe riduttivo considerare la pronuncia annotata come
il mero sviluppo di quel precedente: al contrario, essa rappresenta l’inizio di un nuovo percorso, che, come si dirà, sembra affrancarsi definitivamente dalla logica sottesa alla distinzione tra modifiche “fisiologiche” e modifiche “patologiche” dell’imputazione, per elevare il diritto di difesa a criterio regolatore dei rapporti tra nuove contestazioni dibattimentali e riti premiali, così
G. Todaro, Una ulteriore declaratoria d’incostituzionalità sui rapporti tra nuove contestazioni dibattimentali e giudizio abbreviato: la stella
polare del diritto di difesa e qualche dubbio nuovo, in Cass. pen., 2013, p. 3879.
21
C. cost., 1 dicembre 2014, n. 273. Per la Corte anche in rapporto alla contestazione fisiologica del fatto diverso vale il rilievo
di fondo, per cui l’imputato che subisce la nuova contestazione viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore rispetto a chi,
della stessa imputazione fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio.
22
La sentenza della Consulta n. 237/2012 aveva determinato un regime differenziato per la sola contestazione del fatto diverso. Si era così determinata un’ulteriore disparità di trattamento: non solo tra imputati che avevano avuto la possibilità di accedere o meno al rito abbreviato in ragione del momento in cui avevano maturato la scelta ma anche in ragione della modifica
dell’addebito.
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dell’azione penale autonomo. La stessa facoltà di scelta, invece, il pubblico ministero non ce l’ha in relazione al fatto diverso. In tale ipotesi, infatti, egli è obbligato a modificare l’imputazione, non potendo
dare luogo ad un nuovo procedimento senza incontrare la preclusione del giudicato.
Tale tratto distintivo, seppure secondo la Corte non sufficiente a giustificare un regime differenziato,
obbliga però a ragionare su quali siano gli elementi che impongano al pubblico ministero la novazione
dell’addebito e, di conseguenza, attribuiscano all’imputato il diritto di ridiscutere la scelta sul rito; anche alla luce di una precisazione che la Corte svolge in relazione all’obbligo di modifica dell’imputazione come presupposto della necessaria correlazione tra accusa e sentenza 23. Al riguardo la pronuncia
rimanda alla giurisprudenza di legittimità per la quale solo le variazioni essenziali del fatto, ovvero
quelle che determinano una lesione concreta del diritto di difesa, danno luogo alla violazione dell’art.
521 c.p.p.
MODIFICA “FISIOLOGICA” E SCELTA DEL RITO
La centralità del dibattimento nella formazione della prova implica che l’addebito deve essere adeguato
alle risultanze istruttorie 24. Ragioni di opportunità fanno ritenere irragionevole che per ogni modifica
dell’accusa il procedimento regredisca a fasi o stadi precedenti 25: l’imputato recupererebbe tutte le facoltà connesse al diritto di difendersi, ma risulterebbe definitivamente compromessa l’aspirazione di
concludere l’accertamento in tempi ragionevoli 26. Il potere-dovere di emendare l’accusa in dibattimento, dunque, funzionale all’efficienza del giudizio, è coerente con il sistema se, però, bilanciato da adeguate garanzie difensive per l’imputato.
Il codice affronta la questione solo per quel che riguarda il diritto alla prova, e la possibilità di integrare il contraddittorio sulla base della variazione del fatto contestato, ma non si pronuncia riguardo
alle facoltà negoziali che al soggetto sono riconosciute al momento originario della formulazione dell’addebito.
La modifica dell’imputazione, però, oltre ad incidere sulla dialettica dibattimentale, influisce verosimilmente anche sul trattamento sanzionatorio 27. La diversa definizione del fatto può determinare
l’applicazione di una pena superiore rispetto a quella prefigurata all’imputato al momento del rinvio a
giudizio. Ed allora il soggetto potrebbe avere interesse a ridiscutere le condizioni dell’accertamento,
scegliendo un rito che lo garantisca di meno ma che gli assicuri una pena più mite 28. Il giudizio abbreviato, da questo punto di vista, rappresenta una modalità negoziale di difesa la cui efficacia è strettamente legata alla certezza dell’addebito ed alla circostanza che resti immutato.
La stessa conclusione vale se riferita ai profili probatori. L’imputato, infatti, rinuncia al dibattimento
23
Il dovere del pubblico ministero di modificare l’imputazione per diversità del fatto è strettamente collegato al principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza, partecipando, quindi, della medesima ratio di garanzia, C. cost., 1 dicembre 2014, n. 273.
24
Cfr. O. Mazza, Giudizio di primo grado (disciplina del) nel diritto processuale penale, in Dig. pen., I, 2000, p. 384.
25
Il carattere dinamico del procedimento probatorio impone l’elasticità piuttosto che l’immutabilità dell’accusa: la sua ipoteticità, non la sua fissità, così Rafaraci, Le nuove contestazioni, cit., p. 7; per G. Ubertis, Giudizio di primo grado, in Dig. pen., p. 538, è
un’inevitabile conseguenza della scelta di procedere alla formazione dibattimentale della prova quella di trovarsi più spesso che
nel sistema codicistico del 1930 di fronte alla necessità per il pubblico ministero di rimodellare la propria ipotesi accusatoria a
seconda delle risultanze probatorie dibattimentali.
26
In un sistema nel quale la prova si forma ordinariamente in dibattimento, i congegni delle nuove contestazioni mirano a
conferire un ragionevole grado di flessibilità all’imputazione, consentendole l’adattamento agli esiti dell’istruzione dibattimentale; l’istituto risponde, dunque, a ragioni di economia processuale, con cui contrasterebbe un regime di generalizzata retrocessione del procedimento a fasi o stadi precedenti, al riguardo si veda G. Di Chiara, Nuova contestazione “fisiologica” a dibattimento e
accesso al giudizio abbreviato, in Dir. pen. proc., 2012, p. 1427.
27
L’argomento addotto trova una conferma empirica proprio nel caso concreto che ha originato la richiesta di incostituzionalità di cui alla sentenza in commento. Si tratta, infatti, della modifica dell’imputazione che ha trasformato l’originaria imputazione di estorsione tentata in una fattispecie di estorsione consumata punita, nel minimo, con pena addirittura tripla.
28
Il soggetto disinteressato in ordine all’imputazione originaria, potrebbe avere “appetiti” rispetto alle nuove contestazioni
specie quando si tratta di modifiche in peius. Da questo punto di vista la disciplina normativa è chiaramente in contrasto con
l’art. 24, comma 2, Cost. che non esaurisce il diritto di difesa nel solo interesse del soggetto al riconoscimento della completa innocenza, ma si sostanzia in un insieme di poteri e facoltà che contribuiscono ad adeguare le modalità di giudizio alle esigenze
dell’imputato, così O. Bruno, L’ammissibilità del giudizio abbreviato, cit., p. 78.
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se pensa che dagli atti raccolti emerga la prova della sua innocenza (ovvero se ritiene incontestabile la
sua responsabilità) e, che si accontenterà dello sconto di pena in caso di condanna. In entrambe le ipotesi, la scelta è sottoposta alla condizione che ogni singolo elemento dell’imputazione rimanga invariato,
così da non modificare il thema decidendum.
D’altra parte che l’imputato abbia diritto a recuperare l’alternativa sul giudizio qualora cambi la
contestazione, lo si può ricavare per converso dall’art. 441-bis c.p.p. La norma, infatti, consente all’imputato di ottenere che si proceda nelle forme ordinarie nel caso di modifica dell’imputazione nel corso
dell’abbreviato 29. Da tale disposizione, allora, si può trarre un indirizzo di sistema per il quale la decisione sul rito permane fino a quando resta immutata la contestazione.
Il principio, così formulato, deve poter essere applicato a tutte le ipotesi di modifica dell’imputazione, in modo da determinare all’esito un effettivo esercizio delle prerogative difensive. Del resto, la rinuncia al processo è la scelta che comporta, più di ogni altra, una forte compressione delle possibilità di
difendersi. Alla base di una simile decisione non può che esserci una volontà piena e consapevole, supportata da una concreta valutazione del fatto contestato, degli elementi emersi e delle effettive possibilità di discolparsi. Mutato l’addebito, e mutate le condizioni del giudizio, quella volontà potrebbe non
permanere. Pertanto è necessario che l’imputato abbia la facoltà di esprimersi nuovamente sulla rinuncia al dibattimento e su tutte le implicazioni che essa comporta.
FATTO DIVERSO E NOVAZIONE DELL’ADDEBITO: I LIMITI DELLA SENTENZA
La questione devoluta alla Corte, proprio perché riferita all’art. 516 c.p.p., era idonea a provocare una
decisione che fissasse, definitivamente, i rapporti tra la necessaria elasticità dell’accusa e le potestà difensive 30. L’emersione del fatto diverso non concede alternative al pubblico ministero ma gli impone la
novazione dell’addebito. In relazione a ciò la Corte avrebbe potuto stabilire il criterio per il quale ogni
modifica dell’imputazione consente all’imputato di riconsiderare la scelta sul rito.
La pronuncia, invece, introduce un argomento capace di creare disparità di trattamento in ragione
del novum contestato 31. Secondo la Corte, la nozione strutturale di fatto, contenuta nell’art. 516 c.p.p.,
deve essere coniugata con quella “funzionale”, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni delle facoltà difensive. Al riguardo, la sentenza rimanda all’interpretazione di fatto diverso che la
giurisprudenza di legittimità ha fornito in relazione all’art. 521 c.p.p.; secondo la quale, solo la modifica
degli elementi essenziali della fattispecie inciderebbero sulla difesa e sull’interesse dell’imputato a
chiedere un’integrazione del contraddittorio 32.
Tale impostazione, già censurabile in quella sede perché foriera di incertezza e limitativa del diritto
di difesa, appare qui inopportuna anche per un diverso profilo. Il principio di correlazione tra accusa e
sentenza rimanda alla determinatezza dei fatti da provare come presupposto della effettività del contraddittorio 33. La scelta di un rito premiale, però, contiene un ulteriore elemento: l’interesse dell’imputato di difendersi, non solo nel processo, ma anche indipendentemente dal processo 34. Dell’imputazio-
29
Anche nell’ordinamento inglese la principale preoccupazione è che l’imputato non subisca una lesione del diritto di difesa
in ragione del mutamento dell’addebito. Nel summary trial, infatti, il mutamento delle charges comporta una rimessione in termini per l’accused al fino dello scegliere se optare per il jury trial davanti alla Crown Court o per la summary jurisdiction. Al riguardo si veda M. Caianello, Giudizio abbreviato a seguito di nuove contestazioni, cit., p. 4963; A. Tassi, Summary jurisdiction e giudizio abbreviato: elementi per un raffronto, in Indice pen., 1995, p. 486.
30
P. Ferrua, Il giusto processo tra modelli, regole e principi, in Dir. pen. proc., 2004, p. 406, ad avviso del quale la sussidiarietà del
ruolo attribuito alla ragionevole durata del processo, nel contesto di un modello processuale prefigurato a priori su primari valori di giustizia, non esclude il bilanciamento con il diritto di difesa, venendo in discussione l’incontrollata proliferazione di garanzie nelle quali esso potenzialmente si traduce.
31
Secondo la Corte «la nozione strutturale di fatto, contenuta nell’art. 516 c.p.p., va coniugata con quella funzionale, fondata
sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni delle facoltà difensive. Correlativamente, è di fronte a simili situazioni – e solo
ad esse – che emerge anche l’esigenza di riconoscere all’imputato la possibilità di rivalutare le proprie opzioni sul rito».
32
Tra tutte si veda, Cass., sez. un., 15 luglio 2010, Cerelli, in CED Cass. n. 248051.
33
Cfr. T. Rafaraci, Le nuove contestazioni, cit., pp. 25-26. Secondo l’A. la garanzia che l’accusato venga a conoscere con sufficiente determinatezza l’accusa rivoltagli sarebbe vuota se ciò non implicasse, nel contempo, anche il dovere dell’accusatore di
non debordare, nelle sue iniziative, dal tema da lui stesso già fissato e il pari dovere del giudice di attenervisi.
34
Cfr. A. Tassi, Ammesso il patteggiamento in caso di contestazione tardiva delle aggravanti: vecchi schemi e nuovi scenari nel sistema
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ne, dunque, rileva ogni elemento capace di modificare la condizione processuale del soggetto. Anche la
circostanza, apparentemente meno influente, può incidere sulla possibilità di provare il fatto e condizionare, di conseguenza, l’esito del procedimento. Del resto la decisione, assunta in un momento differente da quello in cui produce i suoi effetti, non può restare valida, se mutano le condizioni che l’hanno
determinata. L’imputato, infatti, muovendo da un bilanciamento tra chance difensive e rischio di condanna, se ha optato per il rito ordinario, qualora muti la contestazione, e con essa le possibilità di difendersi in relazione al nuovo addebito, deve poter ritornare su quella scelta.
Il richiamo al fatto in chiave “funzionale”, dunque, ha un portato di indeterminatezza che potrebbe
persino ribaltare la prospettiva garantista nella quale la sentenza è stata pronunciata. La mancanza di
un principio univoco attribuisce al pubblico ministero la possibilità di decidere se e quando modificare
l’imputazione, condizionando in tal modo l’esercizio delle prerogative difensive dell’imputato.
La Corte, dunque, come in passato, ha risolto il quesito di incostituzionalità devoluto, per altro sulla
scia obbligata della sentenza n. 237/2012, ma senza fissare un indirizzo di sistema capace di ispirare un
modello normativo. Eppure l’occasione era favorevole per riprendere la nozione di fatto diverso e, in
relazione ad essa, strutturare le facoltà difensive. È innegabile, infatti, che la piena espressione del diritto di difesa passa per l’emersione del fatto diverso in forma di obbligo per il pubblico ministero alla
contestazione suppletiva.
VERSO UN NUOVO MODELLO DI GIUDIZIO ABBREVIATO?
Vi sono, poi, altri interrogativi non chiariti dal Giudice delle leggi e che richiedono un intervento del
legislatore. Superato, infatti, lo scoglio dell’intrinseca incompatibilità tra giudizio abbreviato e giudizio
ordinario e assunto che il diritto di chiedere un rito premiale sopravviene semplicemente per effetto
della modifica dell’imputazione, vi sono elementi della disciplina vigente che necessariamente devono
essere adeguati 35.
Il primo riguarda il materiale probatorio al quale il giudice può accedere ai fini della decisione. Se
infatti, in dibattimento il fatto è risultato diverso da come era apparso all’esito delle indagini preliminari, si potrebbe essere tentati a credere che gli elementi probatori acquisiti prima del dibattimento non
siano rilevanti per la decisione. Una simile impostazione, di un giudizio allo stato degli atti nel processo, si scontrerebbe con il diritto alla prova del pubblico ministero: si innescherebbe, infatti, un meccanismo poco virtuoso per il quale il magistrato ritarda la contestazione per avere prima la possibilità di acquisire più elementi possibili a carico dell’imputato. Una soluzione potrebbe essere fissare, come base
probatoria, gli elementi emersi dall’istruttoria e, in relazione ad essi, consentire alle parti di chiedere
l’ammissione di nuove prove, magari sottoposte al canone della necessarietà ai fini della decisione 36.
Fermo restando, naturalmente, il potere d’ufficio del giudice di integrare la prova qualora non potesse
decidere allo stato degli atti. Una ipotesi del genere garantirebbe il diritto alla prova, sia dell’imputato
che del pubblico ministero, senza recuperare elementi che non rilevano nel giudizio.
Altro aspetto attiene alla possibilità di formulare una richiesta condizionata di giudizio abbreviato.
L’integrazione probatoria, infatti, appare poco compatibile con ragioni di economia processuale; si tratterebbe, nel caso, di un giudizio ordinario ma con l’effetto premiale dello sconto di pena. D’altra parte,
sembra impossibile negare all’imputato il diritto, quanto meno alla prova contraria, sugli elementi di
fatto emersi nel corso del dibattimento. A conforto di ciò, una disciplina di abbreviato, differenziata a
seconda del momento in cui la richiesta è formulata, sarebbe insostenibile costituzionalmente. Il diritto
a chiedere il rito abbreviato, dunque, deve essere riconosciuto senza limitazioni, in forza di quanto afdei riti premiali, in Giur. cost., 2014, p. 2487. Se il diritto di difesa include anche la possibilità di scegliere modalità di esercizio che
privilegiano l’aspetto della pena a scapito di quello probatorio, non sembra giustificata la limitata opportunità di recupero
dell’accesso a dette modalità a fronte della piena restituzione nei poteri concernenti la prova.
35
Nell’opera di bilanciamento tra quella particolare espressione del diritto di difesa che è costituita dalla scelta del rito ed il
principio della ragionevole durata del processo, il legislatore ha privilegiato quest’ultimo, sulla scorta della tradizionale tendenza di modulare il diritto di difesa in relazione alle speciali caratteristiche di struttura di singoli procedimenti, al riguardo, C. Fiorio, Vicende dell’imputazione e giudizio abbreviato, cit., p. 2062.
36
Il criterio per l’ammissione della prova potrebbe essere quello fissato dall’art. 438, comma 5, c.p.p. e non quello ordinario
dell’art. 190 c.p.p. In questo modo si limiterebbe alle sole prove necessarie l’ammissione con una notevole compressione dei
tempi di giudizio.
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126
fermato dalla stessa Corte costituzionale per cui l’efficienza dell’accertamento deve piegarsi alle esigenze difensive dell’imputato.
In conclusione, lo sviluppo del giudizio abbreviato, quando sia già stata effettuata, almeno in parte,
l’istruttoria dibattimentale, è una questione ancora problematica che, tuttavia, spetta, più che all’esegesi, al legislatore risolvere. La necessità che traspare dalla giurisprudenza costituzionale è quella di immaginare un giudizio abbreviato che abbia caratteristiche diverse da quelle attualmente codificate e che
si configuri come un procedimento ordinario semplificato. Si tratterebbe di un punto di equilibrio, tra
speditezza del rito e diritto di difesa, che solo il legislatore può operare.
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Dibattiti tra norme e prassi
Debates: Law and Praxis
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA NUOVA LEGGE SUI DIFENSORI D’UFFICIO: CRONACA DI UN’OCCASIONE PERDUTA
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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ALESSANDRO DIDDI
Professore a contratto di Procedura penale – Università di Cosenza
La nuova legge sui difensori di ufficio:
cronaca di un’occasione perduta
The legislation of the lawyer’s office: a missed opportunity
Nel 1988 il codice di procedura penale aveva riformato la difesa d’ufficio con l’intento di rafforzarne l’effettività.
Nel 2001, il legislatore era tornato in subiecta materia perché, nonostante le buone intenzioni, il sistema non riusciva ad assicurare livelli adeguati di assistenza a coloro che non avevano nominato un avvocato di fiducia. Nel
2015, il Governo ha nuovamente rivisitato l’istituto ma il risultato complessivo pare molto deludente.
In 1988, the Code of Criminal Procedure had reformed the legislation of the lawyer’s office with the intent to
strengthen its effectiveness. In 2001, it was back on the subject because, despite good intentions, the system
failed to ensure adequate levels of assistance to those who had not appointed a lawyer of confidence. In 2015,
the government has again revisited the institute but the overall result seems very disappointing
PROLEGOMENI
La l. 31 dicembre 2012, n. 247, recante la Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, conteneva, tra l’altro, tre deleghe al Governo: quella per la disciplina dell’esercizio della professione forense
in forma societaria (art. 5); quella per il riordino della difesa d’ufficio (art. 16) e, infine, quella per adottare un testo unico per la riorganizzazione delle disposizioni vigenti in materia (art.64).
A pochi giorni dalla scadenza della seconda delega (il 2 febbraio 2015, vale a dire ventiquattro mesi
dalla data di entrata in vigore della l. n. 247/2012), il Governo ha adottato il provvedimento con il quale
ha varato il decreto legislativo di attuazione 1.
Si tratta del secondo tentativo di riforma di una materia estremamente delicata che costituisce non
solo diretta estrinsecazione del principio di inviolabilità del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., ma
un pilastro essenziale per garantire la effettiva operatività dei principi del giusto processo contenuti
nell’art. 111 Cost.
Si deve rammentare, a tale riguardo, che l’art. 97, comma 2, c.p.p., nella versione originale, pur innovando sensibilmente rispetto al codice 1930 – che alla nomina del difensore di ufficio aveva dedicato
previsioni così poco specifiche e inidonee a realizzare l’efficienza, da ridurre la difesa d’ufficio ad un
ruolo “puramente” decorativo 2 –, non era in effetti riuscito ad incidere in maniera davvero significativa
sulla materia.
1
Si rammenta che, invece, sono scaduti i termini per le deleghe per la disciplina delle società tra professionisti e per la predisposizione del testo unico i cui decreti legislativi, invece, avrebbero dovuto essere adottati entro sei mesi dalla entrata in vigore della l. n. 247 del 2012.
2
Sul tema, T. Bene, Il difensore d’ufficio. Profili sistematici e prospettive di riforma, Napoli, 2012, p. 36 ss.
Nel vigore del codice 1930, l’art. 128, comma 4, c.p.p. stabiliva che le nomine dei difensori di ufficio dovevano avvenire per
turno e l’art. 225, comma 5, prevedeva che l’elenco dei difensori di ufficio fosse fornito ed aggiornato dal Presidente del Tribunale e dal Presidente del consiglio dell’ordine forense.
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Sebbene, infatti, l’art. 2, direttiva 105, d.lgs. 16 febbraio 1987, n. 81 avesse previsto che la nuova figura del difensore di ufficio avrebbe dovuto assicurare l’effettività della difesa, a ben vedere le scelte
compiute non avevano affrontato gli aspetti che potevano ritenersi alla base delle numerose disfunzioni
riscontrate nell’operatività dell’istituto.
L’art. 97 c.p.p. aveva previsto che fossero i Consigli degli ordini forensi, al fine di garantire
l’effettività dell’assistenza difensiva non determinata in base ad incarico volontario, a predisporre gli
elenchi dei difensori e, d’intesa con il presidente del tribunale, a fissare i criteri – dalla legge non meglio
specificati – per la loro nomina sulla base di turni di reperibilità.
L’art. 29 disp. att. c.p.p., sempre nella versione originale, poi, aveva stabilito che i Consigli degli ordini forensi avrebbero dovuto predisporre ed aggiornare, almeno ogni tre mesi, l’elenco alfabetico degli
iscritti negli albi “idonei” e “disponibili” ad assumere le difese di ufficio. Era previsto, poi, che l’elenco
così formato, fosse distribuito, a cura del presidente del tribunale, agli uffici giudiziari del circondario e
che i consigli degli ordini dovessero altresì formare, almeno ogni tre mesi, una tabella la quale – oltre
l’indicazione dei turni giornalieri o settimanali in guisa che in ogni giorno potesse essere assicurata la
reperibilità di un numero di difensori corrispondente alle esigenze degli uffici – prevedesse anche i criteri di individuazione dei difensori.
L’obiettivo del legislatore, come espressamente dichiarato nella Relazione, era quello di evitare che
«la nomina non po[tesse] in qualsiasi modo, diretto o indiretto, essere correlata ad una scelta del pubblico ministero» 3.
Nonostante tali buone intenzioni, il sistema, però, aveva subito manifestato il suo punto di debolezza. Sebbene, infatti, come visto, l’art. 29 disp. att. c.p.p. avesse prefigurato un meccanismo di selezione
di difensori preparati e disponibili ad assumere il patrocinio al di fuori di un incarico dell’interessato,
l’impianto sul quale esso poggiava non aveva inciso in modo significativo sulla effettività «dal momento che subordina[va] l’assunzione della qualità di difensore di ufficio ad un primo requisito di tipo formale, l’idoneità”, diretto ad accertare che il difensore a[vesse] i titoli per espletare regolarmente il proprio ufficio e che non [fosse] sottoposto a misure penali o disciplinari tali da limitare l’esercizio delle
proprie funzioni; e ad una preventiva dichiarazione di disponibilità dell’interessato, che esclude[va]
ogni designazione autoritativa» 4.
In sostanza, il legislatore, più preoccupato di evitare che sulla scelta degli avvocati di ufficio potessero incidere gli organi inquirenti e giudicanti che dovevano procedere alla loro designazione, aveva
completamente trascurato i profili della loro formazione e quello dei controlli sulla effettiva prestazione
professionale svolta.
Al fine di eliminare le numerose e significative disfunzioni cui la normativa introdotta con il codice
1988, nonostante le diverse intenzioni, aveva dato luogo 5, la l. 6 marzo 2001, n. 60 aveva rivisitato, inter
alia, la materia di cui si tratta con una riforma la quale, oltre che sulla titolarità e sui criteri di formazione dell’elenco dei difensori di ufficio, aveva significativamente inciso anche sulle modalità di individuazione del legale cui affidare l’incarico ex officio 6.
La nuova legge, sempre con l’evidente scopo di evitare qualunque discrezionalità nella individuazione dell’avvocato, aveva introdotto per la prima volta il sistema di gestione centralizzato ed informatizzato dei difensori di ufficio attraverso l’istituzione, presso i consigli dell’ordine di ciascun capoluogo
del distretto di corte d’appello, di un apposito ufficio tenuto a fornire i nominativi alle autorità giudiziarie o alla polizia giudiziaria per assicurare la difesa rispetto a tutti quegli atti per i quali ne è richiesta
la presenza.
A tale riguardo, il complesso meccanismo concepito dal legislatore andava coordinato con la disciplina contenuta nell’art. 29 disp. att., pure oggetto di ampia rivisitazione. Il comma 2 della citata dispo3
Cfr. Rel. al prog. prel. al c.p.p., Suppl. ord., n. 1 alla G.U., serie pen. 24 ottobre 1988, n. 250, p. 44.
4
T. Bene, Il difensore d’ufficio, cit., p. 53.
5
Si rammenta, tra l’altro, anche che la Corte EDU, sent. 27 aprile 2006, Sannino c. Italia, aveva condannato l’Italia per la ineffettività della difesa d’ufficio. Sull’argomento, cfr. T. Bene, Il difensore d’ufficio, cit., p. 61.
6
Per una disamina critica delle nuove disposizioni, cfr. T. Bene, Il difensore di ufficio, cit., p. 62 ss.; C. Pansini, La “rinnovata”
difesa d’ufficio, in Dir. pen. proc., 2001, p. 676; V. Santoro, Tempi stretti per l’attuazione della disciplina. Strada in salita senza un regime
transitorio, in Guida dir., 2001, n. 26, p. 12; A. Scalfati, sub art. 97 c.p.p., in Giarda-Spangher (a cura di), Codice di procedura penale
commentato, I, Milano, 2010, p. 1054 ss.; G. Sechi, Disposizioni in materia di difesa d’ufficio, in Chiavario-Marzaduri (diretto da), Torino, 1993, p. 370.
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sizione di attuazione, in particolare, aveva disciplinato la procedura attraverso la quale doveva avvenire la comunicazione del nominativo del difensore.
Era, infatti, stato previsto che presso l’ordine forense di ciascun capoluogo del distretto di corte di appello, fosse istituito un apposito ufficio con recapito centralizzato che, mediante linee telefoniche dedicate, fornisse, a richiesta delle autorità giudiziaria e della polizia giudiziaria, i nominativi dei difensori di ufficio.
Mentre nel sistema precedente alla riforma, come visto, erano i singoli Consigli degli ordini, d’intesa
con i presidenti dei tribunali, a fissare le modalità di individuazione del difensore di ufficio, l’art. 10,
comma 1, l. n. 60/2001, intervenendo sull’art. 29, comma 4 disp. att., aveva dettato criteri oggettivi per
la individuazione degli avvocati cui poi doveva essere affidato lo specifico incarico.
Il sistema informatizzato, infatti, non solo doveva rispettare il criterio di rotazione automatico tra gli
iscritti ed evitare l’attribuzione contestuale di nomine ad un unico difensore, per procedimenti pendenti
dinanzi ad autorità giudiziarie e di polizia distanti tra loro e, comunque, dislocate in modo da non permettere l’effettività della difesa, ma anche assicurare l’istituzione di un turno differenziato, per gli indagati e gli imputati detenuti, che assicurasse, attraverso un criterio di rotazione giornaliero, un numero di difensori di ufficio corrispondente alle esigenze delle autorità giudiziarie e della polizia.
La l. n. 60/2001 aveva, poi, previsto significative innovazioni soprattutto con riferimento alle modalità attraverso le quali i consigli degli ordini avrebbero dovuto formare gli albi degli iscritti disponibili
ad assumere le difese di ufficio.
Come accennato, l’art. 29, nella sua precedente versione, pur richiedendo che l’accesso nell’elenco
dovesse essere riservato agli avvocati “idonei”, cionondimeno non conteneva specifici criteri per verificare la sussistenza di tale requisito.
Attraverso l’inserimento nell’art. 29 delle disp. att. c.p.p. del comma 1-bis ad opera dell’art. 7, l. n.
60/2001, il legislatore aveva previsto, per la prima volta, che l’idoneità richiesta per ottenere l’iscrizione
nell’elenco, dipendesse dal possesso di uno dei seguenti titoli: il conseguimento di un’attestazione di
idoneità rilasciata dall’ordine forense di appartenenza al termine della frequenza di corsi di aggiornamento professionale organizzati dagli ordini medesimi o, ove costituiti, dalle camere penali territoriali
o dall’unione delle camere penali, ovvero, l’esercizio, per almeno due anni, comprovato da idonea documentazione, della professione in sede penale.
SEGUE: LIMITI DELLA RIFORMA DEL 2001
Nonostante le significative innovazioni introdotte con la finalità di trasformare quella d’ufficio in una
difesa piena ed effettiva, i cambiamenti cui la disciplina era stata sottoposta non solo erano stati da più
parti criticati ma, alla prova dei fatti, non avevano prodotto significativi risultati.
I giudizi severi che sono stati espressi sulla riforma del 2001, erano sostanzialmente collegati all’assenza di norme che garantissero la competenza e la preparazione dei difensori di ufficio e, soprattutto,
all’assoluta mancanza di previsioni per contrastare il fenomeno che costituisce il vero nervo scoperto
dell’intero sistema, quello dell’assenteismo dei difensori nominati ex art. 97 c.p.p. 7 e dell’insufficiente
meccanismo della sostituzione di cui al comma 4 del medesimo articolo per il caso in cui il difensore di
ufficio non si presentava all’udienza 8.
In una visione di sintesi, si era affermato che «l’osservazione della prassi in tema di difesa d’ufficio,
mostra[va] uno scenario inquietante» dovuto soprattutto al fatto che, praticamente in tutte le sedi giudiziarie, si assisteva, soprattutto in relazione al fenomeno delle sostituzioni disposte dal giudice ex art.
97, comma 4, c.p.p., a «tentativi di difesa improvvisati che anche una attenta lettura degli atti processuali non può evitare» 9.
7
Sul punto, v. la relazione della Commissione difesa d’ufficio dell’Unione delle Camere penali italiane, resa al Congresso di Genova in http://www.camerepenali.it/public/file/Documenti/RELAZIONE%20DIFESA%20DI%20UFFICIO%20PER%20PROPOSTA%20D
I%20RIFORMA%20-%20Congresso%20Genova%202013.pdf.
8
Si rammenta che il termine per la difesa che il giudice deve concedere ai sensi dell’art. 108 c.p.p. non si estende alle ipotesi
di sostituzione individuate dall’art. 97, comma 4, c.p.p. e che Corte cost., 6 dicembre 1997, n. 450, in Cass. pen., 1998, p. 1316, ha
dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma. Per alcuni rilievi critici espressi con riferimento a
tale indirizzo, anche alla luce degli orientamenti della giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, cfr. T. Bene, Il
difensore d’ufficio, cit., p. 91 ss.
9
T. Bene, Il difensore d’ufficio, cit., p. 233 ss.
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In effetti, alla prova dei fatti, la difesa di ufficio, piuttosto che un servizio che l’avvocato volontariamente intendeva assumere, ha funto per lo più come esperienza per creare opportunità di lavoro da
coltivare solo nel caso in cui il mandato officioso si fosse trasformato in nomina di fiducia.
Nonostante, infatti, l’art. 31 disp. att. c.p.p. prevedesse (e preveda) che, anche al di fuori delle norme
sul patrocinio dei non abbienti, il difensore di ufficio dovesse (e debba) comunque essere retribuito e
l’art. 369 bis, comma 2, lett d) c.p.p., a sua volta, statuisse (e statuisca) che la comunicazione all’indagato
del nominativo del difensore di ufficio dovesse (e debba) essere accompagnata, tra l’altro, dall’indicazione dell’obbligo di retribuirlo, è agevole constatare come, a parte le difficoltà di ripetere i compensi
dovuti, in mancanza di un rapporto professionale su base negoziale, anche la condivisione della quantificazione dei corrispettivi (oggi, ai sensi dell’art. 13, l. n. 247/2012, completamente liberalizzati) divenisse estremamente difficile e costituisse una sicura causa di disincentivazione allo svolgimento della
prestazione.
L’ATTUALE INTERVENTO NORMATIVO
Da queste premesse, dunque, ci si sarebbe attesi che il legislatore avrebbe preso le mosse per procedere
ad una razionale, risolutiva ed efficace riforma del sistema delle difese di ufficio.
A ben vedere, però, le aspettative per una soluzione radicale del problema sono state disattese.
L’art. 16, l. n. 247/2012, che ha delegato il Governo ad adottare un decreto legislativo recante il riordino della materia relativa alla difesa d’ufficio, ha delineato in maniera assai riduttiva le linee sulle quali si sarebbe dovuta sviluppare la riforma.
Il legislatore, infatti, ha indicato sostanzialmente tre criteri ai quali l’esecutivo si doveva attenere: la
previsione della istituzione di una lista unica; la riserva dell’accesso alla lista unica solo agli avvocati in
possesso di competenze; la garanzia della stabilità. Ed in attuazione di tali direttive, il decreto legislativo n. 6 del 2015, ha sostanzialmente agito in due direzione.
Con l’art. 3, al fine di rafforzare l’oggettività dei criteri di designazione dei difensori nominati ex art.
97, comma 1, c.p.p., ha anzitutto previsto che il difensore d’ufficio debba essere individuato nell’ambito
di un elenco nazionale formato in base ai criteri di cui all’articolo 29 delle disposizioni di attuazione,
oggetto anch’esso di un’ampia rivisitazione per renderlo coerente con le finalità perseguite dal nuovo
meccanismo di nomina del difensore.
Al fine di bandire dal sistema qualunque discrezionalità da parte delle autorità giudiziarie e della
polizia giudiziaria nella individuazione degli avvocati, l. n. 60/2001 aveva previsto che gli elenchi predisposti da ciascun ordine territoriale confluissero presso l’ordine forense del capoluogo del distretto
ove era istituito un ufficio con recapito centralizzato per la individuazione dei singoli difensori. Con la
riforma delineata dal d.lgs n. 6/2015, il sistema è stato ulteriormente rafforzato con la previsione, da un
lato, che siano i consigli degli ordini circondariali di ciascun distretto di corte d’appello a predisporre,
mediante un apposito ufficio centralizzato, l’elenco degli iscritti all’albo dei difensori di ufficio e,
dall’altro, che tale elenco debba contenere i nominativi dei professionisti attinti da un elenco alfabetico
nazionale predisposto dal consiglio nazionale forense e dallo stesso continuativamente aggiornato con
cadenza trimestrale.
In pratica, nonostante la riforma, in fase di nomina del difensore d’ufficio, le autorità giudiziarie e la
polizia giudiziaria, per ottenere il nominativo dell’avvocato, dovranno comunque rivolgersi ai consigli
degli ordini e non già al consiglio nazionale forense il quale, infatti, in relazione a tale aspetto, svolge
esclusivamente il compito di selezionare gli avvocati che possono entrare a far parte degli elenchi.
Con l’art. 97, comma 2, c.p.p., come modificato dall’art. 3, d.lgs n. 6/2015, invece, viene stabilito che i
criteri generali per la nomina dei difensori di ufficio – che prima erano stabiliti dai singoli consigli degli
ordini senza un preciso modus operandi – vengono oggi ad essere uniformati su base nazionale essendo
essi determinati, con cadenza annuale, dal consiglio nazionale forense in ragione della prossimità alla
sede del procedimento e alla reperibilità.
È, però, l’art. 29 disp. att. c.p.p. – al quale come visto l’art. 97 c.p.p. fa sostanziale rinvio – ad essere
stato oggetto delle più incise innovazioni.
Al fine di garantire la qualificazione professionale dei difensori di ufficio – si ricorda che una delle direttive contenute nella l. delega prevedeva, appunto, che la nuova disciplina dovesse assicurare la «competenza
della difesa tecnica d’ufficio» – sono stati introdotti criteri più rigorosi per l’accesso alla lista unica nazionale.
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Anzitutto, viene stabilito che i corsi di aggiornamento (già previsti, come accennato, dalla l. n. 60 del
2001) debbano oggi avere non solo una durata complessiva di 90 ore, ma anche essere caratterizzati dallo svolgimento di un esame finale.
Resta possibile, anche nel nuovo regime, l’accesso alla lista nazionale pur in mancanza di tale titolo.
L’iscrizione nell’elenco nazionale è, infatti, permessa anche agli avvocati che abbiano esercitato per cinque anni (in precedenza erano due) l’attività in materia penale ovvero che abbiano conseguito il titolo
di specialista in diritto penale.
Si rammenta, a tale ultimo riguardo, che in forza dell’art. 9, l. n. 247/2012 è riconosciuta agli avvocati la possibilità di conseguire – all’esito positivo di percorsi formativi di durata almeno biennale ovvero
in seguito a riconoscimento ad hoc da parte del consiglio nazionale forense sulla base di criteri di anzianità, continuatività e prevalenza dell’attività professionale concretamente svolta – il titolo di specialista 10.
In attesa che il nuovo meccanismo entri a regime, poi, l’art. 2 della nuova l. prevede che transitoriamente gli avvocati attualmente facenti parte degli elenchi tenuti dai consigli dell’ordine circondariali
siano iscritti automaticamente all’elenco nazionale anche se, entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto, essi dovranno presentare la documentazione comprovante la sussistenza dei requisiti
previsti dall’art. 1-quater dell’art. 29 (assenza di sanzioni disciplinari e partecipazione ad almeno 10
udienze penali) per la permanenza nell’elenco dei difensori di ufficio.
Come detto, all’evidente fine di migliorare l’effettività della competenza tecnica dei difensori iscritti
nell’albo, in base alla nuova formulazione dell’art. 29 delle disposizioni di attuazione, è, poi, previsto
che la tenuta dell’elenco nazionale sia curata dal Consiglio nazionale forense che predispone ed aggiorna, con cadenza trimestrale, l’elenco alfabetico degli avvocati disponibili ad assumere le difese di ufficio.
A tale riguardo, in forza del comma 1-ter (introdotto dalla l. n. 6/2015) della richiamata disposizione
di attuazione, gli avvocati interessati a far parte dell’elenco nazionale e che abbiano i titoli per potervi
accedere, devono inoltrare la domanda al Consiglio circondariale di appartenenza che provvede alla
successiva trasmissione degli atti al Consiglio nazionale forense unitamente ad un proprio parere.
La previsione che la domanda di iscrizione debba essere veicolata attraverso i consigli territoriali, si
giustifica con il fatto che, per essere iscritti nell’elenco, occorre che il professionista non abbia riportato
sanzioni disciplinari definitive superiori all’”ammonimento”.
A parte l’imprecisione terminologica (non vi è infatti corrispondenza con il catalogo delle sanzioni
contemplate dalla l. forense 11), va osservato che, sebbene tale requisito sia espressamente previsto
dall’art. 29, nuovo comma 1-quater disp. att. c.p.p. al fine della “permanenza”, esso opera indubbiamente anche come criterio di ammissibilità della domanda di accesso ed è evidente che solo l’ordine presso
il quale l’avvocato è iscritto possa compiere le opportune verifiche.
Sulla scorta di quanto stabilisce l’art. 62, comma 3, della l. n. 247/2012, infatti, per l’esecuzione delle
sanzioni irrogate dai consigli distrettuali di disciplina (di cui all’art. 50 della medesima l. n. 247), è
competente il consiglio dell’ordine al cui albo o registro è iscritto l’incolpato onde solo tale organo è
concretamente in condizione di verificare l’eventuale sussistenza di cause ostative.
Si deve rammentare, poi, che, ai sensi dell’art. 1, l. n. 247/2001, per l’attuazione della nuova disciplina dell’ordinamento forense, si provvede mediante regolamenti adottati con decreto del Ministro della
giustizia, ai sensi dell’art. 17, comma 3, l. 23 agosto 1988, n. 400. Attraverso tali provvedimenti, tra
l’altro, devono essere disciplinati i requisiti per la permanenza nell’albo degli avvocati e, tra questi, le
condizioni dalle quali dipende l’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione
richiesto dall’art. 15, comma 1, lett. e) della l. n. 247/2001 quale condicio sine qua non per conservare lo
status di avvocato iscritto.
Ancorché, al momento, tale fonte sia ancora in gestazione, è in via di elaborazione un progetto di regolamento che non solo prevede in dettaglio a quali condizioni la professione possa essere considerata
svolta in modo effettivo e continuativo (possesso di partita IVA, uso di locali e intestazione di almeno
10
Ai sensi dell’art. 9, l. n. 247/2012 le modalità di svolgimento dei percorsi formativi ed i parametri ed i criteri sulla base di
quali valutare l’esercizio assiduo, prevalente e continuativo dell’attività professionale in uno dei settori di specializzazione sono
stabiliti da un regolamento adottato dal ministro della giustizia previo parere del Consiglio nazionale forense.
11
Ai sensi dell’art. 52, comma 1, lett. c), l. n. 247/2012, infatti, le sanzioni disciplinari sono quelle dell’avvertimento, della
censura, della sospensione dall’esercizio della professione e della radiazione.
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un’utenza telefonica; trattazione di almeno cinque affari per ogni anno; titolarità di indirizzo PEC; aggiornamento professionale; stipula di polizza assicurativa; regolarità della posizione previdenziale), ma
demanda ai consigli degli ordini territoriali il controllo dell’effettivo possesso di tali requisiti 12.
È ovvio, dunque, che, con il parere attraverso il quale, in base all’art. 29, comma 1-ter disp. att. c.p.p.
i consigli degli ordini trasmettono la domanda di inserimento nell’elenco nazionale, verrà attestata anche la sussistenza delle condizioni richieste per mantenere l’iscrizione nell’albo.
Deve essere, rimarcato, ancora, che il procedimento di inserimento nell’elenco unico si conclude con
un provvedimento del consiglio nazionale forense e che avverso l’eventuale decisione di rigetto, in forza del comma 1-ter, art. 29, è ammesso ricorso in opposizione al medesimo consiglio ai sensi dell’art. 7,
d.p.r. 24 novembre 1971, n. 1199 recante Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi.
Come accennato, una volta entrato a regime il meccanismo, il consiglio nazionale forense, deve provvedere all’aggiornamento dell’elenco con cadenza trimestrale e ciò, oltre che per ammettere i nuovi avvocati disponibili ad assumere le difese di ufficio, anche per verificare la permanenza delle condizioni necessarie per il mantenimento dell’iscrizione nell’elenco nazionale.
In base al comma 1-quater dell’art. 29, infatti, al consiglio nazionale forense è demandato non solo di
verificare che l’iscritto non abbia riportato sanzioni disciplinari superiori all’ammonimento, ma, altresì,
che egli abbia esercitato con continuatività, dimostrata dalla partecipazione ad almeno dieci udienze
camerali o dibattimentali per anno, escluse quelle di mero rinvio, l’attività professionale nel settore penale.
Per consentire al Consiglio nazionale i controlli necessari, l’art. 29, comma 1 quinquies, prevede opportunamente che il professionista iscritto nell’elenco nazionale presenti al consiglio dell’ordine circondariale, con cadenza annuale, pena la cancellazione d’ufficio dall’elenco, la documentazione necessaria
a comprovare il possesso delle condizioni per la permanenza nell’elenco dei difensori d’ufficio.
Va infine osservato che tra i criteri direttivi che il governo avrebbe dovuto attuare nell’esercizio della
delega, vi era quello di assicurare la stabilità dell’incarico.
Lo scopo di tale previsione era, verosimilmente, quello di ovviare alle prassi disinvolte e devianti
che, come accennato, caratterizzavano, anche dopo l’entrata in vigore della l. n. 61 del 2000, l’attuazione
della disciplina della difesa di ufficio minandone le finalità.
Nonostante i commi 2 e 3 dell’art. 3 dello schema di decreto legislativo contemplassero anche la sostituzione dei commi 4 e 5 dell’art. 97 c.p.p. con l’effetto, tra l’altro, di prevedere che la designazione di
un altro difensore d’ufficio sarebbe potuta avvenire solo in determinati casi (abbandono della difesa;
trasmissione del procedimento ad altra autorità per motivi di competenza territoriale; incompatibilità),
ben poco è rimasto, nella versione definitiva, del testo originariamente contemplato per attuare tale
punto della direttiva.
Di tale parte della progettata riforma, infatti, è stata conservata solo quella che ha inserito l’art. 29,
comma 1 sexies il quale stabilisce che il professionista iscritto non può chiedere la cancellazione dall’elenco prima del termine di due anni.
RILIEVI CRITICI
Come accennato, l’istituto della difesa d’ufficio è indispensabile, oltre che per attuare il principio costituzionale dell’inviolabilità della difesa in ogni stato e grado del procedimento, soprattutto per assicurare all’indagato e all’imputato quelle competenze tecniche che a loro volta costituiscono condizione imprescindibile, soprattutto in un processo come quello accusatorio caratterizzato da un alto tasso di tecnicismo, per garantire l’attuazione delle garanzie del giusto processo.
Si è notato come la riforma del 2001 avesse lasciato aperti molti problemi che, tuttavia, non sembrano essere stati minimamente affrontati dal nuovo intervento.
Certamente non deve essere sminuita l’importanza della scelta, sicuramente rafforzata dalla novella,
di affidare la predisposizione e l’aggiornamento ogni tre mesi dell’elenco alfabetico dei difensori di ufficio agli organismi dell’avvocatura (oggi individuati nel consiglio nazionale forense) perché essa non
solo risponde all’esigenza di eliminare scelte discrezionali delle autorità procedenti nella designazione
12
Per un’anticipazione del contenuto del regolamento, cfr. G. Negri, Avvocati, cinque cause annue. Richiesto anche indirizzo Pec,
assicurazione e versamenti alla Cassa, in Il sole 24 ore, 10 febbraio 2015, n. 40, p. 42.
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dei difensori di ufficio, ma anche di tenere sotto controllo la regolarità della gestione del sistema che, in
passato, aveva evidenziato punti di criticità anche con riferimento a tale aspetto 13.
Così, pure, non possono non essere guardati con favore i tentativi di rendere ancor più stringenti i
requisiti necessari per l’inserimento nell’elenco nazionale.
Cionondimeno, a parte rilievi sulla tecnica normativa anche in questo caso poco raffinata e precisa
(si pensi alla mancata corrispondenza sul piano definitorio tra la sanzione che impedisce l’iscrizione e
quelle che sono tassativamente delineate dalla l. n. 247/2012), non possono sfuggire i limiti della nuova
riforma che sembra aver perso l’occasione per introdurre gli opportuni correttivi ad una materia che,
alla prova dei fatti, ha manifestato diverse lacune.
È indubbio come uno dei punti deboli della precedente disciplina fosse quello della preparazione
dei difensori di ufficio.
Sebbene, come visto, oggi i corsi di formazione debbano essere organizzati con una durata complessiva di 90 ore e con lo svolgimento di un esame finale, resta il fatto che la l. non specifica molti aspetti
che, invece, avrebbero richiesto di essere disciplinati come, ad esempio, le materie oggetto di insegnamento e i titoli che devono possedere coloro i quali sono chiamati a tenere i corsi.
L’art. 9, l. n. 247/2012, ad esempio, per il conseguimento del titolo di specialista, stabilisce non solo
che le modalità di svolgimento dei percorsi formativi sono stabilite da un regolamento emanato dal
Ministro della giustizia ma che essi devono essere organizzati presso i Dipartimenti di giurisprudenza
delle università, con i quali il consiglio nazionale forense e i consigli degli ordini territoriali possono
stipulare convenzioni per lo svolgimento dei corsi di alta formazione necessari per il conseguimento del
titolo di specialista.
Nessuna indicazione è poi data per delineare come debba svolgersi l’esame finale con il quale, come
visto, deve concludersi il corso di formazione del difensore d’ufficio.
Resta, poi, ancora estremamente vaga l’indicazione di quale sia la documentazione idonea a provare
l’”esperienza” nella materia penale che, in base all’art. 29, comma 1 bis, lett. b) disp. att. c.p.p., deve possedere l’avvocato che, a prescindere dalla frequentazione del corso e del sostenimento dell’esame finale, intende chiedere l’iscrizione nell’elenco nazionale 14. In tutti i casi, anche a non considerare tali rilievi, sembra davvero poco significativo che il legislatore, per il mantenimento dell’inserimento nell’elenco dei difensori di ufficio, abbia previsto come sufficiente la partecipazione ad almeno 10 udienze penali in un anno.
Non può, poi, essere sottovalutato come, soprattutto tenuto conto delle linee di politica criminale
degli ultimi anni e del sempre più crescente interesse del legislatore per i settori legati al diritto penale
della modernità, come noto caratterizzati da un notevole tasso di tecnicismo, oltre che la prossimità della sede e la reperibilità, non sarebbe stato inopportuno prevedere, tra i criteri di scelta dei difensori di
ufficio, anche quello delle competenze specifiche.
Per sopperire a tali esigenze resta sostanzialmente operante il criterio di cui al secondo periodo
dell’art. 29, comma 2, disp. att. c.p.p., che sebbene consenta di derogare al sistema informatizzato qualora il procedimento concerna materie che riguardano competenze specifiche, fa riemergere quella discrezionalità che, come visto, soprattutto il nuovo codice di procedura penale e la riforma del 2001,
avevano voluto bandire.
È evidente, però, come, anche a prescindere da tali osservazioni, che potrebbero sembrare piuttosto
di maniera, la riforma abbia completamente eluso il vero punctum dolens della materia, quello, cioè, della effettività della difesa di ufficio.
Forse perché la legge delega del 2012, a differenza di quanto, ad esempio, contenuto nell’art. 2, direttiva n. 105, l. n. 81/1987, non era così esplicita; forse perché, una riforma più coraggiosa sarebbe stata incompatibile con l’immancabile clausola di invariazione finanziaria con la quale gli interventi che caratterizzano il pianeta giustizia chiudono la loro opera rinnovatrice, è innegabile che quel che è completamente mancato è il rafforzamento dei presidi necessari per assicurare l’effettività della difesa di ufficio.
Nonostante le prescrizioni di obbligatorietà della prestazione professionale del difensore d’ufficio e
la previsione che l’esonero possa avvenire solo per giustificato motivo (così l’art. 97, comma 5 non intaccato dalla riforma), il rischio di una sostanziale inattuazione della garanzia è ancora molto presente.
13
A. Cristiani, sub art. 97, in Chiavario (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, I, Torino, 1989, p. 455 ss.
14
Analoga critica era già stata svolta, all’indomani della entrata in vigore della l. n. 60 del 2001, da V. Santoro, Tempi stretti
per l’attuazione della disciplina, cit., p. 12.
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Sebbene, infatti, l’avvocato, in base all’art. 3, l. n. 247/2012, abbia l’obbligo, in quanto iscritto
nell’elenco, di prestare la difesa d’ufficio e che, ai sensi dell’art. 11 del nuovo Codice deontologico forense
approvato dal consiglio nazionale forense il 31 gennaio 2015, l’avvocato iscritto nell’elenco dei difensori
d’ufficio, quando nominato, non possa, senza giustificato motivo, rifiutarsi di prestare la propria attività o interromperla, nulla potrà concretamente ovviare alla prassi delle sostituzioni all’ultima ora del difensore di ufficio che non si presenti in udienza.
Sul punto, va rimarcato come non siano state recepite le previsioni, contenute invece nello schema di
decreto legislativo agli artt. 3 e 4, che, rispettivamente, avrebbero dovuto modificare gli artt. 97, comma
4, e 102 c.p.p. ed avrebbero non solo comportato l’effetto di riconoscere i requisiti professionali del difensore d’ufficio anche al sostituto del difensore (tanto di fiducia quanto d’ufficio), ma altresì imposto
di individuare il sostituto solo tra gli iscritti all’elenco nazionale e di consentire la designazione di altro
difensore immediatamente reperibile solo nei casi di urgenza e previa adozione di un provvedimento
motivato contenente la indicazione delle ragioni dell’urgenza.
Tali piccole modifiche 15, che avrebbero certamente contribuito ad assicurare la effettività della difesa
d’ufficio, come detto, non sono state accolte nella versione definitiva del decreto legislativo verosimilmente perché esse avrebbero potuto rappresentare fattori di rallentamento dei processi.
Se si aggiunge, inoltre, che, alla luce di tale quadro normativo difficilmente potranno subire modificazioni gli orientamenti giurisprudenziali formatisi nel vigore delle precedenti formulazioni degli artt.
97 c.p.p. e 29 disp. att. c.p.p. che avevano affermato come la mancata iscrizione del difensore nominato
nell’apposito elenco dei difensori di ufficio 16 ovvero la designazione del difensore d’ufficio diversa da
quello di turno secondo la tabella non configurerebbero una nullità ex art. 178, comma 1, lett. c) c.p.p. 17,
ci si avvede come dalla riforma introdotta dal d.lgs. n. 6/2015 non deriveranno sensibili modificazioni a
quel quadro desolante che la dottrina, come accennato, aveva delineato dopo la riforma del 2001.
La garanzia dell’effettività della difesa di ufficio, in sostanza, resta demandata al senso del dovere
dei singoli avvocati ed al potere repressivo eventualmente esercitato dai consigli forensi sull’adempimento dell’obbligo di prestazione della difesa d’ufficio da parte dei difensori nominati ai sensi dell’art.
97 c.p.p.
Sebbene, certamente, il rigoroso controllo esercitato dal Consiglio nazionale servirà ad assicurare
una selezione di avvocati adeguati alla funzione che sono chiamati a svolgere 18, tutto, ciò è però ben
lontano dall’attuazione di un sistema che deve puntare a rendere effettivo il meccanismo della difesa
d’ufficio nei singoli procedimenti penali per scongiurare sostanziali ineffettività delle garanzie del giusto processo ed il rischio di condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo 19.
15
Simile proposta era stata avanzata dall’Unione delle camera penali, cit.
16
Cass., sez. I, 30 ottobre 2014, n.3333, in Dir. e giust., 2015, n. 2, p. 6.
17
Cass., sez.III, 19 dicembre 2014, n. 9785, in Dir e giust., 2015, n. 3, p. 9.
18
Si rammenta che, ai sensi dell’art. 26 del Codice deontologico forense, da un lato, il difensore nominato d’ufficio, ove sia impedito di partecipare a singole attività processuali, deve darne tempestiva e motivata comunicazione all’autorità procedente
ovvero incaricare della difesa un collega e, dall’altro, che la violazione di tale dovere comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura la quale, a sua volta, impedisce, ai sensi dell’art. 29, comma 1-quater, lett. a), disp. att. c.p.p., la permanenza nell’elenco nazionale.
19
Sugli orientamenti della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e sull’esigenza di attuare il principio di
effettività, cfr. T. Bene, Il difensore d’ufficio, cit., p. 59 ss.
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FRANCESCA ROMANA MITTICA
Dottoranda di ricerca in Procedura penale – Università di Roma “Tor Vergata”
Astensione del difensore e diritto di ottenere
il differimento dell’udienza
Lawyers strike and the right to obtain
the postponement of the hearing
La funzione interpretativa della giurisprudenza nazionale e comunitaria nella determinazione delle regole che disciplinano il rapporto fra le fonti del diritto hanno inciso profondamente sulla natura del diritto del difensore di astenersi dall’udienza e sulla disciplina applicabile.
A riguardo la Corte di cassazione ha riconosciuto valore vincolante erga omnes al codice di autoregolamentazione
relativo alle astensioni dalle udienze da parte degli avvocati stabilendo che al giudice spetta solo di accertare se
l’adesione all’astensione sia avvenuta nel rispetto delle regole fissate dalle disposizioni primarie e secondarie.
The interpretative function of national and European jurisprudence in determining the rules governing the relationship between the sources of law had a profound effect on the nature recognized to the defender right of abstention from the hearing and the applicable discipline.
In this regard the Supreme Court has assigned erga omnes binding to the code of self-regulation relating to lawyers abstentions from hearings so that to the judge belongs only to ascertain whether abstention occurred within
the rules set by legislation and regulations.
LA QUALIFICAZIONE GIURIDICA DELL’ASTENSIONE
Per lungo tempo si è molto dibattuto sulla natura dell’atto di adesione del difensore all’astensione proclamata dagli organismi rappresentativi della categoria e sulla natura dello stesso.
A seguito di ampi sviluppi argomentativi si è approdati all’affermazione non di una mera facoltà ma
di un vero e proprio diritto di rilievo costituzionale. Inizialmente non è mancato chi ha riconosciuto
nell’astensione del difensore un esercizio del diritto di sciopero 1; altri lo hanno ritenuto un diritto di associazione, incontrando anche il favore della Corte costituzionale 2; e altri ancora lo hanno ricompreso
1
Cfr. O. Roselli, La dimensione costituzionale dello sciopero. Lo sciopero come indicatore delle trasformazioni costituzionali, Padova,
2005, p. 88 ss.; Id., Art. 40, in R. Bifulco-A. Celotto-M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I (art. 1-54), Torino,
2006, p. 842 ss.; G. Colavitti, La libertà sindacale e il diritto di sciopero, in R. Nania-P. Ridola (a cura di), I diritti costituzionali, vol. II,
Torino, 2006, p. 987 ss.; C. Colapietro, Sciopero, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano 2006, p. 5476 s.. Una
riflessione specifica sul fondamento delle astensioni dei liberi professionisti, pur all’interno della trattazione dedicata alla struttura del diritto di sciopero, è presente in A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, III, Padova, 2003, p. 167.
2
Cfr. ad esempio M. Menghini, L’astensione dalle udienze da parte degli avvocati e il problema dell’estensibilità del diritto di sciopero
oltre i limiti della subordinazione, in Riv. giur. lavoro, II, 1997, p. 112; F. Santoni, L’organizzazione e l’azione sindacale dei professionisti,
in Dir. lavoro, 1999, I, p. 7 ss.; Id., Autotutela sindacale e amministrazione della giustizia, in Dir. lavoro, 2002, p. 501, che richiama, oltre all’art. 18, l’art. 39 Cost; G. Pino, Conflitto ed autonomia collettiva, Torino, 2005, p. 47 e 292 ss.; B. Caruso-G. Nicosia, Il conflitto
collettivo post moderno, in Warking Papers «Massimo D’Antona», Catania, 2006, 43, p. 16 ss. In senso diverso sembra porsi M.T. Carinci, Attività professionali, rappresentanza collettiva, strumenti di autotutela, in Warking Papers «Massimo D’Antona», 2008, 69, p. 27
ss., la quale, assumendo come un dato di fatto l’orientamento della Corte, ne critica una serie di incongruenze.
Ed in questo senso il collegamento con l’art. 39 Cost. è indiscutibile, tanto da potersi porre la questione classica, se riferita al
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nell’area di esplicazione della libertà di iniziativa economica – e ciò in termini sia di libertà negativa che
di libertà di agire – volto a salvaguardare la potenzialità economica della professione 3.
Di assoluta rilevanza restano le indicazioni della sentenza della Corte costituzionale del 16 maggio
1996 n. 171 4 sulla riconducibilità dell’astensione all’«area, connessa alla libertà di associazione che è
oggetto di salvaguardia costituzionale ed è significativamente più estesa rispetto allo sciopero» 5. In
questo ambito è possibile accordare «una generale tutela alle iniziative – le quali si traducano in aggregazioni sociali di varia natura che possono esprimersi anche mediante astensioni collettive dal lavoro –
volte a difendere peculiari interessi di categoria, non soltanto economici, e a garantire un corretto esercizio della libertà professionale» 6.
Sul punto la Consulta è intervenuta con una sentenza additiva che ha dichiarato l’incostituzionalità
dell’omessa previsione di una disciplina legislativa in materia 7, al fine di un bilanciamento tra il predetto diritto di astensione ed i contrapposti valori costituzionali concernenti l’esercizio di funzioni statali.
LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 171 DEL 1996
Dichiarando, infatti, l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 5, l. 12 giugno 1990, n. 146 nella
parte in cui lo stesso non prevedeva, nel caso dell’astensione collettiva dall’attività giudiziaria degli avvocati, tra gli altri, l’obbligo di predisporre gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni
essenziali, la Corte costituzionale 8 ha affermato la necessità di contemperare la libertà di associazione
(art. 18 Cost.), da cui trae riconoscimento il diritto del difensore all’astensione, con gli altri valori costituzionalmente rilevanti. È stata, preliminarmente, ribadita la qualificazione dell’amministrazione della
giustizia come servizio pubblico essenziale, volto a garantire il godimento di diritti della persona costituzionalmente tutelati 9 ed ammessa, in sostanza, l’idoneità dell’astensione – al pari dello sciopero – ad
incidere «sul pieno ed ordinato esercizio della funzione giurisdizionale: con la conseguenza che, quando la libertà degli avvocati sia esercitata in contrasto con detti valori, essa non può non arretrare, per la
forza prevalente di quelli».
La Consulta ha poi spiegato che la legge sullo sciopero nei servizi essenziali, volta a contemperare
l’esercizio del diritto di sciopero con altri diritti di rango costituzionale e a proteggere dall’“abuso del diritto di sciopero”, non apprestava «una razionale e coerente disciplina che includa tutte le altre manifestazioni collettive capaci di comprimere valori primari». Tale estensione non poteva essere operata con una
diritto di sciopero, di chi sia il titolare della libertà in esame: il singolo lavoratore autonomo o professionista, ovvero l’organizzazione esponenziale degli interessi collettivi. Probabilmente anche in questo caso, come per il diritto di sciopero, la natura del
diritto deve dirsi individuale, ancorché condizionata ad un esercizio collettivo. Sul punto, cfr., per tutti, G. Giugni, Diritto sindacale, Bari, 1991, p. 219.
3
A questo proposito, lascia perplessi la recisa affermazione di G. Colavitti, La libertà sindacale e il diritto di sciopero, cit., p. 993,
secondo cui le astensioni forensi difetterebbero tout court del carattere di autotutela degli interessi degli appartenenti alla categoria professionale.
4
Corte cost., sent. 16 maggio 1996, n. 171, in Cass. pen., 1996, p. 2872 ss.
5
In dottrina sul punto conforta la ricostruzione di P.F. Grossi, I diritti di libertà ad uso di lezioni, I, II ed. ampl., Torino, 1991, p.
249. Essa è condivisa anche da G. Guzzetta, Il diritto costituzionale di associarsi. Libertà – autonomia – promozione, Milano 2003, p. 62
ss. Un importante rilievo critico sulla non facile concordanza tra la formulazione letterale dell’art. 18 Cost. e l’orientamento della
Corte costituzionale – il quale implica la garanzia degli associati dalla pretesa punitiva dello Stato per comportamenti
(l’astensione dalle prestazioni) che, se posti in essere da singoli, integrerebbero fattispecie penali – è svolto da P. Di Nicola-G.
Guzzetta, L’«esercizio del diritto» e suo abuso. L’astensione degli avvocati tra disciplina costituzionale ed ordinamento penale, in Cass.
pen., 1998, p. 460 ss.
6
V. il n. 3.1 del Considerato in diritto della sentenza della Corte costituzionale 16 maggio 1996, n. 171.
7
Per l’inquadramento generale della figura delle sentenze additive, sempre raffinata ed allo stesso tempo efficace appare la
ricostruzione di V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale – II – L’ordinamento costituzionale italiano, Padova 1984, p. 403 ss.
8
La Corte era stata investita da numerose ordinanze di rimessione, tutte, nella sostanza, intese a censurare l’art. 486, comma
5, c.p.p., poi abrogato, nella parte in cui prevedeva il rinvio del dibattimento in caso di assenza del difensore per legittimo impedimento ed autorizzava la riconducibilità in tale categoria dell’astensione degli avvocati dalle udienze.
9
Vedi art. 1, comma 2, lett. a), l. 12 giugno 1990, n. 146, in ordine alla inclusione, fra i servizi pubblici essenziali, della «amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti
nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione».
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interpretazione estensiva o analogica della normativa, ma richiedeva l’intervento del legislatore.
E con riferimento alle astensioni nel settore forense, sempre la Corte costituzionale ha affermato che
queste ultime non rientrano nel diritto di sciopero, inscindibilmente connesso al lavoro subordinato,
sebbene costituiscano anch’esse esercizio di libertà sindacale godendo della salvaguardia degli spazi di
libertà riservati ai singoli e ai gruppi, che ispira la prima parte della Carta costituzionale. Al pari dello
sciopero, anche questa espressione di libertà sindacale deve contemperarsi con gli altri valori costituzionali: con i diritti fondamentali di azione e difesa e con il buon andamento dell’amministrazione della
giustizia (cui oggi, si deve aggiungere il principio della ragionevole durata del processo).
Per tali motivi la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità del testo originario della l. 146 del 1990 «nella parte in cui non prevede(va), nel caso di astensione collettiva dall’attività giudiziaria degli avvocati,
l’obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e non prevede(va) altresì strumenti idonei ad individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure consequenziali nell’ipotesi di inosservanza».
La Consulta ha fornito, in tal senso, le seguenti rilevanti precisazioni:
a) l’astensione dall’attività forense non può considerarsi come esercizio del diritto costituzionale di
sciopero, non trova cioè la tutela dell’art. 40 Cost., ma si atteggia ad espressione della libertà costituzionale di associazione, che a sua volta è il risultato del favor libertatis che ispira la prima parte della carta
fondamentale;
b) l’art. 24 Cost. garantisce la difesa tecnica per cui l’esercizio della libertà associativa di astenersi dalle
udienze non può equivalere ad un’implicita rinunzia alla procura ad litem rilasciata dal titolare dell’interesse
coinvolto nel processo, per il fatto stesso che quest’ultimo non può restare senza un avvocato;
c) per contro, l’amministrazione della giustizia è espressamente qualificata dall’art. 1, l. n. 146/1990
come un servizio pubblico essenziale, in quanto serve a garantire il godimento del diritto fondamentale
del singolo all’azione e alla difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost. L’essenzialità del servizio va apprezzata, secondo la Corte, non tanto con riferimento a prestazioni determinate oggettivamente, quanto
al nesso teleologico (finalistico) tra queste e i beni costituzionalmente protetti;
d) soltanto quando la libertà degli avvocati si eserciti in contrasto con altri valori costituzionali, essa
deve arretrare di fronte alla forza prevalente di quelli;
e) l’esigenza di bilanciamento degli opposti valori in gioco conduce ad individuare gli strumenti del
congruo preavviso e del ragionevole limite temporale all’astensione, ed a ravvisare l’esigenza di prevedere gli strumenti idonei ad assicurare le prestazioni indispensabili.
Successivamente, e soprattutto in ragione di tale ultima necessità, il legislatore è intervenuto modificando l’art. 1, l. 12 giugno 1990, n. 146, allo scopo di contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con
il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati, e disponendo le regole da rispettare e
le procedure 10 da seguire in caso di conflitto collettivo per assicurare l’effettività di tali diritti: lo strumento normativo di mediazione delle diverse esigenze è, per l’appunto, costituito dall’individuazione
delle prestazioni indispensabili. Ed è proprio con riferimento alle prestazioni da assicurare nell’ambito
del processo, che l’art. 1, comma 2, lett. a, l. n. 146, cit. menziona – anche se con disposizione da considerarsi necessariamente esemplificativa e non tassativa – i soli «provvedimenti cautelari, urgenti e afferenti
allo status libertatis».
LA DISCIPLINA DEL DIRITTO DI ASTENSIONE
A seguito della sentenza della Corte costituzionale, si sono succeduti nel tempo un primo codice di
autoregolamentazione dello stato di agitazione dell’Avvocatura (deliberato il 19 gennaio 1996 dall’Organismo unitario dell’Avvocatura Italiana) 11 e un secondo codice di autoregolamentazione delle
astensioni forensi (approvato congiuntamente dalla Giunte dell’Organismo unitario dell’avvocatura
Italiana e dall’Unione delle Camere penali italiane il 6 giugno 1997) 12: entrambi sono stati valutati
10
La distinzione tra garanzie sostanziali e procedimentali offerte dalla l. n. 146 del 1990 è evidenziata in A. D’Atena, Costituzione ed Autorità indipendenti: il caso della Commissione di Garanzia dell’Attuazione della legge sullo Sciopero nei Servizi pubblici essenziali, in Lavoro e dir., 1996, p. 767 ss.; Id., Sciopero nei servizi pubblici essenziali, in Enc. dir., III agg., Milano 2000, p. 949 ss.
11
Il testo è consultabile in http://www.commissionegaranziasciopero.it.
12
Il testo è consultabile sempre in http://www.commissionegaranziasciopero.it.
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139
tuttavia come inidonei dalla Commissione di Garanzia 13.
Senonché, con la l. 11 aprile 2000, n. 83 14 è stato inserito nella l. n. 146/1990 l’art. 2-bis, secondo cui
l’astensione collettiva dalle prestazioni, ai fini di protesta o di rivendicazione di categoria, da parte di
lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, che incida sulla funzionalità dei servizi pubblici (e quindi anche quelli relativi all’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento a
provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti, nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione) è esercitata «nel rispetto di misure dirette a consentire l’erogazione
delle prestazioni indispensabili» di cui al medesimo articolo. A tal fine, si stabiliva, poi, che la Commissione di Garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, istituita in base
all’art. 12 l. n. 146/1990, dovesse promuovere l’adozione di codici di autoregolamentazione da parte
delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate.
Nell’assenza di un codice di autoregolamentazione valutato idoneo dalla commissione, quest’ultima
ha provveduto, così come previsto dalla legge, all’adozione di una regolamentazione provvisoria dell’astensione collettiva degli avvocati dall’attività giudiziaria, con delibera 4 luglio 2002, n. 2/137 15.
Tale delibera, per quanto attiene ai procedimenti penali, ha previsto:
– l’obbligo di preavviso di almeno dieci giorni prima dell’inizio dell’astensione nonché di indicazione delle ragioni poste a suo fondamento e della sua durata, onde consentire ai titolari degli uffici di
predisporre le misure necessarie;
– l’obbligo di comunicazione della proclamazione dell’astensione e delle sue motivazioni ai presidenti delle Corti di appello e ai titolari degli uffici interessati, nonché, quando l’astensione riguardi un
singolo distretto o circondario, al ministro della giustizia e agli altri ministri eventualmente competenti;
– l’obbligo di comunicazione nelle forme adeguate almeno cinque giorni prima dell’inizio dell’astensione da parte dei soggetti che proclamano l’astensione;
– la possibilità di derogare all’obbligo di preavviso nei soli casi in cui l’astensione venga proclamata
in difesa dell’ordine costituzionale ovvero per gravi attentati ai diritti fondamentali dei cittadini e alle
garanzie essenziali del processo;
– che l’astensione, anche in caso di successive proclamazioni, non possa protrarsi nel medesimo ambito per oltre trenta giorni consecutivi, ovvero calcolati nell’arco di un trimestre, e che, superato tale limite, una nuova proclamazione per le stesse motivazioni sia possibile solo dopo novanta giorni;
– che la durata della prima astensione non possa essere superiore a sette giorni;
– l’esonero da tali modalità limitative nel caso di astensione senza preavviso;
– che il difensore che non intenda aderire alla astensione debba comunicare prontamente la sua decisione all’autorità procedente e agli altri difensori costituiti;
– la non applicazione della suindicata presunzione di adesione del difensore all’adesione per tutte le
udienze che possano celebrarsi anche in assenza del difensore (es. art. 127 c.p.p.) e per le quali questi,
ove intenda astenersi, deve dare comunicazione all’autorità procedente;
– che il diritto di sciopero possa sostanzialmente essere esercitato sia dal difensore, di fiducia o
d’ufficio, sia dal suo sostituto, ex art. 102 c.p.p.;
– che l’astensione non è consentita nelle udienze di convalida dell’arresto e del fermo, a quelle inerenti alle misure cautelari, per gli interrogatori ex art. 294 c.p.p., per l’espletamento dell’incidente probatorio, per il giudizio direttissimo e per il compimento degli atti urgenti previsti dall’art. 467 c.p.p., per
i procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di
detenzione.
Di qui l’adozione, da parte degli organismi di rappresentanza dell’Avvocatura, nell’aprile del 2007,
del Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli Avvocati, valutato infine, dopo alcune
13
Si veda D. Potetti, L’astensione collettiva degli avvocati dalle udienze, in Cass. pen., 2005, p. 3009.
14
In G.U., 11 aprile 2000, n. 85.
15
Il testo e le decisioni adottate in subiecta materia dalla commissione sono consultabili in http://www.commissionegaranzia
sciopero.it. La premessa della regolamentazione provvisoria adottata con delibera n. 2/137 del 2002 traccia la storia dei vari progetti di codice di autoregolamentazione delle astensioni sottoposti, tra il 1996 e il 2000, dalle associazioni dei professionisti forensi all’attenzione della commissione, al fine di ottenerne – senza successo – la valutazione di idoneità. Le tappe di questa «storia di incomprensioni e di irrigidimenti», fatta di «apriorismi orgogliosi da parte di chi ha a lungo contestato la competenza della commissione, e – certamente – puntigliosità "di rimessa" da parte di quest’ultima», è tracciata da G. Ghezzi, Sciopero dei magistrati e «sciopero»
degli avvocati nelle valutazioni della commissione di garanzia, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, specialmente p. 118 ss.
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modifiche, come idoneo dalla stessa Commissione di Garanzia con delibera n. 749 del 13 dicembre
2007 16.
Il codice di autoregolamentazione prevede, a sua volta, una serie di requisiti ritenuti necessari per
garantire il contemperamento del diritto di astensione con i diritti della persona costituzionalmente tutelati 17, già individuati dalla Corte costituzionale e, successivamente, dal legislatore. In particolare si
prevede, con riferimento alle prestazioni indispensabili, da un lato (art. 4, lett. a), codice, cit.), che le
astensioni non siano consentite tout court con riferimento, essenzialmente, ad ipotesi di atti non rinviabili (come ad esempio gli atti di perquisizione e sequestro) o ad ipotesi di procedimenti caratterizzati da
urgenza (come ad esempio il giudizio direttissimo ovvero i procedimenti inerenti reati soggetti ad imminente prescrizione) o di procedimenti incidenti sulla libertà personale (come ad esempio le udienze
di convalida dell’arresto o del fermo od afferenti le misure cautelari). Dall’altro lato (art. 4, lett. b)), codice cit.) le stesse non sono ammesse con riferimento ai procedimenti e ai processi in relazione ai quali
l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, solo qualora l’imputato stesso chieda
espressamente, analogamente a quanto previsto dall’art. 420-ter, comma 5, c.p.p., che si proceda malgrado l’astensione del difensore; sicché, in tal caso, il difensore di fiducia o d’ufficio ha l’obbligo di assicurare la propria prestazione professionale. Tale differente assetto è stato confermato, da ultimo, anche
dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite nella sentenza del 30 maggio 2013, n. 26711 18.
SEGUE: NORME NON DEL TUTTO ESAURIENTI
Nonostante i predetti interventi legislativi e regolamentari, però, l’attuale assetto sembra lasciare scoperte in particolare due problematiche. La prima è rappresentata dalla indubbia necessità che nel caso
in cui si versi in processi con imputati in stato di custodia cautelare o di detenzione l’imputato venga
posto a conoscenza delle intenzioni di astenersi del proprio difensore, pur se, sul punto, il codice di autoregolamentazione nulla prevede. In proposito possono però utilmente richiamarsi quelle pronunce
che, già anteriormente all’attuale disciplina, avevano chiarito come spettasse al difensore l’onere di
provare la tempestiva comunicazione al proprio assistito della volontà di astenersi dall’udienza, sì da
metterlo in grado di manifestare il proprio eventuale dissenso e, se del caso, di revocare il mandato
provvedendo alla nomina di altro difensore 19. La seconda, invece, attiene ai riflessi negativi dell’astensione sulla posizione dell’imputato, ove, per il solo fatto che si versi in processi per così dire “ordinari”
che esulano da un ambito di urgenza, la contraria volontà dell’imputato resta irrilevante. E ciò anche a
fronte dell’effetto sospensivo della prescrizione del reato destinato, per costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità 20, a prolungarsi per tutto il periodo del rinvio da un’udienza all’altra e non solo per il limite massimo di sessanta giorni indicato dall’art. 159 c.p.p.
La soluzione, secondo parte della dottrina 21 è da ricercarsi nella possibilità di fare applicazione
16
Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, adottato in data 4 aprile 2007 da O.U.A., UCPI, ANFI, ANF, AIGA, UNCC e valutato idoneo dalla Commissione di garanzia con delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007, in G.U., 4
gennaio 2008, n. 3.
17
A qualche residuo dubbio relativamente alla violazione dell’art. 23 Cost. si espone, nel suddetto codice, la previsione
dell’art. 3, comma 3, che impone all’avvocato che non intenda aderire ad un’astensione forense, di avvisare gli altri colleghi, nei
casi di possibile separazione o stralcio all’interno del procedimento penale pendente.
18
Cass., sez. un., 29 maggio 2013, n. 26711, in www.penalecontemporaneo.it, 20 giugno 2013. La Corte di Cassazione ha in tal
modo implicitamente valorizzato i diversi ambiti rispettivamente considerati dalle lett. a) e b) dell’art. 4 del codice suddetto,
giacché, mentre nella prima (relativa alle udienze “afferenti misure cautelari”) l’astensione non è sic et simpliciter consentita, nella seconda (riguardante i processi nei quali l’imputato si trova in stato di custodia cautelare o di detenzione) la non operatività
dell’astensione è condizionata alla manifestazione espressa della volontà dell’imputato a che si proceda ugualmente.
19
Cass., sez. I, 11 maggio 1998, n. 6528, in Cass. pen., 1999, p. 2951 ss.; Cass., sez. I, 16 febbraio 1998, n. 936, in CED Cass., n. 209900. In
dottrina, Mendoza, R., Trasmissione di atti via telefax e astensione collettiva dalle udienze da parte degli avvocati, in Cass. pen., 1999, p. 2255.
20
Tra le altre, Cass., sez. V, 8 febbraio 2010, n. 18071, in CED Cass., n. 247142; Cass., sez. I., 17 giugno 2008, n. 25714, in CED
Cass., n. 240460; Cass., sez. II., 12 febbraio 2008, n. 20574, in Cass. pen., 2008, p. 4085 ss.
21
V. Grevi, L’adesione allo “sciopero” dei difensori non costituisce “legittimo impedimento” (a proposito del regime di sospensione del
corso della prescrizione), in Cass. pen., 2006, p. 2059; L. Iafisco, Nuovo orientamento della Suprema Corte in tema di adesione del difensore
alle astensioni dalle udienze e regime della prescrizione: inapplicabili i limiti di durata della sospensione previsti per il legittimo impedimento, in Cass. pen., 2008, p. 4088.
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dell’ultimo comma dell’art. 420-ter c.p.p., nella parte in cui consente all’imputato di affrancarsi dal proprio difensore legittimamente “impedito”, chiedendo che si proceda in sua assenza, anche al caso in cui
questi si faccia portatore di una mera richiesta di rinvio. In verità tale approccio appare limitato dalla
già ricordata non riconducibilità dell’astensione dalle udienze del difensore ai casi di legittimo impedimento vero e proprio.
IL BILANCIAMENTO TRA DIRITTO ALLA DIFESA E LIBERTÀ DEL PROFESSIONISTA
I pronunciamenti della commissione e le regole deontologiche valgono a fini disciplinari, riguardano
cioè le ricadute «professionali» dell’astensione, e, pertanto, non possono ambìre ad introdurre o modificare regole processuali, che, come tali, vanno ricostruite dalla giurisprudenza alla luce della Costituzione e della legge ordinaria.
La Corte di cassazione ha affermato che il bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti, di cui ha
fatto cenno la Consulta nella citata sentenza n. 171 del 1996, tale da far arretrare l’esplicazione della libertà del professionista di fronte all’avanzare di altri valori costituzionalmente rilevanti, spetta pur
sempre al giudice, il quale valuta la portata e l’incidenza dell’astensione alla luce del quadro costituzionale sopra descritto 22. Di conseguenza viola la norma di cui all’art. 24, comma 2, Cost. ed è, conseguentemente, nulla, la deliberazione del collegio, dinanzi al quale si sia svolta l’udienza di discussione,
qualora il difensore di una delle parti abbia dichiarato di aderire all’astensione proclamata dal consiglio dell’ordine territoriale e che sia stata adottata omettendo di compiere e di rendere sufficientemente
manifesto il (necessario) giudizio di comparazione tra il diritto della parte ad essere difesa e l’interesse
all’esercizio, celere e corretto, della funzione giurisdizionale, quale servizio pubblico essenziale 23.
SEGUE: LA POSSIBILE MENOMAZIONE DIFENSIVA
Ferma restando la necessità di un bilanciamento, quanto agli effetti dell’astensione degli avvocati sul
processo in corso si registrano in giurisprudenza posizioni di segno opposto. Parte della stessa fa leva
sul concetto di menomazione effettiva del diritto di difesa, e ritiene che, nel caso di astensione regolarmente proclamata, la menomazione possa generare la nullità degli atti processuali compiuti, allorché «il
pregiudizio al diritto di difesa si sia concretamente verificato». Ad esempio nell’ambito del processo civile si è
ritenuto che si determini il pregiudizio in questione allorché l’udienza collegiale non sia stata differita e
la causa sia stata trattenuta in decisione, nonostante l’avvocato abbia formalmente comunicato di volersi astenere dalla partecipazione all’udienza collegiale, senza chiedere la spedizione della causa in decisione 24. Mentre quell’orientamento che configura la proclamata astensione in termini di legittimo impedimento nello svolgimento delle previste attività processuali pone, tuttavia, l’accento sulla necessità
che l’impedimento sia portato a tempestiva conoscenza dell’ufficio, trattandosi di una facoltà del difensore che, pur avendo origine in un deliberato collettivo, deve esercitarsi mediante un atto di esternazione personale, appartenendo al novero dei suoi diritti individuali 25.
Nella giurisprudenza di merito si rintracciano varie pronunce nelle quali l’astensione collettiva è considerata ex se legittimo impedimento allo svolgimento dell’udienza, anche in caso di opposizione dell’altra
parte, con previsione dell’obbligo per il giudice di differimento d’ufficio 26. Così, ove nel giudizio venga disposto il rinvio d’ufficio dell’udienza, deve essere data comunicazione alle parti 27. In tal modo l’astensione
andrebbe mutare i connotati di un’udienza, tanto da impedire che nella stessa si consumi una preclusione a
carico delle parti, fissata dalla legge proprio con riferimento a quella udienza. Ma, in ogni caso, l’effetto di
rinvio dell’udienza causato dall’avvenuta astensione non inciderebbe sulle successive fasi processuali.
22
23
Così, condivisibile, Cass., ord. 20 maggio 1998, n. 175 e Cass., sez. I, 10 giugno 1999, n. 10955, in CED Cass. n. 214371.
Cass. civ., sez. III, 1° ottobre 1997, n. 9576.
24
Cass. civ., sez. V, 14 novembre 2002, n. 15986.
25
Cass. civ., sez. I, 16 luglio 2002, n. 10296.
26
V., ad esempio, App. Napoli, 15 giugno 1995, in Giur. di merito, 1995, p. 901; Pret. Roma, 9 giugno 1995, in Riv. critica dir.
lav., 1995, p. 874.
27
Cass. civ., sez. lav., 13 gennaio 1998, n. 236; Cass. civ., sez. lav., 24 novembre 1993, n. 11582.
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Va osservato comunque che alla base delle pronunzie riferite c’è sempre la preoccupazione di tutelare le ragioni della parte che sta in giudizio con il ministero del difensore che si astiene, mentre un po’ in
ombra rimane la posizione processuale della parte assistita dall’opposto difensore, il quale non intenda
astenersi.
NATURA DELL’ASTENSIONE: ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Peraltro, anche in ordine alla qualificazione giuridica dell’astensione dalle udienze si registrano orientamenti giurisprudenziali non univoci.
Secondo alcuni indirizzi, come anzidetto, l’assenza del difensore, determinata dalla adesione alla astensione collettiva, dovrebbe di per sé ritenersi come dovuta a legittimo impedimento; in tale contesto,
si afferma che il giudice sarebbe nondimeno tenuto a valutare l’opportunità del rinvio del dibattimento 28. Tale valutazione, in tanto potrebbe condurre alla celebrazione del processo, in quanto, all’interesse
al rinvio della difesa tecnica dell’imputato, si contrapponga quello dell’esigenza di una immediata celebrazione del giudizio e sussistano validi motivi per cui, nell’operare il bilanciamento, si dia prevalenza
a quest’ultimo 29.
Le più recenti pronunce di legittimità hanno, invece, segnato l’abbandono di questo sviluppo interpretativo, un tempo maggioritario, affermando, per contro, che si tratta dell’esercizio di un diritto di libertà del difensore, espressione della dinamica associativa volta alla tutela di una forma di lavoro autonomo da ricondurre all’ambito dei diritti di libertà dei singoli e dei gruppi 30. Tale prospettiva appare
più coerente con le coordinate fornite dalla giurisprudenza costituzionale 31 e si traduce, sul piano processuale, nella configurazione di un vero e proprio "diritto al rinvio", conseguente alla manifestazione
della volontà di astenersi 32.
Due, inoltre, erano i nodi nevralgici che lasciavano ancora spazio a dubbi interpretativi e resistenze
applicative: la portata precettiva della disciplina adottata con il Codice di Autoregolamentazione, e la
permanenza, o no, del potere del giudice di disporre comunque la prosecuzione dell’udienza a fronte di
esigenze di giustizia diverse da quelle contemplate dalla normativa regolamentare. Le questioni sono
legate tra loro da consequenzialità logica. Se, infatti, si ritiene che il Codice di Autoregolamentazione
abbia efficacia erga omnes, una volta integrati i presupposti di legittimità dell’astensione non residuerà
in capo al giudice alcun potere di valutazione e di bilanciamento tra il diritto del difensore e la tutela di
altri diritti fondamentali aventi copertura costituzionale.
L’INTERPRETAZIONE QUALE “ATTIVITÀ CREATRICE”
Alla luce delle precedenti considerazioni, si può affermare che la giurisprudenza occupa “di fatto” un
posto specifico nell’ambito delle fonti del diritto, indipendentemente da un riconoscimento formale e in
ragione, invece, di una norma di produzione dotata del requisito dell’effettività. Questa affermazione
28
Cass., sez. III, 21 aprile 2007, in C.E.D. Cass., n. 238572. Per le oscillazioni della giurisprudenza sul punto cfr. D. Potetti,
L’astensione collettiva degli avvocati dalle udienze, in Cass. pen., 2005, p. 3009 ss., il quale – adottando la ricostruzione dell’astensione
collettiva dalle udienze come forma di manifestazione della libertà di associazione – riconosce al Giudice un potere di valutazione discrezionale in ordine al rinvio dell’udienza ovvero alla nomina di difensore sostituto ai sensi dell’art. 97, comma 4,
c.p.p. Sulla sospensione del termine di prescrizione in presenza di astensione collettiva dalle udienze appare ispirato ad un corretto criterio di contemperamento l’indirizzo fissato da Cass., sez. un., 28 novembre 2001, in Cass. pen., 2002, p. 1308. A commento della decisione, cfr. M.L. Di Bitonto, Le Sezioni unite reinterpretano il combinato disposto dagli artt. 159 c.p. e 304 c.p.p.: l’astensione
collettiva dalle udienze penali sospende il corso della prescrizione, in Cass. pen., 2002, p. 1316 ss.
29
Cfr., fra le altre, Cass., sez. I, 13 dicembre 2001, in Giur. it., 2002, p. 2128; Cass., sez. III, 11 marzo 1999, in C.E.D. Cass., n.
213092; Cass., sez. III, 12 dicembre 1997, in Giur. it., 1998, p. 2366.
30
Così da ultimo Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 40187, in C.E.D. Cass., n. 259926. In senso conforme: Cass. sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 1826, in www.penalecontemporaneo.it, 20 gennaio 2014; Cass., sez. un., 29 maggio 2013, n. 26711, cit., sub nota 18.
31
In particolare, C. cost., sentenza 9 gennaio 1996, n. 171, cit.
32
Si esprime nel senso di un vero e proprio diritto al rinvio, da ultimo, Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 40187, cit., che evidenzia come vi sia una ontologica differenza tra il diritto al rinvio determinato da un impedimento ed il diritto al rinvio conseguente all’accoglimento della richiesta di differimento dell’udienza per astensione del difensore; richiesta quest’ultima che trova
fondamento nell’esercizio di un diritto di libertà.
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suscita peraltro un interrogativo giuridico di non poco conto, cioè se in tal modo vengono violati i canoni fissati dall’art. 12 disp. prel. c.c.
In realtà, le regole poste dall’art. 12 disp. prel. sono del tutto incapaci di circoscrivere l’attività interpretativa nell’ambito di un’attività di mera applicazione della legge 33. Infatti, la cosiddetta interpretazione
letterale appare ampiamente influenzata dalla frequente equivocità o variabilità o indeterminatezza delle
espressioni linguistiche 34. A sua volta il ricorso all’intenzione del legislatore – ormai unanimemente intesa
sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza non già come ricerca della volontà soggettiva di coloro che
hanno formulato la legge, ma come individuazione della ratio legis oggettiva – piuttosto che configurarsi
quale criterio interpretativo si pone come il risultato stesso del processo di interpretazione.
Il processo di interazione fra il diritto (che esprime la richiesta di certezza e di forma) e la società
(che è aperta al mutamento e come tale risulta portatrice di nuovi contenuti 35, si fa particolarmente forte nei periodi di crisi sociale, quando i precetti normativi non rispondono più alle diverse esigenze.
Nel contesto descritto l’attività interpretativa si presenta dunque come creativa di diritto, atteso che,
come si è detto, l’interprete non compie mai operazioni meramente logiche, ma pur sempre liberovalutative 36. Infatti, l’unità del sistema non è un dato aprioristico, ma uno scopo perennemente da raggiungere da parte del giurista, che dunque la realizza ex post.
Così, all’esito dell’intervento delle Sezioni unite, si afferma un orientamento giurisprudenziale consolidato che acquista valore di diritto vivente, come pure riconosciuto ormai pacificamente dalla stessa giurisprudenza della Corte costituzionale 37. Tuttavia, occorre non tralasciare di dare primaria importanza ai
principi del diritto comunitario, i quali secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia devono guidare
l’interpretazione di tutto il diritto interno, indipendentemente dal fatto che questo sia anteriore o posteriore all’adozione di uno specifico atto comunitario. Il giudice nazionale deve dunque instaurare un dialogo continuo col giudice comunitario ed il primo canone ermeneutico al quale deve attenersi è l’interpretazione più fedele ai principi della normativa comunitaria e più consona a raggiungerne gli scopi. I
principi generali comunitari sovraordinati, cui deve attenersi il giudice nazionale, vengono formulati,
come si è visto, dalla Corte di Giustizia, la quale si ispira a sua volta non solo alla normativa comunitaria,
ma anche ad altre fonti. Sul tema, particolarmente importanti sono le decisioni del 9 dicembre 2007, C341/05, Laval 38 e del 18 dicembre 2007, C-346/06, Ruffert 39, che affrontano il problema della compatibilità
fra il diritto di sciopero – riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali – e le due libertà comunitarie
della libera prestazione di servizi e del diritto di stabilimento, costitutive dell’integrazione economica europea, in quanto connesse al divieto di discriminazione in base alla nazionalità 40.
L’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE
Su siffatto sfondo, caratterizzato da una marcata sovrapposizione di piani, deve collocarsi la sentenza
29 settembre 2014, n. 40187 41, con la quale le Sezioni unite della Corte di cassazione — sia pure nel
33
Per una più ampia dimostrazione dell’assunto si rimanda a L. Galantino, Formazione giurisprudenziale dei principi del diritto
del lavoro, Milano, 1981. L’inadeguatezza della disposizione è posta in luce da gran parte della più recente dottrina, sullo stato
della quale si rimanda a V. Speziale, La giurisprudenza del lavoro ed il «diritto vivente» sulle regole interpretative, in Giornale dir. lav. e
relazioni ind., 2008, 120, p. 613 ss.; R. Romboli, Il ruolo del giudice in rapporto all’evoluzione del sistema delle fonti ed alla disciplina
dell’ordinamento giudiziario, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/materia/anticipazioni/ruologiudice, 2006, p. 23.
34
Cfr. V. Marinelli, Studi sul diritto vivente, Napoli, 2008, p. 7 ss.; V. Speziale, op. cit., pp. 5-6, 14 ss.
35
Sulla forza eteronoma di condizionamento che il potere esercita sulla società e quella autonoma che la società esercita sul
potere vedi in particolare R. Meneghelli, Il problema dell’effettività nella teoria della validità giuridica, Padova, 1975, p. 4-5.
36
La funzione creativa dell’interpretazione giurisprudenziale è da tempo posta in luce dalla dottrina prevalente, sia pure
con diversa accentuazione. Vedi, fra gli altri, recentemente R. Romboli, op. cit., 2006, p. 4 ss. Per la dottrina risalente si rimanda a
L. Galantino, Formazione giurisprudenziale dei principi del diritto del lavoro, cit.
37
Cfr. da ultimo C. cost., sent. 16 maggio 2008, n. 146, in G.U., 21 maggio 2008, n. 22.
38
C. giust. CE, sent. 9 dicembre 2007, C-341/05, Laval, in Raccolta I-1176.
39
C. giust. CE, sent. 18 dicembre 2007, C-346/06, Ruffert. in Raccolta I-1989.
40
Cfr. per un commento G. Bronzini-V. Piccone, Diritto di sciopero e libertà di circolazione nelle recenti conclusioni degli avvocati
generali, Riv. critica dir. lav., 2007, n. 3, p. 619 ss.; U. Carabelli, Tutela dei lavoratori e libertà di prestazione dei servizi nella UE, Riv.
giur. lavoro, 2007, n. 1, p. 3 ss.
41
Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 40187, cit., v. nota 30.
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quadro di una tematica più specifica, che concerneva le dichiarazioni rese da persone residenti all’estero — avevano tracciato una soluzione ermeneutica di portata generale volta a conformare la materia
ai più garantisti dettami costituzionali 42. Invero, la scelta di rimettere la questione alle Sezioni unite non
è stata dettata, nel caso di specie, da un vero e proprio contrasto interpretativo, quanto dalla necessità
alimentata dalle più recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità 43 di fornire un autorevole
chiarimento circa l’esatto ambito di operatività e la forza cogente da riconoscere alla normativa regolamentare.
La Corte di cassazione preliminarmente ha ricostruito la gerarchia delle fonti che si sono succedute
nel disciplinare l’astensione del difensore dall’udienza al fine di comprendere a fondo quale sia il valore precettivo da attribuire alle disposizioni regolamentari, soprattutto in relazione a quelle situazioni
che non trovano uno specifico richiamo a priori nel Codice di Autoregolamentazione, ma sono comunque idonee, in virtù dell’esercizio del diritto di astensione del difensore, ad incidere su diritti costituzionalmente rilevanti 44 come il principio di ragionevole durata del processo, richiamato nell’ordinanza
di remissione 45. Nello sviluppo logico della questione, la Suprema Corte muove da un primo punto
fermo: l’astensione dei difensori si profila come vero e proprio diritto (e non mera libertà). Solo in questa prospettiva acquista valore il bilanciamento con gli altri «diritti della persona costituzionalmente tutelati» di cui all’art. 1, l. n. 146/1990: il principio del reciproco contemperamento, infatti, trova il proprio
presupposto logico nella coesistenza di diritti di pari rango, insopprimibili e tra loro inconciliabili 46.
Con specifico riguardo alla natura giuridica ed all’efficacia da attribuire alla disciplina introdotta
con il Codice di Autoregolamentazione, la Corte di legittimità a Sezioni unite ha stabilito che sia il suddetto codice (dichiarato idoneo dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della l. sullo sciopero
nei servizi pubblici essenziali, con deliberazione del 13 dicembre 2007) sia la previgente Regolamentazione provvisoria dell’astensione collettiva degli avvocati dall’attività giudiziaria (adottata dalla Commissione di garanzia con deliberazione del 4 luglio 2002) costituiscono fonte di diritto oggettivo contenente norme aventi forza e valore di normativa secondaria o regolamentare, vincolanti erga omnes, ed
42
Invero, un siffatto percorso interpretativo era già stato intrapreso dalla giurisprudenza delle Sezioni semplici che, con varietà di modulazioni, avevano prospettato una pluralità di ricostruzioni tutte finalizzate ad imporre l’applicazione della disciplina dei riscontri in presenza di dichiarazioni rese da persona irreperibile per motivi oggettivi, onde pervenire ad una lettura
convenzionalmente conforme della disciplina relativa all’impossibilità di ripetizione. Tra le più risalenti, Cass., sez. II, 18 ottobre
2007, n. 43331, in Dir. pen. proc., 2008, p. 878, con nota di P. Tonini, Il testimone irreperibile: la Cassazione si adegua a Strasburgo ed
estende l’ammissibilità dell’incidente probatorio. Successivamente, Cass., sez. I, 23 settembre 2009, n. 44158, in CED Cass. n. 245556;
Cass., sez. V, 26 marzo 2010, n. 21877, in CED Cass., n. 247446; Cass., sez. I, 6 maggio 2010, n. 20254, in CED Cass., n. 247618;
Cass., sez. III, 15 giugno 2010, n. 27582, in CED Cass., n. 248052. Tuttavia, vi erano state alcune occasioni nelle quali la Cassazione aveva affermato che la strada dell’interpretazione adeguatrice non era percorribile in quanto la disciplina tracciata dal codice
costituiva diretta attuazione dell’art. 111, comma 5, Cost., a sua volta contrastante con la normativa convenzionale e su questa
prevalente sul piano della gerarchia delle fonti secondo quanto desumibile dalle sentenze gemelle del 2007. Si veda Cass., sez.
VI, 25 febbraio 2011, n. 9665, in CED Cass., n. 249594; Cass., sez. V, 16 marzo 2010, n. 16269, in CED Cass., n. 247258.
43
Il riferimento è, in particolare, a quanto disposto dalle Sezioni unite con sentenza 29 maggio 2013, n. 26711, cit., la quale –
incidentalmente – in motivazione qualificava il Codice di Autoregolamentazione di astensione dalle udienze quale «normativa
secondaria alla quale bisogna conformarsi», senza precisare tuttavia se destinatario dell’obbligo di adeguarsi fosse soltanto il difensore ovvero anche il giudice. Successivamente, sul punto, Cass., sez. VI, 12 luglio 2013, n. 51524, (v. in www.cassazione.net, 17 luglio 2013, l’informazione provvisoria), in tema di divieto di astensione per imminente prescrizione, evidenzia che è proprio il
valore di normativa secondaria (del Codice di Autoregolamentazione) ad escludere in radice la legittimità dell’adesione nei casi
espressamente vietati dall’art. 4.
44
La questione di diritto viene formulata dall’ordinanza di rimessione nei seguenti termini: «se, anche dopo l’emanazione
del Codice di Autoregolamentazione dalle udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007 e ritenuto idoneo dalla Commissione
di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13 dicembre 2007, permanga il potere
del giudice – in caso di adesione del difensore all’astensione proclamata dall’associazione di categoria – di disporre la prosecuzione del giudizio in presenza di esigenze di giustizia non contemplate dal codice suddetto».
45
La questione di remissione alla Corte atteneva al rigetto dell’istanza di rinvio per astensione, motivato dal giudice di merito con l’esigenza di evitare ad un teste, residente in altra regione, il disagio di dover affrontare un ulteriore lungo viaggio per
sottoporsi all’esame.
46
Come espressamente chiarito dalle Sezioni unite, l’impianto della l. n. 146/1990 «si basa sulla premessa del riconoscimento di un diritto costituzionalmente garantito di astensione collettiva dal lavoro per tutti i soggetti compresi nel suo campo
d’applicazione, in quanto, senza questa implicita ammissione del comune rilievo di diritti di rango costituzionale, l’operazione
di contemperamento tra contrapposte situazioni giuridiche non avrebbe potuto essere realizzata»; così Cass., sez. un., 27 marzo
2014, n. 40187, cit., p. 28.
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alle quali anche il giudice è soggetto in forza dell’art. 101, comma 2, Cost 47. Di conseguenza le norme di
cui al Codice di Autoregolamentazione sono conosciute ed applicate d’ufficio dal giudice (sulla base del
principio iura novit curia), la loro violazione può essere oggetto di ricorso per cassazione ex art. 606 lett.
b) c.p.p. e le stesse sono sottoposte al canone ermeneutico di cui all’art. 12 disp. prel. c.c. 48. Un assunto,
in realtà, ambivalente: valido sia per negare il differimento dell’udienza qualora non siano integrati i
presupposti di legittimità dell’astensione 49, sia per concedere sempre il rinvio nei casi in cui siano state
rispettate, nella forma e nella sostanza, le prescrizioni imposte dal Codice di Autoregolamentazione.
Il diverso orientamento, espresso da alcune recenti sentenze di legittimità 50, può ben essere spiegato
– secondo le Sezioni unite – non in ragione di un autonomo potere di bilanciamento in capo al giudice
ma in base alle diverse e possibili letture interpretative delle norme del Codice di Autoregolamentazione. Con l’adozione e la definitiva entrata in vigore delle fonti secondarie, infatti, il contemperamento tra
il diritto all’astensione collettiva dei lavoratori autonomi e gli altri diritti costituzionalmente tutelati
trova la sua completa realizzazione nella legge 51. Nonostante ciò, le Sezioni unite riconoscono che possano residuare diritti o valori costituzionali diversi ed ulteriori rispetto a quelli considerati dalla legge o
dal codice di autoregolamentazione, tali da poter ancora giustificare l’esercizio di un potere discrezionale del giudice volto a limitare il diritto costituzionale di libertà del difensore di astenersi 52. Ma allo
stesso tempo viene sottolineato l’assoluto divieto per il giudice di pronunciarsi “ultra legem”; del resto,
conclude la Corte di cassazione, «è normale che uno sciopero o una astensione collettiva che interessi
servizi pubblici essenziali possa creare disagi agli utenti ed intralci all’organizzazione, ma ciò non sarebbe sufficiente ad escludere o limitare l’esercizio del diritto costituzionale che si svolga nel rispetto
delle norme di diritto oggettivo» sicché il Giudice deve rispettare lo sciopero anche nel caso in cui
l’udienza appaia improcrastinabile.
RECENTI SVILUPPI SUL CASO DELL’UDIENZA IN CAMERA DI CONSIGLIO
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 18753 depositata il 6 maggio 2014 53, ha affrontato la questione
relativa all’efficacia della dichiarazione di adesione all’astensione avanzata dal difensore nell’ambito
delle udienze in camera di consiglio, nelle quali, come è noto, la partecipazione del difensore non è necessaria. Si è così ribadito, in un quadro giurisprudenziale tutt’altro che definitivo e pacifico, che l’astensione non può essere limitata, alla luce della disciplina attuale, alle sole udienze dibattimentali o
47
Così Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 40187, cit., p. 34. Già in termini pressoché identici: Cass., sez. un., 29 maggio 2013, n.
26711, cit.; Cass., sez. VI, 12 luglio 2013, n. 39871, cit.; nonché Cass., sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 1826, cit., che precisa come
«l’astensione degli avvocati dalle udienze ha ormai acquisito una piena legittimazione nel nostro ordinamento giuridico quale
diritto di libertà, il cui esercizio resta subordinato ad una serie di regole e limiti, che sono stabiliti dalla legge, integrata dai codici di autoregolamentazione che siano valutati conformi alla legge stessa. Una volta che tali regole risultano osservate, il giudice
non può che accogliere la richiesta di differimento dell’udienza formulata dal difensore che dichiari di aderire all’astensione collettiva, a condizione che sia stata proclamata a norma di legge». In senso contrario, si segnala Cass., sez. II, 19 aprile 2013, n.
22353, in CED Cass., n. 255937, secondo la quale «il giudice nel valutare le circostanze che, rendendo urgente la trattazione, impediscono l’accoglimento di una richiesta di rinvio del dibattimento motivata dall’adesione all’astensione dalle udienze proclamata dalla categoria, non è legato dai principi fissati dall’avvocatura per autodisciplinare l’astensione medesima (Codice di Autoregolamentazione), ma deve autonomamente procedere al bilanciamento degli interessi in gioco in quanto il Codice di Autoregolamentazione è un atto che vincola i soli associati».
48
Cfr. Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 40187, cit., p. 34 s.
49
Così, per esempio, Cass., sez. un., 29 maggio 2013, n. 26711, cit., ha negato il diritto al rinvio dell’udienza camerale fissata
dinanzi alla Corte di Cassazione in un procedimento incidentale de libertate sulla scorta del fatto che l’art. 4 del Codice di Autoregolamentazione non consente l’astensione in riferimento alle udienze «afferenti misure cautelari».
50
In questo senso, Cass., sez. II, 19 aprile 2014, n. 22353, cit.; nonché Cass., sez. VI, 12 luglio 2013, n. 43213, in CED Cass., n.
257205.
51
Le Sezioni unite entrano nel dettaglio e richiamano il dato letterale della disciplina del Codice di Autoregolamentazione
per verificare in concreto come la legge abbia realizzato il bilanciamento del diritto di astensione: con le esigenze organizzative
e logistiche; con il diritto di difesa e di azione; con i contrapposti interessi delle altre parti processuali; con il fondamentale diritto di libertà di indagati ed imputati; con le esigenze di celerità e di ragionevole durata del processo; con l’interesse dello Stato di
evitare la prescrizione dei reati. Così Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 40187, cit., supra nota 13, p. 44 s.
52
Ancora Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 40187, cit., p. 49 ss.
53
Cass., sez. VI, 16 aprile 2014, n. 18753, in www.altalex.com
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ASTENSIONE DEL DIFENSORE E DIRITTO DI OTTENERE IL DIFFERIMENTO DELL’UDIENZA
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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per le quali l’assistenza tecnica è prescritta come indispensabile. Mentre in caso contrario è necessario –
per validamente disporre il rinvio – manifestare anche la volontà di partecipare all’udienza, atteso che
in siffatte ipotesi la partecipazione, come accennato, non è obbligatoria. Più precisamente si è affermato
che mentre la dichiarazione individuale di adesione all’astensione dalle udienze dibattimentali ha
un’immediata efficacia perché la presenza del difensore è necessaria e in assenza di un difensore non
può procedersi, la stessa dichiarazione nel procedimento camerale partecipato presuppone invece la
positiva manifestazione della volontà del difensore di partecipare. Una tale manifestazione di specifica
volontà deve essere contenuta nel testo della dichiarazione di adesione all’astensione collettiva, e comunque da esso evincibile.
E una volta notificato l’avviso di fissazione dell’udienza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 127
c.p.p., si ritiene assicurato il contraddittorio e irrilevante l’assenza del difensore, anche se dovuta a legittimo impedimento (come nel caso di astensione dalle udienze proclamata da organismi nazionali, cui
quest’ultimo aderisca), in quanto questo è causa di rinvio solo per il dibattimento, essendo, negli altri
casi, il difensore sentito solo se comparso ed essendo egli sostituibile, ove non comparso, secondo la regola dettata dall’art. 97, comma 4, c.p.p., mediante un patrocinatore, designato d’ufficio tra quelli prontamente reperibili 54. Ciò è stato motivato in considerazione del fatto che una visione d’insieme della
complessa materia conduce a rilevare che dal sistema delle riforme del 1999, compresa la novella
dell’art. 111 Cost., e del giusto processo (v. in particolare la l. 1 marzo 2001, n. 63) emerge una logica
tendente a contemperare, fra gli altri, il principio del contraddittorio con quello della ragionevole durata del processo, sì che le fasi più rilevanti del giudizio ordinario di cognizione sono regolate in maniera
non sempre e non automaticamente trasportabili in altre sedi. La stessa Corte europea dei diritti
dell’uomo ha puntualizzato che l’art. 6, par. 3 «pur riconoscendo a ogni imputato "il diritto di difendersi personalmente o di fruire dell’assistenza di un difensore di sua scelta" – tuttavia non ne precisa le
condizioni di esercizio, lasciando agli Stati contraenti la scelta di mezzi idonei a consentire al loro sistema giudiziario di garantire siffatto diritto, in modo che si concili con i requisiti di un equo processo» 55.
Per inciso si è altresì stabilito che la dichiarazione di adesione del difensore all’astensione proclamata dagli organismi rappresentativi della categoria può essere trasmessa a mezzo telefax alla cancelleria
del giudice procedente, dovendo applicarsi la norma speciale contenuta nell’art. 3, comma 2 del vigente
codice di autoregolamentazione, secondo la quale l’atto contenente la dichiarazione di astensione può
essere «trasmesso o depositato nella cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero» 56.
Infine, sempre le Sezioni unite sono state chiamate ad esprimersi sul quesito: «se, in relazione alle udienze camerali, in cui la partecipazione delle parti non è obbligatoria, il giudice sia tenuto a disporre il rinvio
della trattazione in presenza della tempestiva dichiarazione di astensione del difensore della persona offesa,
legittimamente proclamata dagli organismi di categoria». Al quesito è stata data soluzione negativa.
In attesa del deposito delle motivazioni, le Sezioni unite hanno inserito nella propria informazione
provvisoria uno specifico riferimento al difensore della persona offesa, per cui non può escludersi che
la decisione sia stata determinata – resterebbe da vedere in quale misura – dalla peculiarità del ruolo
della persona offesa, e del suo difensore tecnico, nell’ambito del processo penale 57.
54
Tale principio è stato più volte ancorato ad alcune massime dalle stesse Sezioni unite, che, pur facendo riferimento al solo
legittimo impedimento del difensore, hanno affermato che «il disposto di cui all’art. 420-ter c.p.p., secondo cui il legittimo impedimento del difensore può costituire causa di rinvio dell’udienza preliminare, non trova applicazione con riguardo agli altri
procedimenti camerali, ivi compresi quelli per i quali la presenza del difensore è prevista come necessaria, soccorrendo, in tali
ipotesi, la regola dettata dall’art. 97, comma 4, c.p.p.» (cfr. Cass., sez. un., 27 giugno 2006, n. 31461, in Cass. pen., 2006, p. 3976).
55
Corte e.d.u., 27 aprile 2006, Sannino c. Italia, in www.giustizia.it. In dottrina v. A. De Francesco, L’adesione all’astensione dalle
udienze ne impone il differimento anche nel procedimento camerale partecipato, in Dir. e giustizia, 2014, 1, p. 9.
56
In motivazione, la S.C. ha precisato che tale soluzione appare imposta non solo da un’interpretazione letterale della norma, che non richiede l’adozione di forme particolari per la comunicazione o il deposito, ma anche da un’interpretazione adeguatrice e sistematica, più rispondente all’evoluzione del sistema di comunicazioni e notifiche, oltre che alle esigenze di semplificazione e celerità richieste dal principio della ragionevole durata del processo. Cfr. in senso conforme, Cass., sez. un., sentenza
19 luglio 2011, n. 28451, in CED Cass., n. 250121; Cass., sez. VI, sentenza 28 giugno 2013, n. 28244, in CED Cass., n. 256894; Cass.,
sez. III, sentenza 13 febbraio 2014, n. 7058, in CED Cass. n. 258443; Cass., sez. III, sentenza 14 maggio 2014, n. 19856. Cfr., in senso
difforme, Cass., sez. IV, sentenza 13 gennaio 2014, n. 988, in CED Cass., n. 259437.
57
Cass., sez. un., c.c. 30 ottobre 2014, Pres. Santacroce, Rel. Franco, Ric. Guerrieri e altri (informazione provvisoria).
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L’ASTENSIONE DEL DIFENSORE DELLA PARTE CIVILE
Va del resto rilevato che, nell’ambito del processo penale, la rilevanza dell’impedimento a comparire è
diversa a seconda che si tratti del difensore della parte civile o di quello dell’imputato.
Già, la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 217/2009 ha ritenuto infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 420 ter, comma 5, e dell’art. 484, comma 2 bis, c.p.p. sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, commi 1 e 2, e 111, comma 2, Cost. Afferma la Consulta che la scelta legislativa
di non estendere al difensore della parte civile il diritto al differimento dell’udienza, previsto, invece,
per il difensore dell’imputato, non è irragionevole se si considera il differente rilievo degli interessi di
cui l’imputato e la parte civile sono portatori, la diversa natura degli scopi perseguiti e l’eterogeneità
delle posizioni processuali.
Emerge, peraltro, l’esigenza di tutelare l’interesse alla speditezza del processo penale, che sarebbe
compromesso dalla previsione del diritto al rinvio anche per il difensore della parte civile. E d’altro canto
non sussiste lesione del diritto di difesa, sia perché il difensore della parte civile può nominare un sostituto, sia perché l’esercizio dell’azione civile nel processo penale non rappresenta l’unico strumento di tutela
giudiziaria a disposizione del danneggiato, stante l’esistenza di percorsi giudiziari alternativi. Né il rinvio
potrebbe considerarsi concesso, ex art. 159, n. 3 c.p., su richiesta della parte: la norma, infatti, prevede che
in tali casi la prescrizione rimane sospesa per l’intero periodo del differimento (e non per soli sessanta
giorni), conseguenza che si verifica in caso di astensione del difensore dell’imputato 58. Ove, però, tale effetto venisse a concretizzarsi a seguito dell’astensione del difensore di parte civile, si perverrebbe al risultato – certo inaccettabile – di una dilatazione del termine prescrizionale dovuta a una scelta unilaterale
non già dell’imputato o del suo difensore, ma della sua “controparte” processuale.
Tantomeno può valere a fondare una diversa decisione il riferimento al diritto di sciopero, avendo
sempre la Suprema Corte chiaramente affermato che «l’astensione collettiva (...) non ricade sotto la specifica protezione dell’art. 40 Cost., trattandosi invece di una "libertà" riconducibile al diverso ambito del
diritto di associazione (art. 18 Cost.) che trova un limite nei diritti fondamentali dei soggetti destinatari
della funzione giudiziaria e, cioè, nel diritto di azione e di difesa di cui all’art. 24 Cost. e nei principi di
ordine generale che sono posti a tutela della giurisdizione, inclusa la ragionevole durata del processo» 59.
CONCLUSIONI
Il diritto all’astensione, oltre ad essere riconosciuto a livello costituzionale come esercizio del diritto di
associazione, riceve dall’ordinamento giuridico una tutela normativa atteso che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, dichiarato idoneo dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, con deliberazione del 13
dicembre 2007 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 3 del 4 gennaio 2008 [...] costituisce fonte di diritto oggettivo contenente norme aventi forza e valore di normativa secondaria o regolamentare, vincolanti erga omnes, ed alle quali anche il giudice è soggetto in forza dell’art. 101, comma 2, Cost. 60. Per cui,
a fronte della decisa presa di posizione espressa dalla citata sentenza della Corte della nomofilachia a
Sez. un. (n. 40187/2014), la soluzione sulla non rinviabilità delle udienze nei procedimenti camerali a
partecipazione facoltativa appare non aderente all’orientamento espresso nelle ultime pronunce di legittimità. Se, infatti, il Codice di Autoregolamentazione già contiene in sé un bilanciamento tra l’esercizio del diritto di astensione ed il principio di celerità processuale, va esclusa la permanenza di spazi
di discrezionalità valutativa in capo al giudice. E nessuna distinzione, quindi, a parere di chi scrive, può
essere ravvisata nella normativa regolamentare tra udienze camerali a partecipazione necessaria e
udienze camerali a partecipazione facoltativa, imponendo uniformità di disciplina. Peraltro, non potrebbe più trovare accoglimento un’esegesi legata al dato letterale dell’art. 599 c.p.p., posto che, come
58
Vedasi anche Cass., sez. II, 12 febbraio 2008, n. 20574, cit.
59
Cfr. Cass., sez. III, 21 marzo 2007, n. 17269, in CED Cass., n. 237322: nella specie, la dichiarazione di adesione all’astensione
del difensore del ricorrente veniva resa in un processo a carico anche di altri imputati i cui difensori avevano, al contrario, formulato richiesta, da equipararsi ad istanza avanzata direttamente dai loro assistiti, di celebrazione del processo.
60
Viene riportata la massima ufficiale della sentenza di Cass., sez. un., 29 settembre 2014 n. 40187, cit.
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ampiamente dibattuto, l’adesione del difensore all’astensione integra non già un legittimo impedimento partecipativo, ma un vero e proprio diritto di libertà costituzionalmente tutelato.
Alla luce delle sopra esposte considerazioni, infine, non si può non considerare la lesione del diritto
del difensore di astenersi come una violazione di legge ovverossia una nullità assoluta riconducibile
all’art. 178, comma 1, lett. c) e 179 c.p.p. rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.
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Analisi e prospettive
Analysis and Prospects
ANALISI E PROSPETTIVE | L’EFFETTIVITÀ DELLA TUTELA RISARCITORIA DELLE CONDIZIONI DETENTIVE CONTRARIE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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FABIO FIORENTIN
Magistrato di Sorveglianza
L’effettività della tutela risarcitoria delle condizioni detentive
contrarie all’art. 3 Cedu: riflessioni a margine di un’indagine
del Ministero della giustizia sulla prima applicazione
dell’art. 35-ter, l. n. 354/1975
Effectiveness of remedies of ill detention in case of violation
of Art. 3 Ehrc: observations on Minister of Justice’s
statistical survey on the first appliance of art. 35-ter, l. n. 354/1975
In seguito all’introduzione nell’ordinamento penitenziario italiano dei “rimedi compensativi” per il pregiudizio sofferto dalle persone detenute in condizioni contrarie all’art. 3 Cedu, il Ministero della giustizia ha effettuato una rilevazione statistica relativa alla prima applicazione dell’art. 35 ter, l. n. 354/75. L’articolo analizza criticamente i risultati dell’indagine e i possibili effetti, suggerendo quindi alcune possibili soluzioni.
After the introduction of the “compensative remedies” of the prejudice suffered by detainees in violation of art. 3
Ehrc, Minister of Justice set out a statistical survey on the first appliance of art. 35 ter, l. n. 354/75.
The essay critically analyzes the aims and the possible effects, suggesting some possible solutions.
LA GENESI DI UNA NORMA DI DIFFICILE INTERPRETAZIONE
In ottemperanza alle prescrizioni dettate dalla Corte di Strasburgo nella ben nota sentenza Torreggiani 1, il Governo, con un duplice intervento a modifica e integrazione della legge di ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354), ha introdotto un rimedio “preventivo” per la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti detenuti e internati 2 e, dopo breve tempo, rispondendo anche alle sollecitazioni
1
Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia, ric. n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e
37818/10, in Dir. pen. cont. online (www.dirittopenalecontemporaneo.it), con nota di F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul
sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno. V. anche M.
Dova, Torreggiani c. Italia, un barlume di speranza nella cronaca del sistema sanzionatorio; sulla stessa sentenza, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2, 2013; v. anche G. Tamburino, La sentenza Torreggiani e altri della Corte di Strasburgo, in Cass. pen., 2013, p. 11 ss.; P. Zicchittu, Considerazioni a margine della sentenza Torreggiani c. Italia in materia di sovraffollamento delle carceri, in Quaderni cost., 2013, p. 161
ss. La sentenza Torreggiani, oltre alla necessità di adottare misure di natura strutturale atte a incidere sulle cause del sovraffollamento carcerario, ha prescritto di introdurre «un ricorso o una combinazione di ricorsi» che consentano di «riparare le violazioni in atto»: degli strumenti cioè attraverso i quali i giudici possano, in prima battuta, sottrarre con celerità il detenuto ad una
situazione che genera la violazione del suo fondamentale diritto a non subire trattamenti inumani (quelli che la Corte denomina
“rimedi preventivi”) e, in secondo luogo, di attribuire un risarcimento a chi abbia subito tale violazione (i “rimedi compensativi”). Sul punto, cfr. A. Della Bella, Il risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento: prima lettura del nuovo rimedio introdotto
dal d.l. 92/2014, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 13 ottobre 2014, par. 4.
2
Si tratta del “ricorso giurisdizionale” di cui all’art. 35 bis della l. 26 luglio 1975, n. 354, introdotto dall’art.3, lett. b), d.l. 23
dicembre 2013, n. 146, conv. con modif. dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10, recante: «Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria», su cui si veda, volendo, F. Fiorentin, Il reclamo
“giurisdizionale” per la tutela dei diritti delle persone detenute e internate, in Rass. Pen. e Crim., 2013, 3, p. 235 ss. Per una panoramica
ANALISI E PROSPETTIVE | L’EFFETTIVITÀ DELLA TUTELA RISARCITORIA DELLE CONDIZIONI DETENTIVE CONTRARIE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
151
del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (che, nel giugno dello scorso anno, esprimendo apprezzamento per le riforme fino a quel momento messe in cantiere, aveva invitato l’Italia a completare
l’adeguamento agli obblighi derivanti dalla “sentenza-pilota” della Corte europea dei diritti dell’uomo), ha creato anche uno strumento “compensativo”, nelle forme del nuovo art. 35-ter ord. penit., recante appunto “rimedi risarcitori” in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’art. 3 Cedu 3.
L’attenzione degli operatori e degli studiosi si è concentrata soprattutto sul secondo dei “rimedi gemelli” 4 di matrice europea modellati dal legislatore, per l’alta valenza simbolica della presenza nell’ordinamento di un istituto di natura effettivamente risarcitoria del danno morale patito dalle persone detenute in condizioni inumane e degradanti, anche se, quasi certamente, non sono rimaste estranee al dibattito
sviluppatosi attorno al ricorso risarcitorio le preoccupazioni sulle ricadute pratiche che dall’applicazione
di tale strumento potranno discendere, anche sul versante dell’aggravio per le finanze pubbliche 5.
L’INDAGINE DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
L’interesse per la nuova modalità di risarcimento del pregiudizio subito dai soggetti detenuti è, senza
alcun dubbio, destinato a farsi ancor più insistente per l’approssimarsi del secondo check fissato, a giugno del corrente anno, dal Comitato dei Ministri europei per la verifica in concreto dell’effettività dei
“rimedi compensativi”. Tale, non del tutto tranquillizzante, scadenza induce a interrogarsi sul possibile
esito di questo ennesimo (e umiliante) redde rationem per il nostro ordinamento sul fronte, particolarmente delicato, delle effettive garanzie di tutela assicurate ai diritti delle persone detenute 6.
L’occasione per qualche riflessione al proposito è rappresentata dalla diffusione dei risultati di
un’indagine promossa dal Ministero della giustizia con l’intento di monitorare gli esiti di prima applicazione dello strumento risarcitorio, alla luce degli orientamenti espressi dalla prima giurisprudenza 7.
Dall’elaborazione dei dati forniti dalle cancellerie della magistratura di sorveglianza emerge, invero,
che, nei primi cinque mesi di vigenza del “rimedio compensativo” introdotto dal d.l. n. 92/2014, gli Uffici di sorveglianza hanno iscritto più di 18.000 istanze ex art. 35 ter, l. n. 354/1975 8.
sulla problematica del sovraffollamento carcerario italiano visto dalla prospettiva di Strasburgo, si veda M. Montagna, Art. 3
CEDU e sovraffollamento carcerario. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e il caso dell’Italia, in www.federalismi.it.
3
L’art. 35-ter della l. n. 354/1975 è stato introdotto con il d.l. 92/2014, conv. con modif. dalla l. n. 117/2014. Per una esaustiva disamina degli interventi attuativi della sentenza Torreggiani, v. C. Fiorio, Cronache dal terzo millennio: politiche legislative e libertà personale, in Arch. pen., 2014, 2, p. 142 ss.
4
La Corte europea (sent. Torreggiani, cit., par. 96) ha preso in considerazione le «vie di ricorso interne da adottare per far
fronte al problema sistemico» emerso in seguito ai ricorsi, e ha affermato che, «in materia di condizioni detentive, i rimedi “preventivi” e quelli di natura “compensativa” devono coesistere in modo complementare». Perciò «quando un ricorrente sia detenuto in condizioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione, la migliore riparazione possibile è la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti»; inoltre il ricorrente «deve potere ottenere una riparazione per
la violazione subita».
5
Si veda, in dottrina, il commento a prima lettura di A. Della Bella, Il risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento: prima lettura del nuovo rimedio introdotto dal d.l. 92/2014, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 13 ottobre 2014, cit.; e, volendo, F. Fiorentin, I nuovi rimedi risarcitori della detenzione contraria all’art. 3 CEDU: le lacune della disciplina e le interpretazioni controverse, in
www.dirittopenalecontemporaneo.it, 6 novembre 2014. V. anche, per le ricadute sul piano dei rapporti giudiziari tra gli ordinamenti
europei, A. Mangiaracina, Italia e sovraffollamento carcerario: ancora sotto osservazione, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 3 dicembre 2014; nonché, per una alcuni interessanti profili di identificazione del danno risarcibile, S. Romice, Brevi note a margine
dell’introduzione dei rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati, in www.federalismi.it, n. 3/2014, p. 2 e ss. Per una disamina della prima giurisprudenza formatasi sul rimedio compensativo e per una interessante proposta di intervento modificativo
della attuale disciplina si veda G. Giostra, Un pregiudizio “grave e attuale”? A proposito delle prime applicazioni del nuovo art. 35-ter
ord. penit., in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 24 gennaio 2015.
6
Cfr. G. Giostra, Un pregiudizio “grave e attuale”?, cit., par. 6, osserva in proposito: «(…) ove perdurasse l’attuale situazione
(…) è molto probabile che l’Italia si esporrebbe ad una nuova, umiliante censura da parte della Corte di Strasburgo ed a preoccupanti conseguenze economiche (…)».
7
Si tratta della “Indagine sulle istanze presentate ai sensi dell’art. 35 ter, O.P. – Novembre 2014”, curata dal Ministero della
giustizia – Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del personale e dei servizi – Direzione generale di statistica, e diffusa a
tutti gli Uffici e Tribunali di Sorveglianza.
8
Come osserva il commento all’indagine statistica in esame, «si tratta di un numero molto elevato e di gran lunga superiore a
quello registrato in occasione dell’entrata in vigore della modifica della 199/2010, pari a 12.000 iscrizioni nel 1° semestre 2012».
ANALISI E PROSPETTIVE | L’EFFETTIVITÀ DELLA TUTELA RISARCITORIA DELLE CONDIZIONI DETENTIVE CONTRARIE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
152
Questo primo dato, per quanto probabilmente inficiato da alcune criticità di natura statistica 9, sembra, tuttavia, restituire l’immagine di uno strumento perfettamente adeguato, sotto il profilo dell’accessibilità, a veicolare le istanze risarcitorie dei soggetti detenuti o internati. Sotto tale aspetto, la strutturazione della disciplina dei rimedi risarcitori, (fin troppo) essenziale e scevra da formalità di procedura 10,
pare avere centrato l’obiettivo indicato dalla Corte EDU. di approntare un rimedio di natura “compensativa” che fosse, appunto, garantito dalla facile accessibilità del medesimo anche da parte di soggetti in
condizioni di restrizione della libertà personale 11.
Procedendo nella lettura dei dati, peraltro, questa prima impressione positiva lascia il posto ad uno
scenario affatto diverso, che fa capolino tra le cifre relative al numero e, soprattutto, alla tipologia delle
definizioni dei procedimenti risarcitori fino ad ora operate dai magistrati di sorveglianza. Secondo l’indagine ministeriale in questione, infatti, ben il 50% delle istanze formulate nei primi mesi di vigenza del
d.l. n. 92/14 sono state già definite; tuttavia, per l’87% di queste ultime, l’esito è stato una pronuncia di
inammissibilità. I casi di accoglimento sono, per contro, ristretti – almeno in questa fase di prima applicazione della nuova disciplina – ad una percentuale quasi insignificante (appena l’1% del totale) 12.
Sotto il profilo statistico, come rileva anche il breve commento ufficiale di accompagnamento all’indagine ministeriale, il campione delle decisioni di accoglimento dei ricorsi risarcitori è ancora troppo
esiguo per consentire di azzardare conclusioni – anche soltanto provvisorie – sulle linee di tendenza
che il rimedio assumerà sotto il profilo quantitativo (relativamente, quindi, all’entità dei risarcimenti
accordati dal magistrato) e qualitativo (con riferimento, cioè, alla ricorrenza percentuale delle due forme di risarcimento previste: quello in forma specifica, attuato mediante riduzione della pena residua
ancora da scontare, e quello per equivalente, consistente in una somma di denaro proporzionale alla
durata della detenzione contraria all’art. 3 Cedu) 13.
9
La relazione di commento ai dati statistici raccolti dall’indagine ministeriale rileva, infatti, che «Tutti gli uffici hanno segnalato di avere incontrato non poche difficoltà nella raccolta dei dati per la compilazione del prospetto statistico. In attesa
dell’aggiornamento del SIUS ed in mancanza, nel frattempo, di indicazioni precise da parte dell’amministrazione centrale sulle
modalità da seguire per la registrazione e la gestione di tali istanze, ogni ufficio si è regolato in modo autonomo utilizzando, per
l’iscrizione, ora l’uno ora l’altro degli oggetti presenti nel SIUS e servendosi ove possibile, per mantenere il controllo statistico
del fenomeno in esame, di registri di comodo cartacei o di altri accorgimenti. Il dato relativo al numero di iscrizioni delle istanze
ex art. 35-ter O.P. comunicato dagli uffici potrebbe dunque discostarsi dal numero reale ed essere sovrastimato. I dati relativi
alle istanze accolte ed alle informazioni di dettaglio ad esse inerenti sono invece molto precisi, ma solo in quanto la loro rilevazione, effettuata attraverso la consultazione puntuale di ogni fascicolo accolto, è stata agevolata dal fatto che trattasi di un numero estremamente esiguo di provvedimenti».
10
A mente dell’art. 35-ter ord. penit., invero, l’istanza risarcitoria può essere presentata al giudice competente anche personalmente da parte del soggetto che si assume danneggiato. La procedura è definita dal giudice civile con il rito camerale semplificato (artt. 737 ss. c.p.p.) e dal magistrato di sorveglianza con il procedimento in camera di consiglio. Per le problematiche relative alla distribuzione della competenza de damno in relazione al pregiudizio subìto per violazione dell’umanità delle condizioni
detentive, v. in giurisprudenza Cass., sez. I, 15 gennaio 2013, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 20 febbraio 2013, con nota di
F. Viganò, Alla ricerca di un rimedio risarcitorio per il danno da sovraffollamento carcerario: la Cassazione esclude la competenza del magistrato di sorveglianza. V., anche, i commenti di F. Fiorentin, En attendant Godot, ovvero la questione della tutela per i diritti negati in
carcere tra Corte EDU e Cassazione, in attesa di una riforma troppo a lungo trascurata, in Giur. cost., 2013, p. 973 s., e F. Della Casa, Il
risarcimento del danno da sovraffollamento carcerario: la competenza appartiene al giudice civile (e non al magistrato di sorveglianza), in
Cass. pen., 2013, p. 2264 ss.
11
La Corte EDU, sez. II, 25 settembre 2014, Rexhepi e altri c. Italia, ric. n. 47180/10, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 7
novembre 2014, con nota di A. Martufi, ha dichiarato irricevibili una serie di ricorsi sollevati per violazione dell’art. 3 Cedu da
alcuni detenuti ristretti nelle carceri italiane, perché non era stata soddisfatta la condizione del previo esaurimento delle vie di
ricorso interne, non essendo stati esperiti i rimedi recentemente introdotti dal legislatore italiano per riparare, in via preventiva
o compensativa, alle violazioni dei diritti fondamentali derivanti da condizioni di sovraffollamento. La sentenza Torreggiani,
cit., richiama, al riguardo, la pronuncia Vernillo c. Francia, 20 febbraio 1991, par. 27, serie A n. 198, e l’arresto Dalia c. Francia, 19
febbraio 1998, par. 38, Recueil 1998-I. La Corte rammenta inoltre che: «49. (…) il Governo, quando eccepisce il mancato esaurimento, esso deve convincere la Corte che il ricorso era effettivo e disponibile sia in teoria che in pratica all’epoca dei fatti, vale a
dire che era accessibile, era in grado di offrire al ricorrente la riparazione delle doglianze e presentava ragionevoli prospettive di
successo (Akdivar e altri c. Turchia, 16 settembre 1996, par. 68, Recueil 1996 IV; e Sejdovic c. Italia [GC], n. 56581/00, par. 46,
CEDU 2006-II».
12
Secondo l’indagine ministeriale, nel 45% dei casi di accoglimento vi è stato anche un ristoro di natura economica.
13
I dati raccolti dal Ministero della giustizia hanno infatti un’estrema variabilità (da 7 a 113 giorni di riduzione della pena
residua ancora da espiare in media per provvedimento), dovuta, peraltro, non all’esercizio della discrezionalità del giudice (il
tasso di riduzione è, infatti, fisso e invariabile nella misura di giorni 1 ogni 10 sofferti in condizioni detentive contrarie all’art. 3
ANALISI E PROSPETTIVE | L’EFFETTIVITÀ DELLA TUTELA RISARCITORIA DELLE CONDIZIONI DETENTIVE CONTRARIE
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Appare, altresì, prematura la stessa valutazione del dato percentuale in sé considerato, atteso che –
come ha insegnato la prima esperienza applicativa del nuovo rimedio risarcitorio – gli adempimenti
istruttori connessi alla decisione nel merito delle istanze sono notevolmente complessi e scontano tempi
assai lunghi (su questo delicato profilo si tornerà però di seguito, con qualche ulteriore notazione): non
può, quindi, affermarsi che la statisticamente trascurabile percentuale di accoglimento dei ricorsi registrata dall’indagine ministeriale si correli necessariamente ad una linea interpretativa particolarmente
rigida della magistratura, laddove è plausibile, invece, che la ricordata, impegnativa tempistica necessaria al completamento dell’istruttoria delle istanze non ritenute prima facie inammissibili abbia influito
significativamente sulla diluizione nel tempo delle decisioni favorevoli ai ricorrenti, riflettendosi poi sul
dato statistico, che si riferisce, appunto, ai primi mesi di vigenza del nuovo rimedio.
Una prassi applicativa contraddistinta, sul piano operativo, da tempi di decisione delle istanze non
ritenute inammissibili proiettati oltre l’orizzonte cronologico considerato dalla rilevazione statistica qui
in esame sembra trovare, del resto, indiretto riscontro in un passaggio del commento alla evocata indagine, ove si puntualizza che: «In base alle osservazioni fornite dagli uffici, infatti, i tempi per arrivare a
decidere le istanze nel merito non sono brevi a causa delle difficoltà che si incontrano nel pianificare le
udienze alla presenza degli istanti, che sono detenuti, e nell’ottenere la dovuta documentazione da parte degli istituti di detenzione chiamati in causa per la violazione dell’art. 3 Cedu. La stessa difficoltà che
molto probabilmente stanno incontrando gli stessi istanti. Sempre gli uffici, infatti, fanno osservare che
la maggior parte delle istanze è stata definita per inammissibilità non in quanto non meritevole di trattazione, ma solo in quanto non opportunamente documentata dai detenuti …».
IL RISCHIO DI INEFFETTIVITÀ DEL RIMEDIO
Sull’altro versante, il dato certamente più rilevante e quello che offre più stimolanti elementi per qualche tentativo di lettura, anche nella cruciale prospettiva diacronica, è rappresentato dalla elevatissima
percentuale di declaratorie di inammissibilità pronunciate dalla magistratura di sorveglianza impegnata dai detenuti con i ricorsi ai sensi dell’art. 35-ter ord. penit.
Anche in questo caso, tuttavia, alla luce dell’esperienza applicativa, il dato apparentemente omogeneo che la rilevazione ministeriale sembra restituire deve essere, in effetti, attentamente ponderato,
proprio in considerazione del fatto che la raccolta dei dati è stata effettuata con riferimento ai primi mesi di applicazione del nuovo strumento risarcitorio e che tale elemento finisce inevitabilmente per
“sporcare” il dato stesso, nel senso che subito si dirà.
Invero, l’altissima percentuale degli esiti di inammissibilità dei ricorsi formulati dai soggetti detenuti
può avere, in linea di ipotesi, molteplici spiegazioni. Una prima ragione di tale fenomeno può, infatti,
ricondursi a scelte interpretative dei magistrati, legate alle difformi letture che, nell’ambito della magistratura di sorveglianza, sono emerse con riferimento alla necessità, o no, ai fini della ammissibilità delle istanze risarcitorie ex art. 35-ter ord. penit., della sussistenza dell’“attualità” del pregiudizio sofferto
da parte del soggetto detenuto, nonché in relazione alla possibilità, o meno, che il nuovo rimedio possa
estendersi anche al danno morale per violazione dell’art. 3 Cedu qualora non più attuale, o comunque
se generatosi anteriormente alla vigenza del d.l. n. 92/2014.
È, infatti, evidente che la tesi c.d. “attualista”, che pare influenzare i primi orientamenti della giurisprudenza di merito, in una con l’esistenza di un indirizzo – confortato da una autorevole opinione dottrinale 14 – che ancor più restrittivamente postula la limitazione dell’esperibilità del ricorso compensativo ai soli danni che si sono verificati successivamente alla data di entrata in vigore dell’art. 35-ter ord.
penit. 15, è suscettibile di circoscrivere fortemente l’area di applicazione dei risarcimenti e, di conserva,
Cedu), quanto all’entità – estremamente variabile per ovvie ragioni – del periodo detentivo oggetto dei singoli ricorsi. A causa,
infatti, dell’assenza nella nuova disciplina di ogni riferimento al dies a quo, a decorrere dal quale valutare la detenzione “utile” ai
fini risarcitori qui in esame, i magistrati di sorveglianza si sono trovati a delibare istanze ex art. 35-ter ord. penit., relative anche
a periodi molto lunghi di detenzione.
14
Cfr. A. Della Bella, Il risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento, cit., par. 8.
15
Cfr. mag. sorv. Alessandria, decr. 31 ottobre 2014, ric. O., est. Vignera, in www.personaedanno.it, ove si afferma, sulla base
della regola generale dettata dall’art. 11 prel., che il rimedio introdotto dall’art. 35-ter ord. penit., non ha effetto retroattivo, e
pertanto non si riferisce ai pregiudizi prodottisi prima del 28 giugno 2014, ai quali si applicherà pertanto la disciplina dell’azio ANALISI E PROSPETTIVE | L’EFFETTIVITÀ DELLA TUTELA RISARCITORIA DELLE CONDIZIONI DETENTIVE CONTRARIE
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la stessa dimensione quantitativa dei medesimi 16.
Una seconda possibile causa del rilevatissimo numero di domande dichiarate inammissibili può, peraltro, rinvenirsi in quelle stesse difficoltà operative emerse in relazione all’istruttoria sulle istanze, che
le cancellerie degli uffici di sorveglianza hanno diffusamente segnalato al Ministero nel trasmettere i
dati statistici richiesti, e che sembra avere inciso anche sulla carente documentazione delle pretese risarcitorie avanzate dai soggetti detenuti. Quest’ultima, infatti – come dichiarato da numerosi uffici – è
la motivazione più frequente alla base delle declaratorie di inammissibilità 17.
Un terzo fattore che potrebbe avere favorito la difettosa formulazione delle domande risarcitorie e il
loro conseguente, infausto esito procedurale potrebbe, infine, ricondursi alla scarsa, o nulla, assistenza
tecnica di cui i detenuti hanno beneficiato in sede di redazione delle istanze. Nella grande maggioranza
dei casi, la prima “ondata” di ricorsi, formulata nell’immediatezza dell’entrata in vigore del d.l. n. 92/
2014, è stata frettolosamente predisposta personalmente dai soggetti interessati, al più valendosi della
modulistica non ufficiale, predisposta da soggetti non tecnicamente attrezzati, che ha indotto spesso errori e – soprattutto – importanti omissioni di elementi che sarebbero stati essenziali ai fini del superamento del filtro di ammissibilità delle istanze.
Non risulta siano state elaborate, allo stato, queries statistiche idonee a scorporare dal dato generale
sugli esiti di inammissibilità quello relativo all’una o all’altra possibile ragione alla base del risultato
stesso, anche se appare significativa la ricordata indicazione, proveniente da molti uffici di sorveglianza, nel senso di avere valutato inammissibili la gran parte delle istanze poiché prive di adeguata documentazione a sostegno delle ragioni veicolate con il nuovo ricorso e non perché in radice manifestamente infondate.
Quello che non sembra revocabile in dubbio, in ogni caso, è il fatto che una percentuale significativa
delle domande di compensazione ex art. 35-ter ord. penit., sono state fermate dal filtro di inammissibilità poiché carenti di documentazione, e dunque non per carenze intrinseche allo strumento normativo
né a ragione di una lettura restrittiva operata dalla giurisprudenza.
Trasposta in chiave diacronica, questa prima e sia pure inevitabilmente approssimata conclusione
può essere utile a supportare una proiezione degli esiti sul piano operativo dell’effettività del rimedio
risarcitorio, che rappresenta il terreno decisivo sul quale si misurerà a breve la “tenuta” dell’istituto di
fronte al vaglio dei delegati europei 18.
Un tale sforzo prognostico, alla luce della possibile e, anzi, probabile multifattorialità alla base
dell’apparente insuccesso pratico del rimedi risarcitorio introdotto con l’art.35-ter ord. penit., conduce
ad una valutazione cautamente positiva, sia pure in una prospettiva di medio periodo.
Va, infatti, anzitutto considerato che la intervenuta declaratoria di inammissibilità di una prima
istanza risarcitoria non preclude affatto all’interessato la riproposizione della medesima, qualora più
adeguatamente documentata e formalizzata, anche alla luce delle guidelines fornite da alcuni uffici di
sorveglianza relativamente al contenuto minimo delle istanze ex art. 35-ter ord. penit. È, quindi, ragionevole prevedere che molte delle domande incorse nella ghigliottina dell’inammissibilità risorgeranno
a breve nella forma di più strutturate istanze che potranno, quindi, essere valutate nel merito, sia pure
scontando i tempi medio-lunghi necessari al perfezionamento dell’istruttoria. In una prospettiva ancora
più ampia, si può ragionevolmente supporre che, a regime, il tasso di inammissibilità dei ricorsi risarcine generale ex art. 2043 c.c. da esercitare innanzi al (“naturale”) giudice civile, il quale ai fini della liquidazione applicherà la disciplina generale ex art. 2056 c.c. (incentrata in subiecta materia sulla valutazione equitativa prevista dall’art.1227 c.c., richiamato
da quest’ultimo: Cass. civ., sez. III, sentenza 13 maggio 2009, n. 11048, in CED Cass.)
16
Si veda in proposito l’analisi di G. Giostra, Un pregiudizio “grave e attuale”?, cit., par. 4.
17
Come nota P.P. Gori, Articolo 3 CEDU e risarcimento da inumana detenzione, in www.questionegiustizia.it, 3 ottobre 2014. «Sul
versante penale, l’art. 666, comma 2, c.p.p., prevede che l’istanza è inammissibile se manifestamente infondata “per difetto delle
condizioni di legge”, pacificamente comprensive non solo dei requisiti formali e processuali necessari per procedere all’esame del
merito, ma anche delle deduzioni minime per consentire di valutare se la domanda è fondata. Non dissimili sono le regole che
presiedono il ricorso civile, ai fini degli artt.737 e ss. c.p.c., in quanto il sistema non prevede che l’onere di allegazione possa essere colmato dal giudice d’ufficio. Per quanto il giudice possa assumere informazioni ex art.738, 3 comma c.p.c., questo è ammissibile solo in presenza di adeguata allegazione dell’istante». In giurisprudenza, cfr. nei medesimi termini, mag. sorv. Novara, ord. 22 settembre 2014, est. Cali, in P.P. Gori, cit.
18
Sul diritto ad un rimedio effettivo come espressione dei principi di sussidiarietà e solidarietà, in dottrina v. S. Bartole, E.
De Sena, V. Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012, p. 476; in giurisprudenza, cfr. Corte EDU, 10 gennaio 2012, Ananyev e altri c. Russia, par. 221.
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tori si potrà allineare a quello fisiologico che caratterizza gli altri istituti del diritto penitenziario, senza,
quindi, rappresentare (più) un dato rilevante ai fini della effettività del rimedio in esame.
In secondo luogo, la rilevata criticità delle procedure correlata alla attuale difficoltà, per le cancellerie degli uffici di sorveglianza, di gestire l’imponente volume di istruttoria necessaria a completare il
corredo del fascicolo di ciascuna istanza dovrebbe, gradatamente e almeno parzialmente, rientrare, sia
perché le nuove domande risarcitorie riproposte dai soggetti detenuti saranno verosimilmente diluite
nel tempo, anche alla luce della migliorata situazione degli istituti di pena sotto il profilo del sovraffollamento; sia per il motivo che le nuove istanze si riferiranno, in percentuale sempre maggiore, a periodi
detentivi recenti, in relazione ai quali è più agevole il reperimento delle informazioni necessarie a definire il procedimento nel merito.
Un contributo decisivo alla ripresa della effettività della risposta statuale alla domanda di giustizia
collegata alla tutela del diritto sancito dall’art. 3 Cedu, potrà, inoltre, venire dal rafforzamento delle risorse di personale, amministrativo di cancelleria degli uffici di sorveglianza, per mettere in grado questi ultimi di svolgere l’attività istruttoria prodromica alla decisione del magistrato in tempi coerenti con
l’esigenza, tante volte ricordata dalla stessa Corte EDU, che la cessazione della situazione di pregiudizio e il relativo risarcimento si realizzino quanto più celermente possibile.
Una grave ipoteca all’effettività del nuovo ricorso risarcitorio va, infine, riconosciuta nella attuale incertezza applicativa derivante dal contrasto giurisprudenziale insorto nella giurisprudenza di merito in
relazione alla necessaria sussistenza, o no, della “attualità” del pregiudizio sofferto dal soggetto detenuto ai fini della ammissibilità del risarcimento stabilito dall’art. 35-ter ord. penit.
Un indirizzo che è emerso nella prima applicazione giurisprudenziale del nuovo rimedio compensativo individua – in forza del rinvio all’art. 69, comma 6, lett. b), ord. penit. – nel requisito dell’“attualità”
del pregiudizio subìto una condizione di ammissibilità della tutela risarcitoria presso il magistrato di
sorveglianza 19. Qualora tale lettura dovesse consolidarsi e, conseguentemente, la maggioranza dei ricorsi formulati innanzi al giudice di sorveglianza dovessero cadere sotto la scure dell’inammissibilità
per difetto del requisito dell’attualità del pregiudizio sofferto, appare concreto il rischio che la Corte di
Strasburgo – anche in seguito alla verifica fissata per il prossimo giugno – possa ritenere non integrato
dal rimedio compensativo introdotto dall’Italia il profilo della effettività della tutela giurisdizionale che
gli Stati devono assicurare per i casi di lesione dei diritti stabiliti dalla Convenzione EDU 20.
LE POSSIBILI SOLUZIONI
Pur considerando il sempre possibile – ma allo stato ancora incerto – affermarsi di un orientamento che
affermi una interpretazione “ortopedica” della disciplina al fine di salvare l’effettività dell’istituto compensativo, “sterilizzando” il dato letterale sopra richiamato 21, l’impasse potrà essere risolta o per via
pretoria, con alcuni leading precedents della Corte di legittimità che affermino una soluzione idonea a
“recuperare”, ai fini che qui rilevano, i periodi detentivi pregressi espiati in condizioni tali da violare
l’art. 3 Cedu, anche qualora l’interessato non soffra più, al momento della proposizione dell’istanza, di
19
V. da ultimo mag. sorv. Roma, ord. 24 novembre 2014, est. Stefanelli, in www.conams.it.
20
La Corte EDU, infatti, «68. (…) se réserve la possibilité d’examiner la cohérence de la jurisprudence des juridictions internes avec sa propre jurisprudence ainsi que l’effectivité des recours tant en théorie qu’en pratique» (Corte EDU, 16 settembre
2014, ric. 49169, Stella e altri c. Italia, in Quotidiano del diritto – 26 settembre 2014; in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 7 novembre 2014, con nota di A. Martufi, e, volendo, in Guida dir., 2014, 42, pp. 97 e ss., con nota di F. Fiorentin, Strasburgo approva le riforme attuate dall’Italia sul piano organizzativo e ordinamentale). La Corte EDU con la recente sentenza 24 novembre 2014, sez. II,
Vasilescu c. Belgique, ha ribadito che: «74. Pour pouvoir être jugé effectif, un recours doit être susceptible de remédier directement à la situation incriminée et présenter des perspectives raisonnables de succès (Balogh c. Hongrie, no 47940/99, par. 30,
20 juillet 2004, et Sejdovic c. Italie [GC], no 56581/00, par. 46, CEDH 2006-II). Cependant, le simple fait de nourrir des doutes
quant aux perspectives de succès d’un recours donné qui n’est pas de toute évidence voué à l’échec ne constitue pas une raison
propre à justifier la non-utilisation du recours en question (Akdivar et autres, précité, par. 71, et Scoppola c. Italie (no 2) [GC], no
10249/03, par. 70, 17 septembre 2009)».
21
Sforzo ermeneutico che deve, peraltro, superare l’inequivoca perimetrazione che il dato letterale contenuto nell’art. 35-ter
ord. penit., pone, limitando espressamente alla “attualità” del pregiudizio sofferto l’area operativa del rimedio compensativo in
esame: un’operazione, si osserva, tanto più ardua quanto più si richiederebbe alla giurisprudenza un’attività sostitutiva e non
meramente interpretativa della voluntas legis (che è altra dalla voluntas legislatoris ...) quale cristallizzata nel dettato normativo.
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condizioni detentive inumane e degradanti; ovvero mediante la rimodulazione del dettato normativo
ad opera della Corte costituzionale o dello stesso legislatore, che intervenissero in senso integrativo/modificativo sull’art. 35-ter ord. penit. 22, riservando a tutti i soggetti che si trovino in esecuzione di
pena al momento della proposizione della domanda, l’applicabilità del rimedio risarcitorio esperibile
presso il magistrato di sorveglianza, espungendo quindi il riferimento all’“attualità” del pregiudizio e
dello status detentionis, e limitando la forma di ristoro pecuniario all’ipotesi, tendenzialmente residuale,
di ricorso al giudice civile da parte di coloro che hanno cessato di espiare la pena, ovvero ai casi di detenzione non computabile ai fini della pena da espiare a titolo definitivo 23.
LA DISCUTIBILE QUANTIFICAZIONE MONETARIA DEL DANNO
Quest’ultimo riferimento impone di accennare, in chiusura, ad un grave profilo di ineffettività del rimedio compensativo in analisi, consistente nella ridottissima entità del ristoro pecuniario stabilita dall’art. 35-ter ord. penit., limitata ex lege – come è noto – alla misura fissa e invariabile di euro 8 per ogni
giorno di pena espiata in condizioni inumane e degradanti (cioè di tortura), non essendo stata coltivata
la proposta formulata dalla Commissione di studio presieduta dal prof. Giostra, istituita presso il Ministero della giustizia, che aveva suggerito di affidare al magistrato di sorveglianza la proposta di un
equo indennizzo a seguito dell’accertamento sommario dell’intervenuta violazione dell’art. 3 Cedu, che
avrebbe precluso, in caso di accettazione da parte del danneggiato, l’azione civile 24.
La quantificazione normativa del danno da violazione dell’art. 3 Cedu si riduce, in effetti, ad una
somma calcolata unicamente in base al mero elemento quantitativo del pregiudizio sofferto, obliterando del tutto altri elementi “individualizzanti” che appaiono essenziali ad una esatta determinazione
dell’entità della lesione nel caso concreto ed alla conseguente quantificazione del ristoro patrimoniale
riconosciuto al soggetto danneggiato in termini di giustizia effettiva, cioè correlata alla gravità oggettiva e soggettiva del danno subìto.
Su tale delicato profilo, la stessa giurisprudenza europea offre una articolata casistica, precisando
che la gravità del danno può dipendere da numerosi fattori, oltre alla durata della detenzione inumana
e degradante e allo spazio vitale assicurato al detenuto 25, quali le possibilità di accesso alla passeggiata
all’aria aperta; la possibilità di utilizzare privatamente i servizi igienici; l’aerazione disponibile nelle
camere di detenzione; l’accesso alla luce e all’aria naturali 26; la qualità del riscaldamento; il rispetto del22
Per una disamina delle soluzioni astrattamente percorribili, si veda G. Giostra, cit., par. 6, e, volendo, F. Fiorentin, I nuovi
rimedi risarcitori, cit., par. 6.
23
In questo senso sembra opinare anche G.L. Malavasi, Nota di commento alle ordinanze dell’ufficio di sorveglianza di Bologna in
ordine alla concessione del rimedio di cui all’art. 35-ter o.p., in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 20 novembre 2014, laddove, nell’evocare una lettura ortopedica dell’art. 35-ter ord. penit., afferma: «Il discrimine dunque per l’interessato tra presentare istanza
dinnanzi al magistrato di sorveglianza ovvero ad agire in sede civile dinnanzi al tribunale ordinario deve rinvenirsi non tanto
nell’attualità del pregiudizio lamentato, quanto nell’attualità della espiazione della pena; conseguentemente se l’interessato si
trova ristretto in carcere – anche se il pregiudizio subito non è più attuale – il detenuto potrà azionare il rimedio compensativo
al magistrato di sorveglianza» .
24
Cfr. Ministero della giustizia, Ufficio Legislativo, Commissione di studio in tema di ordinamento penitenziario e misure
alternative alla detenzione, Documento conclusivo, in www.dirittopenalecontemporaneo.it. Sui lavori della Commissione, v. anche
G. Giostra, Sovraffollamento delle carceri: una proposta per affrontare l’emergenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 55 ss. Come osserva
esattamente M. Montagna, Torreggiani e rimedi compensativi: prospettive de jure condendo, in Arch. pen., 2014, 2, pp. 240 e ss., ove si
fosse accolta la proposta della Commissione “Giostra” «(…) la diversa natura del compenso di carattere economico e il diverso
tipo di accertamento ben si conciliano con un intervento del magistrato di sorveglianza strutturato in termini procedurali tali da
consentire, da un lato, l’estensione del contraddittorio sino a includere anche la partecipazione dell’amministrazione penitenziaria, dall’altro lato, tempi rapidi di accertamento e di definizione della re judicanda» osservando ancora che «la soluzione così
prospettata avrebbe l’indubbio vantaggio di inserire nel tessuto normativo un rimedio compensativo connotato dalla snellezza
procedurale e di facile accesso al detenuto».
25
Sulle problematiche relative al c.d. “spazio detentivo minimo”, esorbitanti l’ambito del presente scritto, si rinvia al recente
contributo di A. Albano e F. Picozzi, Non serve negare il “pluralismo interpretativo” in tema di superficie intramuraria, nota a ord.
mag. sorv. Padova 13 novembre 2014, est. Bortolato, in www.personaedanno.it, e, degli stessi AA., Considerazioni sui criteri di calcolo dello spazio detentivo minimo, in Cass. pen., 2014, m. 7/8.
26
Corte EDU, 9 ottobre 2008, n. 62936/00, Moisseiev c. Russia; sent. Vlassov c. Russia, 12 giugno 2008, n. 78146/01, par. 84;
sent. Babouchkine c. Russia, 18 ottobre 2007, n. 67253/01, par. 44.
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le esigenze sanitarie di base; la possibilità di svolgere, durante il giorno, attività trattamentali all’esterno
della camera di detenzione; la possibilità di fruire di regimi penitenziari attenuati; le condizioni mentali
e fisiche del detenuto 27; il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima 28.
In altri termini, può fondatamente dubitarsi in dubbio, non solo che la quantificazione su 8 euro/
giorno – risultante del compromesso tra le prescrizioni di matrice europea e la drammatica situazione
del bilancio nazionale – possa trovare copertura nella pur ampia discrezionalità del legislatore nello
strutturare la disciplina del rimedio compensativo in esame 29, stante l’eclatante esiguità della medesima; ma anche – ed è quest’ultimo il profilo che sembra porsi in più evidente contrasto con importanti
parametri costituzionali (art. 3 e 24, Cost.) – che tale quantificazione sia compatibile con gli appena evocati principi fondamentali, stante la rozzezza tecnica e culturale con la quale si è esclusa in radice la
possibilità che il giudice possa dosare il quantum del risarcimento sulla base delle peculiarità del caso
concreto.
È, infatti, tutta evidenza che una valutazione “giusta” del pregiudizio subìto dal danneggiato non
può prescindere dall’apprezzamento, ai fini del dimensionamento della sofferenza morale patita, della
condizione fisica, l’età, il sesso della vittima (essendo intuibile quale differente grado di sopportazione
delle condizioni detentive inumane e degradanti contraddistingua, a es., la posizione di un detenuto
anziano e malato rispetto a quella di un giovane nel pieno delle proprie forze) e – più in generale – di
tutti quegli elementi individualizzanti, sopra richiamati, che concorrono a definire la gravità del pregiudizio sofferto dalla vittima dell’illecito 30.
Non è, quindi, affatto da escludere che, su questo fronte, si faccia attendere ancora a lungo una questione di costituzionalità della disciplina risarcitoria introdotta con il d.l. n. 92/2014 31.
27
Corte EDU, 19 luglio 2007, Trepachkine c. Russia, n. 36898/03, par.92;
28
Corte EDU, Price c. Regno Unito, n. 33394/96, par. 24; Corte EDU, Mouisel c. Francia, n. 67263/01, par. 37, CEDU 2002-IX;
Corte EDU, 10 febbraio 2004, Gennadi Naoumenko c. Ucraina, n. 42023/98, par. 108.
29
Corte EDU, 16 settembre 2014, Stella e al. c. Italia, ric. 49169, cit.: «61. (…) Ainsi, la Cour peut parfaitement accepter qu’un
État qui s’est doté de différents recours et dont les décisions conformes à la tradition juridique et au niveau de vie du pays sont
rapides, motivées et exécutées avec célérité, accorde des sommes qui, tout en étant inférieures à celles fixées par la Cour, ne sont
pas déraisonnables (idem, par. 96).» e più oltre: «Pour ce qui est de la compensation pécuniaire, … la Cour rappelle que lorsqu’un État a fait un pas significatif en introduisant un recours indemnitaire pour réparer une violation de la Convention, elle se
doit de lui laisser une plus grande marge d’appréciation pour qu’il puisse organiser ce recours interne de façon cohérente avec
son propre système juridique et ses traditions, en conformité avec le niveau de vie du pays (…) 62. En l’espèce, le montant de
l’indemnisation prévue par le droit interne ne saurait être considéré comme déraisonnable, même s’il est inférieur à celui fixé
par la Cour, et priver ainsi le recours instauré par l’État défendeur de son effectivité».
30
Nell’attesa dell’introduzione del “rimedio compensativo” prescritto dalla sentenza Torreggiani, una dottrina immaginava
che lo strumento risarcitorio avrebbe dovuto «(…) tener conto del tipo di privazioni che il detenuto ha subito a causa del sovraffollamento, valutando nel complesso le condizioni di vita all’interno dell’istituto ed anche quanto tempo questi abbia trascorso
in tali condizioni. È evidente che andrebbero stabiliti per legge i parametri su cui fondare tale giudizio, nel fondamentale rispetto del principio di legalità e di uguaglianza, cui deve informarsi tutto il sistema penale, anche nella fase della esecuzione.» (A.
De Rubeis, Quali rimedi per riparare alla detenzione in condizioni disumane e degradanti?, in Arch. pen., 2014, 2, p. 97).
31
La proposta di riconoscere al soggetto danneggiato un “equo indennizzo” ad opera del magistrato di sorveglianza, formulata da G. Giostra, Sovraffollamento delle carceri: una proposta per affrontare l’emergenza, cit., par. 7, sembra sottendere analoghi
dubbi di costituzionalità della disciplina attualmente vigente sotto il profilo della quantificazione del risarcimento del pregiudizio da detenzione inumana.
ANALISI E PROSPETTIVE | L’EFFETTIVITÀ DELLA TUTELA RISARCITORIA DELLE CONDIZIONI DETENTIVE CONTRARIE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
158
RAFFAELE MUZZICA
Dottorando di ricerca in “Sovranità e giurisdizione nella storia, nel teoria e nel diritto contemporaneo” – Università degli studi di Napoli “Federico II”
La sospensione del processo con messa alla prova
per gli adulti: un primo passo verso un modello
di giustizia riparativa?
Probation for adult offenders: the first step towards
Restorative Justice?
La giustizia riparativa, quale ideale che valorizza il ruolo della vittima, l’autoresponsabilizzazione delle parti e la gestione condivisa del conflitto, rappresenta un modello potenzialmente idoneo a coniugare l’effettività del controllo
penale con la funzione risocializzante della pena. Ciò nonostante, gli attuali istituti dell’ordinamento penale, a torto
o a ragione ricollegati all’ideale riparativo, non sembrano realizzare sufficientemente i principi enucleati dalla Restorative Justice. La recente l. 28 aprile 2014 n.67, introducendo una nuova forma di sospensione del processo
con messa alla prova, destinata ad adulti imputati di reati di gravità medio – bassa, offre un interessante spunto di
analisi sulla effettiva e concreta compatibilità del nuovo istituto, a metà tra causa estintiva del reato e rito premiale, con i dettami della giustizia riparativa, a prescindere dagli obiettivi di recupero sociale e deflazione processuale
ventilati dalla riforma.
Restorative Justice involves victims, offenders and community in managing social conflicts underneath crimes.
Restorative processes seem to pursue efficacy and rehabilitation as remarkable aims of criminal law. However,
Italian criminal law has not yet realized Restorative Justice principles (victim empowerment, offender selfresponsibility, role of community) thoroughly enough. The kind of probation recently enacted by Italian Parliament
(l. 28 April 2014 n.67) for adult offenders who perpetrate mean-low gravity offenses leads to investigate Restorative Justice and Italian criminal law relationships. The aim of the paper is to examine whether such probation can
be considered a Restorative process and if it can lead to social rehabilitation and trial diversion.
UN DIVERSO MODELLO DI GESTIONE DEL CONFLITTO: LUCI E OMBRE DELL’IDEALE DI GIUSTIZIA RIPARATIVA
L’ideale di giustizia riparativa (Restorative Justice) rappresenta un modello attraverso il quale la vittima,
il reo e la comunità ricercano soluzioni ad un conflitto interindividuale e sociale, tramite la riparazione
del danno, la riconciliazione tra le parti e il ristabilimento dell’ordine sociale 1.
La Restorative Justice rappresenta il punto di incontro di tendenze, per lo più di origine anglosassone,
che valorizzano i profili di personalità sia della vittima 2 che del reo, nonché il coinvolgimento della
1
J. Braithwaite, Setting Standards for restorative justice, in British Journal of Criminology, 2002, 42, p. 563 s.; J. Braithwaite, Restorative justice: Assessing Optimistic and Pessimistic Accounts, Crime and Justice, 25, 1999, p. 1 ss.; J. Braithwaite, Crime, Shame and
Reintegration, Cambridge, 1989; N. Christie, Conflicts as property, in British Journal of Criminology, 1977, 17, p. 1 s.; R. Zehr, Changing Lenses: A New Focus for Crime and Justice, Scottdale, 1990; M. Colamussi-A. Mestitz, Giustizia riparativa, in Dig. pen., V, Torino,
2010, p. 423.
2
Ne sono un esempio i restitution movements diffusi negli USA alla fine degli anni Sessanta. Cfr. G. Mannozzi, La giustizia
senza spada: uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano, 2003, p. 73 s. Cfr. M. Del Tufo, Vittima del reato,
ANALISI E PROSPETTIVE | LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA PER GLI ADULTI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
159
comunità, quale insieme di individui legati dal riconoscimento reciproco di norme, con funzione di
agenzia di controllo sociale dei conflitti, secondo i dettami della cosiddetta community justice 3.
Dopo un periodo di declino a causa dei processi di pubblicizzazione del concetto di reato, inteso
come offesa alla sovranità terrena o divina piuttosto che come frattura del tessuto sociale fra reo e vittima 4, nell’ultimo ventennio del secolo scorso la giustizia riparativa è ritornata nuovamente oggetto di
interesse, applicativo prima che teorico, dapprima in ambito criminologico, poi, più di recente, anche in
ambito giuridico 5 e sovranazionale 6.
Sia organismi internazionali, come l’International Scientific and Professionale Advisory Council (ISPAC) 7,
che la prassi hanno ormai delineato vere e proprie forme paradigmatiche di processi riparativi, ognuno
con le sue peculiarità, come la Victim-Offender Mediation 8, il Family Group Conferencing 9, il Sentencing
Circle 10, e i Compensation/Restitution programs 11.
Nonostante la contraddizione apparentemente insanabile tra l’autoritatività del diritto penale e la
gestione mite 12 e flessibile 13 del conflitto, tipica della giustizia riparativa, il riconoscimento del ruolo
della vittima, l’autoresponsabilizzazione delle parti, la condivisione del conflitto all’interno della comunità sembrano obiettivi pienamente compatibili con una funzione ex art. 27 Cost. di integrazione sociale 14 della pena, che veicoli le componenti positive della prevenzione speciale e generale attraverso
un’offerta di risocializzazione non desocializzante nei confronti del reo e la coesione di consenso della
in Enc. dir., XLVI, 1993, p. 996; M. Del Tufo, La tutela della vittima in una prospettiva europea, in Dir. pen. proc., 1999, p. 890 s. Nella
letteratura criminologica, cfr. R.I. Mawby-S. Walklate, Critical Victimology, London-Thousands Oaks-New Delhi, 1994.
3
L. Kurki, Restorative and Community Justice in the United States, Crime and Justice, 27, 2000, p. 235 ss.; G. Mannozzi, op. cit., p. 70.
4
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. A. Tarchetti, Milano, 2005.
5
F. Reggio, Giustizia dialogica. Luci e ombre della Restorative justice, Milano, 2010; G. Daraio, Il “principio riparativo” quale paradigma di gestione del conflitto generato dal reato: applicazioni e prospettive, in Dir. pen. proc., 2013, 3, p. 357 s.; G. Mannozzi, op. cit.; M.
Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice?, in Questione giustizia, 1995, 4, p. 886 s.; M. Bouchard-G. Mierolo, Offesa e riparazione. Per una nuova giustizia attraverso la mediazione, Milano, 2005; G. Tramontano, Mediazione e diritto penale, in
Riv. pen., 2011, 3, p. 255 s.; C. Mazzuccato, Scenari giuridici per le pratiche di mediazione e giustizia riparativa in ambito penale
nell’ordinamento vigente, in Dignitas, 2003, 2, p. 61 s.
6
Dichiarazione di Vienna del X Congresso internazionale ONU, Crime Prevention and Criminal Justice, 10-17 aprile 2000, in
http://giustiziariparativa.net; Consiglio d’Europa (2006), Reccommendation R. (2006)8 of the Committee of Ministers to Member States
on assistance to crime victims sull’assistenza alle vittime dei reati, in eur-lex.europa.eu; Consiglio d’Europa (1999), Recommandation n.
R(99)19 adoptée par le Comité des Ministres du Conseil de l’Europe sur la Médiation en matière pénale, in eur-lex.europa.eu; Direttiva
2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI, in eur-lex.europa.eu.
7
ISPAC, An Overview of Restorative Justice Programmes and Issues, in Tenth United National Congress on the Prevention of Crime
and Treatment of Offenders, in http://www.restorativejustice.org.uk/assets/_ugc/fetch.php?file=ga74_united_nations_backs_restorative_ju
stice.pdf.
8
Per Victim-Offender Mediation si intende un processo informale in cui l’autore e la vittima di un reato, sotto la guida di un
mediatore, discutono del fatto criminoso e dei suoi effetti sulla vita e sulle relazioni sociali della vittima, provvedendo se del
caso ad un accordo riparativo. Per un esaustivo quadro sulle caratteristiche della mediazione penale e della sua diffusione sia
nell’Europa continentale che nei Paesi anglosassoni, cfr. G. Mannozzi, op. cit., p. 159 s.; G. Mannozzi, L’oggetto della mediazione:
conflitto, fatto o reato?, in Dignitas, 2005, 7, p. 61 s.; L. Eusebi, Dibattiti su teorie della pena e mediazione, in L. Picotti (a cura di), La
mediazione nel sistema penale minorile, Padova, 1998, p. 61 s.
9
Il Family Group Conferencing è una forma di mediazione estesa non solo ai soggetti direttamente coinvolti dalla commissione di un reato, ma anche ai familiari delle parti in conflitto e ad alcuni componenti fondamentali delle rispettive comunità di
appartenenza, al fine di decidere collettivamente come gestire la soluzione del conflitto. G. Mannozzi, op. cit., p. 151.
10
I sentencing circles o peacemaking circles consistono in una partnership delle comunità nella gestione della commisurazione
della pena in senso lato, con cui si cerca di raggiungere un accordo su un programma sanzionatorio a contenuto riparativo che
tenga conto dei bisogni di tutte le parti attinte dal conflitto. Cfr. R. B. Coates-B. Vos-M. S. Umbreit, Restorative Justice Circles: An
Exploratory Study, in Contemporary Justice Review, 2003, 6(3), p. 265 s.; B. Stuart, Circle sentencing in Canada: A partnership of the
community and the criminal justice system, in International Journal of Comparative and Applied Criminal Justice, 1996, 20(2), p. 291 s.
11
I Compensation programs sono programmi di compensazione dei danni da reato predisposti esclusivamente dallo Stato nei
confronti della vittima; i restitution programs sono invece a carico del reo. G. Mannozzi, op. cit., p. 128.
12
G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992.
13
S. Aleo, Il diritto flessibile, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2004, 2, p. 1 s.
14
S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992; S. Moccia, Mediazione,
funzioni della pena e principi del processo, Critica del Diritto, 4, 2004, p. 344 ss.; L. Eusebi, Dibattiti su teorie della pena e mediazione, in
Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 813 s.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA PER GLI ADULTI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
160
comunità intorno ai valori dell’ordinamento tutelati dalle norme penali. La giustizia riparativa, dunque, potrebbe fornire una rinnovata legittimazione al diritto penale nelle complesse società postmoderne 15, in cui, coesistendo assetti valoriali profondamente diversi, le modalità di gestione del conflitto
rappresentano un tratto ineludibile.
D’altra parte, oltre ad essere più funzionali al concetto di integrazione sociale, i processi di giustizia
riparativa tendono ad essere più efficaci rispetto alla giustizia tradizionale, come dimostrato dall’analisi
criminologica condotta nei Paesi di più risalente tradizione riparativa: il tasso di recidiva di chi si sottopone ai processi riparativi è generalmente inferiore, o quanto meno non superiore, rispetto a quello
prodotto dalla giustizia tradizionale; le vittime hanno un grado di soddisfazione maggiore, durante e
dopo i processi riparativi, rispetto a quello connesso alla giustizia tradizionale 16.
Pur tenendo presente i molteplici fattori esogeni che possono inficiare l’utilizzabilità del dato statistico, non ultimo il contesto macrosociale e ordinamentale notevolmente diverso da quello italiano, è
ragionevole ipotizzare che la giustizia riparativa possa essere connotata da una maggiore effettività rispetto alla giustizia tradizionale anche nel sistema italiano. Costituisce indice di ciò l’analogia con le
misure alternative alla detenzione, in primis l’affidamento in prova al servizio sociale, che rappresenta
attualmente quanto di più comparabile con l’introduzione di procedure riparative nel sistema penale
italiano 17.
Tuttavia, nonostante gli aspetti positivi, la giustizia riparativa presenta altresì molte ombre: da un lato, pur rappresentando un interessante modulo operativo di gestione del conflitto, è del tutto carente di
funzione critica nei confronti dell’ordinamento esistente; dall’altro, l’accoglimento di un simile ideale di
giustizia in un’ottica completamente sostitutiva del diritto penale neutralizzerebbe l’invasività della
sanzione criminale, ma comporterebbe altresì il rischio di sanzioni informali, parimenti afflittive ma
sprovviste delle garanzie tipiche dello strumento penale 18.
D’altronde, secondo i loro detrattori, le soluzioni di giustizia riparativa, a maggior ragione nell’ambito di un controllo para-penale, potrebbero restringere l’ambito di libertà dei cittadini, attraverso il net
– widening effect 19, intervenendo anche in casi in cui non si sarebbe giunti al processo o non sarebbe stata applicata alcuna sanzione significativamente incisiva.
Infine, un approccio riparativo potrebbe indurre ad una eccessiva pecuniarizzazione della reazione
punitiva, trasformando la sanzione in un costo indiretto per i più abbienti e in uno strumento scarsa15
C. Sotis, Le regole dell’incoerenza-Pluralismo normativo e crisi postmoderna del diritto penale, Roma, 2012.
16
G. Robinson-J. Shapland, Reducing recidivism. A task for restorative justice?, in British Journal of Criminology, 2008, 48, p. 337 s.
Cfr. inoltre J. Latimer-C. Dowden-D. Muise, The Effectiveness of Restorative Justice Practices: a Meta-Analysis, in The Prison Journal,
2005, 85, p. 127 s. per una analisi dell’effettività dei processi di giustizia riparativa in Canada, in cui tali modelli sono maggiormente diffusi. Nonostante gli studi siano piuttosto concordi nel ritenere le forme di giustizia riparativa maggiormente efficaci
della giustizia tradizionale, il fenomeno di “self-selection”, spesso correlato ai processi riparativi come diretta conseguenza della
loro necessaria consensualità, incide sull’analisi: infatti il campione statistico di coloro che acconsentono a soluzioni riparative
potrebbe già presentare in nuce fattori che depongono per una minore possibilità di recidiva degli autori e una maggiore predisposizione delle vittime a soluzioni conciliative.
17
Secondo i dati del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, le percentuali di revoca degli affidamenti in prova tra
il 1999 e il 2005 oscillavano intorno al 5%, con un minimo di 4,32% nel 1999 e un massimo di 5,33% del 2005. Nel periodo 20012008 le revoche hanno interessato il 6,67% di tutte le misure alternative concesse, quindi nel 93% dei casi hanno avuto esito positivo. Nel 2013 il tasso totale di revoca ha raggiunto il 6,60%, di cui 3,27% per andamento negativo e 0,92% per reati commessi
durante la misura. Considerando che non tutte le revoche sono dipese da comportamenti recidivanti, il tasso sembra del tutto
fisiologico. Inoltre, la percentuale di recidiva tra coloro che hanno beneficiato dell’affidamento in prova al servizio sociale (19%)
è risultata notevolmente inferiore rispetto a quella dei soggetti sottoposti all’esecuzione carceraria (68%). Cfr. F. Leonardi, Le
misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva, in Rass. penit. criminol., 2007, 2, p. 7 ss.; F. Leonardi, Tossicodipendenza e alternative alla detenzione: il rischio di recidiva tra gli affidati in prova al servizio sociale, in Rass. penit. criminol., 2009, 1, p. 5 s.
18
La sostituzione del diritto penale classico con forme di giustizia riparativa incorrerebbe nelle critiche già mosse contro le
teorie dell’abolizionismo penale, con cui la giustizia riparativa condivide più di un legame teorico e pratico. A. Baratta, Principi
del diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come oggetti e limiti della l. penale, in A. Baratta (a cura di), Il diritto penale
minimo. La questione criminale tra riduzionismo e abolizionismo, Napoli, 1985; L. Ferrajoli, Il diritto penale minimo, in A. Baratta (a cura di), Il diritto penale minimo. La questione criminale tra riduzionismo e abolizionismo, Napoli, 1985; M. Pavarini, Il sistema della giustizia penale tra riduzionismo e abolizionismo, in A. Baratta (a cura di), Il diritto penale minimo. La questione criminale tra riduzionismo e
abolizionismo, Napoli, 1985.
19
A. Rizzo, Il risarcimento del danno come possibile risposta penale?, in Dir. pen. proc., 1997, p. 1171 s; S. Tigano, Giustizia riparativa e mediazione penale, in Rass. penit. criminol., 2006, 2, p. 29 s.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA PER GLI ADULTI
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161
mente efficace per i nullatenenti, con conseguente connotazione classista della giustizia riparativa
(bifurcation) 20.
Ferme restando le problematiche sopra accennate, che non possono certamente trovare soluzioni generali ma devono essere risolte all’interno dei singoli istituti riparativi, la giustizia riparativa, con la sua
predisposizione a coniugare effettività del controllo e integrazione sociale, sembra comunque un modello da esplorare in un’epoca di profonda crisi esistenziale del diritto penale 21: ciò nonostante risulta
però imprescindibile adottarne una accezione conforme ai principi fondamentali di un diritto penale da
Stato sociale di diritto.
In tal senso, le uniche forme compatibili di giustizia riparativa sono quelle volte ad ottenere una rinnovata accettazione delle regole di convivenza civile e non una coazione all’intimo pentimento morale.
L’intero assetto dei principi costituzionali impone di valorizzare una possibile offerta di riconciliazione
del conflitto, senza imporla coattivamente, né al reo né alla vittima.
La forte impronta legalitaria desunta dalla Costituzione impone, inoltre, una concezione di giustizia
riparativa formalizzata ed endosistematica, quale alternativa alla pena piuttosto che al controllo penale:
d’altro canto, istituzionalizzare la giustizia riparativa tramite degli standard formali 22 la sottrae alle accuse, poco confacenti ad uno Stato sociale di diritto, di evanescenza e di totale privatizzazione del conflitto.
GIUSTIZIA RIPARATIVA E DIRITTO PENALE ITALIANO: UN RAPPORTO ANCORA AGLI ALBORI
L’ordinamento italiano sconta un notevole ritardo nella diffusione di procedure di giustizia riparativa,
sia in ambito extrapenale sia, a maggior ragione, in ambito penale. Tuttavia, alcuni istituti sono generalmente considerati una concretizzazione dell’ideale riparativo 23, con esiti spesso poco felici o del tutto
insussistenti.
Le particolari esigenze di tutela della personalità in fieri del minore rendono la giustizia minorile,
pressoché in tutti i Paesi occidentali, luogo elettivo delle forme di giustizia riparativa 24. Tra gli strumenti che il giudice penale minorile può adoperare, la mediazione risponde alla logica di conciliare
l’istanza di visibilità della vittima (alla quale è negata, in quel rito, la facoltà di costituirsi parte civile)
20
A. Rizzo, op. cit., p. 1173.
21
G. Fiandaca-E. Musco, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 36 s.; A. Nappi, La crisi del
sistema delle sanzioni penali, Napoli, 2010.
22
A. Ashworth, Responsibilities, rights and restorative justice, in Brit. J. Criminol., 2002, 42, p. 578 s.; J. Braithwaite, Setting Standards for restorative justice, in Brit. J. Criminol., 2002, 42, p. 563 s.; H.P. Robinson, The Virtues of Restorative Processes, the Vices of “Restorative Justice, in Utah Law Review, 2003, 1, p. 375 s.; A. Von Hirsch, Restorative Justice and Criminal Justice: competing or reconcilable paradigms?, Oxford, 2003.
23
È opportuno discernere tra istituti lato sensu riparativi e istituti in cui la riparazione delle conseguenze del reato viene funzionalizzata a scopi ulteriori di politica criminale. Un istituto restorative non può prescindere, contestualmente, da una netta valorizzazione del ruolo della vittima (victim empowerment), dal coinvolgimento attivo della comunità di appartenenza del reo e/o della vittima e dal comportamento volontario del reo espressivo di una rimarginazione del conflitto e, dunque, di integrazione sociale. Pertanto, non possono considerarsi istituti neanche lato sensu riparativi quelli nei quali la mera riparazione è valorizzata a prescindere
dal comportamento della vittima, come l’art. 62 n. 6 c.p., in relazione al quale la Corte costituzionale, con sent. 23 aprile 1998 n. 138,
ritenne che «la pretesa che nel riconoscimento dell’attenuante debba aversi riguardo al pentimento del reo, desunto dal sacrificio patrimoniale a
cui si sottopone personalmente come indice di diminuita capacità a delinquere, sospingerebbe l’obbligazione verso la finalità rieducatrice che è
propria della pena. Ma non è questo il fine dell’obbligazione risarcitoria che incombe sull’autore del reato: nel sistema del codice penale tale obbligazione ha natura civilistica ed è dotata di una finalità di emenda non maggiore di quanta non ne possieda la generalità delle obbligazioni civili
nascenti da fatto illecito.» La Corte riconobbe natura oggettiva all’attenuante, ammettendone l’applicabilità anche quando il ristoro
della vittima fosse avvenuto ad opera della compagnia assicurativa dell’imputato. In realtà, nonostante la Corte incentri la ratio della circostanza sul ristoro della vittima, tale istituto è da espungere dal novero di quelli lato sensu riparativi proprio perché il ruolo
della persona offesa è del tutto irrilevante. Per ragioni analoghe, nonostante sia presente un aspetto riparativo, non possono considerarsi espressione di Restorative Justice l’oblazione che, oltre ad avere ad oggetto anche cosiddetti “reati senza vittima”, ha come
discutibile ratio è quella di una depenalizzazione in concreto di fattispecie di scarsa gravità, né gli svariati istituti della legislazione
speciale, in cui vengono valorizzate, al fine di escludere la punibilità, condotte controffensive che controbilanciano e reintegrano
l’offesa al bene giuridico, ma non presentano alcunché di paragonabile al più nobile scopo della riconciliazione perseguito dalla
Restorative Justice. Cfr. G. Amarelli, Le ipotesi estintive delle contravvenzioni in materia di sicurezza del lavoro, Napoli, 2008.
24
S. Tigano, op. cit., p. 43 s.; G. Mannozzi, op. cit., p.245 ss.; C. Mazzuccato, La mediazione nel sistema penale minorile, in B. Barbero Avanzini (a cura di), Minori, giustizia penale e intervento dei servizi, Milano, 1998, p. 117 ss.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA PER GLI ADULTI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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con quella di responsabilizzazione del minore. In fase processuale il giudice può ex art. 28, d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448 prescrivere esplicitamente che il minore si adoperi al fine di riconciliarsi con la persona offesa e cerchi di riparare le conseguenze del reato durante la sospensione del processo con messa
alla prova, la quale, in caso di esito positivo, estingue il reato e tutti gli effetti penali connessi.
Nonostante l’esplicito favore normativo, la prassi fa registrare una certa diffidenza verso prescrizioni a carattere riparativo nella sospensione del processo 25. I problemi, come è stato opportunamente sottolineato dalla dottrina 26, riguardano essenzialmente il consenso delle parti alla mediazione e la valutazione della mediazione stessa.
La mediazione, per sua stessa natura, necessita di una mutuo consenso delle parti: invece il legislatore ha rimesso unicamente al giudice la decisione circa l’opportunità di sospendere il processo, prescrivendo soltanto che tale decisione sia adottata sentite le parti; ciò apre la strada a possibili strumentalizzazioni utilitaristiche sia da parte del minore che della vittima, oltre che a rischi di vittimizzazione secondaria, potendo la persona offesa sentirsi in qualche modo costretta a mediare per non avvertire la
responsabilità della sorte giudiziaria del minore.
Per quanto concerne la valutazione dell’esito della mediazione questo, se positivo, non crea particolari problemi, consentendo la dichiarazione di estinzione del reato; al contrario, un eventuale esito negativo crea disfunzioni dal punto di vista processuale poiché, secondo un orientamento avallato anche
dalla Corte Costituzionale 27, per poter addivenire alla sospensione del processo con messa alla prova si
ritiene necessario un preconvincimento del giudice circa la responsabilità dell’imputato, con conseguenti frizioni con la presunzione di innocenza ed il diritto di difesa.
Tali disfunzioni, in uno con i cronici deficit economici e strutturali, contribuiscono a spiegare la scarsa rilevanza pratica dell’istituto nel processo minorile e, allo stesso tempo, la sua incoerenza con un
concetto di giustizia riparativa costituzionalmente compatibile.
Un ulteriore settore in cui la giustizia riparativa è stata sperimentata è quello del processo davanti al
giudice di pace (d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274), vero e proprio microsistema sanzionatorio esplicitamente
ispirato alla soluzione stragiudiziale dei conflitti ed alla riparazione del danno 28: l’art. 29, d.lgs. 274/2000
prevede la possibilità di una mediazione tra le parti promossa dal giudice o, su sua delega, da mediatori specializzati, quando il reato è perseguibile a querela. Anche la causa di estinzione del reato tramite
condotte riparatorie (art. 35, d.lgs. 274/2000) sembra riconducibile, prima facie, al paradigma riparativo:
il giudice di pace, sentite le parti e l’eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato
quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione
del danno cagionato dal reato mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, purché la riparazione sia idonea a soddisfare le esigenze di riprovazione e di prevenzione del reato.
Tuttavia, anche tali istituti presentano delle discrasie rispetto ai canoni della giustizia riparativa, oltre ad una scarsissima rilevanza pratica: la mediazione nell’economia della l. citata è costretta a svolgere
un ruolo deflattivo per illeciti bagatellari, in comune con la procedibilità a querela, che non le si attaglia
affatto, data la sua intrinseca onerosità sia dal punto di vista economico che sociale. L’art. 35, d.lgs. n.
274/2000 subordina l’efficacia estintiva del risarcimento ad una verifica discrezionale del giudice, basa25
G. Mannozzi, op. cit., p. 268; A. Mestiz-M. Colamussi, Messa alla prova e “restorative justice”, in Minori giustizia, 2000, 2, p.
223 s.
26
G. Mannozzi, op. cit., p. 271 ss.; per maggiori dettagli sulla mediazione nel processo minorile, cfr. L. Picotti (a cura di), La
mediazione nel sistema penale minorile, Padova, 1998.
27
C. cost., sent. 14 aprile 1995, n. 125, in www.giurcost.org/decisioni/1995. La Corte, sancendo l’illegittimità costituzionale
dell’art. 28, comma 4, del d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448, che precludeva l’accesso alla messa alla prova dell’imputato che avesse chiesto il giudizio abbreviato o il giudizio immediato, statuì che l’impugnazione per cassazione proponibile dall’imputato e
dal suo difensore avverso l’ordinanza dispositiva della messa alla prova poteva investire tutti i possibili vizi di legittimità o di
motivazione dell’ordinanza, il più significativo dei quali doveva essere individuato nel difetto di «un giudizio di responsabilità
penale che si sia formato nel giudice», giudizio che veniva qualificato come “presupposto concettuale essenziale” del provvedimento, la
cui carenza avrebbe imposto il proscioglimento.
28
O. Murro, Le condotte riparatorie e il giudice di pace. Una soluzione alternativa delle controversie penali?, in Dir. pen. proc., 2011,
12, p. 1521 s.; G. Mannozzi, op. cit., p. 314 s.; P. Grillo, Gli spazi operativi della mediazione penale nel procedimento davanti al giudice di
pace e al tribunale in composizione monocratica, in Giur. di Merito, 2013, 1, p. 6 s.; C. Mazzuccato, La giustizia penale in cerca di umanità. Su alcuni intrecci teoricopratici fra sistema del giudice di pace e programmi di giustizia riparativa, in L. Picotti-G. Spangher (a cura
di), Contenuti e limiti della discrezionalità del giudice di pace in materia penale, Milano, 2005, p. 139 s.
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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ta sul soddisfacimento di “esigenze di riprovazione e prevenzione” le quali, oltre a non essere agevolmente provabili né facilmente definibili sotto il profilo interpretativo, rappresentano una clausola generale potenzialmente distonica rispetto ai fini della giustizia riparativa; in secondo luogo, la vittima non
è minimamente coinvolta nel subprocedimento, se non con un formale diritto ad essere ascoltata prima
della dichiarazione di estinzione del reato, senza che però le sue eventuali osservazioni vincolino in alcun modo il giudice. L’istituto viene così a delineare un momento di “autentica discrezionalità dell’organo giudicante” 29, che potrà ritenere non soddisfatte le esigenze di prevenzione e di riprovazione pur
in presenza di un accordo transattivo tra persona offesa e reo, così come potrà dichiarare estinto il reato
anche in presenza di un rifiuto esplicito della vittima 30. Quanto detto, insieme con le scarse risorse investite, contribuisce a spiegare la scarsissima rilevanza pratica dell’istituto 31.
I tentativi di attuazione della giustizia riparativa nell’ordinamento italiano sembrano dunque funzionali ad una concezione gradualista dell’intervento penale 32 e ad una diversion processuale o dibattimentale: ne deriva una tendenza legislativa ad escludere i reati di forte impatto sociale dai processi riparativi, poiché la decriminalizzazione o depenalizzazione in concreto di tali fattispecie potrebbe acuire
l’allarme sociale anziché sedarlo 33. In un’accezione di sussidiarietà interna, che impone di valorizzare
strumenti di minor sacrificio per la libertà personale anche all’interno dell’opzione penale, spesso la
giustizia tradizionale tende a fungere da extrema ratio nel caso di fallimento di istituti riparativi (es. esito
negativo della probation minorile).
A prescindere dai sottosistemi del giudizio bagatellare e del processo minorile, ulteriori punti di
contatto tra il diritto penale e il modello riparativo emergono nel lavoro di pubblica utilità, una sanzione sempre più diffusa nell’ordinamento italiano 34, che tende a coniugare recupero sociale, generalprevenzione positiva ed efficienza nel controllo penale 35. Il lavoro di pubblica utilità rappresenta una ibridazione degli strumenti sanzionatori del diritto penale classico, che vengono resi meno afflittivi e valorizzati in senso riparativo pur nell’ambito della giustizia tradizionale.
Infine, benché il conflitto si sia radicalizzato in seguito all’espletamento del processo e all’inflizione
29
L. Picotti, Il nuovo volto del sistema sanzionatorio del giudice di pace: considerazioni conclusive, in Picotti L.-Spangher G. (a cura
di), Competenza penale del giudice di pace e nuove pene non detentive, Milano, 2003, p. 197 ss.
30
G. Flora, Risarcimento del danno e conciliazione: presupposti e fini di una composizione non punitiva dei conflitti, in Picotti L.Spangher G. (a cura di), Verso una giustizia penale conciliativa, Milano, 2002, p. 149 s. In tal senso la giurisprudenza: Cass., sez. V,
24 marzo 2005, n. 14070, in CED Cass. n. 231777; Cass., sez. V, 21 aprile 2006, n. 22323, in CED Cass. n. 234555; Cass., sez. V, 10
aprile 2008, n. 31070, in CED Cass. n. 241166; Cass., sez. IV, 18 giugno 2008, n. 36516, in CED Cass. n. 241957; circa la circostanza
attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c. p. (ex plurimis, Cass., sez. V, 29 novembre 2005, n. 46866, in CED Cass. n. 233048; Cass., sez. I,
28 aprile 2006, n. 18440, in CED Cass. n. 233817).
31
S. Turchetti, Sub art. 35 D. Lgs. 28 agosto 2000, n 274, in E. Dolcini-G. Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, II, Milano, 2006, p. 5583 s.; O. Murro, op. cit., p. 1526.
32
Più di recente tendenze riparative risultano connesse ad interventi di depenalizzazione o decriminalizzazione: la stessa l.
67 del 2014 prevede, nella delega al Governo per la riforma della disciplina sanzionatoria contenuta nell’art. 2, la depenalizzazione di determinate fattispecie, per le quali, fermo restando il diritto al risarcimento del danno, si prevede l’introduzione di
adeguate sanzioni pecuniarie civili: l’art. 2, lett. a), l. cit. contempla i delitti di cui al libro secondo, titolo VII, capo III, limitatamente alle condotte relative a scritture private, ad esclusione delle fattispecie previste all’articolo 491 c.p.; gli artt. 594, 627, 631,
632 c.p. e 633, comma 1, c.p. escluse le ipotesi di cui all’articolo 639-bis; l’art. 635, comma 1, e l’art. 647 c.p. Inoltre la delega prevede l’introduzione di una sanzione pecuniaria civile che, fermo restando il suo carattere aggiuntivo rispetto al diritto al risarcimento del danno dell’offeso, indichi tassativamente le condotte alle quali si applica, l’importo minimo e massimo della sanzione, l’autorità competente ad irrogarla. È previsto che le sanzioni pecuniarie civili relative alle condotte di cui alla lettera a)
siano proporzionate alla gravità della violazione, alla reiterazione dell’illecito, all’arricchimento del soggetto responsabile,
all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle sue conseguenze, nonché alla personalità dello stesso e alle
sue condizioni economiche.
33
In Paesi maggiormente avvezzi ai fenomeni riparativi non mancano sperimentazioni anche per gravi reati, come quelli sessuali. Cfr. B. Hudson, Restorative Justice: The Challenge of Sexual and Racial Violence, in Journal of Law and Society, 1998, 25, p. 237 s.
34
Oltre ad essere previsto come sanzione principale dall’art. 54 d.lgs. 274 del 2008, il lavoro di pubblica utilità è previsto
come sanzione sostitutiva anche dall’art. 73, comma 5 bis, d.p.r. 9 ottobre 1990 (introdotto a suo tempo dall’art. 4 bis, lett. f), l. 21
febbraio 2006 n. 49 e, in ultimo, dopo la pronuncia della C. cost. 5 marzo 2014 n. 32, reintrodotto dalla l. 16 maggio 2014, n. 79,
che ha convertito con modificazioni il d.l. 20 marzo 2014, n. 22); dagli artt. 186, comma 9 bis, e 187, comma 8 bis, del decreto legislativo n. 285 del 1992 (così come introdotte dall’art. 33 della L. 29 luglio 2010 n. 120); dall’art. 165 c.p. ed in caso di conversione
di pena ex l. n. 689/1981.
35
P. Troncone, Il lavoro di pubblica utilità: effettività e integrazione sociale della pena, in Riv. pen., 2008, p. 791 s.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA PER GLI ADULTI
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della condanna, istituti lato sensu riparativi sono presenti nel settore dell’esecuzione della pena, stante i
margini di individualizzazione del trattamento e l’avvenuto accertamento di responsabilità: ne sono
esempi l’affidamento in prova al servizio sociale previsto dall’art. 47 ord. penit. 36, la sospensione condizionale della pena, nella variante introdotta dalla l. 11 giugno 2004, n. 145 all’ultimo comma dell’art.
163 c.p., che subordina un termine estintivo più breve all’adempimento degli obblighi risarcitori, nonché la possibilità di subordinare la concessione della sospensione al lavoro di pubblica utilità a favore
della collettività (art. 165, comma 1, c.p.).
In realtà neanche il lavoro sostitutivo, l’affidamento in prova e la sospensione condizionale della pena, quali istituti riparativi “latenti”, mostrano in concreto una rilevante effettività riparativa: seguono
ad una pronuncia di condanna, sia pure sospesa o eseguita in modo extracarcerario, ottenuta secondo i
canoni di un processo “classico”; privilegiano una funzione decarcerizzante che, nel caso della sospensione condizionale della pena, giunge addirittura a distorsioni clemenziali 37, non sovrapponibili al concetto di giustizia riparativa. Inoltre, non valorizzano a sufficienza il ruolo della vittima ed hanno un
ambito di applicazione oggettivamente delimitato sulla base della misura della pena, senza alcun riferimento alla natura del reato in questione, che potrà o meno essere suscettibile di una implementazione
riparativa (es. presenza della vittima, possibilità materiale della riparazione delle conseguenze).
Si può, dunque, ragionevolmente ritenere che nell’ordinamento penale italiano non siano ancora
presenti istituti che realizzino adeguatamente i principi riparativi, celando spesso l’ideale riparativo altre, talvolta pur legittime, esigenze di deflazione e semplificazione processuale, ovvero di depenalizzazione in concreto.
La sospensione del processo con messa alla prova per gli adulti, introdotta dalla l. 28 aprile 2014, n.
67, sembra, almeno apparentemente, voler sovvertire questa considerazione.
LA L. 28 APRILE 2014 NR. 67: LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA
La l. 28 aprile 2014, n. 67 38 ha introdotto, sulla falsariga dell’omonimo istituto di diritto penale minorile,
la sospensione del processo con messa alla prova anche per imputati già maggiorenni alla data di
commissione del fatto 39, sul modello della probation anglosassone 40 di tipo giudiziale.
Il nuovo istituto sembra, almeno ad una prima lettura, voler costituire una prima cornice organica
per la realizzazione dei principi di giustizia riparativa. Attraverso una novellazione multipla 41, il legislatore introduce un istituto volto, almeno nelle intenzioni, a svolgere una pregnante funzione risocia36
Art. 47, comma 7, ord. penit.: “Nel verbale deve anche stabilirsi che l’affidato si adoperi in quanto possibili in favore della vittima del suo
reato ed adempia puntualmente agli obblighi di assistenza familiare”. Cfr. P. Ciardiello, Riparazione e mediazione nell’ambito dell’esecuzione
penale per adulti, in Rass. penit. criminol., 2007, 2, p. 95 s.; G. Mastropasqua, I percorsi di giustizia riparativa nell’esecuzione della pena, in
Giur. merito, 2007, 3, p. 881 s.
37
G.L. Gatta, Sub art. 163 c.p., in E. Dolcini-G. Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, II, Milano, 2006, p. 1460 s.
38
Per le altre novità previste dalla riforma, solo in parte immediatamente efficace, stante la presenza di due deleghe all’esecutivo, cfr. Relazione n. III/07/2014 del 5 maggio 2014 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, in www.penalecon
temporaneo.it. Per un’approfondita analisi sulla sospensione del processo con messa alla prova, cfr. V. Bove, Messa alla prova per
gli adulti: una prima lettura della l. 67/2014, in www.penalecontemporaneo.it; R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla
prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen. proc., 2014, 6, p. 661. G.L. Fanuli, L’istituto della messa alla prova
ex lege 28 aprile 2014, n. 67. Inquadramento teorico e problematiche applicative, in Arch. n. proc. pen. 2014, 5, p. 427; G. Tabasco, La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti, in Arch. pen., 2015, 1, p. 125 s.
39
La giurisprudenza è concorde nel ritenere applicabile la probation minorile anche agli imputati minorenni all’epoca della
commissione del fatto ma divenuti maggiorenni al momento della concessione della misura (Cass., sez. IV, 4 aprile 2003, n.
23864, in CED Cass., n. 225587; Cass., sez. I, del 20 gennaio 1994, n. 323, in CED Cass. n. 198710; Cass., sez. V, 5 luglio 1992, n.
1405, in CED Cass., n. 191626).
40
Nel diritto statunitense «probation is a court-ordered period of correctional supervision in the community, generally as an alternative to incarceration. In some cases, probation can be a combined sentence of incarceration followed by a period of community supervision».
L.M. Maruschak-E. Parks, Probation and Parole in the United States, in Bureau of Justice Statistics, 2012.
41
La legge inserisce nel codice penale gli artt. 168 bis, 168 ter, 168 quater; nel codice di procedura penale gli artt. da 464-bis a 464nonies; nelle norme di attuazione di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale sono inseriti gli artt. 141-bis e 141-ter;
sono previste, inoltre, modifiche di coordinamento al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario
giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (d.p.r. 14 novembre 2002, n.
313).
ANALISI E PROSPETTIVE | LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA PER GLI ADULTI
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lizzante e rieducativa, pur non disdegnando finalità deflattive del procedimento 42.
Lo scopo è, precisamente, «offrire immediatamente all’imputato (soprattutto se “primario” e accusato di un reato di minore gravità) un trattamento individualizzato che ne faciliti il recupero e eviti il
danno derivante non solo dalla detenzione in un istituto di pena (spesso fertile terreno criminogenetico), ma anche dallo stigma, a volte indelebile, che segue la condanna» 43. Dal punto di vista sostanziale,
l’art. 168-bis c.p. riserva l’applicazione del nuovo istituto a reati di scarsa gravità, determinata con riguardo all’entità della sanzione edittale (pena pecuniaria o pena detentiva – esclusiva, congiunta o alternativa – non superiore nel massimo ai quattro anni) ovvero mediante il richiamo dell’elenco di delitti
contenuto nel secondo comma dell’art. 550 c.p.p. Dal punto di vista soggettivo è esclusa la concedibilità
della sospensione per più di una volta e la sua applicazione ai delinquenti e contravventori abituali, ai
delinquenti professionali e per tendenza. La recidiva non è considerata un limite soggettivo all’operatività dell’istituto ed, anzi, la finalità di recupero sociale della messa alla prova potrebbe esigere un’applicazione privilegiata per il delinquente recidivo, il quale mostra maggiore necessità di un trattamento
“alternativo” alla giustizia ordinaria; in senso opposto, la prassi potrebbe orientarsi nel sostenere che il
delinquente recidivo, con la sua maggiore capacità a delinquere, suscita una maggiore esigenza di difesa sociale, con conseguente esclusione dal beneficio 44.
Il nucleo della messa alla prova, delineato al secondo comma dell’art. 168-bis c.p., è contenuto in un
programma la cui elaborazione ex art. 141-ter norme att. è attribuita agli uffici locali dell’esecuzione penale esterna (UEPE) 45. L’ufficio, dopo l’indagine socio-familiare, redige il progetto, acquisendo il consenso dell’imputato e l’adesione dell’ente o del soggetto presso il quale l’imputato sarà chiamato a
svolgere le prestazioni lavorative di pubblica utilità o l’attività di volontariato sociale. L’ufficio compie
un vero e proprio studio di fattibilità della probation e riferisce specificamente sulle possibilità economiche dell’imputato, sulla capacità e sulla possibilità di svolgere attività riparatorie nonché sulla potenzialità di mediazione, anche avvalendosi a tal fine di centri o strutture pubbliche o private presenti sul territorio. Il programma può prevedere, in modo non tassativo, modalità di coinvolgimento del nucleo
familiare dell’imputato e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti
necessario e possibile, sotto la supervisione e l’affidamento del servizio sociale; nel programma è conferito rilievo prioritario a prescrizioni comportamentali in una prospettiva riparatoria orientata sia verso
la vittima (elisione o attenuazione delle conseguenze del reato, eventuale risarcimento del danno, restituzioni) che verso la collettività (prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di
volontariato); sono infine incentivate condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la
persona offesa. Il programma può implicare altresì l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con
il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.
Il giudice, con l’ordinanza con cui dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova
deve accertare l’idoneità del programma di trattamento presentato 46, la prognosi di non pericolosità
42
V. Bove, op. cit., 4. La Corte di Cassazione, sez. IV, con ordinanza del 9 luglio 2014, n. 30559, in www.penalecontemporaneo.it,
sollevando alle Sezioni Unite la questione relativa al regime intertemporale della nuova normativa, ha riconosciuto la natura
ibrida dell’istituto oltre che la sua duplicità teleologica, tra recupero sociale e deflazione processuale, quale causa di estinzione
del reato, ma strettamente connessa ad un rito premiale.
43
R. De Vito, La scommessa della messa alla prova dell’adulto, in Questione giustizia, 2013, 6, p. 6.
44
V. Bove, op. cit., p. 21; R. Bartoli, op. cit., p. 668.
45
La norma richiama espressamente l’art. all’art. 72, l. n. 354/1975, come modificato dalla l. 27 luglio 2005, n. 154, in base al
quale l’UEPE ha già compiti simili, tra i quali lo svolgimento di indagini socio-familiari e la proposta dei programmi di trattamento per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione, nonché il controllo dell’esecuzione dei programmi e la proposta di modificazione e revoca. L’UEPE ha, inoltre, compiti di vigilanza e/o assistenza nei confronti dei soggetti ammessi alle misure alternative alla detenzione, nonché compiti di sostegno e di assistenza nei confronti dei sottoposti alla libertà vigilata. Più
in generale gli uffici di esecuzione penale esterna provvedono ad eseguire, su richiesta del magistrato di sorveglianza le inchieste sociali utili a fornire i dati occorrenti per l’applicazione, la modificazione, la proroga e la revoca delle misure di sicurezza e
per il trattamento dei condannati e degli internati, coordinandosi con le istituzioni e i servizi sociali che operano sul territorio.
46
Il giudizio di idoneità del programma, insieme con il riferimento alla modificazione delle prescrizioni originarie rende
concreta la problematica circa la finalità della messa alla prova: infatti il giudice può modificare o integrare il programma solo
con il consenso dell’imputato nella fase precedente alla concessione, mentre durante la sospensione del processo può farlo dopo
aver ascoltato l’imputato e il pubblico ministero “ferma restando la congruità delle nuove prescrizioni rispetto alle finalità della
messa alla prova” (art. 464 quinquies, comma 3, c.p.p.). Il legislatore avrebbe dovuto meglio specificare i termini finali di questo
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dell’imputato e l’insussistenza delle ragioni che, a norma dell’art. 129 c.p.p., imporrebbero, d’ufficio,
l’immediato proscioglimento dell’imputato. La l. sembra, dunque, richiedere quella che a tutti gli effetti
sembra una pronuncia di responsabilità “rebus sic stantibus” 47, non dissimile da quella alla base della
sentenza del patteggiamento.
L’ordinanza è trasmessa all’ufficio di esecuzione penale esterna, al quale sono demandati la presa in
carico dell’imputato, obblighi di informazione periodica e la redazione della relazione finale nei confronti del giudice; lo stesso ufficio può proporre modifiche contenutistiche e temporali (abbreviazioni) e
sollecitare la revoca del programma in caso di “reiterata o grave trasgressione”.
Se il giudice, valutando la relazione conclusiva stilata dall’UEPE, accerta il buon esito della prova
sancisce con sentenza l’estinzione del reato quale conseguenza automatica della misura, ferme restando
le sanzioni amministrative accessorie eventualmente previste dalla legge. In caso di esito negativo, con
ordinanza dispone la ripresa del processo 48.
La sospensione del procedimento con messa alla prova viene revocata in seguito alla trasgressione
grave o reiterata al programma di trattamento e alle sue prescrizioni, al rifiuto opposto alla prestazione
del lavoro di pubblica utilità, nonché alla commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto
non colposo o di un reato della stessa indole di quello per cui si procede. Tra le prescrizioni inerenti la
sospensione del procedimento con messa alla prova la mediazione penale, il lavoro di pubblica utilità e
le condotte riparatorie e risarcitorie meritano di essere analizzate approfonditamente, stante la loro intrinseca natura di strumenti di Restorative Justice.
UNA NUOVA FINESTRA PER LA MEDIAZIONE PENALE
Come è stato notato, “La mediazione penale, dunque, entra a far parte definitivamente del nostro ordinamento, immettendovi un notevole carico di aspettative. Senza dubbio, infatti, un esperimento di risoluzione informale del conflitto tra vittima e autore del reato, sotto la guida di personale imparziale e
specificamente formato, ha il pregio di consentire immediatamente una discussione sul reato e di condurre a una riparazione adeguata non solo in termini patrimoniali” 49.
Nell’economia della probation la «possibilità di svolgimento di attività di mediazione» è contemplata
come obiettivo dell’indagine che gli uffici dell’UEPE devono trasmettere al giudice insieme al programma di trattamento, prima che venga deliberata la decisione sull’istanza di sospensione con messa
alla prova, nonché come potenziale prescrizione del programma stesso.
giudizio relazionale (generalprevenzione positiva, risocializzazione, contenimento del rischio di recidiva). Cfr. Relazione n.
III/07/2014 del 5 maggio 2014 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, in http://www.cortedicassazione.it/; R. Bartoli, op. cit., p. 664; A. Marandola, La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica
criminale, in Dir. pen. proc., 2014, p. 683.
47
Si trae conferma di ciò dalla disposizione della revoca anticipata della sospensione (art. 168-quater, n. 2, c.p.) nella quale si
menziona il “caso di commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo”. Cfr. Relazione n. III/07/2014
del 5 maggio 2014 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, ibidem. D’altronde, un ulteriore argomento a sostegno
della tesi è rappresentato dall’orientamento sviluppatosi circa la probation minorile, di cui si è fatto cenno; G. Tabasco, op. cit., p.
130.
48
Nel caso di esito negativo, stante la natura di giudizio di responsabilità rebus sic stantibus della misura, si pone il problema
dell’utilizzabilità all’interno del processo del materiale dichiarativo relativo alla probation. Il quesito non trova soluzione legislativa, essendo venuto meno in sede di approvazione definitiva un inciso dell’art. 464-septies c.p.p. analogo all’art. 29, comma 4,
d.lgs. n. 274/2000, che prevede l’inutilizzabilità in ogni caso delle dichiarazioni rese dalle parti nel procedimento di conciliazione. Dovrebbe esser pacifica l’inutilizzabilità delle relazioni consegnate al giudice dagli uffici dell’esecuzione penale esterna a
corredo del programma di trattamento e nel corso della sua esecuzione, stante la loro consistenza “valutativaˮ. Più problematico
risulterà lo statuto delle “informazioni” acquisite nel corso dell’indagine socio-familiare o dei colloqui e contatti (intercorsi con
gli operatori e/o con la persona offesa) implicati dalla mediazione. Tuttavia, un’interpretazione restrittiva si impone in un’ottica
di tutela del diritto di difesa dell’imputato, la cui posizione non può essere compromessa da dichiarazioni su cui non si è articolato un contraddittorio genetico, al di fuori delle tassative eccezioni previste dall’art. 111 Cost.
49
R. De Vito, La scommessa della messa alla prova dell’adulto, in Questione giustizia, 2013, 6, p. 9. Cfr. sulle potenzialità della mediazione M. Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice?, in Questione giustizia, 1995, 4, p. 886 s.; M.
Bouchard-G. Mierolo, Offesa e riparazione. Per una nuova giustizia attraverso la mediazione, Milano, 2005. P. Ciardiello, Riparazione e
mediazione nell’ambito dell’esecuzione penale per adulti, in Rass. penit. criminol., 2007, 2, p. 95 s.; C.E. Paliero, La mediazione penale tra
finalità riconciliative ed esigenze di giustizia, in AA.VV., Accertamento del fatto, alternative al processo, alternative nel processo, Atti del
Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale tenutosi ad Urbino, 23-24 settembre 2005, Milano, 2007, p. 113.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA PER GLI ADULTI
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La possibile mediazione previsto dal nuovo art. 464-bis, comma 3, c.p.p. si atteggia come una nuova
finestra aperta nell’ambito del processo penale per la soluzione conciliativa, in piena realizzazione
dell’ideale di giustizia riparativa.
Il tipo di mediazione previsto dalla norma ha carattere extragiudiziale, tant’è che la figura del mediatore è un soggetto estraneo all’organizzazione giudiziaria, e fortemente comunitario, come si evince
dal riferimento a centri o strutture pubbliche o private presenti sul territorio.
La soluzione del conflitto confluirà prima nel programma di trattamento sottoposto all’approvazione del giudice e poi nella pronuncia giudiziale che sancisce l’esito positivo della messa alla prova, con
conseguente verifica della fattiva disponibilità dell’imputato verso la vittima del reato. L’inciso «ove
possibile» potrebbe indurre a ritenere che, tanto in fase di ammissione della misura quanto in fase di
valutazione dei suoi esiti, il legislatore abbia inteso dare rilievo alla serietà degli sforzi profusi dall’imputato, piuttosto che all’effettivo conseguimento del risultato o alla soddisfazione manifestata dalla
persona offesa, interlocutrice necessaria ma non vincolante del giudice e degli uffici dell’esecuzione penale, in linea di continuità con l’art. 35, d.lgs. n. 274/2000.
Tuttavia, un’interpretazione più rispettosa del ruolo centrale della vittima, volta ad evitare vittimizzazioni secondarie, dovrebbe indurre da un lato a considerare l’inciso «ove possibile» come sintomatico
dell’esclusione dall’ambito della mediazione di eventuali “reati senza vittima” che, pur rientrando nel
limite edittale previsto dalla norma, sono suscettibili di probation ma non certo di mediazione; dall’altro,
l’inciso andrebbe letto nel senso di subordinare la possibilità della mediazione alla effettiva volontà della vittima, potendo semmai gli unilaterali sforzi del reo essere valutati in altra sede (es. nella commisurazione della durata della sospensione).
Pur ammettendo la possibilità che non si concretizzi (per ragioni di oggettiva impossibilità o per rifiuto della vittima), il legislatore incoraggia il fenomeno riconciliativo sia attraverso la previsione obbligatoria del sondaggio sulla possibilità di mediazione (a cui evidentemente corrispondono obblighi informativi per l’UEPE e obblighi motivazionali per il giudice), sia attraverso previsioni volte a conciliarne l’attuazione con altre prescrizioni del programma.
IL “NOCCIOLO DURO” DELLA PROBATION: IL LAVORO DI PUBBLICA UTILITÀ
Il lavoro di pubblica utilità costituisce il nucleo sanzionatorio della nuova misura, che ne esprime la necessaria componente afflittiva, funzionale ad esigenze di generalprevenzione positiva che non tollerano
la percezione di impunità da parte della collettività dinnanzi a fattispecie penalmente rilevanti: ciò
d’altronde è perfettamente in linea con il preconvincimento di responsabilità alla base della concessione
della misura 50.
D’altro canto è palese il ruolo di riparazione indiretta o simbolica verso la collettività che svolge tale
sanzione accessoria o sostitutiva, o, come è stata definita, “sostitutiva di tipo prescrittivo” 51.
Quale nucleo imprescindibile della messa alla prova, il nuovo art. 464-bis, comma 4, lett. b), c.p.p. indica espressamente «le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale» tra i contenuti obbligatori del programma di trattamento; l’art. 168-quater c.p.,
inoltre, individua il rifiuto opposto dall’imputato «alla prestazione del lavoro di pubblica utilità» come
autonoma causa di revoca anticipata.
La l. non prevede alcun criterio cui il giudice debba attenersi nel vaglio di congruità della durata
complessiva e della intensità del lavoro di pubblica utilità, e ciò comporta una profonda discrasia con la
sua chiara connotazione sanzionatoria. In realtà, proprio la sostanziale natura di sanzione potrebbe indurre a ritenere applicabili gli indici dettati dall’art. 133 c.p. per la commisurazione della pena, in una
prospettiva finalistica, rigorosamente giustificata dalla funzione risocializzante e deflattiva della proba-
50
Pertanto la probation non ha una presunta natura di “criptocondannaˮ, dal momento che il giudizio di responsabilità è, per
quanto sommario e allo stato degli atti, effettivo e non fittizio. Contra, F. Viganò, Sulla proposta legislativa in tema di sospensione del
procedimento con messa alla prova, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 1300, che infatti propone la trasfigurazione della messa alla
prova in un meccanismo sospensivo non del processo, bensì dell’esecuzione della pena, costituendo una nuova sospensione
condizionale della pena destinata ad applicarsi unicamente nell’ambito del patteggiamento allargato.
51
F. Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della deflazione: la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato e
l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2012, p. 7 s.
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tion, che tenga conto della valutazione, per quanto sommaria, della gravità concreta del reato, del quantum di colpevolezza dell’imputato, nonché delle sue necessità di risocializzazione.
È opportuno sottolineare che la sanzione del lavoro di pubblica utilità prevista dall’art. 168-bis c.p.
non rinvia a nessuna delle forme già esistenti 52: essa rappresenta una diversa sanzione, che trova il suo
fondamento nell’art. 1 comma 1, lett i) ed l), l. n. 67/2014, in cui il legislatore delegante ha previsto
l’introduzione del lavoro di pubblica utilità come generale sanzione sostitutiva delle pene detentive fino a cinque anni.
Il nuovo lavoro di pubblica utilità ha una durata fissata nel minimo (dieci giorni) ma non anche nel
massimo (a differenza della sanzione irrogabile dal giudice di pace, che va da un minimo di dieci giorni
ad un massimo di sei mesi), e prevede un tetto massimo giornaliero di otto ore. Non deve pregiudicare
«le esigenze di lavoro (evidentemente retribuito) … dell’imputato» (art. 168-bis c.p.) per evitare che, assorbito dalla prestazione gratuita, l’imputato possa trovarsi, tra l’altro, privo dei mezzi con i quali far
fronte all’impegno risarcitorio assunto verso la vittima 53. Risulta più ampio il novero dei luoghi di
svolgimento della prestazione, che comprende lo Stato, la regione, le province, i comuni, le aziende sanitarie, ma anche enti, eventualmente internazionali di assistenza sociale, sanitaria, di volontariato:
l’ampliamento si inserisce pacificamente in una direzione di Restorative justice, incentivando l’aspetto
comunitario della gestione della misura, e risponde ad un problema pratico, ovvero lo scarso numero di
convenzioni che spesso frena l’utilizzo del lavoro di pubblica utilità paradossalmente nei contesti sociali più degradati, che più necessiterebbero di misure alternative alla pena 54.
L’obbligatorietà del lavoro di pubblica utilità, inoltre, rappresenta uno strumento egualitario funzionale al contrasto della bifurcation, neutralizzando i rischi di una eccessiva pecuniarizzazione della
reazione statuale, nei casi in cui la riparazione del danno risulti impossibile o inefficace dal punto di vista dell’integrazione sociale.
L’obbligatorietà sembra però precludere la messa alla prova all’imputato che, pur essendosi attivato
per tempo e seriamente, non sia riuscito a procurarsi un’occasione di lavoro gratuito.
In tal caso vengono in questione anche difficoltà pragmatiche e logistiche, che esulano dall’ambito di
azione del reo e dallo sforzo di diligenza da lui esigibile: pertanto sarà auspicabile in sede interpretativa
la praticabilità di soluzioni propense a riconoscere un dovere del giudice di valutare la serietà dello
sforzo profuso dall’imputato, a prescindere dai risultati conseguiti.
Infatti la valutazione degli sforzi del reo in relazione al lavoro di pubblica utilità è diversa dalla ratio
delle condotte riparatorie e della mediazione, per le quali non è conforme ai dettami della Restorative
Justice ritenere non vincolante il rifiuto opposto dalla persona offesa.
LE PRESTAZIONI RISARCITORIE E RIPARATORIE
L’art. 168-bis c.p. prevede, tra le possibili prescrizioni, la prestazione di condotte volte all’eliminazione
delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del
danno dallo stesso cagionato. La norma prevede dunque due distinti istituti: l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato (definibile sinteticamente “riparazione”, avente ad oggetto l’offesa, il c.d. danno criminale) e il risarcimento del danno civilisticamente inteso. L’oggetto degli istituti riparatori ha sempre rappresentato un punto nevralgico di tutti i progetti che hanno tentato di collocare la riparazione nell’ambito del sistema penale, primo fra tutti l’Alternativ-Entwurf Wiedergutmachung 55.
Sia la riparazione che il risarcimento attengono infatti a comportamenti successivi al fatto di reato: i
due concetti non sono però (sempre) sovrapponibili 56, poiché la riparazione, da un lato, non va confusa
52
V. nota 34.
53
V. Bove, op. cit., p. 12; R. Bartoli, op. cit., p. 670.
54
E. Mattevi-A. Menghini, Recenti orientamenti sul lavoro di pubblica utilità, note a margine dell’ordinanza del Tribunale di Palermo del 3 agosto 2013, in www.penalecontemporaneo.it.
55
D. Fondaroli, Illecito penale e riparazione del danno, Milano, 1999, p. 3; C. Roxin, Risarcimento del danno e fini della pena, in Riv.
it. dir. proc. pen., 1987, p. 15; A. Manna, Il risarcimento del danno fra diritto civile e diritto penale, in Ind. pen., 1991, p. 598.
56
Ciò accade, per esempio, nei reati monoffensivi contro il patrimonio, in cui l’offesa al bene giuridico si traduce in una effettiva deminutio patrimonii che rende sovrapponibili la figura della persona offesa con quella del danneggiato civile.
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con il danno non patrimoniale 57 risarcibile, e dall’altro può includere anche prestazioni diverse dal risarcimento per equivalente 58; tuttavia entrambi gli istituti possono considerarsi espressioni di un comportamento incidente sulle conseguenze del reato e sul danno commesso.
Il concetto di risarcimento del danno non presenta particolari problemi interpretativi: oltre ad essere
inteso come sanzione civile, secondo la locuzione adottata dal codice penale nel Titolo VII del Libro I,
rappresenta, piuttosto diffusamente, un elemento di fattispecie complesse come l’art. 62, n. 6 (prima
parte), gli obblighi ex art. 165 c.p. cui può essere subordinata la sospensione condizionale della pena, la
riabilitazione ex art. 179, comma 4, c.p. ed, in generale, di istituti che ruotano intorno alla non irrogazione della pena e/o alla mitigazione delle conseguenze sanzionatorie del reato. Il risarcimento del
danno, anche nell’art. 168-bis c.p. va dunque inteso nella sua accezione civilistica: in tal senso, l’ottica di
Restorative Justice guarda al rapporto privatistico tra danneggiante e danneggiato, la cui risoluzione è
valorizzata dall’ordinamento penale come indice di risocializzazione e riconciliazione.
Sotto quest’ultimo profilo, l’art. 168-bis c.p. lascia irrisolta la questione circa la necessarietà o meno
della costituzione di parte civile perché il giudice possa includere nel programma la condotta risarcitoria: in relazione all’art. 165 c.p., l’orientamento prevalente della Suprema Corte ritiene che la persona
offesa debba necessariamente essere costituita parte civile per poter condizionare la concessione del beneficio al risarcimento del danno 59, riguardando quest’ultimo solo il danno civilisticamente inteso.
Il danno criminale, invece, si identifica con le conseguenze di tipo pubblicistico che ineriscono alla
lesione o alla messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale 60. Tale concetto, inteso
come offesa al bene giuridico, è elemento coessenziale della tipicità della fattispecie: tuttavia, è piuttosto irrealistico immaginare di incidere sull’offesa già arrecata al bene giuridico sottoforma di lesione o
di messa in pericolo. Non a caso, le espressioni normative che riecheggiano questo concetto di danno
fanno riferimento non all’offesa in sé ma alla “eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del
reato”, per indicare gli effetti materiali dell’offesa al bene giuridico: la l. penale fa uso di tale inciso, tra
le altre norme, nello stesso art. 168-bis c.p., nell’art. 165, comma 1, c.p., nell’art. 162-bis, comma 4, c.p.,
nel secondo inciso dell’art. 62, n. 6, c.p. e nell’art. 35, d.lgs. n. 274/2000. In questi istituti l’inciso è adoperato in relazione a quelle conseguenze la cui riparazione, trascendendo la mera dimensione civilistica
del danno, è pacificamente ritenuta uno strumento “per stimolare comportamenti di inserimento sociale da parte dell’agente” 61, rispondendo al bisogno sociale di compensazione per l’illecito commesso e
ripristinando in maniera più completa la situazione della vittima. Il contenuto della riparazione non
può dunque definirsi in astratto, ma muterà a seconda dell’oggettività giuridica lesa dal reato e dalle
modalità concrete dell’offesa 62.
La riparazione delle conseguenze del reato potrebbe permettere, inoltre, di veicolare condotte restitutorie che, pur non potendo assurgere al rango di risarcimento del danno per la mancanza di integralità e patrimonialità, quantomeno riescano ad eliminare le conseguenze del reato. Anzi, nell’interpretazione di tali condotte volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato, stante il carattere pubblicistico del danno criminale, il giudice dovrà valutare la serietà dello sforzo profuso dall’imputato, a prescindere dai risultati conseguiti. Infatti, a differenza del risarcimento del danno, che, in un’ottica più marcatamente privatistica 63, deve ritenersi assoggettato alla volontà collaborativa della persona
offesa, evincibile anche dalla necessaria costituzione di parte civile, in relazione alle condotte riparatorie vi sono maggiori spazi operativi per ritenere non vincolante il rifiuto opposto dalla persona offesa,
57
Sulla complessa e non sempre pacifica differenziazione della riparazione dal danno non patrimoniale, soprattutto per
quanto concerne la legislazione penale sulla stampa, cfr. D. Fondaroli, op. cit., p. 107 s.; A. Manna, op. cit., p. 600.
58
Tra le prestazioni astrattamente qualificabili come riparazione e non come risarcimento possiamo annoverare anche forme invalse di Restorative Justice, come l’apology, ovvero una comunicazione verbale o scritta indirizzata alla vittima in cui
l’autore del reato assume su di sé la responsabilità del proprio comportamento, riconoscendone l’antisocialità. Cfr. G. Mannozzi, op. cit., p. 127.
59
In questo senso, da ultimo Cass., sez. II, 18 dicembre 2013, n. 3958, in www.giurisprudenzapenale.com.
60
D. Fondaroli, op. cit., passim.
61
F. Giunta, Sospensione condizionale, in Enc. dir., XLIII, 1990, p. 113.
62
G.L. Gatta, Sub art. 165 c.p., in E. Dolcini-G. Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, II, Milano, 2006, p. 1506.
63
Da ultimo, Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime
in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI, in
http://eur-lex.europa.eu.
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
170
quando l’offerta di eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose sia reputata satisfattiva delle
istanze di prevenzione generale e speciale sottese all’istituto.
In tal senso, il riferimento alla riparazione amplia il novero dei reati riparabili (potranno essere oggetto di riparazione anche reati che non necessariamente provocano un danno risarcibile ex art. 2043
c.c., o nei cui procedimenti non vi sia costituzione di parte civile) ma amplia anche il novero dei soggetti riparatori, includendo anche soggetti che, per la gravità del danno o per indigenti condizioni economiche non possono risarcire il danno: questi ultimi, in caso contrario, sarebbero paradossalmente esclusi da una delle potenziali prescrizioni del programma. D’altronde, una conferma di quanto appena considerato sembra evincersi dall’inciso “ove possibile”, introdotto dal legislatore in relazione al risarcimento del danno: questo inciso deve essere correlato sia alle condizioni economiche del reo, che devono
permettere un risarcimento ai sensi della legge civile, sia alla costituzione di parte civile del danneggiato che, come è stato notato, sembra doversi considerare un prerequisito necessario ai fini dell’inserimento del risarcimento nel programma socio-terapeutico.
Auspicabilmente, la presenza delle condotte riparatorie e risarcitorie nella sospensione del processo
con messa alla prova potrebbero gettare le basi per una rinnovata discussione sulla funzione della riparazione come autonoma sanzione penale, tematica risalente ma sempre attuale nel panorama della penalistica europea 64.
UNA DIMENSIONE DELUDENTE: INADEGUATEZZA DELL’ISTITUTO A RAPPRESENTARE L’IDEALE RIPARATIVO
Il quadro di insieme del nuovo istituto della sospensione del processo con messa alla prova pur sembrando, dal punto di vista della Restorative Justice, ispirato alle migliori intenzioni, sconta una introduzione alquanto asistematica e potenziali eterogenesi dei fini.
Innanzitutto, la collocazione degli artt.168-bis, ter e quater c.p. nel capo I, Titolo VI del libro I del codice penale, tra le norme relative alla sospensione condizionale della pena e prima di quelle sul perdono giudiziale per i minori, induce a ritenere che l’istituto configuri un beneficio correlato all’estinzione
del reato in seguito alla messa alla prova. Inoltre, la platea dei soggetti potenzialmente interessati al beneficio si restringe a coloro per i quali assume rilievo non la mera esenzione dalle conseguenze sanzionatorie (altrimenti evitabili con moduli deflattivi dal contenuto meno oneroso, o con la disfunzione della prescrizione), ma la sottrazione dallo stigma della sentenza di condanna o di patteggiamento che potrebbe, per esempio, pregiudicarli nella vita pubblica 65: ciò induce parte della dottrina a ritenere la
norma di scarsa appetibilità pratica 66.
In secondo luogo, la selezione dei reati presupposto per la probation, pur essendo frutto di preoccupazione securitarie, non è stata effettuata in una prospettiva teleologica orientata ai fini della giustizia
riparativa.
Un carattere che si ritiene imprescindibile per attuare processi di giustizia riparativa, pur non volendo rinnegare la versatilità dell’ideale riparativo 67, è infatti rappresentato dalla presenza di una persona offesa 68: in considerazione del ritardo dell’ordinamento italiano sul punto, qualora si fosse voluto
realmente funzionalizzare l’istituto agli scopi della Restorative Justice sarebbe stata opportuna una delimitazione a reati coinvolgenti persone fisiche, in cui il conflitto è più evidente. Sembrano infatti insor-
64
D. Fondaroli, op. cit., passim; A. Manna, Il risarcimento del danno fra diritto civile e diritto penale, in Indice pen., 1991, p. 591 s.; c.
Roxin, Risarcimento del danno e fini della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, p. 3 s. A. Rizzo, Il risarcimento del danno come possibile
risposta penale?, in Dir. pen. proc., 1997, p. 1171 s. D’altra parte, come già accennato, la l. 67 del 2014 non sembra estranea alla tematica, dal momento che nella delega al Governo espressamente si prevede l’introduzione di sanzioni civili per determinati reati, fermo restando il risarcimento del danno.
65
Ad esempio nell’aggiudicazione di contratti con la pubblica amministrazione, nella partecipazione a concorsi pubblici o
nell’attività d’impresa.
66
F. Viganò, Sulla proposta legislativa in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p.
1300. A fortiori, l’istituto della probation subirà un’ulteriore erosione dell’ambito applicativo in seguito alla attuazione della delega governativa, avvenuta con decreto legislativo 16 marzo 2015 n. 28, volta all’introduzione della non punibilità per irrilevanza
del fatto anche nel processo ordinario, contenuta nella medesima l. 67 del 2014, art. 1, lett. m); R. Bartoli, op. cit., p. 668.
67
G. Mannozzi, op. cit., p.159 s.
68
G. Amarelli, op. cit., p. 24.
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montabili, se non a patto di forzature sistematiche, le aporie connesse alla possibilità di probation nel caso in cui manchi del tutto una persona offesa, a causa dell’individuazione dell’ambito applicativo dell’istituto sulla base di un mero quantum edittale: una probation per i cosiddetti reati vaganti, in cui la titolarità dell’interesse è troppo indeterminata, oppure per i reati senza vittima o delitti ostacolo, in cui è
lo stesso bene giuridico ad essere manchevole di quei caratteri necessari di offendibilità e tutelabilità,
sembra del tutto inidonea a svolgere gli scopi sottesi alla Restorative Justice. È pur vero che in tali casi il
reato è comunque la concretizzazione di un conflitto con la società, ma questo connotato sembra implicito in ogni trasgressione della norma penale: l’applicazione della probation in tali casi è evanescente e
ha un effetto principalmente decarcerizzante, che si concretizza in una sovrapposizione con il lavoro di
pubblica utilità previsto come futura sanzione sostitutiva generale per i reati puniti fino a cinque anni
di reclusione dalla stessa l. n. 67/ 2014, art. 1, lett. l)).
Inoltre, l’istituto in esame non potrà svolgere una autentica ruolo riparativo se non a patto di investimenti nei servizi sociali e nelle risorse degli UEPE 69, nonché ad una maggiore e capillare diffusione
delle convenzioni con gli enti sede del lavoro di pubblica utilità 70.
In conclusione, la sospensione del processo con messa alla prova non può, sic et simpliciter, essere
considerato un istituto riparativo. In realtà, lo stesso concetto di giustizia riparativa e i modelli ad esso
ispirati non hanno effetti taumaturgici per il diritto penale: gran parte delle aspettative riposte nell’introduzione di istituti riparativi nell’ordinamento penale devono essere adempiute primariamente con
notevoli investimenti in politiche sociali, perché gli innesti riparativi nel diritto penale non possono essere l’alibi per violazioni sistematiche del principio di sussidiarietà. Anzi, la penetrazione dell’ideale riparativo nelle politiche extrapenali è preziosa, non solo perché può diminuire il rischio che il conflitto
sociale si radicalizzi nella fase rappresentata dall’illecito penale ma anche perché, qualora ciò accada,
gli istituti riparativi del diritto penale darebbero maggiori possibilità di esito positivo, se la Kultur della
riparazione fosse diffusa e percepita come tale tra i consociati.
69
Da questo punto di vista, la l. n. 67/014 prevede all’art. 6 obblighi di relazione alle competenti commissioni parlamentari
da parte del Ministro della Giustizia sugli stanziamenti necessari per adeguare la pianta organica degli UEPE.
70
L’art. 7 l. cit. prevede l’emanazione di un regolamento ministeriale per la disciplina delle convenzioni stipulabili, nonché
la loro pubblicazione sul sito ufficiale del Ministero.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA PER GLI ADULTI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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DANIELA CHINNICI
Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Palermo
Contradditorio, immediatezza
e parità delle parti nel giudizio di appello.
Estenuazioni interne e affermazioni europee
The right to a fair trial in Appeal
È ancora necessario sottolineare la non corretta lettura del giudizio penale di secondo grado rispetto al modello del
giusto processo consacrato nella costituzione italiana (art. 111), nonché la violazione dei diritti garantiti dalla CEDU.
Continua, infatti, l’errore di interpretazione del processo di appello, con il risultato di ribaltare sentenze di proscioglimento in condanne, per la prima volta in appello. Per la giurisprudenza italiana è sufficiente una motivazione
analitica e rafforzata delle medesime prove assunte in primo grado, senza permettere ad ogni imputato la garanzia
delle regole del contraddittorio e dell’immediatezza di fronte alla corte di appello.
Notwithstanding art. 111 Cost. and the European Convention on Human Rights, in Italy it is still allowed for the judge
in Appeal – even without new evidence – to condemn the defendant after the Court of First Instance’s acquittal.
PROLEGOMENI
Non si vuole assumere, qui, l’atteggiamento, attribuito spesso a priori a chi studia il processo, di critica
senza “se” e senza “ma”, quasi si trattasse di un habitus mentale di colui che “sta dietro la scrivania”,
ma non si può non guardare “senza sconti” alla pervicace lettura riduttiva dei criteri fondanti il sistema
probatorio – immediatezza e contraddittorio – immanenti anche nel giudizio di seconda istanza, e degli
equivoci (se non travisamenti) sul ruolo delle parti nel processo penale.
Del resto, ben al di là di un problema di esegesi ai fini della coerente tenuta del sistema, gli errori
di impostazione, le sovrapposizione di istituti, le distorsioni di principi, le confusione di ruoli e di
funzioni soggettive, il misconoscimento di criteri di valutazione producono effetti distorsivi sulla
singola esperienza processuale, con l’effetto, quasi sempre, di comprimere diritti fondamentali delle
persone che vi sono sottoposte, come anche della vittima, oltre che le aspettative di giustizia della
collettività.
Uno dei punti dolenti dal doppio profilo – della coerenza sistematica 1 come della tutela dei diritti di
chi è sottoposto al processo – rimane il rito di appello che, nello snodo centrale del giudizio (si badi, di
merito), vede ancora confinati in evenienza residuale ed eccezionale la formazione della prova nel con-
1
Rileva testualmente G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Torino, II ed., 2000, p. 545, che in un processo accusatorio, nel quale il giudizio di merito consegue all’assunzione delle prove effettuate alla stregua del principio dell’oralità e del contraddittorio
nel momento di formazione della prova, costituisce dal punto di vista logico una contraddizione un secondo giudizio di merito
basato sugli atti del processo e, quindi, su prove già formate; nello stesso senso, tra gli altri, v. A. Nappi, Un’ipotesi di modifica del
giudizio di appello, in Dem. e dir., 1992, n. 1, suppl., p. 119; F. Peroni, Giusto processo e doppio grado di giurisdizione nel merito, in Riv
dir. proc., 2001, p. 725; G. Spangher, Per una ridefinizione dei poteri del giudice di appello, in S. Mannuzzu-R. Sestini (a cura di) Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni, Dem. dir., 1992, p. 130, nonché, volendo, D. Chinnici, Giudizio penale di seconda
istanza e giusto processo, Torino, 2009, p. 252 s.
ANALISI E PROSPETTIVE | CONTRADDITORIO, IMMEDIATEZZA E PARITÀ DELLE PARTI NEL GIUDIZIO DI APPELLO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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traddittorio e nell’immediatezza dinanzi al giudice decidente 2.
L’indebolimento dei canoni cognitivi in appello è stato avallato da sempre sulla base dell’argomento
della peculiare funzione del secondo processo, individuata nel controllo sul dictum già reso, se e nella misura in cui sia stata avanzata doglianza da una delle parti legittimate in concreto interessate a una decisione più favorevole. Nella mutata fisionomia del sistema del 1988, riaccreditato con il modello del c.d. giusto
processo, in sintonia con lo statuto normativo sovranazionale dei diritti soggettivi dell’accusato, tuttavia,
“l’alibi” per legittimare dinamiche di accertamento consolidate – sostanzialmente ancora quelle del c.p.p.
1930 3 – appiattite sulla rilettura degli atti probatori del fascicolo del primo grado non può più resistere. La
strada segnata nell’art. 111 Cost. quale metodo di accertamento della verità 4, come l’itinerario sovranazionale del processo equitable 5, declinato in termini di tutela delle garanzie fondamentali per ogni persona accusata, impongono una modulazione del giudizio d’appello in senso dinamico, ossia nell’immediatezza e
nel contraddittorio orale innanzi al nuovo organo decidente, non solo per le prove ritenute dal giudice necessarie per decidere e per le prove nuove sopravvenute scoperte dopo il processo, ma anche per quelle di
cui le parti chiedono la formazione secondo i canoni ortodossi, nella dialettica orale, a fortiori se nuove.
La ostinata lettura sfocata, se non a volte distorta, nella prassi applicativa, che continua a ottenere
l’avallo della corte di cassazione, non consente di abbassare i riflettori sulla questione. Come del resto
non li abbassa la Corte alsaziana, che, ormai da tempo – e definitivamente dalla sentenza Dan contro
Moldavia 6 – come un disco incantato, emette pronunce dallo stesso tono, perché molti ordinamenti europei, non solo l’Italia, non hanno adeguato il secondo processo agli standard di garanzia imposti dalla
CEDU, pure trattandosi di giudizio di merito, che in sostanza si pronuncia sulla colpevolezza o sul proscioglimento dell’accusato 7.
Le luci dovranno rimanere accese fino a quando il formulario di decifrazione epistemologica che ci
consegna la giurisprudenza europea in materia non diverrà patrimonio anche del giudice nazionale, che,
ancora di recente, come detto, ha avallato in appello letture distorte del processo equitable, incidendo in
senso sfavorevole sui diritti della persona, sebbene anche gli arnesi interni – ci si riferisce, come ovvio,
all’art. 111 Cost. – consentirebbero (recte: pretenderebbero) interpretazioni ortodosse.
L’ATTIVITÀ DEL GIUDICE DI APPELLO
Si è detto che anche il secondo giudice valuta nel merito, riaccertando i fatti di causa, atteso che ne deve
verificare la giustizia: la differenza con il decidente che lo ha preceduto sta nel limite dell’accertamento,
2
Sulla fisionomia del giudizio di appello, per tutti, v. G. Tranchina-G. Di Chiara, Appello, (Dir. proc. pen.), III agg. Milano,
1999, p. 201 ss.; M. Ceresa-Gastaldo, voce Appello (Dir. proc. pen.), ivi, Annali, III, Milano, 2010, p. 1 ss.
3
Per la funzione del giudizio di appello nel sistema previgente, in relazione alla incompatibilità, quanto alla struttura, con il
modulo di accertamento dibattimentale di primo grado, v. M. Massa, Contributo allo studio dell’appello nel processo penale, Milano,
1969, p 19 ss.
4
È pacifico ormai che la verità materiale non è accertabile: il processo può arrivare alla verità giudiziale: l’endiadi è espressiva della verità “conseguita nel giudizio, inteso come fase processuale o ‘luogo’ in cui dialetticamente si realizza, […] derivante
dal giudizio, inteso tanto […] come attività di ricerca degli elementi su cui si fonda una deliberazione quanto come formazione
di quest’ultima, […] manifestata tramite il giudizio, inteso come decisione e sua definitiva pronuncia giurisdizionale”: così G.
Ubertis, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, p. 129.
5
Sul significato, per tutti, v. C. Focarelli, Equo processo e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2001, p. 47 ss.
6
Corte EDU, 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia, su cui v. A. Gaito, Verso una crisi evolutiva del giudizio di appello. L’Europa
impone la riassunzione delle prove dichiarative quando il p.m. impugna l’assoluzione, Arch. pen., 2012, p. 349.
7
Nonostante in Italia il doppio grado di giurisdizione si sia rivelato un tabù, è pacifico – nella dottrina pressoché totalitaria –
che il congegno non abbia copertura costituzionale: così è attestata la dottrina maggioritaria; contra, M. Ceresa-Gastaldo, I limiti
all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento: discutibili giustificazioni e gravi problemi di costituzionalità, Cass. pen., 2007, p. 277 ss.;
A. De Caro, “Doppio grado di giurisdizione” ed efficienza del processo, Studium iuris, 1999, p. 946 ss.; P. Moscarini, L’omessa valutazione delle prove favorevoli all’imputato, Padova, 2005, p. 132 s.; G.L. Verrina, Doppio grado di giurisdizione, Convenzioni internazionali e
Costituzione, in A. Gaito (a cura di), Le impugnazioni penali, I, Torino, 1998, p. 143 ss. Del resto anche l’Europa ha messo in chiaro
che il secondo giudizio di merito è una scelta delle singole legislazioni nazionali che possono quindi stabilire le modalità di
esercizio del diritto di sottoporre a un tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna, come pure
i motivi per cui esso può essere esercitato, con la possibilità di una devoluzione limitata anche al sindacato di mera legittimità:
in tal senso v., per tutte, Corte EDU, 27 giugno 2006, Dépients c. Francia. In senso analogo v. C. cost., 30 luglio 1997, n. 288, in
Giur. cost., 1997, p. 2630 ss.
ANALISI E PROSPETTIVE | CONTRADDITORIO, IMMEDIATEZZA E PARITÀ DELLE PARTI NEL GIUDIZIO DI APPELLO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
174
circoscritto al devoluto, ossia alla parte contestata dall’appellante, peraltro con possibili, non irrilevanti,
espansioni del giudicabile, essendo stabilito che la cognizione del giudice di appello si estende alle questioni connesse in modo logico-giuridico con i capi o i punti impugnati 8.
Se anche il secondo giudice accerta fatti, ne consegue la necessità dell’immediatezza tra il decidente
e le fonti di prova chieste, ove possibile, non solo se noviter repaertae o productae 9.
Una conoscenza dei fatti il più possibile aderente al vero, pure nella consapevolezza che la verità
materiale (id est, storica) 10 non è ricostruibile, prescinde dalla circostanza che venga compiuta per la
prima volta, e concerna il thema probandum nei termini indicati nell’imputazione, ovvero in secondo
grado, su iniziativa di chi si duole della giustizia dell’esito ovvero di una parte. In tale ultima evenienza, è solo la sagoma da accertare a potere risultare differente dalla prima, non il quomodo dell’attività di
accertamento giudiziale, che deve essere attestato su standards omogenei a quelli del primo grado, in
modo che il nuovo dictum appaia, oltre ad esserlo, credibile e possa, quindi, superare la presunta bontà
dell’esito già reso.
Altrimenti, come potere giudicare nel merito?
Il controllo, cui il secondo giudizio è teleologicamente orientato, non può avallare alterazioni del
metodo dialogico nella parità delle parti 11.
Il controllo attiene al fine: emettere la decisione giusta.
Il contraddittorio e l’immediatezza ai mezzi per conoscere nel modo giusto.
Ovviamente il paradigma dell’oralità/immediatezza concerne solo le prove dichiarative: è lì che assurge a canone performativo dell’esperienza probatoria 12, non configurandosi relazione alcuna tra il
giudice e le prove documentali, che sono preesistenti al processo 13, in quanto il dato cognitivo non subisce alterazione dalla frapposizione di altri soggetti, perché il valore dimostrativo o meno dell’atto è
ugualmente offerto alla immediata percezione del decidente 14.
Del resto, sappiamo che il giusto processo, di cui all’art. 111 Cost., indica come criterio di accertamento della colpevolezza il contraddittorio davanti “a” giudice.
L’errore grammaticale – o l’equivoca indicazione – non può certo fare concludere per l’indifferenza
della persona chiamata a decidere (e meno che mai si rivolge al primo grado di giudizio). Il metodo non
si risolve nel ricorso a un organo giurisdizionale nel contraddittorio, quale che sia, ma assicurando
l’identità tra il giudice del dibattimento e colui che deve decidere, in ogni processo di cognizione.
E d’altra parte, la regola dell’immutabilità del giudice, di cui all’art. 525, comma 2, c.p.p., col presi8
Per un ventaglio ampio della casistica esemplificativa dell’ampiezza della cognizione del giudice di appello v. I. Pardo, Il
processo penale d’appello, Milano, 2012, p. 227 ss.
9
Sottolinea che con riguardo alle prove nuove la c.d. rinnovazione obbligatoria restituisce effettività all’esercizio del diritto
di chiedere le prove, subordinato solo al filtro di cui all’art. 190 c.p.p., C. Fiorio, La prova nuova nel processo d’appello, Padova,
2008, p. 177. Per F. Dinacci, La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di rinvio, Cass. pen., 2007, p. 3505, la rinnovazione sarebbe da disporre non solo in base alla sopravvenienza delle prove dopo il giudizio di primo grado ma ogni qual volta
il mezzo chiesto appaia utile per il controllo dell’esattezza della decisione impugnata.
10
Sull’inquadramento del principio di immediatezza nel processo penale ci si permette di rinviare a D. Chinnici, L’immediatezza
nel processo penale, Milano, 2005, p. 16 ss.
11
Rileva la progressiva erosione della logica di controllo a favore d’una reintroduzione della logica di giudizio, testualmente, G. Spangher, Appunti per un ripensamento del giudizio d’appello, Dir. pen. proc., 1996, p. 626.
12
È opportuno sottolineare come il rapporto di immediatezza del dato probatorio da acquisire con il giudice appare necessario
anche nelle prove a carattere ispettivo, in «quelle cioè, in cui chi giudica percepisce con i propri sensi il corpo e le tracce del reato»: R.
Orlandi, L’attività argomentativa delle parti nel dibattimento penale, in AA.VV., La prova nel dibattimento penale, Torino, 2010, p. 6, nota 10.
13
Atteso che «il sistema è congegnato al fine di garantire l’oralità e l’immediatezza», dove per oralità si intende la nozione in
senso ‘forte’ – come si afferma nella Relazione al progetto preliminare, cit., p. 59, in base alla quale occorre «che il giudice emani la decisione sulla base delle sole risultanze probatorie direttamente percepite durante il giudizio» – ne consegue, come sottolinea G.
Ubertis, Documenti e oralità nel nuovo processo penale in Id., Sisifo e Penelope. Il nuovo codice di procedura penale dal progetto preliminare
alla ricostruzione del sistema, Torino, 1993, p. 128, che la disciplina relativa all’acquisizione di documenti “si caratterizza per la sua
eccezionalità”. Inoltre, continua l’A., «per non violare il principio di oralità (in senso ampio), deve essere decisamente affermata la
specifica funzione surrogatoria della prova documentale, concretamente realizzabile nei soli casi di acquisizione codicisticamente previsti
(per non contraddire il loro carattere di eccezionalità».
14
Cfr. M. Massa, Contributo all’analisi del giudizio penale di primo grado, Milano, 1976, p. 275. «A torto o a ragione», rileva O. Mazza, Le insidie al primato della prova orale rappresentativa. L’uso dibattimentale di materiale probatorio precostituito, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2011, p. 1514 ss., il documento formatosi in un contesto precedente e comunque esterno al procedimento viene considerato, soprattutto in ambito giudiziario, una fonte di prova più attendibile rispetto a quella orale.
ANALISI E PROSPETTIVE | CONTRADDITORIO, IMMEDIATEZZA E PARITÀ DELLE PARTI NEL GIUDIZIO DI APPELLO
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dio della nullità assoluta speciale, conferma la correttezza di tale interpretazione. L’argomento può
fermarsi a livello formale: il disposto di cui all’art. 598 c.p.p., secondo cui si applicano al giudizio di appello tutte le norme del primo, in quanto compatibili, depone per la natura cognitiva del secondo processo, con la conseguenza di dovere osservare anche il precetto sulla immutabilità del decidente rispetto al giudice-persona fisica che ha partecipato alla rinnovazione del dibattimento, dimostrando che
l’immediatezza è criterio immanente del sistema processuale nel momento di formazione della prova
dichiarativa, tout court, trattandosi di un congegno che non avrebbe senso escludere dall’appello già solo per la previsione della clausola di salvezza de qua 15.
L’argomento di tipo sostanziale, quanto all’immanenza del canone, verte sulla natura di cognizione
del processo di appello: trattandosi di valutazione nel merito dei fatti, ne consegue che la diretta percezione delle prove orali da parte del decidente – che, come noto, risulta il criterio più affidabile e accreditato – non avrebbe ragionevole giustificazione di essere derogata nel secondo giudizio. Peraltro, solo il
ricorso a un metodo di accertamento omogeneo a quello utilizzato per giudicare in primo grado può
attestare bontà al nuovo esito (recte, affidabilità). Diversamente, la maggiore attitudine euristica del
giudizio di appello si spiegherebbe solo perché il giudice è sempre collegiale, laddove in primo grado,
quantitativamente, la maggior parte dei processi è di competenza del giudice monocratico? E, in caso di
composizione collegiale anche del primo organo, la maggiore affidabilità si giustificherebbe per il numero maggiore dei componenti la Corte rispetto a quelli del Tribunale, oltre che per un’esperienza professionale più consolidata nel tempo 16, sebbene la decisione impugnata sia scaturita da un itinerario
conforme al paradigma del c.d. giusto processo? Sarebbe illogico pensare al modello scolpito nell’art.
111 Cost. come valido per il giudizio di primo grado e sconfessabile per il giudizio di seconda istanza o
per quello di rinvio in appello, in seguito a annullamento della sentenza.
Eppure, la giurisprudenza avalla l’approdo a giudizi senza prova 17, anche se la sentenza d’appello si
risolve in una condanna per la prima volta 18 di imputati già giudicati innocenti o comunque prosciolti,
senza essere stati poi sentiti in contraddittorio ovvero senza diretta escussione delle fonti dichiarative,
ma solo rivalutandone in peius l’attendibilità o giungendo a una diversa, più sfavorevole o contraria, ricostruzione delle prove 19.
Certo, il dato normativo – l’art. 603 c.p.p. 20 – non aiuta nella interpretazione dell’appello in modo
aderente al giusto processo come al canovaccio dei diritti predisposto dalla CEDU, soprattutto all’art. 6.
Gli spazi per una appropriazione diretta dei saperi nel contesto orale e con le parti in posizione di
parità sembrano in effetti ancora angusti, sostanzialmente quelli del sistema abrogato, eccezionali e re15
D. Chinnici, Appello, (Evoluzione), in Dig, disc. pen., VIII Agg., Torino, 2014, p. 4.
16
In senso critico Gaeta-Macchia, L’appello, in Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale, Impugnazioni, Torino, 2009, p.
280, nonché volendo D. Chinnici, Giudizio penale, cit.,
17
In più pronunce anche recenti, la giurisprudenza ha statuito che la rinnovazione del dibattimento in appello è eccezionale
e può essere disposta solo quando il giudice ritenga di non potere decidere allo stato degli atti. La conseguenza è che mentre la
rinnovazione delle prove deve essere specificamente motivata, occorrendo dare conto della consapevolezza del giudice di non
potere decidere allo stato degli atti, nel caso, viceversa, di rigetto, la relativa motivazione può essere implicita nella struttura
argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in
senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (così testualmente Cass., sez. V, 21 aprile 2010, Pacini, in Cass. pen., 2011, p. 2256 ss.).
18
La Corte di cassazione ha ritenuto giustificato il ribaltamento di un esito di proscioglimento in sentenza di condanna in
appello sulla base di una motivazione dotata di una forza persuasiva superiore tale da fare venire meno del tutto quella situazione di ragionevole dubbio in qualche modo intrinseca allo stessa esistenza del contrasto: in tal senso v. Cass., sez. VI, 10 luglio
2013, inedita; Cass., sez. VI, 13 gennaio 2012, C.M. inedita. In modo analogo v. Cass., sez. Sez. VI,, 18 febbraio 2013, Abderazak,
in Giur it., 2013, p. 1916; Cass. V, 24 gennaio 2013, in CED Cass., n. 254113; Cass., sez. VI, 2 novembre 2011, in CED cass., n.
2521066. Già prima, sottolineavano, a proposito della sentenza che capovolge il proscioglimento in primo grado, sottolineavano
la necessità di confutare analiticamente le ragioni del giudice a sostegno dell’assoluzione, con riguardo anche agli elementi apportati dalla difesa nel giudizio di appello, con il corredo di una motivazione che, sovrapponendosi a quella della decisione
sconfessata, desse conto delle ragioni a supporto della nuova decisione nonché della maggiore considerazione accordata a elementi diversi o diversamente valutati, Cass. 20 aprile 2005, Aglieri, in CED Cass., n. 233083; Cass. 11 novembre 2005, Vagge, in
CED Cass., n. 232986; Cass, sez un., 12 luglio 2005, Mannino, in Cass. pen., 2005, p. 3732 ss.
19
Afferma che per la condanna per la prima volta in appello è sufficiente una lettura logica e corretta degli elementi probatori palesemente travisati dal giudice a quo Cass., sez. VI, 6 dicembre 2012, Bifulco, in CED Cass., n. 254950.
20
Sulla rinnovazione della prova, qui, per tutti, ci si limita a rinviare a F. Peroni, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice
di procedura penale commentato, II, Milano, IV ed., 2010, p. 7298 ss.
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siduali rispetto alle risultanze probatorie accluse al fascicolo del primo grado, sulla base di una presunzione di completezza del sapere disponibile. Ma la lettura del dato normativo non è asettica né acontestuale, dovendo, anzi, essere sistemica 21.
È noto, infatti, che il legislatore del codice Vassalli aveva concentrato i suoi sforzi rifondativi quanto
al giudizio di primo grado, per sconfessare il modello del codice Rocco che tradiva il diritto di difendersi provando, oramai scolpito all’art. 24, comma 2, della Carta costituzionale e, per questa via, anche
la presunzione di non colpevolezza, atteso che, in sostanza, veniva addossato all’accusato l’onere di
smontare i risultati dell’istruttoria sommaria del pubblico ministero, poi assestati e articolati nell’istruzione formale del giudice istruttore.
Le impugnazioni vennero per così dire consegnate, dal vecchio al nuovo sistema, quasi ingessate,
sottovalutando le ricadute di questa traditio “nell’orizzonte di senso” del nuovo modello, soprattutto in
punto di compressione dei diritti soggettivi, oramai garantiti nella fonte normativa primaria come a livello di ordito sovranazionale.
Al deficit prescrittivo avrebbe dovuto soccorrere la lettura sistemica del dato, in sintonia con le irrinunciabili garanzie costituzionali e convenzionali, in modo da adeguare l’attività di accertamento nel
secondo processo ai criteri oggettivi del contraddittorio e dell’immediatezza, predisponendo al contempo la migliore tutela all’accusato, grazie all’immanenza del diritto di difesa in ogni grado del procedimento oltre che assicurandogli la garanzia di essere sentito nonché di potere esaminare direttamente la fonte a carico alla presenza del giudice 22.
Invece si è assistito e si continua ad assistere, in appello, a una doppia mortificazione dei principi
giudiziali accreditati in Costituzione. Infatti, da un lato, le scelte in tema di criteri di formazione della
prova, ossia contraddittorio e immediatezza, hanno subito la spinta delle forze centrifughe di matrice di
politica criminale, con l’uso distorto del processo alla stregua di strumento di “lotta al crimine” – vuoi
per l’emergenza dei fenomeni di criminalità organizzata di matrice mafiosa, dopo le stragi del 1992,
ovvero di violenza contro le donne o ancora di c.d. pedofilia – dall’altro, la fuga da quei canoni in appello è stata accelerata per l’avallo alla “vecchia” lettura minimalista dell’accertamento probatorio, appiattita sulle letture dei protocolli dichiarativi del primo processo, sulla base della funzione di controllo
del secondo giudizio, che, come detto, prescinderebbe da una riappropriazione autentica dei dati su cui
è basata la decisione. La rinnovazione del contesto dialogico – ossia del dibattimento nel contraddittorio orale delle parti – si giustificherebbe solo le conoscenze sopravvenute o scoperte in seguito al primo
grado di giudizio o se assolutamente necessaria per decidere .
Così si è di fatto disconosciuto che il giudizio necessita sempre dello stesso criterio cognitivo: del resto, il modello dell’art. 111 Cost. non è stato scritto solo per il processo penale, meno che mai per il processo penale di primo grado.
L’«unità di misura del dibattimento» 23 e l’«adozione del metodo orale» per la formazione delle prove 24 – già estenuati da deroghe e interpretazioni intrise di nostalgie inquisitorie irresistibili – sono state
sconfessate ulteriormente nel secondo giudizio, sol che la prova chiesta sia già stata escussa, dimenticando che ogni esperienza probatoria non può mai ridursi a una ripetizione di quanto già accertato. Pertanto,
se possibile, la prova necessita di essere riescussa, atteso che non si tratta di ripetere ciò che già si è acquisito ma di formare innanzi al nuovo giudice, in un diverso contesto, la conoscenza ex novo, sebbene la fonte e l’oggetto siano i medesimi del primo grado. Ogni esperienza dichiarativa è autoreferenziale: il contesto, gli interlocutori, il modo di formulare le domande, il tempo trascorso rispetto ai fatti sono variabili
dipendenti quanto all’esito, che non è un nudo fatto ma l’asserzione di fatti. Quindi, se assicurare contraddittorio e immediatezza serve alla giustizia della verità, ossia alla conformità il più possibile della ricostruzione processuale all’esperienza storica oggetto di accertamento, tuttavia, per ritenere corretto il
percorso maieutico non basta assicurare il contraddittorio tout court, slegato dal contesto spaziale e tem21
Sul punto v. A. Gaito, Riformiamo le impugnazioni senza rinunciare al giusto processo, in Arch. pen., 2012, p. 456.
22
In senso favorevole alla possibilità di riproporre tutte le le richieste di prove attinenti al fatto come alla qualificazione giuridica, anche quelle respinte in primo grado, v. Cass., sez. un., 31 marzo 2004, Donelli, in Cass. pen., 2004, p. 2746 ss.; Cass., sez.
un., 12 luglio 2005, Mannino, cit.
23
F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2006, p. 335.
24
In tal caso il contraddittorio è inteso nella sua accezione ‘forte’ quale “contributo diretto delle parti nell’atto stesso di formazione della prova (ovviamente ci si riferisce alle prove costituite nel processo, come dichiarazioni di testi e di imputati)”, così P. Ferrua.
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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porale del giudizio da cui deve scaturire l’esito, ovvero dalle maglie dell’immediatezza col decidente. In
tal caso si dovrebbe essere consapevoli, quantomeno, che non si mirerebbe più alla ricostruzione della
“verità giudiziale” ma a una verità altra, per così dire “convenzionale”, indipendente dal contesto processuale in fieri, decurtata così dalle garanzie che solo l’itinerario dibattimentale innanzi al decidente assicura
alle parti. Un giudizio si avrebbe – e si ha – lo stesso: ma formale, senza oralità-immediatezza e, peraltro,
senza concentrazione, come ancora sappiamo essere l’appello. Eppure, eliminate le tessere dell’immediatezza e dell’immutabilità del giudice, il solo tassello del contraddittorio non basta a comporre il mosaico
della “verità giudiziale”, la sola che, essendo garantita – quanto al topos come al metodo di formazione – è
accettabile dalle parti e dalla societas come vera: id est giusta 25.
GIURISPRUDENZA EUROPEA E PRASSI APPLICATIVE INTERNE: INERZIE, EQUIVOCI (O STRUMENTALIZZAZIONI?) DEL GIUDICE ITALIANO
Ciò che si è cercato di rilevare è ormai indicato in modo chiaro dalla giurisprudenza europea: Dan contro Moldavia 26, Manolaki contro Romania 27, la recente Mischie contro Romania 28 sono, solo per citare
esempi eclatanti e più recenti, “lezioni di diritto vivente”, chiare, univoche, senza vie di fuga interpretative, là dove indicano l’unitarietà del quomodo del giudizio penale, barrando “l’orizzonte del sapere” del
primo giudice sicuramente per una rivalutazione in peius. La mera rilettura delle prove già formate tradisce, infatti, il dovuto rispetto dei diritti soggettivi sanciti dalla CEDU, non potendosi condividere
l’orientamento secondo cui, in mancanza di elementi sopravvenuti, la bontà del secondo esito è garantita da una motivazione basata su argomentazioni tali da fare venire meno del tutto ogni dubbio ragionevole 29.
Eppure, le letture minimaliste del processo d’appello, ben insinuate nelle pieghe della prassi applicativa, nonostante il tessuto connettivo del modello del giusto processo sia inscritto nella Carta costituzionale, resistono.
Metodo e diritti irrinunciabili, perché anche il secondo giudica, accerta nel merito e perché – e questo argomento è insuperabile per la Corte alsaziana – non si può condannare per la prima volta in appello senza escutere la fonte di prova a carico, privando l’accusato del diritto di interrogare chi lo accusa, dinnanzi al giudice chiamato a decidere, ma solo rileggendo in negativo esiti cognitivi del primo
processo.
Peraltro, a sostegno di questa interpretazione sono stati usati argomenti che reggono solo in via formale, non sostanziale. Si vuole dire che equiparare, come è stato fatto sia dal giudice costituzionale 30 sia
da parte della dottrina 31, imputato e pubblico ministero in punto di facoltà di appello, come se l’essere
parti annulli le differenze dei rispettivi statuti ontologici, sagomati dal fine individuale – il diritto alla
libertà e all’onore, per l’imputato; la corretta amministrazione della giustizia, l’uguaglianza dei cittadini
e il rispetto del principio di legalità, per il pubblico ministero – significa travisare il senso del “processo
di parti”.
Le parti nel processo non sono uguali 32, non lo devono essere, tanto che non hanno uguali diritti, né
25
Che, in concreto, il giudizio possa non essere giusto è un quid aliud che può essere controllato posterius tramite i predisposti
mezzi di gravame. Peraltro il controllo in sede di impugnazione potrà essere attuato solo con la celebrazione di un nuovo giudizio
ovvero, anche questa volta, tramite il ricorso ad altri giudizi di valore.
26
Corte EDU. 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia c.; in senso analogo Corte EDU, 21 settembre 2010 Marcos Barrios c. Spagna;
Corte e.du., Popovici c. Moldavia.
27
Corte EDU, 5 marzo 2013, Manolachi c. Romania statuisce testualmente che la condanna pronunciata nei confronti del ricorrente senza che egli sua stato sentito personalmente dai giudici di appello e di ricorso e in assenza di audizione dei testimoni,
quando il ricorrente era stato assolto in primo grado, non soddisfa le esigenze di un processo equo.
28
Corte EDU 16 settembre 2014, Mischie c. Romania, in www.archiviopenale.it.
29
Cass., sez. VI, 10 ottobre 2012, in CED Cass., n. 254024; Cass. sez. V, 5 luglio 2012 in CED Cass., n. 253541.
30
In tal senso Corte cost., sent. 6 febbraio 2007, n. 46, in Cass. pen., 2007, p. 1183.
31
In dottrina v. F. Caprioli, Inappellabilità delle sentenze e “parità” delle armi” nel processo penale, in Giur. cost., 2007, p. 250; M.
Ceresa-Gastaldo, Non è costituzionalmente tollerabile la menomazione del potere di appello del pubblico ministero, cit.; V. Grevi, Appello
del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione penale, in Cass. pen., 2007, p. 1414.
32
In tal senso v., ex plurimis, P. Gaeta-A. Macchia, L’appello, cit., p. 356.
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
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uguali facoltà, né uguali prerogative; semmai, devono essere messe in condizioni di parità .nella formazione delle prova 33.
Parità e uguaglianza non coincidono.
Gli interessi in gioco che ineriscono a diritti inviolabili, come pure la debolezza dell’accusato nella
fase prodromica fondamentale per delineare l’azione, impediscono di precludere all’imputato nella fase
del giudizio dibattimentale (in ogni grado del giudizio di merito) garanzie e presidi partecipativi per la
formazione del sapere necessario (e corretto) per la decisione.
Del resto – solo per fare alcuni esempi – nessuno dubita dell’ampio e penetrante ius agendi del titolare delle indagini per le determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale, presidiato dal segreto investigativo e da altre prerogative, e, parimenti, nessuno pensa che si consumi disparità nell’accordare il
mezzo straordinario della revisione solo per chiedere il proscioglimento del condannato e, non, viceversa, per la condanna del prosciolto, dimostrando in tal caso di avere abiurato una visione formalistica
della parità delle parti nel primo come nel secondo istituto: le indagini e la revisione.
Eppure in nome della violazione della parità il “giudice delle leggi” ha sostanzialmente cancellato,
dopo solo un anno, la c.d. riforma Pecorella (altre sentenze immediatamente successive hanno completato la demolizione); argomento – la parità – che la giurisprudenza italiana continua a usare, anche da
ultimo, in via strumentale, per avallare ricezioni distorte del diritto vivente europeo, assai chiaro sul
punto.
Il fatto che l’Italia non sia la sola a perseverare nell’interpretazione statica dell’appello, privando
l’imputato delle garanzie partecipative effettive, con la conseguenza di consentire ribaltamenti in peius
dell’esito reso in primo grado, dimostra solo che la crisi dell’appello non è circoscritta al nostro ordinamento, registrandosi una distonia diffusa con la lettura ortodossa dei diritti fornita dalla Corte e.d.u.,
soprattutto oramai che «la giustizia penale nella prassi applicativa non può più prescindere dai cromosomi europei» 34.
Sono isolate le pronunce che richiamano la necessità della riescussione orale della fonte dichiarativa
ove in appello si ritenga di valutare diversamente l’attendibilità 35. Le interpretazioni prevalenti sono
orientate ancora in senso diverso. Precisamente, da un lato, si giustificano condanne a seguito di appello del p.m. tramite la mera rivalutazione delle prove del primo processo 36, perché diversamente – si sostiene – si priverebbe il pubblico ministero del diritto a impugnare e a ottenere una decisione negli stessi termini riconosciuti all’imputato. Dall’altro, per sconfessare l’esito liberatorio del giudizio di primo
grado, si richiede una motivazione rafforzata del giudice di appello 37. Pure mostrando maggiore sensibilità, è considerata bastevole a superare il deficit quanto al dialogo in condizioni di parità oltre che la
necessità di provare la colpevolezza secondo il paradigma di cui all’art. 111 Cost., commi 3 e 4, una più
articolata spiegazione del convincimento diverso sulle prove assunte in primo grado, effettuata in modo analitico, senza l’assunzione orale delle prove dichiarative nel contraddittorio. Anche questa soluzione non garantisce il diritto dell’accusato di interrogare (recte, esaminare) la fonte dichiarativa a carico
hic et nunc, nel contesto dialogico innanzi al giudice chiamato a ridecidere (art. 6 CEDU), lasciando spa-
33
In senso critico sul punto si è espressa la dottrina maggioritaria: ex plurimis, A.Bargi-A. Gaito, Il ricorrente ritorno della Consulta alla cultura processuale inquisitoria: l’eccentrica definizione della funzione del p.m. nel sistema delle impugnazioni, in A. Gaito (a cura di), La disciplina delle impugnazioni tra riforma e controriforma: l’illegittimità parziale della “legge Pecorella”, Torino, 2007, p. 1 s.; A.
De Caro, L’illegittimità costituzionale del divieto di appellare del pubblico ministero, tra parità delle parti, e diritto al controllo di merito
della decisione, in Dir. pen. proc., 2007, L. Filippi, La Corte costituzionale disegna un processo penale all’italiana, in L Filippi (a cura di),
Il nuovo regime delle impugnazioni tra Corte costituzionale e sezioni unite, Padova, 2007, p. 1 s.; P. Tonini, La illegittimità costituzionale
del divieto di appellare il proscioglimento. Una pronuncia discutibile che genera ulteriori problemi, in Il nuovo regime delle impugnazioni,
cit., p. 349; A. Scalfati, Restituito il potere di impugnazione senza un riequilibrio complessivo, in Guida dir., 2007, n. 8, p. 78; nonché,
volendo, D. Chinnici, Giudizio penale di seconda istanza e giusto processo, cit., p. 233.
34
O. Mazza, Giustizia penale in trasformazione: profili di indagine, in Arch. pen., 2012, I, 2.
35
Tra le poche, in tal senso, v. Cass., sez. VI, 12 aprile 2013, Caboni, in CED Cass., n. 254623.
36
Cass., sez. V, 8 marzo 2013, Cava e Rainone in www.archiviopenale.it, sulla quale, in senso critico v. C. Scaccianoce, Riforma
in peius della sentenza di assoluzione senza rinnovare la prova orale: una decisione che fa discutere; per Cass., sez. V, 18 marzo 2003,
Prospero, in CED Cass., n. 225633, il giudice non deve dare conto dei motivi che lo hanno indotto a non accogliere la richiesta di
rinnovazione, bastando una giustificazione del suo potere discrezionale in sentenza modo congruo e logicamente corretto.
37
Così Cass., sez. VI, 26 febbraio 20013, in Dir. pen. proc., 2014, p. 191 con nota di Comi, Riforma in appello di una sentenza assolutoria e obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. Cfr. altresì le sentenze indicate nella nota 19.
ANALISI E PROSPETTIVE | CONTRADDITORIO, IMMEDIATEZZA E PARITÀ DELLE PARTI NEL GIUDIZIO DI APPELLO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
179
zio all’escussione diretta della persona che accusa solo in caso di giudizio negativo sulla attendibilità
intrinseca del dichiarante da parte del giudice di primo grado.
Gli argomenti per una interpretazione logico-sistematica corretta, come per il presidio effettivo dei
diritti dell’accusato, sono forti e resistenti.
Le inerzie culturali ancora di più 38.
UNO SPIRAGLIO DI CAMBIAMENTO (ANCORA SOLO FUTURIBILE)
Nelle more della stesura del presente contributo ha iniziato l’itinerario parlamentare il d.d.l. Atto C N.
2798, davanti alla Commissione giustizia della Camera, in tema di modifiche in materia di impugnazioni.
Dopo il nulla di fatto di pregressi progetti di riforma, il d.d.l. riprende, in più punti in modo fedele,
in altri discostandosene, il c.d. progetto Canzio.
Non essendo questa la sede per una riflessione sulla riforma, né nel suo insieme né meno che mai su
singoli punti, ci si limita a sottolineare il nuovo comma 4-bis previsto nell’art. 603 c.p.p. dall’art. 18
comma 3 del d.d.l., che ha statuito che “in caso di appello del pubblico ministero avverso sentenze di
proscioglimento, quando l’atto è proposto per motivi attinenti alle valutazioni di attendibilità della
prova dichiarativa, il giudice quando non ritiene manifestamente infondata l’impugnazione, dispone la
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”.
In sostanza, se si è confermata l’intoccabilità del doppio grado di giurisdizione, confermandone la
forza di dogma – sebbene ne sia la pacifica l’assenza di copertura costituzionale – evidentemente rappresentando – l’appello – una irrinunciabile garanzia per il singolo come per la collettività, sulla base
anche di una sicura sfiducia nei riguardi dell’amministrazione della giustizia 39, l’ingessatura del secondo processo nella versione statica di giudizio critico ex actis sembra avere finito il suo tempo.
Infatti, si è intervenuto nel senso auspicato da molte voci in dottrina e poi dai dicta sovranazionali
della Corte alsaziana, per stessa ammissione dei relatori del d.d.l., laddove si legge “che la modifica mira ad armonizzare il ribaltamento della sentenza di appello con le garanzie del giusto processo, secondo
l’interpretazione ancora di recente offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza del 4 giugno 2013, Hanu contro Romania) circa la doverosità in questo caso di riapertura dell’istruttoria orale”.
In sostanza, ai sensi del nuovo comma 4-bis dell’art. 603 c.p.p. – se varato – non sarà più possibile ribaltare una valutazione di proscioglimento in condanna, consentendo così la dialettica necessaria per superare il vaglio di conformità ai canoni del fair trial, di cui all’art. 6 della Cedu come, del resto, a quelli
del c.d. giusto processo di cui all’art. 111 commi 3 e 4, Cost..
Con il comma di nuovo conio il mito dell’immediatezza appare assurgere a criterio performativo
della prova dichiarativa nel secondo processo: l’escussione diretta e immediata innanzi al decidente
non più un quid pluris, da considerare adempimento oneroso oltre che non necessario allo scopo, ma il
cluou per una corretta apprensione e formazione dei saperi probatori di natura dichiarativa.
In sostanza, il fine del controllo della decisione impugnata non può alterare il metodo della conoscenza.
38
Emblematica una recente pronuncia della Suprema corte – Cass., sez. II, 23 luglio 2014, A., in www.archiviopenale.it, – che nel
richiamare la Corte EDU, laddove ritiene che i testimoni, ritenuti decisivi, debbano essere uditi personalmente dal giudice, per
valutare la loro attendibilità intrinseca, ai fini della condanna in appello, non potendo procedere a un diverso apprezzamento
della fonte dichiarativa sulla base della sola lettura dei verbali, conclude per l’immanenza del principio di immediatezza anche
nel caso in cui il diverso giudizio di attendibilità ha portato a una assoluzione in appello. Per di più a rafforzare la conclusione
invoca la presenza della parte civile, verso cui – afferma testualmente – si assiste ad una sempre maggior tutela nell’ambito delle
decisioni della Corte europea. Il presidio – l’immediatezza – a tutela della verità giudiziale viene quindi invocato per sconfessare un esito favorevole all’imputato, mostrando di decontestualizzare l’orientamento europeo indirizzato come noto in senso
soggettivo, a favore del diritto all’escussione delle prove a carico dell’accusato. Il riconoscimento alla parte civile di uno statuto
ontologico è un problema serio, ma non è certo accomunando imputato assolto e parte civile che si risolve il problema della
marginalità della vittima nel nostro processo. Ancora una volta si mistificano i ruoli soggettivi, per capovolgere in malam partem
un’indicazione sovranazionale scaturita dalla necessità di provare la colpevolezza secondo le declinazioni del processo equitable,
nel contraddittorio e nell’immediatezza, al di là di ogni dubbio ragionevole.
39
Come dimostrato dalla durata fulminea della legge n. 46 del 2006, dichiarata incostituzionale nel punto in cui aveva escluso l’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento, tranne nel casi di novum probatorio decisivo solo un
anno dopo (sent. n. 26 del 2007).
ANALISI E PROSPETTIVE | CONTRADDITORIO, IMMEDIATEZZA E PARITÀ DELLE PARTI NEL GIUDIZIO DI APPELLO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
180
Tuttavia, l’apertura all’oralità/immediatezza appare subito ridimensionata, atteso che, discostandosi dal progetto Canzio sul punto, il riformatore ha limitato la riassunzione nei casi di appello del p.m. di
una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione dell’attendibilità della prova dichiarativa. Una svolta interna dopo quasi un decennio dalla riforma Pecorella, certamente, ma non declinata nei modi coerenti ai dicta sovranazionali, come pure la relazione dice di avere fatto. L’immediatezza, infatti, avrebbe dovuto essere recepita in termini diversi: ossia prevedendola come canone di
acquisizione della prova orale per ribaltare una decisione di proscioglimento, pure in assenza di richiesta istruttoria della parte, quindi ex officio, come ha indicato la giurisprudenza europea. Il nostro legislatore invece si limita a prevederla, nel nuovo comma 4-bis dell’art. 603 c.p.p., limitatamente al caso di valutazione (recte: valutazioni 40) di attendibilità della prova dichiarativa sempre che il giudice non dichiari l’inammissibilità per manifesta infondatezza, rischiando così di relegarla nell’area rarefatta del ‘possibile’ e non del ‘doveroso’, come ci si sarebbe aspettati 41.
È un segno nuovo, rispetto alla considerazione finora statica del giudizio di appello, oltremodo tardivo e ‘eterodiretto dall’Europa’ (come sempre più ci sta abituando il nostro riformatore) che, tuttavia,
se non si strumentalizzassero le declaratorie di inammissibilità in senso sfavorevole al recupero della
prova orale in secondo grado, potrebbe rappresentare un passo verso l’ortodossia del quomodo del giudizio, almeno ogni qual volta la posta in gioco sia il ribaltamento della sentenza di proscioglimento dell’imputato. Si oblitererebbero le letture statiche del dibattimento di appello – odiose in punto di tutela
delle garanzie dell’imputato se in peius – da ultimo agganciate all’artificio argomentativo della motivazione ‘rafforzata’, che di certo non supera l’aldi là del dubbio ragionevole necessario per la condanna:
dubbio non superabile se la condanna riforma una decisione di tenore opposto, ossia una declaratoria
di proscioglimento emessa all’esito del giudizio orale e nel contraddittorio, pretendendo, almeno, che il
secondo dictum scaturisca da una esperienza probatoria dotata di uguale forza epistemica rispetto alla
prima: quindi, nel contesto del giudizio dibattimentale il più possibile autoreferenziale (id est, nell’oralità/immediatezza).
40
Come sottolineato da subito da Bargis, Primi rilievi sulle proposte di modifica in materia di impugnazioni nel recente d.d.l. governativo, in www.penalecontemporaneo.it. “l’impiego del plurale indurrebbe a concludere che non ci si voglia riferire alla sola valutazione di attendibilità intrinseca” di una prova dichiarativa, come ha interpretato una parte della giurisprudenza – ma “estenderla pure alle ipotesi nelle quali – fondandosi la decisione solo su prove dichiarative – le versioni dei vari dichiaranti presentino contraddizioni su punti decisivi, valorizzate in primo grado per assolvere e considerate superabili dal giudice di seconde cure al fine di condannare”.
41
Peraltro la decisione di inammissibilità si traduce in una valutazione di merito anticipata da parte del giudice che, invece,
“non deve trovare cittadinanza nel vaglio sull’inammissibilità”: il condivisibile rilievo è di M. Bargis, op. ult. cit.
ANALISI E PROSPETTIVE | CONTRADDITORIO, IMMEDIATEZZA E PARITÀ DELLE PARTI NEL GIUDIZIO DI APPELLO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
181 Indici | Index
AUTORI / AUTHORS
Teresa Alesci
Sezioni Unite
41
Alessandro Benvoluti
Corti europee/European Courts
32
Michele Caianello
La nuova direttiva UE sull’ordine europeo di indagine penale tra mutuo riconoscimento e ammissione reciproca delle prove/The new directive on the european investigation order between mutual
recognition and mutual admissibility of evidence
1
Laura Capraro
Corte costituzionale
36
Danila Certosino
De jure condendo
28
Daniela Chinnici
Contraddittorio, immediatezza e parità delle parti nel giudizio di appello. Estenuazioni interne e
affermazioni europee/The right to a fair trial in Appeal
172
Andrea Conti
Novità sovranazionali/Supranational news
24
Paola Corvi
Decisioni in contrasto
46
Marcello D’Aiuto
Fatto diverso e giudizio abbreviato: verso una nuova forma di rito premiale?/Different event and
summary trial: towards a new form of rewarding trial?
119
Alessandro Diddi
La nuova legge sui difensori d’ufficio: cronaca di un’occasione perduta/The legislation of the
lawyer’s office: a missed opportunity
128
Fabio Fiorentin
L’effettività della tutela risarcitoria delle condizioni detentive contrarie all’art. 3 Cedu: riflessioni
a margine di un’indagine del Ministero della giustizia sulla prima applicazione dell’art. 35-ter, l.
n. 354/1975/Effectiveness of remedies of ill detention in case of violation of Art. 3 Ehrc: observations on
Minister of Justice’s statistical survey on the first appliance of art. 35-ter, l. 354/1975
150
Roberta Greco
Le sentenze “pilota” della Corte europea dei diritti dell’uomo: efficacia ultra partes?/Pilot judgments of the European Court of Human Rights: ultra partes effects
105
INDICI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
182
Francesca Romana Mittica
Astensione del difensore e diritto di ottenere il differimento dell’udienza/Lawyers strike and the
right to obtain the postponement of the hearing
136
Raffaele Muzzica
La sospensione del processo con messa alla prova per gli adulti: un primo passo verso un modello di giustizia riparativa?/Probation for adult offenders: the first step towards Restorative Justice?
158
Nicola Russo
Novità legislative interne/National legislative news
13
Francesca Tribisonna
Sull’attendibilità del pentito quale logico presupposto di una valida chiamata in correità/About
the confident’s liability as a logical assumption of a valid accomplice evidence
88
Elga Turco
Illegittimità costituzionale di una norma penale non strettamente incriminatrice e rimodulazione
della pena in executivis: un altro passo verso la graduabile erosione del “mito del giudicato”/Unconstitutionality of a criminal rule not strictly incriminatoryand remodeling of the punishment
“in executivis”: a another step towards the erosion of “themyth of the judged”
70
PROVVEDIMENTI / MEASURES
Corte costituzionale
C. cost., sent. 1° dicembre 2014, n. 213
C. cost., sent. 28 gennaio 2015, n. 23
C. cost., 25 marzo 2015, n. 45
C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 48
114
39
38
36
Sezioni Unite penali
sentenza 14 ottobre 2014, n. 42858
sentenza 29 gennaio 2015, n. 5396
sentenza 2 febbraio 2015, n. 4909
sentenza 12 febbraio 2015, n. 6240
sentenza 17 marzo 2015, n. 11170
50
41
41
43
.44
Sezioni semplici
Sezione III, 6 ottobre 2014, n. 41347
Sezione VI, 6 novembre 2014, n. 46067
Corte europea dei diritti dell’uomo
20 gennaio 2015, Atesoğlu c. Turchia
27 gennaio 2015, Rinas c. Finlandia
29 gennaio 2015, Yevgeniy c. Ucraina
3 febbraio 2015, Apostu c. Romania
10 febbraio 2015, Colac c. Romania
81
100
32
32
33
34
35
Atti sovranazionali
La Convenzione del Consiglio d’Europa contro la tratta degli organi umani (CETS N. 216)
24
Norme interne
Decreto legge 16 marzo 2015, n. 28 «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto»
13
INDICI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
Decreto legge 18 febbraio 2015 «Misure urgenti per il contrasto al terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle forze armate e di
polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e
partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei
processi di pace e di stabilizzazione»
D.lgs. 30 gennaio 2015, n. 6 «Riordino della disciplina della difesa d’ufficio a norma dell’art.
16 della legge 31 dicembre 2012, n. 247»
D.lgs. 11 febbraio 2015, n. 9 «Ordine di protezione europeo recante l’Attuazione della Direttiva 2011/99/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 sull’ordine
di protezione europeo»
Legge 23 febbraio 2015, n. 19 «Divieto di concessione dei benefici penitenziari indicati
dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 ai condannati per il reato di scambio elettorale politico-mafioso previsto dall’art. 416-ter c.p.»
183
20
22
17
14
De jure condendo
Disegno di legge S. 1738 recante «Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace»
28
Decisioni in contrasto
Sezione II, 9 febbraio 2015, n. 5725
Sezione VI, 29 gennaio 2015, n. 4338
46
47
MATERIE / TOPICS
Appello
 Contraddittorio, immediatezza e parità delle parti nel giudizio di appello. Estenuazioni interne e affermazioni europee/The right to a fair trial in Appeal, di Daniela Chinnici
172
Atti
- invalidità
- nullità
 Nullità a regime intermedio in caso di omesso avvertimento del diritto al difensore nell’esecuzione dell’alcoltest (Cass., sez. un., 29 gennaio 2015, n. 5396)
41
Chiamata in correità
 Chiamata di correo e valutazione di attendibilità preliminare del chiamante (Cass., sez. III,
6 ottobre 2014, n. 41347), con nota di Francesca Tribisonna
81
Cooperazione giudiziaria
 Contrasto al terrorismo, anche internazionale, proroga delle missioni internazionali delle
forze armate e di polizia e iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di
ricostruzione (Decreto legge 18 febbraio 2015, n. 7)
 La nuova direttiva UE sull’ordine europeo di indagine penale tra mutuo riconoscimento e
ammissione reciproca delle prove/The new directive on the european investigation order
between mutual recognition and mutual admissibility of evidence, di Michele Caianello
 Ordine di protezione europeo (D.lgs. 11 febbraio 2015, n. 9)
1
17
Decreto penale di condanna
 Illegittima la possibilità del querelante di opporsi al decreto penale di condanna (C. cost.,
sent. 28 gennaio 2015, n. 23)
39
INDICI
20
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
Dibattimento
 Diritto al controesame (Corte e.d.u., 10 febbraio 2015, Colac c. Romania)
Difesa e difensori
 Astensione del difensore e diritto di ottenere il differimento dell’udienza/Lawyers strike and
the right to obtain the postponement of the hearing, di Francesca Romana Mittica
 Diritto alla difesa (Corte e.d.u. 29 gennaio 2015, Yevgeniy PetrenKo c. Ucraina)
 Il concomitante impegno professionale del difensore può costituire legittimo impedimento
(Cass., sez. un., 2 febbraio 2015, n. 4909)
 La nuova legge sui difensori d’ufficio: cronaca di un’occasione perduta/The legislation of the
lawyer’s office: a missed opportunity, di Alessandro Diddi
 Rinnovata difesa d’ufficio (D.lgs. 30 gennaio 2015, n. 6)
184
35
136
33
41
128
22
Diritti fondamentali
 Diritto alla privacy (Corte e.d.u. 3 febbraio 2015, Apostu c. Romania)
 La Convenzione del consiglio d’Europa contro la tratta degli organi umani (CETS N. 216)
 Trattamenti inumani (Corte e.d.u. 20 gennaio 2015, Atesoğlu c. Turchia)
 Trasferimento delle persone condannate. Trattato tra Italia e Brasile (Legge 10 febbraio
2015, n. 17)
 La riforma della magistratura onoraria («D.d.l. S. 1738 Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e le altre disposizioni sui giudici di pace»)
28
Esecuzione penale
 Giudicato (Corte e.d.u., 27 gennaio 2015, Rinas c. Finlandia)
32
- poteri del giudice
 I poteri del giudice dell’esecuzione e le pene accessorie illegali (Cass., sez. un., 12 febbraio
2015, n. 6240)
 Sentenza irrevocabile di condanna, illegittimità costituzionale sull’apparato sanzionatorio e
potere del giudice dell’esecuzione di rimodulare la pena (Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n.
42858) con nota di Elga Turco
34
24
32
16
43
50
Estradizione
 L’irrisolto contrasto sulla durata massima delle misure cautelari in caso di sospensione
dell’esecuzione dell’estradizione disposta dal giudice amministrativo (Cass., sez. VI, 29
gennaio 2015, n. 4338)
47
Giudizio abbreviato
 Modifica dell’imputazione e giudizio abbreviato (C. cost., sent. 1° dicembre 2014, n. 213),
con nota di Marcello D’Aiuto
114
Messa alla prova
 La sospensione del processo con messa alla prova per gli adulti: un primo passo verso un
modello di giustizia riparativa?/Probation for adult offenders: the first step towards Restorative
Justice?, di Raffaele Muzzica
158
Misure cautelari personali
 L’irrisolto contrasto sulla durata massima delle misure cautelari in caso di sospensione
dell’esecuzione dell’estradizione disposta dal giudice amministrativo (Cass., sez. VI, 29
gennaio 2015, n. 4338)
47
INDICI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2015
185
Misure cautelari reali
Sequestro preventivo
- riesame
 La controversa ammissibilità della richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo avanzata dal difensore dell’ente non formalmente costituito (Cass., sez. II, 9 febbraio 2015, n. 5725), di Paola Corvi
 Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato sulla base dell’art. 19 del D.lgs. 231/2001 (Cass., sez. un., 17 marzo
2015, n. 11170)
46
44
Ordinamento giudiziario
 Disciplina della responsabilità civile dei magistrati (Legge 27 febbraio 2015, n. 18)
 La riforma della magistratura onoraria («D.d.l. S. 1738 Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e le altre disposizioni sui giudici di pace»)
28
Ordinamento penitenziario
 L’effettività della tutela risarcitoria delle condizioni detentive contrarie all’art. 3 Cedu: riflessioni a margine di un’indagine del Ministero della giustizia sulla prima applicazione
dell’art. 35-ter, l. n. 354/1975/Effectiveness of remedies of ill detention in case of violation of art.
Art. 3 Ehrc: observations on Minister of Justice’s statistical survey on the appliance of art 35-ter, l.
354/1975, di Fabio Fiorentin
150
Prescrizione del reato
 Per l’eterno giudicabile diventa effettivo il diritto alla prescrizione del reato (C. cost., sent.
25 marzo 2015, n. 45)
38
Responsabilità degli enti
 Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato sulla base dell’art. 19 del D.lgs. 231/2001 (Cass., sez. un., 17 marzo
2015, n. 11170)
44
Revisione
 Sull’applicabilità della procedura della sentenza “pilota” in caso di revisione (Cass., sez. VI,
6 novembre 2014, n. 46067), con nota di Roberta Greco
100
15
Sicurezza pubblica
 Per il concorrente esterno in associazione mafiosa è illegittima la presunzione assoluta di
adeguatezza della custodia in carcere (C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 48)
 Vietati i benefici ai condannati per il delitto di cui all’articolo 416-ter c.p. (L. 23 febbraio
2015, n. 19 «Divieto di concessione dei benefici ai condannati per il delitto di cui all'articolo
416-ter del codice penale»)
14
(Particolare) Tenuità del fatto
 Non punibilità per particolare tenuità del fatto (Decreto legge 16 marzo 2015, n. 28 «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto»)
13
INDICI
36