La Carta dei diritti fondamentali dell`Unione Europea

La Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea
Trento, 6 dicembre 2000
Prof. Roberto Toniatti
Ordinario di diritto pubblico comparato
Dipartimento di scienze giuridiche
Università degli Studi di Trento
Dott. Jens Woelk
Ricercatore di diritto pubblico comparato
Prof. Carlo Casonato
Associato di diritto comparato
Dott. Marco Dani
Dottorando di ricerca in “Libertà fondamentali nel Diritto
amministrativo e costituzionale comparato e comunitario”
Dott. Francesco Palermo
Assegnista di ricerca in diritto costituzionale comparato
GIUNTA DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO - 2002
Copyright:
Giunta della Provincia Autonoma di Trento, 2002
Centro Documentazione Europea
Coordinamento redazionale: Dott. Marco Zenatti
Stampa: Centro duplicazioni P.A.T.
La CARTA
dei diritti fondamentali dell’Unione europea : Trento, 6 dicembre 2000 / Roberto Toniatti... [et. al. ]. - [Trento] : Provincia autonoma di Trento. Giunta, 2002. 67 p. : 21 cm. - (Quaderni del CDE ; 10)
Atti del Seminario tenuto a Trento nel 2000
1. Diritti dell’uomo - Unione europea - Congressi - Trento - 2000 2. Diritti
dell’uomo - Diritto comunitario 3. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea I. Toniatti, Roberto
341.481
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Introduzione
Desideravo, innanzi tutto, porgere il mio cordiale benvenuto a tutti e ringraziare il prof. Toniatti ed il gruppo di Ricercatori dell’Università degli Studi di Trento che sono qui per parlarci della “Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione
Europea”. In particolare desidero ringraziare il dott. Jens Woelk, il prof. Carlo
Casonato, il dott. Francesco Palermo ed il dott. Marco Dani che ci consentiranno di entrare nello specifico di tale importante documento.
Si tratta, sicuramente, di un evento molto importante che chiude in bellezza
l’anno 2000 per quanto riguarda l’attività del Centro di Documentazione Europea. In quest’occasione vorrei ringraziare tutti coloro che lavorano per il C.D.E.
per il lavoro fino ad ora svolto.
Con il prof. Toniatti già nel 1996 abbiamo iniziato un percorso di stretta collaborazione tra la Provincia Autonoma di Trento e l’Università che ha consentito
di sottoscrivere la Convenzione tra la Provincia, l’Università degli Studi e l’Unione Europea per l’attivazione di un importante centro di documentazione ed informazione.
Tale centro costituisce una rete sul territorio dell’Unione Europea forse al più
alto livello e il suo scopo non è unicamente di diffondere l’informazione e mettere a disposizione strumenti operativi, ma anche di attivare momenti d’approfondimento, d’analisi e di studio su tematiche importanti e trasversali per tutti i
cittadini europei. E’ uno dei modi più efficaci per avvicinare l’Europa ai cittadini, quell’Europa che tutti noi vogliamo, ossia dei Cittadini, delle Regioni, dei
Popoli, e non soltanto l’Europa delle Banche, dal livello più semplice, che è
quello dell’informazione a quello più complesso della formazione, e da questo
punto di vista il bilancio è sicuramente positivo.
In questo periodo d’attività si sono svolti quindici seminari, compreso quello
odierno; in un mese ci sono circa 1.700 contatti sul sito internet del C.D.E. e lo
stesso è frequentato mediamente da 120 persone. Sono dati che vanno incrementandosi nel tempo e che, sicuramente, attestano l’interesse non soltanto dei
giovani che sono la maggioranza di coloro che frequentano il C.D.E., ma anche
amministratori che colgono in questo strumento la possibilità d’accedere direttamente alle informazioni che maggiormente loro interessano. Il materiale è
messo a disposizione gratuitamente, sia che si tratti della Collana dei Quaderni
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del C.D.E - che costituisce la raccolta degli Atti dei seminari - sia del Bollettino
d’Informazione mensile - l’Euro P.A - ormai giunto all’undicesimo numero e
che con la fine di quest’anno chiude l’anno sperimentale. I dati in nostro possesso ci convincono della validità di continuare sulla strada intrapresa, in quanto
abbiamo continui riscontri positivi.
Siamo convinti che il C.D.E. sia una delle realtà vitali alla quale non solo dobbiamo prestare la massima attenzione, ma noi vogliamo che diventi un vero
punto di riferimento, importante non solo per gli addetti ai lavori, ma per tutti
coloro che, cittadini d’Europa, intendono prendere consapevolezza di che cosa
significhi essere “cittadini d’Europa”.
Noi crediamo che debbano essere fatte alcune riflessioni ed io credo che -almeno dal mio punto di vista - dipenda sempre più dalla nostra capacità di tener
ben stretto il filo culturale che lega il nostro passato al futuro. Qualsiasi progetto, sia culturale, sia politico, sia economico, deve essere in grado di riproporre
il vero significato delle nostre tradizioni ed aprirci a nuovi investimenti. L’investimento in sapere: è il più importante e può sicuramente formare nella nostra
gente la coscienza di essere realmente, a tutti gli effetti, cittadini d’Europa.
In questo scenario un ruolo molto importante è affidato alle Regioni ed alle
Comunità locali, anche a quelle più periferiche. Il processo d’integrazione europea è, infatti, una colossale conquista, ma può anche nascondere il rischio di
assorbire ed appiattire un’enorme ricchezza di tradizioni e culture presenti in
Europa. Io credo quindi che è necessario essere pienamente consapevoli della
necessità di un ruolo attivo e responsabile da parte delle Regioni, di un’azione
efficace ed incisiva di concertazione nei confronti delle istituzioni europee, proprio per evitare di diventare soggetti passivi di decisioni e provvedimenti che,
spesso, rischiano di omogeneizzare ed anche appiattire, le realtà che, invece,
devono far risaltare e valorizzare le loro peculiarità.
Uno dei maggiori successi registrati a livello europeo è sicuramente l’Istituzione del Comitato delle Regioni che è organo dell’Unione Europea di rappresentanza regionale e che consente agli amministratori locali d’esprimere pareri ed
opinioni in relazione a settori politici specifici dell’Unione Europea e, quindi,
capace di sostenere con maggiore incisività ed efficacia le loro rivendicazioni.
Non è un caso che, all’interno dello stesso Comitato delle Regioni, inizino a
nascere - lo prevede lo stesso Regolamento del Comitato - i Gruppi interregionali,
raggruppamenti di Regioni che, rispetto ad altre, sono caratterizzate da situazioni economiche, ambientali e sociali molto simili.
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Il superamento dei confini non significa che non esistono più momenti necessari di confronto e di dialogo, anzi tutt’altro: questa necessità tende ad accentuarsi. Il Trentino, ad esempio, ha stabilito una fitta rete di rapporti bilaterali e di
collaborazione. Solo per citare alcuni degli esempi più significativi, ricordo che
sono iniziati contatti con la Baviera, con il Land del Salisburgo, con il Canton
Ticino, con il Land Tirolo, con la Scozia e, perfino, con la più lontana Polonia.
Con il progredire di questi rapporti, gli argomenti di discussione e di confronto
sono andati via via aumentando, anziché venire meno; proprio perché gli sviluppi politici ed economici - a livello europeo - impongono sempre nuove sfide
che vedono le Regioni impegnate in prima linea.
I settori di collaborazione sono molteplici e vanno dalle politiche ambientali,
all’agricoltura di montagna, alla politica sociale e sanitaria, alla cultura, all’istruzione, ai trasporti e, quindi, come si può vedere, investono gran parte
degli ambiti in cui siamo chiamati ad intervenire; si tratta di una collaborazione trasversale, con un’attenzione tutta particolare per i giovani.
Altro aspetto che mi premeva sottolineare, che considero un passo avanti verso
la possibilità di una maggiore collaborazione con le Regioni confinanti
transfrontaliere, è la firma - avvenuta ieri a Strasburgo da parte del Sottosegretario alle Minoranze, Giancarlo Bressa - del documento che ha recepito integralmente la Carta di Madrid. Anche se ci sarà la necessità di una ratifica da
parte del Parlamento, io credo che ci sarà una maggiore apertura rispetto alla
situazione di qualche anno fa quando era piuttosto “problematico” - com’era
successo alla Provincia di Trento, a quella di Bolzano ed al Land Tirolo - aprire
un ufficio di rappresentanza a Bruxelles.
Da allora sembrano essere passati dei secoli, mentre sono trascorsi soltanto
cinque anni: oggi io credo che la firma di questo documento dia un’ulteriore
possibilità, in questo senso, e non sia più quasi un “reato” quello di potersi
affacciare a livello europeo e consolidare con realtà a noi confinanti e che hanno le stesse problematiche e poter avere un preciso punto di riferimento che dia
più possibilità di far sentire la voce di queste Regioni.
L’Unione Europea si accinge, in un prossimo futuro, a compiere un passo molto
importante che, sicuramente, è quello dell’apertura ai Paesi dell’Europa centrale ed orientale. Ciò costituisce, per alcuni aspetti, una necessità di tipo economico ma anche storica e culturale, rispetto alla quale non esiste un’alternativa politica. Questo processo si rende necessario per poter assicurare innanzi
tutto, la pace, la libertà ed il benessere per tutta l’Europa e rappresenta un
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investimento per la stabilità dell’intero continente. Al tempo stesso questa è
anche la sfida - a mio avviso più grande - che si sia presentata fino ad ora nella
storia del processo d’unificazione europea, sia sotto il profilo della dimensione,
sia a causa dell’enorme divario economico, sociale e culturale.
Sono quindi lieto d’introdurre quest’importante seminario di studi e di riflessione, proprio alla vigilia del Consiglio Europeo di Nizza che dovrebbe segnare
un’ulteriore tappa del processo d’integrazione europea: la Carta dei Diritti
Fondamentali avrà conseguenze dirette sulla vita quotidiana di ciascuno di noi?
Io pongo questa domanda alla quale il prof. Toniatti con i suoi collaboratori e
gli altri autorevoli studiosi, entrando nello specifico della stessa, tenteranno di
dare una risposta.
Conoscere e riflettere su quest’importante e delicato momento storico, più di
una necessità morale ed anche politica, è un preciso dovere dei cittadini, in
quanto cittadini d’Europa: “temeraria prudenza” o “pavido coraggio?”. La
solennità della proclamazione è inversamente proporzionale all’efficacia del
contributo che essa è oggi in grado di dare alla tutela effettiva dei diritti fondamentale dei diritti dell’Unione?
Non si tratta, soltanto, di “un’inutile utilità o di un’utile inutilità”, bensì della
tessera funzionale alla costruzione di un mosaico (cito testualmente da quanto
scritto oggi dal prof. Toniatti sull’Alto Adige che abbiamo letto con molta attenzione e molto interesse). Io sono pienamente concorde con il prof. Toniatti quando
afferma che “la Carta nasce timida, sicuramente, ma potrebbe dimostrare una
grinta oggi non del tutto prevedibile”.
Personalmente sono convinto che, dopo anni di tentennamenti, quasi sempre si
sono succedute vere e proprie accelerazioni con risultati anche a volte insperati
e, quindi: “l’equivalenza funzionale”, è forse, veramente, la carta vincente.
Vi ringrazio e passo la parola al prof. Toniatti.
- Dott. Carlo Basani Dirigente generale del Dipartimento
rapporti comunitari e relazioni esterne
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Prof. Roberto Toniatti
L’adozione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è un fatto
certo nel contesto dei lavori di un Consiglio Europeo di Nizza che su molte altre
questioni si rivela invece fortemente diviso e incerto. E’ quindi opportuno chiedersi perché proprio e soltanto sull’adozione della Carta vi sia, sicuramente, un
consenso unanime.
In proposito possono proporsi due letture: la prima è che un consenso unanime
così sicuramente predicibile, sia legato alla “timidezza” della Carta. In altre
parole, la Carta di Nizza, così com’è scritta, non va ad urtare alcuna suscettibilità nazionale e altro non fa che esprimere la sintesi di una civiltà giuridica
basata sui diritti fondamentali che, certamente, rappresenta uno dei pilastri portanti della civiltà europea. Il consenso, inoltre, forse c’è anche proprio perché in
questo momento il dissenso si polarizza su altre questioni che sono legate alla
direzione politica e alla distribuzione del potere tra gli Stati membri dell’Unione
Europea.
In base ad una seconda lettura, che probabilmente è da considerarsi preferibile,
un consenso così agevole è connesso non tanto alla timidezza reale ed effettiva
della Carta stessa quanto alla sua timidezza solo apparente o, detto in altro modo,
è connesso a una mancanza di riflessione approfondita sulla portata potenziale
della Carta stessa. Questa è, infatti, la prospettiva di analisi più corretta per
questo nuovo atto che contribuisce in modo significativo al processo di integrazione europea, prospettiva suggerita ed avvalorata anche dall’esame retrospettivo dell’esperienza federale degli Stati Uniti d’America e, in particolare, del ruolo ricoperto dal Bill of Rights, concepito inizialmente per porre limiti al potere
legislativo federale e poi esteso dalla Corte Suprema anche al potere legislativo
degli Stati membri. E’ da ritenere che una dinamica non dissimile possa, con il
tempo, svilupparsi anche nell’Unione Europea e che, proseguendo del resto un
atteggiamento definito di “attivismo giudiziario” che nel passato è stato determinante per l’evoluzione della e nella legittimità dell’ordinamento giuridico
comunitario, anche la Corte Europea di Giustizia possa contribuire a fare della
timida Carta di oggi uno strumento incisivo ed efficace per la protezione dei
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diritti fondamentali. Queste dinamiche saranno oggetto di specifica trattazione
nel corso di questo seminario.
In questa sede introduttiva, conviene limitarsi solo a poche considerazioni.
Certamente la tutela dei diritti fondamentali non è un problema che si pone solo
oggi. Possiamo osservare che ci troviamo di fronte ad un aspetto strutturale
caratterizzante degli ordinamenti costituzionali degli Stati europei ma anche
della collaborazione internazionale del nostro continente: in proposito, non si
può dimenticare l’importante esperienza della Convenzione Europea e della Corte
Europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo nell’ambito del Consiglio d’Europa. Ma i problemi nuovi sono legati, da un lato, alla necessità di adeguare gli
strumenti di tutela alle nuove possibili lesioni dei diritti fondamentali e, dall’altro, all’esigenza di garantire che la tutela segua il potere, per così dire, e che, di
conseguenza, anche nell’ambito dell’Unione Europea, man mano che crescono
e si espandono le competenze funzionali, si consolidi un sistema di garanzie
proprio.
L’adozione della Carta di Nizza si pone dunque in questa direzione. Per limitarmi solo ad alcuni riferimenti ai contenuti, ricordo che nel Preambolo - ed è la
prima volta che questo avviene - si parla di diritti “alla luce dell’evoluzione
scientifica e tecnologica”. In altre parole, i politici che producono il diritto si
sono posti il problema di garantire i diritti la cui lesione possa verificarsi come
conseguenza dell’impatto dell’evoluzione scientifica e tecnologica: noi sappiamo tutti come queste questioni sollevino problemi, anche di coscienza, molto
gravi e, da questo punto di vista, l’Unione Europea dimostra una grande lungimiranza.
Un altro tema sul quale giova richiamare l’attenzione è rappresentato dal principio di sussidiarietà applicato alla tutela dei diritti fondamentali, così come risulta da questa Carta. Tale principio si presenta ormai come principio cardine in
questo grande processo di redistribuzione del potere su base territoriale. La tutela dei diritti fondamentali s’impone a tutti i livelli territoriali di governo ed anche su questo punto la Carta è estremamente interessante. Su molte questioni,
infatti, essa pone in evidenza come l’Unione Europea non voglia sottrarre spazio normativo agli Stati membri, tenuto anche conto che uno degli obiettivi - o
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dei limiti - dell’Unione stessa è anche quello di rispettare e garantire le differenze culturali al suo interno; ma nello stesso tempo l’Unione non può rinunciare a
stabilire criteri comuni e condivisi, aventi ad oggetto il contenuto essenziale dei
diritti.
L’adozione della Carta - una Carta, dunque, non tanto timida - esprime evidentemente una sintesi fra diritto e politica e, come già osservato, esprime un potenziale di sviluppo che inevitabilmente, al di là dell’agevole consenso di oggi, non
riuscirà ad evitare che si generino occasioni di tensione (fra Stati membri e, in
particolare fra le rispettive giurisdizioni). In proposito, occorre mettere in evidenza come uno dei fattori di legittimazione dell’intera costruzione europea sia
l’omogeneità dell’assetto politico istituzionale interno, rispetto al quale la tutela
dei diritti fondamentali è uno dei pilastri, se non addirittura, il pilastro essenziale.
Già nel 1977 - e questo è un dato che spesso è dimenticato - i tre organi politici
della Comunità Europea, ossia il Parlamento, il Consiglio e la Commissione
avevano adottato una dichiarazione comune in base alla quale le istituzioni
comunitarie si sono impegnate a rispettare “nell’esercizio dei loro poteri e perseguendo gli obiettivi delle Comunità europee” tali diritti, “quali risultano in
particolare dalle costituzioni degli Stati membri nonché dalla convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.
Questa è un’affermazione dichiarativa unilaterale, un impegno assunto di fronte
all’opinione pubblica ma non è un impegno assunto in modo da consentire l’eventuale “giustiziabilità” dei diritti lesi, ossia la possibilità di rivolgersi al giudice
per rivendicare la tutela e la reintegrazione nel diritto che sia stato violato. Si
comprende come questa situazione, già protrattasi troppo a lungo, non potesse
durare ulteriormente e, come spesso avviene, si è verificata di recente una notevole accelerazione dei tempi per arrivare a una soluzione. Nel corso del 1999,
la Commissione ha affidato una ricerca ad un gruppo d’esperti che ha presentato un rapporto intitolato “Per l’affermazione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea: è tempo di agire”, e questo titolo mi sembra assai significativo. Nel
giugno del 1999 il Consiglio Europeo, riunito a Colonia, ha deciso di varare
questa Carta Europea e nei primi giorni del dicembre 2000 la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea sarà adottata, anche non le verrà conferito
da subito valore giuridico.
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Si è trattato, alla fine, di un processo estremamente rapido nel tempo eppure è
da sottolineare che si è avuto cura di far sì che l’elaborazione di questa Carta
europea fosse il risultato terminale di un procedimento ampiamente partecipato,
attraverso la scelta - mai prima praticata - di creare un organo rappresentativo
(anche se di secondo grado) che interagisse anche con l’opinione pubblica. Si è
dato vita infatti a un organo ad hoc che è stato chiamato Convenzione (probabilmente per reminiscenze storiche, pensando alla Convenzione costituente di
Filadelfia che scrisse la Costituzione federale degli Stati Uniti o alla Convenzione francese che, dalle vicende rivoluzionarie, ha dato origine al costituzionalismo del continente europeo).
In seno alla Convenzione si è avuta una rappresentanza dei Capi di Stato e di
Governo (mi piace ricordare che, per parte italiana, la persona coinvolta è stata
il prof. Stefano Rodotà, attuale Garante per la privacy), della Commissione, del
Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali. Sono stati coinvolti anche tutti
gli organismi che fanno capo alla Comunità Europea (il Comitato Economico e
Sociale, il Comitato delle Regioni, il Difensore Civico Europeo). Inoltre sono
state organizzate delle audizioni pubbliche in occasione delle quali circa
centocinquanta organizzazioni europee (sindacali, religiose, giovanili, filosofiche, imprenditoriali, etc.) hanno partecipato e presentato dei documenti scritti.
E’ stato attivato, come ha insegnato in maniera emblematica il procedimento
costituente seguito in Sud Africa, un sito internet che forniva tutte le informazioni; è stata attivata una linea di comunicazione via e-mail, attraverso la quale
tutti i cittadini potevano esprimere la loro opinione, anche se non mi risulta che
molti l’abbiano fatto (io non l’ho fatto).
In altre parole, si è creato un organo che realizzasse un’interazione - sia pure di
secondo grado - tra organi politici rappresentativi e società civile. Alla fine di
tutto questo è stato aggregato un consenso sufficiente a creare dissenso: cosa di
cui si può essere soddisfatti. In altri termini, un’accettazione unanime da parte
di tutti i milioni di cittadini europei di questo documento sarebbe stata, a mio
avviso, negativa. Un complesso di norme di questa portata, infatti, che non generi dissenso, non va a toccare nessun interesse. Il consenso, tuttavia, è stato
maggioritario e, nei prossimi giorni, assisteremo alla proclamazione “solenne”
della Carta: certo si può sorridere all’uso di questa formula, anche perché essa
genera il sospetto che la “solennità” della proclamazione corrisponda ad una
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logica compensativa di qualche lacuna (in primo luogo, l’assenza, per ora, di
valore giuridico). Rimane tuttavia il fatto che questo evento segna una tappa nel
procedimento d’integrazione europea e che, di conseguenza, la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea meriti di essere conosciuta e studiata.
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Dott. Jens Woelk
Il sistema delle garanzie comunitarie prima della Carta
1. La necessità di una garanzia dei diritti fondamentali nasce dal primato
del diritto comunitario
L’assenza di disposizioni nell’ordinamento comunitario volte a tutelare i diritti
fondamentali ha costituito per tanto tempo uno degli aspetti più controversi di
tutto il processo di integrazione comunitaria. Questa lacuna aveva suscitato non
poche perplessità nei diversi Stati, perché l’attribuzione alla Comunità di ampi
poteri in materie che toccavano direttamente la vita dei cittadini europei non
trovava alcun rimedio giurisdizionale nell’ipotesi in cui con gli atti comunitari
fossero stati violati diritti fondamentali. Si poneva inoltre il problema dei rapporti tra il diritto nazionale (quindici ordinamenti, spesso con un catalogo costituzionale dei diritti fondamentali), la Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950 (CEDU) e il diritto comunitario (finora sprovvisto di un esplicito elenco
dei diritti fondamentali nei Trattati).
Inizialmente la Corte di Giustizia (CdG) evitò la questione della tutela dei diritti
fondamentali, dichiarandola appartenente al diritto costituzionale dei singoli Stati
membri; si preoccupò molto invece di assicurare il principio del primato del
diritto comunitario: in caso di conflitto, di contraddizione o di incompatibilità
tra norme di diritto comunitario e norme nazionali, le prime prevalgono sulle
seconde. Il principio è conseguenza della limitazione, sia pure in campi circoscritti, dei poteri sovrani degli Stati membri, che ha permesso l’istituzione della
Comunità e la creazione di un complesso di diritto autonomo e vincolante per i
cittadini e per gli stessi Stati membri.
Le affermazioni della CdG sul primato del diritto comunitario sfidarono le Corti
costituzionali nazionali nella loro veste (e nel loro monopolio) di garante dei
diritti fondamentali e le risposte non si fecero aspettare tanto. Particolarmente
sentita fu la risposta del Tribunale costituzionale federale tedesco (BVerfG), che
nel 1974 si riservò una “competenza di verifica, nel caso di applicazione di
norme comunitarie da parte dei giudici nazionali, nei casi dubbi rispetto alla
conformità con il diritto costituzionale, fintantoché non esista ancora un catalo- 12 -
go comunitario dei diritti umani” (sentenza “Solange I”). A questa sentenza
viene spesso attribuito un effetto catalitico per la giurisprudenza della CdG, che
nello stesso periodo creò le fondamenta della propria giurisprudenza in materia
di diritti fondamentali. Prendendo atto di questo sviluppo giurisprudenziale di
tutela, già nel 1986 il BVerfG sospese espressamente la propria riserva,
“fintantoché la Corte di Giustizia garantisce una tutela analoga a quella del
BVerfG nei confronti di atti delle Comunità” (sentenza “Solange II”).
2. Come si articola il sistema di tutela a livello comunitario?
Nonostante la constatata mancanza di un catalogo esplicito, i trattati comprendono tuttavia alcune disposizioni che svolgono un ruolo analogo a quello dei
diritti fondamentali in ambito nazionale, in particolare l’articolato principio di
non-discriminazione e le quattro cosiddette libertà fondamentali “originarie”.
Il divieto generale di discriminazione dell’art. 12 par. 1 TCE vieta ogni discriminazione effettuata in base alla cittadinanza, comprendendo sia discriminazioni
“aperte” sia discriminazioni “occulte” (ossia atti discriminatori che senza alcun
riferimento esplicito alla cittadinanza di norma interessano soltanto stranieri).
La discriminazione è vietata nell’ambito di applicazione del Trattato, cioè in
tutti i casi nei quali agiscono le Comunità oppure gli Stati membri; dalla discriminazione vietata consegue il diritto del discriminato alla prestazione concessa
al privilegiato. Il principio di non-discriminazione speciale dell’art. 141 (ex 119)
TCE vieta ogni forma di discriminazione tra uomini e donne riguardo alla retribuzione per lo stesso lavoro. Si tratta di una norma direttamente applicabile
negli Stati membri, estesa dalla direttiva 76/207 alle condizioni di lavoro e all’
accesso all’occupazione.
Le quattro libertà fondamentali originarie dei Trattati concretizzano il divieto
generale di discriminazione senza esaurirsi in questa funzione. La libertà di movimento dei lavoratori, artt. 39 (ex 48) ss., la libertà di stabilimento, artt. 43 (ex
52) ss. e la libera prestazione di servizi, artt. 49 (ex 59) ss. vengono spesso
chiamate regole fondamentali oppure principi fondamentali da parte della Corte
di Giustizia che però non parla mai di diritti fondamentali veri e propri. A causa
del primato del diritto comunitario nei confronti degli ordinamenti nazionali
questi principi fondamentali bloccano l’applicazione delle disposizioni nazionali contrastanti.
La lacuna nel diritto positivo era stata parzialmente colmata dalla Corte di Giu- 13 -
stizia (CdG) che fungeva come motore dello sviluppo giurisprudenziale dei
diritti fondamentali, sin dalla sentenza Stauder del 1969, la quale affermava che
la tutela dei diritti fondamentali costituisce parte integrante dei principi generali
di cui la Corte garantisce l’osservanza. Nella sua sentenza Internationale
Handelsgesellschaft del 1970, la CdG aggiungeva che essa si ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e che non può ammettere provvedimenti incompatibili con i diritti fondamentali riconosciuti dalle Costituzioni
di tali Stati o – come aggiunto nella sentenza Nold del 1974 - dalle Convenzioni
internazionali da essi stipulati; in particolare la Convenzione europea sui diritti
dell’uomo (ratificata da parte di tutti gli Stati membri).
Non c’è dunque spazio per un’applicazione dei diritti fondamentali nazionali a
livello comunitario, concezione che si trova in conformità con la classificazione
della qualità dell’ordinamento comunitario come ordinamento autonomo. Spetta come compito esclusivo al giudice comunitario la rilevazione della sussistenza di un diritto fondamentale comunitario attraverso il riferimento a quattro
fonti di riconoscimento: i principi del diritto comunitario, le tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, i trattati internazionali in materia di tutela
dei diritti umani (in particolare la CEDU), e la Dichiarazione del Parlamento sui
diritti fondamentali.
Velocemente si è sviluppata una teoria in materia di tutela dei diritti fondamentali, riconoscendola come parte non scritta del diritto comunitario: i principi
generali di diritto comuni agli Stati membri1 . Essi sono diventati un frequente
motivo per il controllo di legittimità nei confronti di atti comunitari e prova
dell’influenza esercitata dal diritto costituzionale degli Stati membri sul diritto
comunitario.
I contenuti delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri si evincono
col metodo comparatistico-valutativo: non vige il principio del minimo comun
denominatore, d’altra parte non si può applicare neanche uno standard massimo. L’obiettivo è dunque la soluzione più adatta del caso in esame e non
l’individuazione giurisprudenziale di un patrimonio comune europeo di questi
diritti. C’è da osservare che l’utilizzo di principi non scritti al posto di diritti
espressamente garantiti apre tuttavia uno spazio per un “creative law-making”:
né le tradizioni comuni alle Costituzioni degli Stati membri, né i trattati internazionali in materia di diritti umani sono considerati vincolanti dalla Corte, ma
fungono come mera fonte di “ispirazione”.
Anche se il più importante trattato internazionale in materia di tutela dei diritti
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umani per l’Europa, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (CEDU), è stato ratificato da parte di tutti gli Stati membri,
la Comunità stessa non può diventare parte della Convenzione senza una revisione dei trattati stessi2 e perciò attualmente i diritti ivi elencati non la possono
vincolare in modo diretto. Nonostante i cittadini non potessero quindi avvalersi
del particolare meccanismo di tutela istituito dalla Convenzione per fare controllare atti comunitari, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, già da tempo
ha di fatto dato applicazione ai principi contenuti nella CEDU, seppur in modo
autonomo e parallelo integrando quindi la CEDU nel diritto comunitario; ciò
nonostante le competenze della Corte di Giustizia europea e della Corte europea
dei diritti dell’uomo rimangono distinte ed indipendenti.
Saltuariamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia fa riferimento alla –
non vincolante – Dichiarazione del Parlamento, del Consiglio e della Commissione sulla salvaguardia dei diritti fondamentali del 5 aprile 1977 che può essere
vista come un primo riconoscimento – informale - dell’evoluzione
giurisprudenziale in materia di tutela dei diritti fondamentali. Una base per l’introduzione di un vero e proprio catalogo di diritti fondamentali nel diritto comunitario avrebbe dovuto essere la Dichiarazione del Parlamento europeo del 1989.
Nonostante il loro carattere di “soft-law”, queste fonti non sono tuttavia prive di
significato giuridico-politico, proprio a causa dell’esplicito riconoscimento dei
diritti fondamentali da parte degli organi comunitari.
3. La concretizzazione attraverso singole garanzie
Sono i cittadini dell’Unione (dei singoli Stati membri, art. 17 TCE) che godono
dei diritti e che sono soggetti ai doveri previsti dal trattato. I destinatari dei diritti
fondamentali sono persone fisiche e giuridiche (le ultime se la loro sede si trova
sul territorio della Comunità) a condizione che ne esistano le premesse corrispondenti; anche i cittadini di Stati terzi possono invocare i diritti fondamentali.
La creazione innovativa di un catalogo “immaginario” di diritti fondamentali da
parte della Corte di Giustizia è tuttavia limitata dalla sua funzione per la risoluzione di casi concreti. Di conseguenza, lo sviluppo giurisprudenziale non è in
grado di poter individuare, - dai principi generali di diritto, - diritti fondamentali
per tutti gli ambiti che necessitano di un tale chiarimento. Inoltre non sarà neanche sempre possibile elaborare la portata e i limiti della tutela nel modo generale
necessario, talvolta a scapito della certezza e prevedibilità del diritto.
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Inoltre manca ancora una teoria sui limiti dei diritti fondamentali specifica e trasparente per l’ordinamento comunitario. Non sono noti molti precedenti di dichiarazione di illegittimità e di annullamento di atti comunitari da parte della CdG: in
quasi tutti i casi essa “giustificava” le misure contestate nello spirito della sua
giurisprudenza sull’”effect-utile”, cioè a favore dei criteri di integrazione. Spesso
la CdG si limita a rilevare che i diritti fondamentali non sono riconosciuti in modo
assoluto e senza limiti. Essi devono invece inserirsi nel contesto comunitario, determinato sia dalla sua struttura sia dagli obiettivi della Comunità e vanno pertanto
considerati nell’ottica della funzione sociale dell’attività tutelata.
Tuttavia, anche i limiti dei diritti fondamentali hanno a loro volta dei confini, in
quanto vanno contemperati con il criterio di proporzionalità e con la garanzia
del loro contenuto essenziale. In base alla giurisprudenza della Corte sono conformi al principio di proporzionalità gli atti
· con i quali si persegue un obiettivo legittimo dell’interesse pubblico europeo,
· che sono oggettivamente necessari e appropriati in relazione a tale obiettivo,
· che sono proporzionali in senso stretto, cioè ragionevoli nella relazione tra
oneri sostenuti e obiettivi perseguiti.
I diritti fondamentali che la CdG ha richiamato in alcune pronunce spaziano dal
diritto di proprietà e dal diritto al libero esercizio di un’attività economica o
professionale, al riconoscimento del diritto alla tutela giurisdizionale piena ed
effettiva. Tra gli altri diritti riconosciuti vanno ricordati la libertà di religione, la
libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di pubblicazione, il rispetto
della sfera privata e della segretezza della corrispondenza, l’irretroattività delle
norme penali, il rispetto dei diritti di difesa, nonché il diritto alla tutela
giurisdizionale piena ed effettiva.
Anche il diritto all’autodeterminazione delle informazioni (ossia il diritto di
disporre dei propri dati personali) è stato riconosciuto dalla Corte di Giustizia:
dopo la sentenza il signor Erich Stauder di Ulm in Germania non doveva più
rivelare il proprio nome nel negozio ogniqualvolta acquistasse del burro sovvenzionato dall’assistenza sociale. La famosa sentenza del 1969, la prima in
assoluto in materia di diritti fondamentali, ha però reso noto il suo nome e il suo
stato di esigenza sociale in tutta l’Europa, visto che la sentenza è stata pubblicata, come al solito, elencando i nomi di tutte le parti del processo.
Si tratta comunque di un elenco “aperto”, come risulta peraltro già dal carattere
stesso dei principi generali di diritto che hanno bisogno di una loro
concretizzazione per l’applicazione nel caso specifico. Sono quindi potenzial- 16 -
mente “eligibili” tutti i diritti contenuti sia nelle Costituzioni degli Stati membri
sia nella Convenzione europea sui diritti umani. La Corte raramente ha negato il
riconoscimento di un diritto fondamentale, più prudente è stata invece nell’affermare la violazione di tali diritti.
Molto delicato, perché riguardante il contrasto tra il diritto comunitario ed un
diritto fondamentale contenuto nella Costituzione di uno Stato membro, è stato
il caso con il quale la Corte di Giustizia ha affermato la tutela dell’inviolabilità
del domicilio nei confronti di organi comunitari. Diversamente dall’art. 13 della
Legge Fondamentale tedesca (GG), a livello comunitario risultano tutelati soltanto locali ad uso abitativo, ad esclusione quindi di locali ad uso commerciale.
La sentenza Hoechst illustra bene il metodo comparatistico-valutativo applicato
dalla Corte per individuare in concreto la portata reale del diritto fondamentale
in questione, metodo ulteriormente “corretto” da una valutazione dell’interesse
comunitario che, in questo caso, risulta come limite per il contenuto più ampio
del diritto a livello nazionale3 .
Il rapporto tra Costituzioni degli Stati membri e diritto comunitario in materia
dei diritti fondamentali non funziona tuttavia a senso unico: si tratta di una vera
e propria interazione per cui anche gli ordinamenti degli Stati membri talvolta
ricevono degli impulsi forti, in particolare dal divieto di discriminazioni, fino
alla necessità di effettuare modifiche costituzionali.
Un primo effetto di questa interazione, legato al principio di uguaglianza, è
dovuto al primato del diritto comunitario che può creare il problema delle cosiddette disciminazioni “a rovescio”, ossia l’effetto di un trattamento privilegiato di cittadini di altri Stati membri a causa del divieto comunitario di discriminazione rispetto a cittadini dello Stato interessato nei confronti dei quali non trova
però applicazione la disciplina comunitaria, ma continua ad essere applicata la
disciplina – talvolta più sfavorevole - nazionale. Seppure tale disparità di trattamento tra imprese nazionali e imprese di altri Stati membri risulti irrilevante
sotto il profilo del diritto comunitario, secondo la Corte costituzionale italiana
non può esserlo per il diritto costituzionale italiano. In un caso sulla produzione
della pasta, la Consulta ha perciò indicato come sola alternativa praticabile dal
legislatore italiano, obbligato a rispettare il principio comunitario di libera circolazione delle merci, l’equiparazione della disciplina della produzione e della
commercializzazione delle imprese nazionali a quella che vale per i produttori e
venditori degli altri Stati membri, adeguando così il diritto interno alla normativa comunitaria.
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Talvolta tali adeguamenti interpretativi o la disapplicazione di norme interne di
rango legislativo non sono però sufficienti per adempiere al rispetto del primato
del diritto comunitario. Questo vale particolarmente per i casi di applicabilità
diretta di disposizioni nei Trattati, ad esempio per l’obbligo di non-discriminazione donne-uomini. In un caso recente la richiesta di Tanja Kreil, una giovane
diplomata in elettronica che aspirava ad un posto di lavoro presso l’esercito
tedesco, era stata respinta sulla base dell’articolo 12 a, c. 4 Legge Fondamentale
(GG), per il quale in nessun caso è permesso a una donna di prestare servizio
militare con le armi. Mentre già in altri due casi, su richiesta di tribunali tedeschi, la Corte di Giustizia interpretando “autenticamente” la direttiva sulla parità di trattamento, ha “corretto” le normative tedesche, in questo caso, per la
prima volta, la Corte ha dovuto pronunciarsi, proprio nell’ambito dei diritti fondamentali, sul netto conflitto tra una direttiva europea e una norma di rango
costituzionale. Il diritto in gioco, ovvero la parità di trattamento tra uomini e
donne, fa parte dei cataloghi dei diritti tutelati ad ogni livello normativo: dal
diritto europeo primario e secondario al diritto tedesco (e anche italiano) costituzionale. L’avvocato generale, La Pergola, ha valutato il servizio militare - per
lo meno il servizio in questione, cioè l’assistenza tecnica per le armi elettroniche - come qualsiasi altro lavoro, oggetto di libera scelta individuale e governato dal principio di parità di trattamento dei sessi. Dall’altra parte, il governo
tedesco ha opposto che il potere organizzativo nel campo militare e della difesa
è di spettanza esclusiva degli Stati membri, e non della Comunità. Dopo la decisione della Corte a favore dell’aspirante soldato donna, una revisione costituzionale era inevitabile: in futuro le donne potranno prestare servizio militare
armato, ma non potranno esserne obbligate.
4. Il riconoscimento dello sviluppo giurisprudenziale nei Trattati
L’introduzione nei Trattati delle due fonti di ricognizione principali, utilizzate
dalla Corte di Giustizia nella sua giurisprudenza in materia di tutela dei diritti
fondamentali, costituisce, nella forma di una clausola generale, conferma esplicita di tale sviluppo giurisprudenziale: l’articolo F (ora art. 6, paragrafo 2) del
Trattato sull’Unione europea (trattato di Maastricht, entrato in vigore il 1.11.1993)
definisce le fonti di un riconoscimento dei diritti fondamentali attraverso l’affermazione che “l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
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fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del
diritto comunitario”.
Altri riferimenti espliciti ai diritti fondamentali furono inseriti dal Trattato di
Amsterdam (entrato in vigore il 1 maggio 1999), tra cui in particolare l’articolo
6, paragrafo 1, TUE, secondo il quale “l’Unione si fonda sui principi di libertà,
democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dello
stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri”. L’articolo 46 TUE
ha inoltre esteso la competenza della Corte di Giustizia attraverso il richiamo
alla CEDU (operato dall’art. 6, paragrafo 2).
Con i riferimenti alla CEDU e alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, quali principi generali del diritto comunitario, viene tuttavia conservato il sistema precedente del rinvio. Esso viene esteso inoltre ai diritti sociali
fondamentali: nel suo preambolo infatti il Trattato conferma esplicitamente l’importanza attribuita dall’Unione ai diritti fondamentali in campo sociale, ma sia
lo stesso preambolo che l’art. 136 TCE si limitano a meri riferimenti alla Carta
sociale europea del 1961 (Consiglio d’Europa) e alla Carta comunitaria del 1989.
Non vanno dimenticate le procedure introdotte e volte a garantire la tutela di
singoli diritti fondamentali: l’art. 13 TCE autorizza il Consiglio, previa consultazione del Parlamento europeo, ad adottare misure appropriate per combattere
ogni forma di discriminazione, indicando i potenziali ambiti di intervento, che
vanno dalle discriminazioni basate sul sesso o sull’origine razziale o etnica, a
quelle basate sulla religione, sulla coscienza, sugli handicap, sull’età o sulle
inclinazioni sessuali. La Comunità può, pertanto, elaborare politiche e proposte
intese a prevenire tali discriminazioni4 .
Altre rilevanti novità introdotte dal Trattato di Amsterdam sono l’esplicito riferimento al rispetto dei diritti fondamentali come requisito per l’adesione di nuovi Stati all’Unione (art. 49 TUE)5 , e la procedura sanzionatoria nei confronti di
quegli Stati membri che non rispettano i principi sanciti dall’articolo 6, paragrafo 1 TUE (cfr. l’art. 7 TUE, del quale nel 2000 non è tuttavia stato fatto uso nel
caso delle sanzioni contro l’Austria).
5. Considerazioni conclusive
La storia dei diritti fondamentali a livello comunitario è determinata dagli effetti
espansivi dei principi di non-discriminazione e delle libertà fondamentali del
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trattato, i quali, attraverso la giurisprudenza della Corte di Giustizia e al fine di
garantire il primato del diritto comunitario, hanno sviluppato una dinamica analoga a quella del processo di integrazione. Sono state soprattutto le sentenze
della Corte di Giustizia a creare il diritto vivente dei diritti fondamentali a livello comunitario. La Corte continuerà a esercitare un’influenza decisiva sulla loro
interpretazione e applicazione futura (compito reso non sempre facile per il fatto che le norme sulla sua giurisdizione risultano frammentarie; ugualmente complesse sono le relazioni con la Corte europea dei diritti dell’uomo, che andrebbero chiarite). Il Trattato di Amsterdam ha riaffermato l’impegno dell’Unione
europea a favore dei diritti fondamentali e ha dato nuovo impulso all’obbligo di
sviluppare e di attuare politiche a garanzia della protezione di tali diritti, anche
se non ha colmato le lacune e non ha corretto le incoerenze sopra descritte.
La funzione (storica) dei diritti fondamentali sta soprattutto nella tutela contro
interventi del potere pubblico (statale); più tardi si sono aggiunte la funzione
della partecipazione al processo politico e la portata sociale, nonché la garanzia
di una tutela giurisdizionale piena ed effettiva. La creazione (soprattutto
giurisprudenziale) di uno standard considerevole di tutela dei diritti fondamentali a livello comunitario ha permesso di riconoscere la legittimità degli organi
comunitari e delle loro attività. Infatti, secondo i diversi pareri di varie Corte
costituzionali nazionali, grazie alla giurisprudenza della CdG a livello comunitario i diritti fondamentali risultavano già prima della “proclamazione solenne”
della Carta di Nizza, garantiti in modo sufficiente.
Si potrebbe arrivare dunque alla conclusione che un’enumerazione esplicita di
tali diritti da parte dell’Unione europea non aggiungerebbe quasi niente allo
standard di tutela esistente. Tuttavia un sistema poco organico e poco trasparente che praticamente “nasconde” i diritti fondamentali (attraverso citazioni e rinvii) non crea soltanto problemi sotto il profilo della certezza del diritto, ma non
è certamente di facile comprensione e trasparenza per i cittadini. L’esplicito ed
inequivocabile riconoscimento dei diritti fondamentali è stato quindi considerato auspicabile da parte di tanti.
Oltre ad essere diritti individuali, attraverso la loro dimensione oggettiva, i
diritti fondamentali obbligano il potere pubblico come garante di libertà e
costituiscono in tal modo, un ordinamento di valori oggettivi, comune agli
Stati membri. Per questo motivo il livello di tutela dei diritti fondamentali è
indubbiamente una garanzia importante per il singolo cittadino, ma allo stesso tempo il grado di importanza conferita ad essi nel diritto positivo sembra
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un ottimo indicatore per lo stato di avanzamento del processo di integrazione
e di costituzionalizzazione dell’Europa.
Riferimenti giurisprudenziali
Corte di Giustizia
Sent. 12-11-1969, causa C-29/69, Stauder, in Racc. 1969, 419 (425).
Sent. 17-12-1970, causa C-11/70, Internationale Handelsgesellschaft, in Racc.
1970, 1125 (1134).
Sent. 14-5-1974, causa C-4/73, Nold, in Racc. 1974, 491 (506).
Sent. 13-12-1979, causa C-44/79, Hauer, in Racc. 1979, 3727 (3744 ss.).
Sent. 21-9-1989, cause riunite C-46/87 e 227/88, Hoechst, in Racc. 1989, 2859.
Opinione 2/94 del 28-3-1996, (adesione CEDU) in Racc. I-1759
Sent. 11-1-2000, causa C-285/98, Tanja Kreil, in Racc. 2000, I-69
Corte costituzionale
Sentenza del 16 (30) dicembre 1997, n. 443 (produzione pasta)
1
2
3
Una fonte di diritto alla quale si fa tradizionalmente ricorso per colmare lacune. Il TCE conteneva un
tale esplicito permesso soltanto nell’ambito specifico e ristretto della responsabilità extracontrattuale
della Comunità: l’art. 288 c. 2 (ex art. 215 c. 2) TCE. Oggi, il riferimento esplicito ai principi generali
nell’art. 288 TCE è considerato meramente come uno dei tanti casi di applicazione di una regola più
ampia.
In mancanza di un’esplicita competenza in materia nei trattati comunitari e a causa delle ampie conseguenze istituzionali e sostanziali, che un’eventuale adesione avrebbe per l’attuale sistema comunitario,
ritenute di portata costituzionale, la Comunità non può diventare parte della Convenzione senza una
revisione dei trattati stessi. (CdG, Opinione 2/94).
Relativamente all’ambito di tutela, nel caso Hoechst, la Corte esplicitava che “sebbene il riconoscimento del diritto fondamentale all’inviolabilità del domicilio si imponga nell’ordinamento comunitario in
quanto principio comune ai diritti degli Stati membri per ciò che attiene al domicilio privato delle persone fisiche, lo stesso non può dirsi per quanto riguarda le imprese, poiché i sistemi giuridici degli Stati
membri presentano differenze non trascurabili quanto alla natura ed alla misura della tutela dei locali
commerciali di fronte agli interventi delle autorità pubbliche. Non si può giungere ad una conclusione
diversa in base all’art. 8 della convenzione europea sui diritti dell’ uomo”. Per quanto riguarda il carattere generale del principio di diritto in questione, la Corte afferma poi tuttavia che “tutti i sistemi giuri-
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4
5
dici degli Stati membri […] prevedono pertanto, seppure con modalità diverse, una protezione nei confronti di interventi arbitrari o sproporzionati dei pubblici poteri nella sfera di attività privata di ogni
persona, sia fisica sia giuridica. L’esigenza di una siffatta protezione deve quindi essere ammessa come
un principio generale del diritto comunitario”.
Nella sua argomentazione la Corte prosegue poi ad una valutazione con l’interesse comunitario: “a
questo proposito, il diritto di accedere a tutti i locali, terreni o mezzi di trasporto delle imprese riveste
una particolare importanza in quanto deve consentire alla Commissione di raccogliere le prove delle
violazioni delle norme sulla concorrenza nei luoghi in cui esse di regola si trovano, vale a dire nei locali
commerciali delle imprese. Questo diritto di accesso sarebbe inutile se gli agenti della Commissione
dovessero limitarsi a chiedere la produzione di documenti o di fascicoli che possano prima identificare
con precisione.”. Per quanto riguarda le modalità, la Corte ricorda che la Commissione è obbligata ad
agire col concorso delle autorità nazionali, che devono prestare l’assistenza necessaria.
Inoltre, il disposto di statuizioni quali l’art. 3, paragrafo 2 e l’art. 141, paragrafo 4 TCE, permette perfino
azioni positive a garanzia dell’effettiva parità di uomini e donne.
Inoltre, nell’ambito della politica di sviluppo, vengono sempre più spesso utilizzate nei trattati con paesi
terzi clausole che prevedono l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali (a pena della sospensione del
contratto o della ritenuta di prestazioni contrattuali, artt. 130u, par. 2, e 130y TCE).
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Prof. Carlo Casonato
La Carta e i suoi diritti
un’analisi critica del contenuto della carta dei diritti fondamentali
dell’unione europea
1. Gli interrogativi sul contenuto della Carta
Dagli interventi che mi hanno preceduto emerge chiaramente come la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea non voglia porsi come fonte esclusiva
ed unitaria dei diritti di cui godiamo come cittadini comunitari. Suo obiettivo, si
legge nel Preambolo, consiste più modestamente nel rendere più visibili i diritti
fondamentali. Lo stesso Preambolo, tuttavia, fissa anche lo scopo di rafforzare
la tutela di tali diritti chiarendo come non si voglia trattare esclusivamente di
un’opera di maquillages o di immagine. Obiettivo complessivo della Carta quindi
pare quello “riconciliare” - ed uso appositamente un termine vago - il diritto
comunitario con i diritti fondamentali, fissandoli in modo più certo ed ordinato.
A fronte di quest’obiettivo - non sempre centrato, come vedremo - pare opportuno interrogarsi su quali siano i diritti fondamentali che si vogliono rendere più
visibili e “forti”: si tratta di “diritti vecchi” che si desidera solo raccogliere in
una sorta di “testo unico” oppure si comprendono anche diritti nuovi? È possibile che la Carta sia, al contrario, controproducente e che la tutela di alcuni
diritti venga limitata a seguito della sua proclamazione? Ancora, vi sono diritti
che avrebbero dovuto essere inseriti e la cui assenza stride con quanto già previsto? E che ruolo può giocare una Carta proclamata solennemente, ma che non
avrà valore giuridico e che risulterà quindi priva del carattere di vincolatività
che dovrebbe invece accompagnare il riconoscimento di diritti che si dicono
fondamentali?
Nei giorni a ridosso della Conferenza di Nizza, la Carta era stata interpretata in
termini molto contrastanti1 . Da parte mia, tenterò di chiarire, attraverso un’analisi critica del contenuto della Carta, la portata ed il significato che i diritti in
essa inseriti potranno assumere all’interno dell’ordinamento comunitario.
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2. Il Preambolo: elementi per una nuova Europa?
Il Preambolo con cui si apre la Carta è importante per una serie di motivi.
Innanzi tutto, al suo interno troviamo il riconoscimento e la tutela del pluralismo esistente in Europa. La Carta, infatti, parla espressamente de “I popoli
europei” differenziandosi dalla formulazione al singolare (“We the People”)
con cui inizia, ad esempio, la Costituzione degli Stati Uniti d’America. E
quest’impostazione non si esaurisce a livello lessicale, ma si arricchisce di
contenuti quali il “rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei
popoli europei, dell’identità nazionale degli Stati membri”. Si fa espresso riferimento, inoltre, al principio di sussidiarietà.
A fronte di questo approccio pluralista, il Preambolo sottolinea la volontà di
creare “un’unione sempre più stretta”, fondata su valori comuni “indivisibili
ed universali” nella consapevolezza di un proprio peculiare “patrimonio spirituale e morale”. La Carta, richiamandosi alle logiche dei processi federativi,
tenta così di conciliare le differenze storiche e culturali europee con un’identità che trovi, come ragione d’unità, un comune patrimonio di diritti: un demos
dei diritti, si potrebbe dire.
Altro aspetto da notare riguarda la novità di alcuni concetti inseriti nel
Preambolo. Oltre ai tradizionali riferimenti alla dignità, pace, libertà, uguaglianza e solidarietà, il Preambolo tratta della promozione di “uno sviluppo
equilibrato e sostenibile”, dei doveri e delle responsabilità verso le generazioni future e della tutela dei diritti “alla luce dell’evoluzione della società, del
progresso sociale e degli sviluppi scientifici”. Tali nuove dimensioni potrebbero allora porsi come componenti tipiche e distintive di una nuova concezione del diritto e dei diritti e come propulsori di un nuova identità culturale e
giuridica europea.
3. Una Carta ad applicazione limitata
Ho già ricordato come la proclamazione solenne di cui la Carta è stata oggetto a
Nizza non le abbia conferito alcun valore giuridico vincolante; essa si risolve
formalmente in un manifesto politico che tanto gli Stati membri quanto l’Unione Europea potranno disattendere senza che perciò possa intervenire alcuna sanzione da parte della Corte di Giustizia. E’ questo un primo limite che pare condizionare fortemente la portata della Carta ed il valore dei diritti in essa conte- 24 -
nuti, anche se - come dirò in sede conclusiva - si potrebbe innescare di fatto un
“circolo virtuoso” che conduca i giudici, sia nazionali che comunitari, a tenerne
conto in termini più incisivi di quanto non si possa dire di prim’acchito.
Tuttavia, anche nel momento in cui la Carta fosse inserita nei Trattati o
venisse a far parte del diritto comunitario - potrà esserlo, forse, nel 2004
- alcune sue disposizioni condurrebbero comunque a limitarne di molto
l’ambito d’applicazione.
L’art. 51, c. 1 prevede che la Carta si applichi “alle istituzioni e agli organi
dell’Unione (…) come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione
del diritto dell’Unione”. I diritti della Carta, che si qualifica appunto “dell’Unione
Europea”, ci toccano quindi solo in quanto cittadini comunitari, e non arricchiscono direttamente il nostro patrimonio giuridico di cittadini degli Stati membri. Visto che l’intervento della Corte di Giustizia è sostanzialmente limitato al
primo dei tre pilastri e che il secondo comma dello stesso art. 51 precisa che la
Carta non modifica né introduce competenze nuove, deve inoltre concludersi
per un’eventuale futura efficacia giuridica limitata ai soli casi in cui organi dell’Unione o Stati membri applichino il diritto comunitario. Anche nella migliore
delle future ipotesi, quindi, rimarrebbe esclusa la garanzia dei diritti fondamentali nei settori della giustizia e affari interni e della politica estera e sicurezza
comune, in cui pure già agiscono organizzazioni (si pensi all’Europol) verso cui
parrebbe opportuno un rafforzamento della garanzia dei diritti.
Quindi, se il quadro di riferimento della Carta, come impostato nel Preambolo,
è ampio, sorgono subito una serie di limitazioni nella portata e nell’estensione
dei diritti.
4. I diritti “vecchi” (cenni)
Passando all’individuazione delle categorie con cui guardare ai diritti previsti
nella Carta, vorrei proporre alcuni cenni a quelli che potremmo definire “vecchi”, in quanto già riconosciuti e consolidati dal diritto comunitario anche in
combinazione con la CEDU e con le tradizioni costituzionali comuni (cfr. la
tabella n. 1) 2 .
Fra questi, può richiamarsi: il diritto alla vita (con alcune specificazioni legate
alla pena di morte che indicherò più avanti), all’integrità fisica, alla privacy ed
alla protezione dei dati personali, la libertà di pensiero, coscienza e religione,
d’espressione e d’informazione, di riunione e d’associazione, il diritto di pro- 25 -
prietà, d’asilo, il divieto di espulsioni collettive, il principio d’eguaglianza formale e di non discriminazione, i diritti di petizione, circolazione e soggiorno, di
ricorso al Mediatore, di voto e tutela diplomatica ed il diritto ad un ricorso effettivo, pubblico e svolto in tempi ragionevoli.
Il terzo comma dell’art. 52 pone al riguardo qualche incertezza interpretativa
nel momento in cui dispone una “protezione più estesa” di quanto disposto
dalla CEDU3. Qualche dubbio, inoltre, è sollevato dal secondo comma dello
stesso art. 52 nel momento in cui rinvia al rispetto di tutti i limiti definiti dai
Trattati diritti che sono presenti nella Carta in termini testuali più ampi. Tale
clausola, in altri termini, sembrerebbe fissare la tutela di tali diritti a quanto
già previsto, escludendo che la Carta ne possa ampliare il godimento, e contraddicendo così l’esigenza di un rafforzamento della rispettiva tutela.
5. I diritti meglio precisati
Una seconda categoria può riferirsi a quei diritti fondamentali che, seppure già
previsti, spesso “sparpagliati” in modo incompleto e disorganico, all’interno del
diritto comunitario (in particolare nei Trattati, nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, nella Carta sociale europea del 1961 o nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo), trovano ora nella Carta elementi di precisazione e di miglior identificazione (cfr. la tabella n. 2).
Il concetto di dignità umana, in primo luogo, risulta protetto espressamente in
termini di inviolabilità (art. 1 della Carta). Tale principio, quindi, dovrebbe porsi quale componente irrinunciabile di quel patrimonio culturale e giuridico su
cui - abbiamo visto - si vuole costruire un’identità europea: non del tutto coerenti con tale approccio - vedremo - appaiono però alcune articolazioni concrete
del principio di dignità umana.
Il diritto di manifestare liberamente la propria religione mediante culto, insegnamento ed osservanza dei riti (art. 10, c. 1) entra nella categoria dei diritti
meglio precisati non essendo soggetto alle limitazioni previste all’art. 9 della
CEDU; da questo punto di vista, e a meno di interpretazioni restrittive che non
sembrano però coerenti con il dato testuale, potrebbe riaprirsi un contenzioso in
materia religiosa: quello legato allo chador in Francia o all’esposizione dei crocefissi a scuola in Italia e Germania.
Se i principi a tutela della salute e dell’ambiente (artt. 35 e 37) traggono origine
da disposizioni del TCE, della Carta sociale europea e dagli ordinamenti costi- 26 -
tuzionali di alcuni Stati membri, ricevono ora nella Carta riconoscimento esplicito ed autonomo. Ambiente e sviluppo sostenibile, tuttavia, non vengono a
costituire tecnicamente il contenuto di rispettivi diritti soggettivi, ma principi di
politica dell’Unione.
All’interno della categoria dei diritti meglio precisati vanno anche annoverati
quelli di cui sono titolari categorie specifiche di persone: i diritti dei lavoratori
(all’informazione, alla consultazione, alla negoziazione ed al ricorso ad azioni
collettive, a condizioni di lavoro sane e dignitose, alla tutela in caso di licenziamento, ecc.), del bambino, degli anziani e dei disabili, i quali s’ispirano alla
Carta sociale europea del 1961, alla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989 ed alla Convenzione di New York del 1989 sui
diritti del fanciullo. Anche in ipotesi di una giuridicizzazione della Carta, comunque, risulterebbero del tutto carenti gli strumenti processuali necessari per
rendere concretamente azionabili tali posizioni collettive.
Di maggior rilevanza, visto che proprio quello dei rapporti fra cittadino e amministrazione si presenta tipicamente come terreno di contenzioso comunitario, mi
pare la precisazione di una serie di diritti legati al cd. principio di buona amministrazione (art. 41): si va dall’obbligo di motivazione delle decisioni, al diritto allo
svolgimento dei procedimenti in una delle lingue del trattato, in modo imparziale,
equo e in tempi ragionevoli, dal diritto ad essere ascoltato, al diritto d’accesso.
6. I diritti nuovi
Fra le novità della Carta (cfr. sinteticamente la tabella n. 3) mi pare possa inserirsi, anzitutto, il divieto di pena di morte (art. 2, secondo comma). Combinato
con il divieto di espulsione o estradizione verso uno Stato in cui esista un serio
rischio di essere sottoposto ad esecuzione capitale (art. 19, secondo comma)
oltre che con il rispetto per la dignità umana, il tenore letterale di tale divieto
non sembra permettere eccezioni di sorta, differenziandosi, su quest’aspetto, da
quanto disposto a livello di CEDU. 4 Anche per questa disposizione, peraltro,
valgono le limitazioni precedentemente indicate ed in particolare quella del primo comma dell’art. 51 relativa all’inapplicabilità della Carta al di fuori del diritto comunitario. E vista l’assenza di una competenza comunitaria in materia di
diritto penale, tale divieto rimane, per così dire, congelato.
Pur con tale limite, va comunque salutata con favore una scelta fondamentale di
civiltà e rispetto dei diritti umani che, differenziandosi da altre tradizioni giuri- 27 -
diche anche avanzate, sottolinea la dignità umana quale valore non superabile.
Da questo punto di vista, quindi, anche norme dotate di scarsa o nulla applicabilità
concreta, come quella appunto sulla pena di morte, potrebbero influenzare la
cultura giuridica di tutti gli ordinamenti degli Stati membri (anche quelli prossimi all’adesione) nella direzione di un modello di Stato che non tolleri più la
barbarie della condanna capitale.
Un secondo settore in cui la Carta pone principi innovativi riguarda i diritti
collegati agli sviluppi della medicina e della biologia. Ispirandosi alla Convenzione di Oviedo del 1997 sui diritti dell’uomo e la biomedicina, è questo uno dei
campi in cui la Carta, secondo quanto visto nel Preambolo, tenta di rafforzare la
tutela dei diritti fondamentali alla luce “degli sviluppi scientifici e tecnologici”.
Va ricordato, in particolare, il divieto di discriminazioni fondate sulle caratteristiche genetiche (art. 21); un divieto la cui opportunità è sottolineata da una
serie di casi, già verificatesi in Europa e negli Stati Uniti, che hanno visto soggetti che presentavano predisposizione a malattie genetiche risultare svantaggiati,
ad esempio, in sede di assunzione o di stipulazione di assicurazioni sulla vita.
Le disposizioni in esame, peraltro, scontano la mancanza di un accordo politico
esteso, prevedendo “paletti” abbastanza larghi.5
Nella categoria dei diritti nuovi può anche collocarsi il “diritto di lavorare e di
esercitare una professione liberamente scelta o accettata” (art. 15 c. 1). Tale
formulazione, tuttavia, appare in concreto troppo ampia e generica, tale da portare a conseguenze paradossali. Che dire, ad essere provocatori, della volontà di
fare l’astronauta? A che istituzione o organo statale o comunitario spetterà il
dovere (corrispondente al diritto sancito) di garantire l’esercizio di tale “professione liberamente scelta”?
Al di fuori di tale paradosso, pare che beni giuridici di tale natura non possano
realisticamente essere trattati in termini di diritto soggettivo, pena la svalutazione della Carta dei diritti fondamentali in una “Carta dei sogni”.
7. I diritti “ingessati”: diritti davvero fondamentali?
Un’ulteriore categoria di diritti viene garantita dalla Carta nei limiti ed alle condizioni previste dalle leggi o dalle prassi nazionali (cfr. la tabella n. 4). Tali
formulazioni si spiegano con la mancanza di un accordo politico fra gli Stati
membri e con il rinvio in via esclusiva della relativa disciplina alle singole volontà nazionali.
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Se tale approccio può facilmente ricondursi al principio di sussidiarietà, va rilevato un suo possibile “effetto collaterale”. Fissando la garanzia dei diritti in esame
alla normativa dei singoli Stati membri, la Carta, oltre a rinunciare a fissare uno
standard comunitario minimo di tutela, pare aver escluso che la Corte di Giustizia
possa intervenire a fissare livelli più alti di garanzia attraverso il riferimento alla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo o alle tradizioni costituzionali comuni. Sembra essersi posta, a guardar bene, una sorta di riserva assoluta
(e insindacabile) di legge statale, difficilmente compatibile - direi - con la qualifica di “diritto fondamentale dell’Unione Europea”. Si è così applicato un principio
che potremmo definire di “sussidiarietà bloccata” in cui la disciplina dei diritti non
segue il livello di più efficiente tutela, ma s’irrigidisce entro l’ambito dei singoli
Stati membri, con il risultato di formare una categoria di diritti “ingessati” o “pietrificati” la cui tutela appare gelosamente ritenuta dai legislatori statali.
All’interno di questa categoria, pure, sono comprese posizioni giuridiche rilevanti anche per il collegamento con la dignità umana; si tratta, ad esempio, del
diritto di obiezione di coscienza o del diritto dei genitori di provvedere all’educazione dei figli secondo le proprie convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche. Ed anche un diritto (che davvero dovrebbe essere) fondamentale come
quello di accedere alla prevenzione ed alle cure mediche (art. 35) va considerato
in questa categoria, in quanto tutelato limitatamente alle “condizioni stabilite
dalle legislazioni e prassi nazionali”. Il collegamento di alcuni diritti ingessati
con il concetto di dignità umana – si pensi al diritto alla salute o all’obiezione di
coscienza – porta quindi a registrare come gli Stati abbiano trovato un accordo
sul principio astratto relativo ad una tutela della dignità (art. 1), per poi dimostrarsi gelosi delle proprie singole volontà politiche ed incapaci di trovare standard
anche minimi ma comuni di tutela una volta che si sarebbe dovuto dare realizzazione concreta a tale valore.
8. Le lacune, vere e false
La Carta, d’altro canto, pare non aver previsto alcuni principi che, anche in
riferimento a materie già variamente presenti a livello comunitario, ci si sarebbe
aspettati di vedere considerati (cfr. la tabella n. 5).
Anzitutto, la Carta tratta del principio d’eguaglianza secondo categorie di carattere prevalentemente formale. Accanto al rispetto per le diversità culturali,
religiose e linguistiche e alla garanzia della parità tra uomini e donne, la Carta
- 29 -
specifica che il principio di eguaglianza “non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso
sottorappresentato” (art. 23). Dal carattere limitato e tassativo di tale “eccezione” a favore delle donne dovrebbe quindi desumersi che il principio di parità, a
contrario, impedisca l’adozione delle cosiddette azioni positive per categorie
svantaggiate per motivi di natura etnica o linguistica, religiosa o culturale?
Se vieta ogni forma di discriminazione, quindi, la Carta non contribuisce certo a
fondare i presupposti perché possano riconoscersi forme generali di garanzia in
senso promozionale dei gruppi svantaggiati.
Sempre in materia di parità, poi, sarebbe stato forse preferibile che le disposizioni dell’art. 20 (uguaglianza davanti alla legge) e dell’art. 21 (non discriminazione) si fossero trovate inserite all’interno di un’unica disposizione, in modo
da sottolineare come il principio di eguaglianza (formale) non corrisponda alla
formula secondo cui “la legge è uguale per tutti”, ma si sostanzi della coppia di
principi secondo cui categorie omogenee vanno disciplinate secondo una normativa omogenea, e categorie differenziate devono trovare regolamentazioni
ragionevolmente differenziate.
Un altro settore in cui la Carta non appare molto generosa riguarda i diritti
politici. Oltre alla conferma del diritto di voto al Parlamento europeo ed alle
elezioni comunali, non si aggiunge nulla per contribuire ad allargare la partecipazione democratica6 .
Ancora, si potrebbe criticare la mancanza della previsione di diritti della più
recente generazione, come quello alla pace. Certo la Carta avrebbe potuto essere più coraggiosa, ma dubito che la previsione tout court di un diritto alla pace
avrebbe dato effetti apprezzabili. Siamo ben lontani da poter considerare la pace
come il contenuto di un diritto soggettivo azionabile di fronte a un tribunale.
Quella in esame, quindi, mi pare costituire una “falsa lacuna”.
Riguardo alla categoria dei diritti sociali, sicuramente la Carta avrebbe potuto
fare di più e meglio. Degli impegni di visibilità e rafforzamento nella tutela
previsti dal Preambolo, infatti, solo il primo appare realizzato, non aggiungendo
la Carta alcunché a quanto già previsto. Come già detto, piuttosto, il documento
tende talvolta ad ingessare alcuni diritti (come quello di cura), talaltra ad enunciare il valore della dignità in termini astratti, trovandosi poi in difficoltà nel
momento in cui il suo tenore simbolico dovrebbe tradursi sul piano della tutela
concreta.
- 30 -
9. L’allargamento della sfera dei titolari dei diritti
Un dato fortemente significativo, invece, riguarda la sfera dei titolari dei diritti
previsti dalla Carta. La maggior parte delle disposizioni (cfr. la tabella n. 6)
inizia infatti con la formula “Ogni individuo” a sottolineare che i diritti previsti
si riferiscono non solo ai cittadini dell’Unione ma, appunto, ad ogni persona
regolare o clandestina che sia, fisicamente presente sul relativo territorio.
Alcuni concetti, come quello di dignità umana, non possono che collegarsi ad
ogni individuo, ma alcuni diritti sono tradizionalmente riferiti ai soli cittadini.
Di particolare rilevanza, allora, appare aver espressamente destinato tali posizioni - e si pensi in particolare al diritto ad una buona amministrazione e ad un
giusto processo - ad ogni individuo. A parte alcune riserve - diritti come quello
all’accesso gratuito al collocamento presuppongono un collegamento di carattere burocratico-amministrativo fra privato ed istituzioni - tale approccio corrisponde pienamente alla dimensione di “fondamentalità” dei diritti previsti (si
potrebbero davvero dire “fondamentali” diritti non goduti da tutti?) e pare porsi
in linea con un nuovissimo concetto di demos democratico o demos dei diritti,
esclusivamente collegato alla condivisione, su un determinato territorio, di uno
stesso nucleo di diritti e di doveri.
10. Conclusioni: le luci ed ombre della Carta
Quanto ho fin qui detto mi induce a formulare per la Carta un giudizio non
unitario, ma complesso e differenziato. Fra i maggiori pregi del documento sta
il tentativo di costruire l’identità europea, perlomeno in termini simbolici, sulla
base di un nucleo di valori comuni. Fra questi, l’impegno per uno sviluppo
sostenibile anche alla luce delle esigenze delle generazioni che verranno, per un
futuro di pace e di tutela dei diritti fondamentali e della dignità umana, e l’attenzione ad una nuova dimensione dei diritti umani, legata all’evoluzione sociale
ed agli sviluppi scientifici e tecnologici.
Nel momento della realizzazione concreta di tali principi, tuttavia, la Carta sconta
tutte le divisioni politiche ancora esistenti fra gli Stati membri. Si pensi, al riguardo, a quanto detto sulla debole articolazione in concreto del concetto di
dignità umana e ai dubbi emersi sul carattere fondamentale (oltre che sulla dimensione europea) dei diritti ingessati, del tutto affidati alla discrezionalità politica degli Stati membri. Anche in materia di eguaglianza sostanziale e di diritti
- 31 -
delle minoranze (etniche, linguistiche, religiose, culturali, ecc.) la Carta non
presenta alcun scatto in avanti, talvolta confermando, talaltra addirittura rischiando di tradire, quanto già previsto dal diritto comunitario. Su questa linea, quindi, ci si sarebbe potuti aspettare di più e meglio da una Carta che, fra l’altro, ha
assunto solo portata politica non giuridicamente vincolante.
Elementi di segno positivo vanno invece individuati nell’ampliamento della sfera
dei titolari dei diritti fondamentali (il demos dei diritti) e nella possibilità di
innescare un circolo virtuoso a livello politico e diplomatico che potrà assumere
un rilevante significato già nella prossima fase dell’allargamento.
Tenendo quindi presenti le novità e le lacune o contraddizioni della Carta, mi
pare corretto concludere come essa abbia reso certamente più visibili i diritti,
svolgendo un’importante opera di carattere anche simbolico, senza però rafforzarne sostanzialmente la tutela. Da questo punto di vista, quindi, mi pare si tratti
più di una sorta di testo unico dei diritti che non di una vera e propria Costituzione.
Un ultimo elemento che mi preme segnalare potrebbe però portare al recupero
di un significato proprio e di una funzione sostanziale anche di carattere costituzionale in capo alla Carta.
Analizzando il rapporto fra Costituzione scritta e ruolo che i giudici tipicamente
assumono negli Stati costituzionali di diritto contemporanei, può desumersi come
più che l’esistenza in sé di una Carta costituzionale, rilevi l’esistenza di un giudice competente ad interpretarla e ad applicarla. I giudici costituzionali, infatti,
tendono un po’ dappertutto, ad interpretare anche assai liberamente le disposizioni costituzionali, individuando nuovi diritti o bilanciando gli interessi secondo criteri e sistemi valoriali in larga parte soggettivi e variabili nel tempo. Il
testo costituzionale, in questo senso, giunge talvolta a svolgere una funzione
non tanto di strumento normativo vincolante per il giudice quanto di fonte di
legittimazione dello stesso; e una volta legittimato “a monte” dalla Costituzione, il giudice potrà svolgere la sua funzione anche sganciandosi da essa e ragionando in base a valutazioni soggettive di carattere politico-discrezionale.
Se ciò è vero, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, aldilà delle lacune e
dei dubbi messi in evidenza, può essere interpretata come un elemento di rafforzamento della legittimazione dell’intervento della Corte di Giustizia nel settore
dei diritti fondamentali. E visti gli ampi margini di discrezionalità con cui si è
tipicamente mossa, la presenza di un contenuto non del tutto soddisfacente non
dovrebbe costituire un problema insormontabile.
- 32 -
·
Tabelle:
I numeri fra parentesi si riferiscono all’articolo di riferimento della Carta.
Tabella 1: i “diritti vecchi”
vita (2); integrità fisica (3); divieto di tortura (4); divieto di schiavitù o lavoro
forzato(5); libertà e sicurezza (6)
libertà di pensiero, coscienza e religione (10)
proprietà (17); libertà d’espressione, d’informazione e pluralismo dei media (11);
riunione e associazione (12)
privacy (7) e protezione dati personali e accesso (8)
diritto di sposarsi e di costituire una famiglia (9)
diritto all’istruzione (14)
diritto d’asilo (18); divieto di espulsioni collettive (19)
divieto di discriminazione (21) e rispetto delle diversità (22); azioni positive per
le donne (23)
diritti di: petizione, circolazione e soggiorno, voto e tutela diplomatica (39-46)
cd. giusto processo (47 ss.)
Tabella 2: i diritti meglio precisati
dignità umana (1)
integrità psichica (3.1)
diritto di manifestare la propria religione (10)
libertà accademica, delle arti e della ricerca (13)
istruzione obbligatoria gratuita (14)
impresa (16) e proprietà intellettuale (17.2)
interesse superiore del bambino (24)
diritti degli anziani (25)
diritti dei disabili (26)
informazione, consultazione, contrattazione collettiva dei lavoratori (27 e 28);
collocamento gratuito (29); ambiente di lavoro sano (31)
protezione della famiglia e della maternità/paternità (33)
sicurezza e assistenza sociale; esistenza dignitosa (34) secondo il diritto comunitario e degli Stati
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salute (35), ambiente e sviluppo sostenibile (37)
tutela dei consumatori (38)
buona amministrazione (41)
Tabella 3: i diritti nuovi
divieto assoluto di pena di morte (2.2) e di espulsione in caso di rischio di condanna a morte (19.2)
medicina e biologia: consenso informato (riserva di legge); divieto di pratiche
eugenetiche finalizzate alla selezione delle persone, di sfruttamento commerciale del corpo, di clonazione di esseri umani(3)
divieto di discriminazione genetica (21)
libertà professionale e diritto al lavoro (15)
Tabella 4: i “diritti ingessati”: la mancata concretizzazione del principio di dignità umana
diritto di sposarsi e di costituire una famiglia (9)
obiezione di coscienza (10.2)
diritto dei genitori di provvedere all’educazione e all’istruzione dei figli secondo le proprie convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche (14.4)
diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche (35)
Tabella 5: le lacune
Uguaglianza sostanziale: azioni positive per categorie non riferibili al genere
Accorpamento di artt. 20 (eguaglianza davanti alla legge) e 21 (non
discriminazione)
I diritti dei gruppi minoritari
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Tabella 6: i destinatari
Ogni individuo
♦ dignità
♦ vita e non espulsione se rischio
di condanna a morte
♦ integrità fisica e psichica
♦ libertà e sicurezza
♦ vita privata e familiare
♦ tutela dei dati personali
♦ libertà di pensiero
♦ manifestazione
e
insegnamento religiosi
♦ libertà di espressione e di
ricevere informazioni
♦ riunione e associazione
♦ istruzione
e
formazione
professionale
♦ professione liberamente scelta
o accettata
♦ proprietà e giusta indennità
♦ uguaglianza davanti alla legge e
discriminazione
♦ collocamento gratuito
♦ buona amministrazione
♦ risarcimento per danni di
istituzioni CE o di suoi agenti
♦ uso di una lingua del Trattato
nel rivolgersi all’UE
diritto ad un “giusto processo”
Cittadini dell’Unione
Categorie particolari
♦ libertà di lavoro e di ♦ residenti:
stabilimento in ogni Stato - prestazioni di sicurezza sociale
membro
(34)
- accesso ai documenti (42)
♦ voto al Parlamento europeo e - adire il mediatore (43)
- diritto di petizione (44)
alle elezioni comunali
♦ sesso sottorappresentato:
♦ accesso ai documenti di - azioni positive (23)
Parlamento, Consiglio e ♦ bambini: (24)
- interesse superiore
Commissione
- opinione libera e considerata
secondo l’età e la maturità
♦ accesso al Mediatore
♦ anziani: (25)
♦ diritto di petizione al - vita dignitosa e indipendente
- partecipazione
Parlamento europeo
♦ disabili: (26)
- misure a garanzia di
♦ circolazione e soggiorno
autonomia, inserimento e
partecipazione
sociale
e
♦ tutela diplomatica e consolare
professionale
♦ lavoratori: (27 e ss.)
- informazione e consultazione
- tutela contro ingiustificato
licenziamento
- condizioni di lavoro sane sicure
e dignitose
- divieto del lavoro minorile
♦ consumatori: (38)
- livello elevato di protezione
- 35 -
1
2
3
4
5
6
Da alcuni, veniva considerata un passo indietro, un vero e proprio errore, frutto di impotenza politica e
di un’errata ed intempestiva considerazione delle attuali priorità (Dahrendorf, Francesco Paolo Casavola,
Rusconi, Rossana Rossanda). Da altri, la Carta era ritenuta un buon documento iniziale, destinato ad
aprire una fase costituente o comunque ad ampliare la tutela dei diritti all’interno dell’Unione (fra gli
altri, Stefano Rodotà, Valerio ZANONE).
In questo giudizio mi permetto di discostarmi dalle note di accompagnamento fornite dal Presidium in
data 11 ottobre 2000 (http://www.europarl.eu.int/charter/pdf/04473_it.pdf).
L’utilizzo della tecnica interpretativa del bilanciamento degli interessi anche da parte della Corte di
Giustizia, infatti, può comportare un alto grado di problematicità circa l’individuazione di quale diritto
individuale, fra quelli contrapposti, sia da tutelare in termini più ampi a conseguente detrimento di
quello compresso.
A prescindere dalle circostanze e dalle modalità attraverso cui viene inflitta in concreto la morte, la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione pone quindi un ostacolo insuperabile al riconoscimento del
potere dello Stato di togliere la vita a chi risulti colpevole di reati pure efferati o commessi anche in
situazioni di particolare gravità.
Oltre al principio del consenso libero e informato, infatti, si dispone una serie di divieti di base (verso
pratiche eugenetiche, sfruttamento a fini di lucro del corpo umano, clonazione riproduttiva di esseri
umani) lasciando per tutto il resto, anche in termini di sussidiarietà, ampia libertà alle singole volontà
degli Stati membri ovvero al legislatore comunitario.
Al riguardo, tuttavia, va detto che un catalogo dei diritti – anche uno migliore rispetto a quello proclamato a Nizza – non avrebbe in nessun modo potuto incidere sul cd. deficit democratico in mancanza di una
profonda riforma dell’assetto istituzionale complessivo previsto dai Trattati.
- 36 -
Dott. Marco Dani
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
e il principio di sussidiarietà
1. L’occasione della proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea consente di presentare una serie di riflessioni su uno dei caratteri più
evidenti della complessiva tematica della protezione dei diritti fondamentali:
l’esistenza di una pluralità di sistemi di garanzia. Questo dato non è inedito: la
storia del costituzionalismo novecentesco è in buona parte storia di una pluralità
di variazioni sul tema dei diritti fondamentali su cui si sono cimentati i diversi
ordinamenti nazionali ed il diritto internazionale. Ciò che invece appare innovativo nel quadro complessivo attuale è la particolare connotazione che questa
pluralità viene ad assumere nel contesto dell’Unione Europea. I sistemi di garanzia riscontrabili risultano infatti solo parzialmente delimitabili: se in origine
il loro ambito applicativo era connesso prevalentemente agli ordinamenti giuridici di carattere nazionale e, perciò, legato alla triade popolo-territorio-sovranità, oggi, principalmente in virtù del processo di integrazione europea, ci troviamo in presenza di cataloghi di diritti e di sistemi di garanzia che, sebbene mantengano saldi legami con gli ordinamenti nazionali, dimostrano una notevole
attitudine a svilupparsi in modo autonomo. Inutile dire che questo fenomeno
rende di non facile comprensione un mosaico complessivo di cui la Carta Europea costituisce una tessera importante ma quasi certamente né definitiva né, per
sua espressa ammissione, esaustiva.
Questa trattazione muove proprio dall’esigenza di tracciare delle linee
ricostruttive che orientino l’interprete in un quadro altrimenti confuso. Vi è la
convinzione in chi scrive che ancora una volta il principio di sussidiarietà – una
volta definito ed in buona parte alleggerito dalla retorica e dall’uso strumentale
a cui troppo spesso viene sottoposto – possa rivelarsi non solo un efficace strumento di analisi critica della realtà che oggi si presenta di fronte agli operatori
giuridici, ma anche una chiave concettuale più generale indispensabile per pren- 37 -
dere posizione nel dibattito che la proclamazione della Carta ha aperto sul futuro dell’Unione Europea.
2. Prima di entrare nel merito dell’analisi che in questa sede si intende svolgere
è probabilmente opportuno dedicare qualche riflessione riguardo alle ragioni
della pluralità di sistemi di garanzia dei diritti fondamentali. Una volta accertato
empiricamente che l’attributo dell’universalità congiunto ai diritti fondamentali
rivela un carattere mistificante, occorre quindi interrogarsi sul perché non ci si
possa accontentare di un catalogo di diritti unico ed uniforme e, di conseguenza,
si prospetta l’indagine sugli elementi principali in cui la differenziazione si
sostanzia.
Nel contesto che si è denominato di pluralismo monotipico è agevole individuare
come ragione di differenziazione l’identità nazionale. Si può ritenere che diversi
cataloghi dei diritti concretizzassero delle approssimative proiezioni giuridiche
delle identità nazionali. In linea con questo assunto era pacifico che ciascun catalogo godesse di un ambito applicativo esclusivo coincidente con quello dell’ordinamento statale. L’esclusivismo veniva attenuato solo qualora lo stato in questione fosse parte contraente di un trattato internazionale finalizzato alla tutela dei
diritti fondamentali che – come è il caso della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – instaurava un
meccanismo di doppia tutela che in via mediata garantiva i cittadini.
Con la progressiva evoluzione ed ora con la razionalizzazione di un sistema di
garanzia dei diritti fondamentali a livello comunitario si riscontra un ulteriore
tipologia di pluralismo di cui vanno indagate le ragioni di differenziazione.
Va preliminarmente segnalato che il sistema di garanzia dei diritti fondamentali riscontrabile a livello comunitario non può essere assimilato funzionalmente
a quello predisposto dalla CEDU. Questo sistema non si prefigge infatti di
fornire una forma di tutela suppletiva ai diritti fondamentali qualora si dovessero verificare lacune a livello statuale o internazionale, ma cerca piuttosto di
riproporre autonomamente a livello sovranazionale la questione dei diritti fondamentali. Il tratto di originalità che deriva dall’esistenza del livello di tutela
comunitario consiste nell’aver determinato una situazione nella quale uno stesso territorio e uno stesso individuo risultano allo stesso tempo rispettivamente
- 38 -
destinatari e soggetti in via diretta di più grammatiche di diritti. E’ possibile
osservare che mentre le norme della CEDU sarebbero attributive di diritti ed
obblighi soltanto fra gli Stati contraenti, relativamente a comportamenti di cui
gli individui sono i meri beneficiari materiali, nel diritto comunitario, conseguentemente alla pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità Europee
nel caso Van Gend & Loos, sarebbe intervenuta una significativa “modificazione genetica” della configurazione originariamente internazionalistica dell’ordinamento comunitario, in virtù della quale il diritto comunitario esercita
direttamente i suoi effetti nei riguardi non solo degli Stati membri, ma anche
nei confronti dei loro cittadini, inquadrati in questo modo come soggetti di
diritto con modalità in tutto analoghe a quelle di diritto interno.
E’ per questo motivo che diventa necessaria la più delicata operazione di indagine sugli elementi di differenziazione del sistema di garanzia comunitario rispetto ai sistemi di garanzia statali. Le peculiarità di quel sistema verranno individuate con riferimento ad una triade di parametri: l’ambito applicativo, la specificità istituzionale, l’impianto assiologico.
2.1. Per ambito applicativo o estensione di un sistema di garanzia di diritti fondamentali si intende il settore funzionale entro il quale il sistema stesso dispiega
i suoi effetti. Il riferimento nel nostro caso è quindi all’estensione delle competenze delle istituzioni comunitarie lato sensu politiche e della giurisdizione degli organi giurisdizionali comunitari.
Va subito detto per chiarezza che la ricostruzione degli assetti reciproci degli
ordinamenti comunitario e statali è tema controverso all’interno del quale si
confrontano almeno due impostazioni interpretative.
Vi è innanzitutto chi propone di concentrare l’attenzione sul momento attributivo
di competenze effettuato dagli Stati membri a vantaggio dell’Unione Europea al
momento della stipulazione dei trattati. A seguito di una simile impostazione
teorica si ritiene di poter pervenire ad una definizione piuttosto precisa di ambiti
di applicazione distinti tra ordinamento comunitario ed ordinamenti statuali. I
confini tra i rispettivi ambiti applicativi sarebbero garantiti in via giurisdizionale,
in alcune ipotesi interpretative dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee,
in altre dalle Corti costituzionali nazionali.
- 39 -
Se però ci si orienta secondo una diversa prospettiva privilegiando nell’analisi
la valutazione dell’esercizio delle competenze attribuite, i tratti geometrici
semplicisticamente individuati in precedenza cominciano a sfumare e si percepisce una vocazione generalista dell’ordinamento comunitario. Ci si accorge
quindi che le “certezze euclidee” consolidatesi in seguito ad una lettura statica
dei Trattati non risultano sufficienti a rappresentare con accettabile approssimazione i confini di un fenomeno giuridico che per natura pare rifuggire da rigidi
inquadramenti.
A contribuire al fenomeno da ultimo enunciato vi è una serie di fattori oramai
consolidati. Si è soliti infatti individuare come elemento che agevola la
disgiunzione descritta la mancanza nei Trattati di un elenco preciso delle competenze attribuite, sostituito da una meno rigorosa indicazione di obiettivi di
carattere generale da perseguirsi per mezzo di specifiche basi legali che di volta
in volta disciplinano il procedimento da adoperare nell’implementazione della
politica in oggetto. Si è poi generalmente segnalato come in ambito comunitario
sovente si sia ricorso alla teoria degli implied powers finendo così per esercitare
tutta una serie di funzioni connesse al fine perseguito solo in via mediata. E’
noto inoltre il continuo ricorso all’art. 308 (ex art. 235) TCE attraverso il quale
le istituzioni comunitarie hanno agevolmente esteso le loro competenze in settori funzionali nei confronti dei quali con tutta probabilità non si prevedevano
interventi del diritto comunitario. Infine va segnalato l’art. 6, comma 4, del
Trattato sull’Unione Europea che nel momento in cui afferma che “l’Unione si
dota dei mezzi necessari per conseguire i suoi obiettivi e per portare a compimento le sue politiche” si candida a rivestire la funzione di ulteriore “valvola
espansiva” dell’ambito applicativo dell’ordinamento comunitario e, di conseguenza, del connesso sistema di garanzia dei diritti fondamentali.
E’ tuttavia con riferimento al tema oggetto di ricerca che la critica all’impostazione
relativa alla distinzione funzionale tra ordinamento comunitario ed ordinamenti
nazionali raggiunge il vertice. Non solo infatti la copertura costituzionale delineata dai diritti fondamentali garantiti a livello comunitario ha seguito l’espansione funzionale dell’ordinamento nel suo complesso, ma essa stessa si è proposta quale fattore idoneo a spingere il diritto comunitario talvolta in direzioni
totalmente inaspettate. Si è partiti quindi considerando la giurisdizione della
Corte di giustizia come limitata agli atti delle istituzioni comunitarie. In seguito
- 40 -
la “copertura costituzionale comunitaria” si è proiettata nei confronti dell’attività di attuazione del diritto comunitario posta in essere dagli Stati membri. In
rapida progressione il sindacato della Corte ha raggiunto infine gli atti normativi
statali anche in casi in cui il nesso con il diritto comunitario non era di evidenza
immediata. La Corte di giustizia in questi casi si è accontentata della circostanza
che l’oggetto dell’atto statale rientrasse “nello scopo del diritto comunitario”.
Attraverso un uso piuttosto abile di una giurisdizione notevolmente elastica la
Corte spesso ha debordato nei confronti degli ordinamenti nazionali, imponendo, in virtù del principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno,
la propria coniugazione dei diritti fondamentali. Solo in casi particolarmente
delicati o in questioni che solo speciosamente risultavano inquadrabili all’interno dello scopo del diritto comunitario, la Corte ha espresso giudizi di
inammissibilità.
Il quadro complessivo è in definitiva quello di un ordinamento comunitario che
tanto dal punto di vista dell’esercizio delle competenze attribuite che da quello
dell’estensione progressiva della giurisdizione della Corte di giustizia ha espresso
una indiscutibile vocazione generale. Si è giunti passo dopo passo a determinare un sistema di politiche e, in misura ancora più accentuata, un sistema di garanzia dei diritti fondamentali che in larga parte è concorrente ai corrispondenti
strumenti riscontrabili a livello nazionale. Come sarà dimostrato nel seguito
della trattazione, il fenomeno descritto se senza dubbio ha accentuato le garanzie anche al livello comunitario, altrettanto pacificamente ha incrementato la
probabilità di conflitti costituzionali.
Questo è il quadro complessivo nel quale si colloca la proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Nei confronti di questo atto
giuridico-politico è inevitabile chiedersi anzitutto quali siano le risposte fornite
al problema dell’ambito di applicazione e, successivamente, interrogarsi su quanto le soluzioni da essa proposte risulteranno alla prova dei fatti sostenibili.
Ad una prima lettura del Preambolo e dell’art. 51, espressamente dedicato all’ambito di applicazione, è piuttosto evidente come la Convenzione abbia tenuto in grande considerazione la storia del diritto comunitario e ne abbia temuto il
carattere alluvionale. La legittima ricerca di certezze ha spinto alla redazione di
un art. 51 che assume i contorni dell’impresa disperata proprio in quanto cerca
- 41 -
di limitare giuridicamente ex ante l’estensione del sistema di garanzia dei diritti
fondamentali di livello comunitario. Il tentativo è tanto estremo che la stessa
lettera della Carta dimostra su questo argomento una ridondanza motivabile
solo dal fatto che la stessa Convenzione abbia cercato di convincersi della limitatezza dell’ambito di applicazione del diritto comunitario enunciandola non
appena fosse possibile. Ecco quindi che subito dopo aver affermato che le istituzioni comunitarie e quelle statali interessate dal fenomeno comunitario devono
promuoverne l’applicazione “secondo le rispettive competenze”, ci si affretta a
ribadire – quasi non lo si fosse capito da un fraseggio complessivo estenuante –
che la Carta “non introduce competenze nuove o compiti nuovi” per la Comunità o l’Unione.
Tanto inchiostro appare sospetto e giustifica un sentimento di ragionevole scetticismo verso la definizione normativa proposta. I sospetti paiono tanto più fondati
nel momento in cui l’interprete consideri sia il carattere non vincolante della Carta
(e quindi anche delle sue clausole orizzontali), ma soprattutto la natura dell’ordinamento comunitario e la forza espansiva dei diritti fondamentali riscontrabile in
buona parte degli ordinamenti giuridici composti. E’ prevedibile quindi che l’art.
51 sarà disposizione normativa scarsamente incisiva, in balia dell’ampia
discrezionalità che in questo campo la Corte di giustizia si è col tempo riservata. Si
può ipotizzare in conclusione che, in linea con il passato, l’elemento di
differenziazione tra sistema di garanzia dei diritti fondamentali comunitario e sistemi di garanzia situati a livello statuale non sia da ricercarsi tanto in valutazioni
relative ad astratti ambiti di incidenza distinti, stante la comune vocazione generale degli ordinamenti considerati. Altri e più profondi sono i motivi che giustificano
la sostanziale concorrenza tra i diversi sistemi di garanzia dei diritti fondamentali.
2.2. Il tema della specificità istituzionale caratterizzante ciascun sistema di garanzia dei diritti fondamentali è strettamente connesso al concetto di effettività
dei diritti stessi. E’ infatti generalmente riconosciuto come nelle forme di stato
costituzionale di diritto – nell’ipotesi in cui si ritenga di poter classificare l’ordinamento comunitario all’interno di questa categoria – la struttura istituzionale si
ponga come apparato almeno teoricamente finalizzato a calare nella concretezza i principi generali (che la Corte di giustizia almeno dagli anni ’70 ha ricondotto
in buona parte ai diritti fondamentali) fondanti l’ordinamento stesso. Che le
- 42 -
caratteristiche di ciascun apparato istituzionale costituiscano nel loro insieme
un elemento di differenziazione nella tutela dei diritti fondamentali risulta evidente nel momento in cui, ad esempio, si consideri la rilevanza operativa dell’esistenza o meno di un organo di giustizia costituzionale, o qualora si osservino le diverse modalità di accesso agli stessi organi predisposte per gli individui.
Nell’economia della trattazione che si intende svolgere appare particolarmente
utile definire che cosa si intenda per effettività dei diritti fondamentali. A tal
riguardo appare di estremo interesse distinguere due profili di effettività dei
diritti fondamentali, il primo consistente nella protezione del bene giuridico
oggetto della garanzia attuata in via giurisdizionale, il secondo relativo il
perseguimento di una particolare condizione di fatto (economica, sociale o politica) indicata programmaticamente al legislatore. I diritti fondamentali, quindi, si configurerebbero allo stesso tempo come limite e come obiettivo nei confronti del potere politico.
Nel momento in cui questa impostazione viene utilizzata come chiave
interpretativa dei caratteri peculiari del sistema di garanzia dei diritti fondamentali riscontrabile a livello comunitario emerge abbastanza evidentemente un certo
squilibrio tra garanzia giurisdizionale e politica dei diritti fondamentali. Questo
tratto peculiare è dovuto principalmente alla forza incontrastata con la quale la
Corte di giustizia ha potuto agire nei confronti delle altre istituzioni comunitarie
che, in quanto più sensibili agli equilibri politici e interstatuali, non solo sono
apparse più deboli, ma soprattutto hanno dimostrato una maggiore difficoltà al
momento della implementazione di autonomi indirizzi politici.
In ragione di quanto detto è possibile quindi sostenere che a livello comunitario
i diritti fondamentali (con, forse, l’eccezione delle originarie quattro libertà fondamentali) si sono espressi prevalentemente come limite al potere politico (soprattutto di quello che si esprime a livello statale), ma difficilmente sono stati
considerati come principi indirizzanti di politiche. Questo carattere è particolarmente evidente qualora si ripercorrano le argomentazioni che la Corte di giustizia ha esposto nel parere 2/94 sull’adesione dell’Unione Europea alla CEDU,
nel quale l’impossibilità di aderire è stata motivata sostenendo che, in base ai
Trattati vigenti, una politica attiva finalizzata alla promozione dei diritti fondamentali non rientra negli obiettivi dell’Unione.
- 43 -
Anche da questo punto di vista, quindi, è probabile che la Carta si configuri
come un elemento di continuità rispetto ai caratteri del sistema di garanzia dei
diritti fondamentali oggi apprezzabile a livello comunitario. Un sistema che si
esplicita in larga misura nel momento giurisdizionale della garanzia dei diritti
fondamentali e che non si è sviluppato altrettanto dal punto di vista politico. Va
ricordato a questo proposito il già menzionato art. 51 nel quale la timida apertura individuabile nell’inciso “i soggetti … ne promuovono l’applicazione” viene
subito blindata al comma 2 stabilendo che la Carta “non introduce competenze
nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati”.
Anche il linguaggio utilizzato richiama una versione parziale dell’effettività dei
diritti fondamentali garantiti dalla Carta. Se infatti, da un lato, la scelta della
codificazione rimanda ad una strutturazione del contenuto dei diritti che in astratto
può essere congeniale all’individuazione di una funzione fondante di politiche
svolta dagli stessi diritti fondamentali, dall’altro, sia nel Preambolo che nell’articolato, l’uso delle locuzioni fondarsi, rispettare, riconoscere i diritti fondamentali si spreca. Molto più timidi sono invece i richiami testuali ad una possibile implementazione in via politica dei diritti.
In via esemplificativa possono richiamarsi l’art. 11 nel quale al comma 2 ci si
accontenta di declamare il rispetto della libertà dei media e del loro pluralismo,
mentre una situazione fattuale palesemente caratterizzata da monopoli pubblici
e privati richiederebbe meno rispetto e più politiche finalizzate ad un effettivo
pluralismo. L’osservatore italiano non può non confrontare poi gli articoli dedicati al principio di uguaglianza (artt. 20 e 21) che ne riproducono a livello comunitario il solo profilo formale, pur tuttavia ampliando le basi secondo cui le
discriminazioni si devono ritenere vietate. Lo stesso art. 23 nel momento in cui
in via d’eccezione al generale principio di parità ammette la possibilità di azioni
positive solo a favore del sesso sottorappresentato, alimenta il sospetto che lo
strumento delle azioni positive non sia utilizzabile nell’ambito del diritto comunitario per incidere su altro tipo di disparità effettivamente riscontrabili.
Di fronte ad un quadro complessivo come quello che si è descritto, alcune aperture contenute nella Carta appaiono piuttosto asfittiche. Quelli che in un panorama diverso avrebbero potuto costituire degli incipit per una serie di politiche
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di perseguimento concreto di diritti di carattere prevalentemente sociale si presentano all’interprete come disposizioni che non sono messe nella condizione
di dire tutto ciò che potrebbero dire. Il riferimento specifico è agli artt. 26, 32,
33 nei quali gli obiettivi dell’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e
la partecipazione alla vita di comunità dei disabili, delle condizioni di lavoro
appropriate per i giovani e della protezione giuridica, economica e sociale della
famiglia non si capisce come potranno essere raggiunti in assenza di basi legali
abilitanti la Comunità ad agire in questi settori.
2.3. L’ultimo passaggio che si ritiene necessario al fine di giungere alla
individuazione dei caratteri peculiari del sistema di garanzia dei diritti fondamentali apprestato a livello comunitario riguarda l’impianto assiologico o ideologico su cui questo pare fondarsi.
A questo riguardo non sembra scorretto ricordare come l’ambito originario ed
in buona parte tuttora prevalente dell’ordinamento comunitario attiene alla disciplina dei rapporti economici. Era inevitabile quindi che in un simile contesto
operativo la Corte di giustizia finisse per estrarre un catalogo di diritti fondamentali nel quale la coloritura economica risultasse particolarmente evidente.
Questa caratteristica, da un certo punto di vista, ha confermato in via generale il
carattere complesso (non complicato) del contenuto dei diritti fondamentali, per
la comprensione dei quali la considerazione di profili economici è spesso operazione imprescindibile. In altre parole è possibile dire che la giurisprudenza della
Corte di giustizia abbia ancora una volta precorso i tempi dimostrando implicitamente di dare applicazione al principio di indivisibilità dei diritti. La Carta
non è stata perciò strutturata suddividendo il catalogo dei diritti in base alle
categorie meramente descrittive dei diritti civili, politici, sociali proprio tenuto
conto della difficoltà di scindere nessi contenutistici indissolubili come quelli di
natura economica.
Da una diversa prospettiva va registrato che la coloritura economica ha generato reazioni critiche che hanno portato a ritenere che il diritto comunitario
fornisse una minore protezione dei diritti fondamentali rispetto a quella
riscontrabile a livello statuale. Si è così lamentato il carattere contenutisticamente
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funzionalizzato della tutela accordata dalla Corte di giustizia, peculiarità invisa
a molti in quanto scardinante l’assetto personalista su cui le Costituzioni degli
Stati membri sono prevalentemente impostate. In altre parole, come è stato efficacemente osservato, “secondo la Corte di giustizia i diritti fondamentali, lungi
dall’essere prerogative assolute dei cittadini, debbono essere contemperati con
gli obiettivi di interesse generale perseguiti dalla Comunità e con le esigenze del
mercato comune, i quali godono di una posizione preferenziale” (M. Cartabia,
Principi inviolabili e integrazione europea, Milano, 1995). Tutto ciò determinava viva preoccupazione, soprattutto se si considera che questo stile interpretativo
era accompagnato dall’intransigente affermazione della incondizionata prevalenza del diritto comunitario nei confronti dei principi fondamentali di diritto
interno.
Le preoccupazioni avevano trovato eco in una serie di pronunce delle Corti
costituzionali più attive a livello nazionale che indicavano come limite inderogabile nei confronti del diritto comunitario i principi fondamentali tutelati a
livello nazionale. Nel momento in cui il diritto comunitario si fosse spinto a
confliggere con questo corpus di incerta individuabilità, le Corti si riservavano
di derogare unilateralmente al principio del primato del diritto comunitario
riaffermando la vigenza del diritto costituzionale interno.
Questo filone giurisprudenziale appare di estremo interesse non tanto per la sua
incidenza sul funzionamento del sistema delle fonti, bensì in quanto è sintomo
evidente di un atteggiamento cauto delle Corti nazionali nel momento in cui
avvertono una potenziale infungibilità tra il sistema di garanzia dei diritti fondamentali dell’ordinamento comunitario e quelli predisposti a livello nazionale.
Seppure attraverso soluzioni operativamente poco convincenti si giunge così a
sottolineare l’esigenza di rispettare le diversità riscontrabili a livello nazionale.
E’ proprio questa serie di garbate rivendicazioni identitarie che mette in guardia
dal ritenere in modo semplicistico che il corpus di diritti fondamentali implementato dalla Corte di giustizia costituisca una sintesi delle tradizioni costituzionali statuali concepibile nei loro confronti in un rapporto di conciliante continuità. L’ingannevole e talvolta strumentale richiamo della Corte di giustizia
alle “tradizioni costituzionali comuni” non può nascondere che la Corte non è
riuscita in quella che realisticamente si rivela niente più che una ambizione,
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ossia la riduzione ad unità dei diversi impianti assiologici nazionali. E’ stato
invece correttamente osservato che le “tradizioni costituzionali comuni” hanno
costituito una sorta di serbatoio dal quale la Corte nella sua quotidianità ha attinto
selettivamente implementando un originale e surrettiziamente originario sistema di garanzia dei diritti. Verrebbe da dire che più che una sintesi, la Corte ha
provveduto pazientemente a tessere un sistema di garanzie sintetico, di cui la
Carta potrebbe costituire un esito genuino.
Proprio il carattere fondante che la Carta ambirebbe ad assumere giustifica un
approccio alla tematica dei diritti fondamentali almeno nelle intenzioni più vicino alle sensibilità riscontrabili a livello nazionale. E’ evidente nel Preambolo
(soprattutto con l’affermazione del principio di indivisibilità dei diritti), ed ancor
più nella strutturazione complessiva della Carta una grande enfasi su una concezione di individuo la quale da una parte cerca di affrancarsi da colorazioni
marcatamente economicistiche e dall’altra rifugge da concezioni della persona
come entità giuridica astratta dalla concretezza. Pare insomma che il concetto di
individuo fatto proprio dalla Carta assomigli molto a quello di persona come “a
priori materiale o storico, cioè come unità ontologica fondativa di azioni materiali diverse” (A. Baldassarre, Diritti Inviolabili, Enciclopedia Giuridica Treccani)
che si riscontra nella Costituzione italiana.
Se quindi il generoso tentativo operato nella Carta è quello di passare da un
indirizzo interpretativo assimilabile alla funzionalizzazione in relazione al contenuto, nel quale una serie di diritti fondamentali viene subordinata ad un valore
esterno considerato di rango superiore (l’integrazione economica), ad una
funzionalizzazione in senso strategico, nella quale proprio il riconoscimento e
lo svolgimento pieno del contenuto delle libertà condiziona l’esistenza di un
valore di pari grado (l’integrazione economica e politica), va per correttezza
segnalato che un simile passaggio – proprio per il suo impatto rivoluzionario
dell’assetto ideologico fino ad oggi sostanzialmente fatto proprio dall’ordinamento comunitario – deve essere valutato con una certa prudenza riguardo i
suoi concreti esiti. Innanzitutto perché pare difficile che la Corte di giustizia,
alla quale come si è visto è tuttora affidata in massima parte la “battaglia per i
diritti”, si spogli immediatamente di vecchi abiti che avevano dimostrato una
non disprezzabile funzionalità. Ma soprattutto perché la Carta stessa non si spinge
a marcare una discontinuità con il passato ed a pretendere dalla Corte l’abiura
- 47 -
della precedente giurisprudenza. Sia il Preambolo che l’art. 52, comma 2, si
richiamano esplicitamente a quella stagione delineando un percorso evolutivo
non traumatico verso l’affermazione del principio personalista a livello comunitario. Anche con riferimento a questa ulteriore sfida pare quindi che l’ultima
parola dovrà essere pronunciata dalla Corte di giustizia dalle cui pronunce dipenderà l’effettività di una Carta che potrebbe configurarsi come fonte materiale di diritto e che, per questa via, potrebbe proporsi come elemento fondante di
un ordine costituzionale a livello comunitario ispirato a valori parzialmente diversi da quelli sino ad ora privilegiati.
3. In conclusione dell’analisi svolta sul sistema di garanzia dei diritti predisposto a livello comunitario è possibile sostenere quindi che il suo ambito di applicazione si integra e si sovrappone in buona parte a quello degli ordinamenti
nazionali. Che tale integrazione e sovrapposizione contribuisce ad incrementare la possibilità che dello stesso tema (il contenuto di un diritto) si diano divergenti variazioni. Che le “variazioni comunitarie” sono caratterizzate dalla presenza di un vasto apparato di garanzie fornito in via giurisdizionale a fronte di
un non altrettanto sviluppato sistema politico finalizzato al perseguimento degli
stessi diritti. Che a livello comunitario si tende a dare maggiore spazio a quelli
che in modo piuttosto semplicistico vengono definiti “valori di mercato”. Ma di
fronte a questa pluralità di soluzioni, quali possono essere le ricostruzioni complessive di sistema sulle quali possono fare affidamento gli interpreti? E quale è
a tal riguardo la soluzione che la Carta suggerisce?
Per rispondere a queste domande – che condurranno alla determinazione di una
definizione di sussidiarietà applicata alla garanzia dei diritti fondamentali – è
forse opportuno ritornare al citato tema della presunta minore protezione dei
diritti fondamentali riscontrabile a livello comunitario. Alla base di questa critica vi è sicuramente un dato inequivocabile: valori e diritti che a livello nazionale parevano consolidati, nel momento in cui vengono sviluppati a livello comunitario appaiono affievoliti soprattutto quando è ravvisabile la funzionalizzazione
nel contenuto ai cosiddetti valori del mercato. Ciò che però non convince totalmente in simili impostazioni è la rappresentazione in chiave quantitativa del
contenuto di un diritto. Se infatti l’operazione di quantificazione del contenuto
di un diritto o di una libertà appare a prima vista agevole se si considerano i
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vincoli esterni riconducibili ad interessi pubblici generali (forse, ad esempio, è
quantificabile il grado di limitazione della libertà di stampa quando questa subisce vincoli lato sensu censori) e se la stessa operazione appare in qualche misura riproponibile qualora si tenti (in via giurisdizionale?) una quantificazione
degli standard delle prestazioni sociali effettivamente erogate facendo riferimento ai dati numerici relativi alla spesa pubblica (anche se questa complessa
operazione nulla ci dice della qualità delle prestazioni erogate), lo stesso schema concettuale appare scarsamente praticabile qualora si cerchi di misurare il
livello di protezione di un diritto in situazioni nelle quali deve essere operato un
bilanciamento con altri diritti ugualmente meritevoli di tutela. In altre parole,
come si può determinare il più alto livello di protezione della libertà di stampa
quando questa si trova a dover essere bilanciata con il diritto alla reputazione o
all’onore di un individuo? Troveremo verosimilmente non una maggiore o minore protezione, bensì differenti bilanciamenti di interessi a seconda che un
sistema di garanzia sia più incline a favorire la circolazione di determinate notizie o che, viceversa, privilegi la tutela del sentimento individuale di non vedersi
lesi dalla circolazione delle stesse notizie.
Se tutto ciò è vero e se il criterio della minore o maggiore protezione di un
diritto è operazionalmente di scarsa utilità, allora alcune disposizioni della Carta possono destare più di qualche perplessità. Il riferimento non è tanto agli art.
31, 35, 37, 38 nei quali si afferma che al bene giuridico protetto da quelle disposizioni va accordato un elevato livello di protezione. In questi casi anzi il richiamo può apparire opportuno non appena si tenga conto che i beni giuridici protetti (diritto alla salute, diritti del consumatore) sono stati talvolta sacrificati
dall’attività di deregolamentazione e riregolazione svolta a livello comunitario.
A non convincere è invece l’art. 53 della Carta quando in esso si afferma che
nessuna disposizione della Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti fondamentali riconosciuti a livello internazionale e dalle Costituzioni degli Stati membri. Una simile formulazione, come in chiusura si cercherà
di dimostrare, appare pericolosamente assimilabile ad alcune non condivisibili
ricostruzioni del principio di sussidiarietà applicato ai diritti fondamentali avanzate antecedentemente all’emanazione della Carta. In base a queste per ciascun
diritto sarebbe individuabile un solo livello ordinamentale di garanzia adeguato
collocato laddove al diritto in questione si accorda lo standard di tutela più elevato.
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Oltre alle menzionate difficoltà di ordine operativo connesse a questa
sistematizzazione, si può inoltre notare che una simile interpretazione dell’art.
53 si insinuerebbe come un elemento tendenzialmente eversivo in quello che si
pensava essere ormai un settore dell’ordinamento costituzionale comunitario
stabilizzato. Si ricorda come il Protocollo (n. 30) sull’applicazione dei principi
di sussidiarietà e di proporzionalità allegato al Trattato di Amsterdam sembrava
aver dato una definizione conclusiva del problema della prevalenza del diritto
comunitario sul diritto interno. Al punto 2) si affermava infatti che “l’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità (…) non deve ledere i principi elaborati dalla Corte di giustizia relativamente al rapporto tra diritto nazionale e comunitario (…)”. Se invece si dovesse applicare – in altre parole, se
prevalesse – il livello di garanzia idoneo a fornire standard di protezione più
elevati, il principio dell’incondizionata prevalenza del diritto comunitario sul
diritto interno incontrerebbe una significativa limitazione.
Ma se una simile configurazione non è sempre accettabile, quale può essere il
significato attribuibile al principio di sussidiarietà come criterio ordinatore di
una pluralità di sistemi di garanzia dei diritti fondamentali? A questo proposito
appare plausibile impostare una soluzione alternativa la cui applicabilità può
essere agevolata dal carattere non vincolante della Carta.
Lo sforzo che si ritiene utile compiere è quello di delineare un sistema complessivo di garanzia dei diritti fondamentali collocato anche a livello comunitario.
Si potrebbe quindi dire che come la definizione delle politiche necessita di segmenti di attività coordinati situati a diversi livelli di governo, così i diritti fondamentali potrebbero avvantaggiarsi o, quantomeno, tenere in debita considerazione le peculiarità proprie di ciascun livello di garanzia. Sussidiarietà, con riferimento alla tutela (e magari anche alla promozione) dei diritti fondamentali,
potrebbe significare ottimizzazione graduale di questa particolare funzione all’interno di diversi livelli ordinamentali integrati. Non si tratterebbe più di individuare il livello di tutela più adeguato in virtù di un non meglio definito standard
di tutela, bensì di articolare il complesso contenuto della tutela di ciascun diritto
su più livelli. Nel caso dei diritti fondamentali la valutazione comparativa normalmente richiesta nella applicazione del principio di sussidiarietà dovrebbe
essere orientata valutando l’opportunità di apprestare una tutela uniforme dello
stesso diritto (più facilmente conseguibile a livello comunitario) piuttosto che
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differenziata (anche unilateralmente), così da non soffocare le insopprimibili
spinte emerse negli ordinamenti degli Stati membri verso l’affermazione delle
molteplici specificità istituzionali e assiologiche.
A tal proposito si ritiene particolarmente efficace la tecnica utilizzata nella formulazione di alcuni articoli della Carta nella cui redazione si sono riservati importanti margini di integrazione verso altri sistemi di garanzia del medesimo
diritto. Si consideri ad esempio l’art. 9 (ma lo stesso procedimento può essere
esteso agli artt. 10, 14, 16, 27, 28, 30, 34, 35) riguardante il diritto di sposarsi e
di costituire una famiglia. In esso si può dire si individui come bene giuridico
protetto l’interesse a stringere relazioni affettive ed a costituire un nucleo familiare. Viene lasciato però alle leggi statali la disciplina specifica di questo diritto. E’ possibile dire che il concetto generale di un qualche matrimonio e di una
qualche famiglia sia tutelato a livello comunitario. Quale tipo di matrimonio e
quale famiglia siano tutelati è un problema che la Carta ha ritenuto sia da definirsi in base alle diverse sensibilità riscontrabili all’interno degli Stati membri.
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Dott. Francesco Palermo
La Carta tra diritto e politica
Sommario: 1. Introduzione. 2. Pars destruens: i limiti giuridici della Carta. A)
La natura giuridica. B) Il contenuto. C) L’ambito di applicazione. 3. Pars
construens. A) Il contenuto: valenze extragiuridiche e conseguenze giuridiche.
B) La natura giuridica: il dover essere degli Stati membri. C) L’ambito di applicazione: la quadratura del cerchio. 4. Conclusioni. La Carta e la “costituzione
europea”.
1. Introduzione
Le peculiarità della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e le incertezze relative alla sua natura, alla sua portata e alla sua ricaduta sul sistema costituzionale europeo, impongono un approccio particolarmente critico. Nel tentativo
di affrontare un tema dai contorni giuridici ancora poco chiari con una metodologia
propria del diritto costituzionale, ossia di una disciplina basata sul dato positivo
ma anche settore di frontiera del mondo giuridico, confinante con altre discipline
e dunque doverosamente più attento di altri ambiti del diritto a coglier(n)e i mutamenti complessivi, la presente analisi si articolerà lungo tre passaggi.
Dapprima si opererà una breve ricognizione dei problemi giuridici legati alla
natura, al contenuto e all’ambito di applicazione del documento (pars destruens).
Prendendo le mosse dalle conclusioni poco confortanti della prima parte, la
seconda cercherà di individuare gli elementi giuridicamente più qualificanti,
verificando se e in che misura la Carta, pur con tutte le sue incertezze strutturali
e di contesto, possa comunque svolgere un ruolo cruciale nella definizione del
sistema comunitario di tutela dei diritti fondamentali e fornire elementi per l’analisi giuridica del processo di costituzionalizzazione dell’Unione europea (pars
construens). Si proverà, infine, a contestualizzare la Carta nell’attuale fase dell’integrazione europea e nei delicati equilibri del sistema di garanzia nazionale,
sovranazionale ed internazionale dei diritti fondamentali.
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2. Pars destruens: i limiti giuridici della Carta
Come già ampiamente dimostrato, esiste già, a prescindere dalla Carta, un sistema comunitario di tutela dei diritti fondamentali posto a garanzia del rispetto
(quanto meno) dello “standard minimo” di tutela dei diritti ormai acquisito a
livello europeo. Il livello di tutela dei diritti fondamentali garantito da questo
sistema, inoltre, è ora costantemente ritenuto sufficiente (ossia analogo a quello
assicurato dagli ordinamenti costituzionali nazionali) da quelle Corti costituzionali degli Stati membri che in passato hanno anche aspramente contestato il
ruolo espansivo della giurisprudenza comunitaria in materia. A che serve allora
una Carta, se i diritti sono già garantiti?
Sotto il profilo strettamente giuridico la Carta costituisce, quanto ai contenuti,
una mera specificazione (per quanto “solenne”) del contenuto dell’art. 6 del
Trattato UE (TUE). Tale opera di ricostruzione, specificazione e sistematizzazione
viene compiuta fondamentalmente attraverso la razionalizzazione della giurisprudenza della Corte di giustizia, e in tanto risulta interessante in quanto fornisca una sorta di lista aggiornata dei diritti (specie di quelli nuovi) accettati come
fondamentali nella “comunità costituzionale europea”. Lo si evince dal preambolo
della Carta, che ricorda come lo scopo del documento sia quello di “rendere più
visibili” i diritti fondamentali “alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici”, e si chiude con l’affermazione dell’intenzione non già di tutelare, ma più modestamente di “riconoscere i diritti, le libertà ed i principi” enunciati dalla Carta, a sua volta ricavati,
in particolare, “dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla CEDU, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa” nonché “dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Per tutto il resto
l’interesse della Carta per il giurista consiste essenzialmente nella proposizione
di dubbi e incertezze.
a)
La natura giuridica
La prima e maggiore incertezza attiene alla natura della Carta e dunque al grado
di vincolatività ed alla giustiziabilità o meno delle norme in essa contenute. Non
- 53 -
essendo ancora sciolto, nel lungo periodo, il nodo politico intorno al rango che
la Carta verrà ad assumere nel sistema comunitario delle fonti, pare opportuno
evidenziare alcune possibili conseguenze delle diverse opzioni.
Nell’ipotesi – per il momento politicamente più plausibile – che il documento
mantenga un mero valore programmatico, attraverso la “solenne proclamazione” fattane dal Consiglio europeo, dal Parlamento e dalla Commissione a Nizza
il 7 dicembre 2000, la Carta non avrà alcun valore giuridico immediato.
Se la Carta dovesse invece acquisire un giorno natura precettiva, attraverso una
sua incorporazione o un suo richiamo nei trattati, essa andrebbe a creare un
doppio ordine di sovrapposizioni rispetto all’attuale circuito di tutela dei diritti
fondamentali in Europa. Da un lato si creerebbe una sovrapposizione di giurisdizioni tra la Corte di giustizia, la Corte europea dei diritti dell’uomo e le Corti
costituzionali nazionali, chiamate tutte ad interpretare la portata di un nucleo
comune di diritti fondamentali sia pure con riferimento a fattispecie, ambiti di
applicazione e parametri normativi spesso diversi. Ma proprio per le modalità
con cui è stato edificato in via pretoria il sistema di tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario, risulterebbe allora inevitabile la
sovrapposizione nonostante la potenziale separazione delle sfere. È infatti noto
(e il preambolo della Carta ne costituisce un’esplicita conferma) che la tutela
comunitaria dei diritti fondamentali è data (tra l’altro) dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di
giustizia. Ciò che dunque è potenzialmente separato viene necessariamente
ricondotto ad unità, ed in prospettiva non sembrano da escludersi conflitti di
giurisdizione tra le corti a scapito della certezza (dell’interpretazione) del diritto
in tema di diritti fondamentali.
Dall’altro lato, e di conseguenza, oltre alla sovrapposizione di giurisdizioni si
avrebbe una sovrapposizione di strumenti interpretativi a disposizione, in particolare, della Corte di giustizia. Infatti, se le corti nazionali e la Corte di Strasburgo
non potrebbero ricorrere alla Carta (almeno direttamente), la Corte di giustizia
non cesserebbe per questo di fondare le proprie decisioni in materia di diritti
fondamentali sulla CEDU e sulle tradizioni costituzionali comuni, sia in base
all’art. 6 TUE, sia a causa dell’incompletezza della Carta (su cui si tornerà), sia
infine perché i suoi precedenti si basano su un sistema elaborato sulla scorta di
- 54 -
questi strumenti. Evitando di addentrarsi nei possibili impieghi della Carta da
parte della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle Corti nazionali, rimarrebbe comunque certo che la Carta andrebbe ad aggiungersi allo strumentario a
disposizione della Corte e non certo a costituire il suo unico punto di riferimento.
Nella prassi emergerebbero così seri problemi di discernimento, per la Corte,
relativi alla disposizione da applicare nel tutt’altro che improbabile caso di conflitto normativo tra la Carta e gli altri strumenti. Quali sarebbero le conseguenze
pratiche di interpretazioni difformi della portata dei medesimi diritti tra la Corte
di Lussemburgo, quella di Strasburgo o le corti nazionali1 ? Nella persistenza di
una simile eventualità, parrebbe ipotizzabile una reviviscenza della giurisprudenza delle Corti costituzionali nazionali precedente alla metà degli anni ’80 sui
limiti all’intervento del diritto comunitario in materia di diritti fondamentali,
fondata sul postulato della sovranità nazionale, creando così una situazione di
incertezza nel delicato e ancora fragile equilibrio dei rapporti tra giurisdizioni
nazionali, internazionali e sovranazionali in materia di diritti fondamentali, con
evidenti riflessi sullo stesso processo di integrazione europea.
Per il diritto positivo, dunque, se la Carta non avrà valore vincolante essa dovrebbe ritenersi tamquam non esset, mentre nel caso essa venisse ad assumere
carattere prescrittivo i problemi che porrebbe potrebbero essere assai maggiori
di quelli che risolverebbe.
b)
Il contenuto
L’articolato presenta numerose lacune quanto a struttura e contenuti. Già ad una
prima lettura del preambolo e dei sei capi “sostanziali” della Carta (dignità,
libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia) emergono due principali profili problematici. Da un lato la Carta abbonda di disposizioni ridondanti
e inutili, dall’altro non contiene alcuna previsione in alcuni settori assolutamente fondamentali.
Quanto al primo aspetto, il migliore e più evidente esempio della pomposa e
giuridicamente inutile ridondanza di alcune disposizioni della Carta è sicuramente il divieto di pena di morte di cui all’art. 2 c. 22 . Analoghe critiche posso- 55 -
no muoversi all’intero capo VI dedicato alla “giustizia” ( rectius, ai diritti
processuali), perché anche in questo caso manca un diritto penale (sostanziale e
processuale) comunitario e dunque espressioni tipiche del diritto penale, quali il
reato (artt. 49 e 50), o la stessa condizione di imputato (art. 48 c. 1 e 2) sono per
loro stessa natura estranee al sistema comunitario.
Al di là di questi aspetti (si potrebbe comunque ritenere che in materia di diritti
fondamentali sia sempre melius abundare quam deficere, anche se ciò può non
essere del tutto vero, come si è visto trattando della sovrapposizione degli strumenti di tutela), ciò che appare più grave è certamente la mancanza di alcuni
diritti nel sistema della Carta. Ciò vale sia per alcuni tradizionali diritti di libertà
(come la libertà di insegnamento), sia soprattutto per diritti dalla dimensione
collettiva, quali quelli connessi alla democrazia partecipativa e locale, i diritti
culturali o quelli delle minoranze etnico-linguistiche.
È senz’altro vero che la tradizione giuridica occidentale, di cui la Carta è (e
vuole essere) il portato, “pone la persona al centro” dell’azione dei pubblici
poteri, come si legge nel preambolo e come la Corte di giustizia ha costantemente affermato nella propria giurisprudenza. Ed è certamente vero che l’obiettivo della Carta, nel “rendere visibili” i diritti fondamentali comuni agli Stati
membri e alla CEDU, non intende andare oltre i diritti individuali. Tuttavia è
altrettanto vero che lo stesso preambolo (e prima di esso i trattati UE e CE)
richiama i “principi di democrazia e dello Stato di diritto”, “il rispetto della
diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei” e la diversità dei
livelli di governo (“l’ordinamento dei loro poteri a livello nazionale, regionale e
locale”).
Di questi elementi non vi è però poi traccia nel testo. Qualche minima concessione ai diritti collettivi (o ad esercizio collettivo) potrebbe invero venire dai
riferimenti al rispetto delle diversità (“culturale, religiosa e linguistica”, art. 22)
e dell’ambiente (art. 37), nonché alla protezione dei consumatori (art. 38). Ma
se si considera che questi elementi sono già incorporati e specificati nelle rispettive politiche comunitarie (diversità culturale, art. 151 TCE, tutela dei consumatori, art. 153 TCE, tutela dell’ambiente, artt. 174 ss. TCE) anche queste minime aperture vengono a perdere di rilevanza. Ne risulta così un sistema paradossalmente assai complesso ed avanzato nella tutela dei diritti individuali (fino al
- 56 -
divieto delle pratiche eugenetiche) e del tutto deficitario sotto il profilo della
dimensione collettiva in cui questi diritti individuali pur devono calarsi.
In altri termini la società europea è (vuole essere, e per alcuni aspetti deve
essere) assai più complessa di quanto traspaia dalla Carta. Si tratta di una
realtà in cui vivono e godono o reclamano tutela un numero impressionante di
minoranze etniche e linguistiche, in cui convivono differenti modelli di democrazia partecipativa, diretta e rappresentativa nel quadro di un articolato
reticolo di livelli di governo. La Carta non sembra dare voce in alcuna maniera alle istanze complesse di una società complessa che lo stesso sistema dei
trattati vuole ed impone. Perfino il principio di uguaglianza, paradigma classico dell’interpretazione costituzionale, la cui mancata formalizzazione in termini generali nel sistema dei trattati ha fatto sentire il suo peso limitando
l’azione della Corte di giustizia, viene confinato nella laconica previsione
dell’art. 20 (“tutte le persone sono uguali davanti alla legge”), schiacciato,
sotto il profilo quantitativo e sistematico, dall’ampia previsione del principio
(più tipicamente internazionalistico) di (mera) non discriminazione di cui
all’art. 21.
c)
L’ambito di applicazione
Un terzo fondamentale ordine di problemi che il giurista positivo deve rilevare
in riferimento alla Carta riguarda il suo ambito di applicazione. Ai sensi dell’art.
51 le disposizioni della Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione
(dunque a tutti e tre i pilastri) e “agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”.
Se questa disposizione, letta in combinato disposto con il c. 2 del medesimo
articolo (che si affretta a precisare che la Carta non introduce nuove competenze
per l’Unione – excusatio non petita…), sta chiaramente ad indicare l’intenzione
di rispettare le “sovranità” (rectius, le suscettibilità) nazionali, essa sembra fingere di ignorare un ben maggiore problema. Ossia che il sistema delle competenze comunitarie e il raggio di intervento del livello comunitario, per quanto
tendenzialmente a natura tipica, non sono vincolati ad un rigido catalogo di
attribuzioni, e sono suscettibili di espansione in relazione alla maggiore efficacia nel perseguimento degli obiettivi elencati (cd. principio di funzionalità), fat- 57 -
tore che del resto ha contribuito a consentire lo sviluppo della giurisprudenza
della Corte di giustizia in materia di diritti fondamentali. La stessa struttura del
sistema istituzionale comunitario rende assai difficile una distinzione netta tra
attività “comunitaria” e non degli organismi e delle istituzioni nazionali.
Se a ciò si aggiunge l’operatività della CEDU ed i conflitti che possono sorgere
tra i tre livelli normativi, il quadro idilliaco di una possibile chiara separazione
tra i piani svanisce del tutto. Così come la Corte di giustizia ha tradizionalmente
fatto ricorso alla Convenzione (ed alla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo) come parametro di riferimento per l’enucleazione dei principi
fondamentali del diritto comunitario di cui essa garantisce l’osservanza, anche
la Corte di Strasburgo ha mostrato che il diritto comunitario può rientrare nel
campo di applicazione del sistema della CEDU. E può farlo anche entrando in
conflitto con esso, un conflitto che naturalmente deve risolversi, per i giudici di
Strasburgo, con la prevalenza della Convenzione 3 . D’altro canto, essendo tutti
gli Stati membri dell’UE anche aderenti alla CEDU, una violazione di quest’ultima da parte degli organismi comunitari potrebbe in ipotesi essere indirettamente fatta valere, nonostante la mancata adesione dell’Unione alla CEDU, ricorrendo alla Corte di Strasburgo contro tutti gli Stati membri dell’UE.
Nonostante la clausola salvatoria dell’art. 52 c. 3 della Carta, in cui si afferma la
coincidenza del significato e della portata dei diritti sanciti dalla CEDU in caso
di diritti previsti in entrambi i documenti, non è comunque chiaro quale organo
debba decidere, ad es., se una limitazione disposta dalla Carta vada o meno al di
là di quanto ammesso dalla CEDU. Una siffatta competenza potrebbe essere
reclamata dalla Corte di giustizia come dalla Corte dei diritti dell’uomo. O forse
da entrambe, in un “rapporto di collaborazione” (come affermato dal Tribunale
costituzionale federale tedesco) che in realtà può trasformarsi in un vero e proprio scontro. Insomma, appare evidente come i confini tra i livelli in materia di
diritti fondamentali siano abbondantemente saltati, con buona pace delle disposizioni limitative dell’ambito di applicazione dei diversi documenti.
3. Pars construens: giuridicità della politicità della Carta
Se ne deve dunque concludere che la Carta è inutile o peggio dannosa? Al contrario.
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Certamente essa crea diverse difficoltà interpretative ed è lungi dall’essere scevra
di imperfezioni e lacune. Più precisamente la Carta sembra avere molto di giuridico in senso epistemologico ed analitico, ma poco (e confuso) in termini
positivistici. Il diritto, tuttavia, non è solo diritto positivo, e per contro il diritto
non (immediatamente) positivo non è sempre “non diritto”.
a)
Il contenuto: valenze extragiuridiche e conseguenze giuridiche
Se la Carta crea non poche difficoltà sistematiche ed interpretative per il diritto
positivo, essa ha tuttavia un’indubbia valenza su altri livelli di analisi del processo di integrazione europea, diversi da quello strettamente giuridico, livelli
che a loro volta, come si è detto all’inizio, hanno ripercussioni più o meno forti
e più o meno dirette sulla sfera del diritto, attraverso il filtro che ne dà la
metodologia dell’analisi costituzionale.
È evidente nella Carta una marcata dimensione “psicologico-simbolica”. Il documento fa infatti il punto sul grado di costituzionalizzazione simbolica dell’UE,
come si evince ad es. dalla scelta del termine “convenzione” per designare l’organismo che l’ha elaborata (con chiaro richiamo alla terminologia del processo
costituente e di revisione costituzionale statunitense), o dalla forza evocativa di
previsioni magari inutili ma sicuramente fondamentali nella definizione dell’identità costituzionale europea (divieto della pena di morte, diritti di quarta
generazione, centralità dell’individuo, ecc.). Vi è poi una netta dimensione
sociologica. La Carta contribuisce alla creazione di un’identità europea attraverso (l’auto-)riconoscimento dell’Unione (e dei suoi Stati, e dei suoi popoli) in
una comunità di diritto, ed è noto come basti che di una cosa si parli (l’UE
basata sui diritti fondamentali) affinché questa inizi ad esistere nella percezione
collettiva. Vi è inoltre una riconoscibilissima dimensione politica. La Carta contribuisce all’edificazione della legittimazione democratica dell’Unione, spesso
criticata in base al tanto declamato “deficit democratico”. A tal fine contribuisce
anche il procedimento di formazione della Carta, attraverso un’ampia pubblicità dei lavori e la possibilità di intervento informatico da parte di ciascuno, e non
è certo un caso che questa manifestazione di identità collettiva abbia coinciso
sotto il profilo temporale con il riavvio del processo di allargamento dell’Unione ad est e sud-est.
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Appare insomma evidente che la Carta si pone come un passaggio cruciale
per la creazione (o il rafforzamento) di un Verfassungspatriotismus europeo, basato, ovviamente, sulla condivisione del “patrimonio spirituale e
morale” (come dice il preambolo ), comune allo spazio costituzionale europeo, dato dalla cultura dei diritti. In questo quadro la Carta contribuisce a
creare se non un popolo almeno una comunità civica unitaria fondata sui
diritti, modificando i fini della comunità/unione verso il riconoscimento, il
rispetto e la garanzia dei diritti fondamentali. Serve a rafforzare la cultura
giuridica comune europea dei diritti fondamentali, nel quadro del processo
di integrazione circolare che conduce ad una comunitarizzazione dei valori
costituzionali e ad una costituzionalizzazione dell’ordinamento comunitario.
Ma quali ricadute possono avere questi elementi nell’ambito del diritto positivo? Per comprenderlo può essere utile il riferimento all’esperienza di un
ordinamento, quello francese, considerato la patria dei diritti ma anch’esso,
analogamente al sistema comunitario, sviluppatosi al di fuori di un unico
catalogo e costruito attraverso la graduale incorporazione pretoria di diverse fonti in materia (bloc de constitutionnalité). Al pari della giurisprudenza
creativa della Corte di giustizia in materia di diritti fondamentali, basata su
criteri evanescenti dal punto di vista del diritto positivo (le tradizioni costituzionali comuni) o su fonti estranee all’ordinamento comunitario (la CEDU),
anche il Consiglio costituzionale francese ha fatto ricorso, nella sua giurisprudenza sui diritti fondamentali, a fonti non più in vigore (la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) o comunque sprovviste di
contenuto precettivo (il preambolo della costituzione del 1946).
Alla luce di questa analogia, e dell’intera storia dell’affermazione dei diritti
fondamentali nell’ordinamento comunitario, basata quasi esclusivamente su
fonti non vincolanti ed estranee a tale ordinamento, è facile prevedere che
la Carta andrà dunque ad aggiungersi alle tradizioni costituzionali comuni,
alla CEDU, ai precedenti della Corte di giustizia e alle norme comunitarie
nella formazione del “blocco di costituzionalità comunitario”, in modo del
tutto indipendente dalla propria natura vincolante o meno, autointegrandosi
nei parametri interpretativi già consolidati.
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b)
La natura giuridica: il dover essere degli Stati membri
La Carta nasce a coronamento di un’intensa fase di elaborazione giurisprudenziale
del sistema comunitario di tutela dei diritti fondamentali, sfociata
nell’incorporazione nei trattati delle radici deontologiche dell’Unione saldamente
ancorate ai diritti fondamentali, in risposta all’impossibilità di adesione per via
implicita alla CEDU ed alle critiche di taluni giudici nazionali, e nel momento
in cui l’Unione si prepara al suo più delicato allargamento, quello ad est (e, in
prospettiva, a sud est). La Carta assume dunque l’evidente carattere di manifesto politico, ideologico e programmatico nei confronti non tanto dei suoi Stati
membri (v. le riserve di cui all’art. 51) quanto soprattutto dei Paesi candidati.
Riprendendo una fortunata espressione impiegata in dottrina con riferimento ai
criteri di Copenhagen, si può affermare che anche la Carta è essenzialmente un
“prodotto d’esportazione” (de Witte) assai più che per uso interno.
Se questa affermazione può sembrare intuitiva sul piano politico, essa ha un suo
fondamento giuridico evidente. La lettura della Carta (ed in particolar modo del
preambolo, la cui importanza aumenta in misura inversamente proporzionale
alla natura vincolante del testo) evidenzia come essa pretenda di non inventare
assolutamente nulla di nuovo rispetto al sistema di tutela attuale, e affermi solennemente di non voler interferire con gli apparati di garanzia dei diritti fondamentali degli Stati membri, e si è visto come queste intenzioni siano probabilmente destinate a pronta smentita. L’intento fondamentale, tuttavia, rimane quello
di razionalizzare (“rendere visibile”) in questa materia l’acquis communautaire,
ossia quel patrimonio non solo normativo, ma anche politico e giurisprudenziale,
maturato nel corso dell’integrazione, che, supposto per acquisito nei confronti
degli Stati membri, deve essere integralmente recepito da parte degli Stati che
aderiscono all’Unione. In aggiunta, l’art. 49 TUE prevede espressamente il rispetto dei principi di cui all’art. 6 TUE quale requisito per l’adesione.
Ne deriva che la Carta, in quanto parte dell’acquis e specificatrice dei principi
di cui all’art. 6 TUE (e pertanto incorporata nelle condizioni di adesione ex art.
49 TUE) risulta direttamente applicabile ai nuovi Stati aderenti all’Unione, nei
confronti dei quali essa assume carattere vincolante e valore precettivo.
Data dunque per acquisita (forse un po’ frettolosamente) la condivisione dei
suoi contenuti da parte degli Stati membri e resa obbligatoria nei confronti dei
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nuovi candidati, la Carta sembra con tutta evidenza voler costituire, all’interno del sistema regionale di tutela dei diritti fondamentali dato dalla CEDU,
un sottosistema “più avanzato”, una sorta di cooperazione rafforzata, in seno
alla Convenzione europea, tra gli Stati membri dell’Unione. Si formalizza
così un sistema a più velocità o a cerchi concentrici, il cui settore esterno è
dato dagli standard garantiti dalla CEDU, ritenuti sufficienti per Paesi alle
prese con enormi difficoltà nella garanzia dei diritti fondamentali “primari”
(come ad es. molti Paesi dell’ex Unione sovietica recentemente entrati nel
Consiglio d’Europa) e il cui nucleo interno è dato da Paesi (quelli dell’Unione) il cui grado di civiltà giuridica non può limitarsi a garantire la libertà di
manifestazione del pensiero o il divieto della pena di morte, ma richiede
standard di protezione più complessi ed elevati. Se questo è vero, tuttavia,
non può che essere fonte di ulteriore rammarico quanto già precedentemente ricordato intorno alla scarsa complessità della Carta ed al suo disinteresse
verso diritti più articolati di quelli previsti e che reclamano un riconoscimento (forse perché già godono di protezione).
c)
L’ambito di applicazione: la quadratura del cerchio
La Carta autolimita la propria portata agli atti delle istituzioni e degli organi
dell’Unione, “nel rispetto del principio di sussidiarietà”, ed agli Stati membri
“esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione” (art. 51). Questa affermazione, oltre che ovvia e non poco impacciata, rischia di essere fuorviante. È noto infatti come il sistema comunitario abbia potuto estendere la propria sfera di intervento grazie, tra l’altro, alla sua peculiare struttura istituzionale e competenziale integrata e non separata, così che, in forza dell’integrazione tra gli ordinamenti, gli organi nazionali diventano (quasi) organi comunitari nell’applicazione del diritto comunitario e diventa sempre più difficile
distinguere tra “diritto dell’Unione” (rectius, della Comunità) e diritto degli
Stati membri. Se a ciò si aggiunge la mancanza di un sistema strutturato di
riparto materiale delle competenze, che seguono invece criteri di attrazione
funzionale, appare evidente in prospettiva la potenzialità espansiva del diritto
comunitario (e della sua “attuazione”), e di conseguenza la portata meramente
declaratoria della limitazione dell’ambito di applicazione di cui all’art. 51.
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Alla luce di queste considerazioni appare assai più facile spiegare le ragioni
della già evidenziata (e criticata) auto-limitazione materiale della Carta ai soli
diritti individuali. Consapevoli dell’inevitabilità dell’effetto espansivo della Carta,
può ritenersi che gli Stati membri (per quanto indirettamente, non essendo essi
stati rappresentati nel processo di elaborazione della Carta) abbiano evitato di
andare oltre rispetto a quanto si poteva dare già per acquisito, ossia la garanzia
dei diritti individuali, badando bene a non introdurre diritti più complessi, a
natura o ad esercizio collettivo, in particolare i diritti culturali o delle minoranze, che avrebbero potuto in prospettiva interferire non poco nelle scelte nazionali relative alla gestione, ad es., della società multiculturale. Se questa supposizione è corretta, essa può fugare anche i residui dubbi sulla portata della Carta e
relativizzare ulteriormente il suo carattere non vincolante.
Una seconda dimensione dell’ambito di applicazione merita di essere considerata, e riguarda i rapporti tra la Carta (e più in generale l’Unione) e la CEDU.
I ripetuti riferimenti, nel preambolo, alla CEDU e alla giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo, che come si è visto non fanno altro che
“rendere visibile” quanto già costantemente affermato nella giurisprudenza
della Corte di giustizia, uniti alle considerazioni sopra svolte sulla creazione
di un sistema a cerchi concentrici nella tutela dei diritti fondamentali in Europa, confermano definitivamente la sostanziale incorporazione della CEDU
nel sistema comunitario. Non potendo la comunità/unione aderire alla CEDU
in assenza di modifica dei trattati, la Carta completa l’ingegnosa opera di
accerchiamento contrario, fagocitando la CEDU ed andando ben oltre essa, il
tutto senza emendare i trattati.
La CEDU (e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo) diventa in questo modo il primo gradino del sistema europeo di tutela dei diritti fondamentali, facendo della Carta (e in definitiva della Corte di giustizia, l’unico organo in grado di interpretarla, anche a prescindere dalla sua natura
giuridica) il livello più elevato di tale sistema. Si comunitarizza così il
diritto internazionale della CEDU e (attraverso le tradizioni costituzionali comuni) parte del diritto costituzionale degli Stati membri, nel quadro di un sistema, complesso e potenzialmente in costante conflitto, che
fa saltare anche gli ultimi residui di certezza tradizionale riguardo al
rapporto tra le fonti. Se l’evoluzione dell’integrazione europea è anche
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la storia di scontri di potere, la Carta rappresenta indubbiamente un punto
– forse decisivo – a favore della Corte di giustizia rispetto alla Corte di
Strasburgo, relegata a giurisdizione per i diritti fondamentali “elementari”. Se già da tempo la comunitarizzazione (anche brutale) della CEDU
era un’ipotesi nota alla dottrina, la soluzione indicata dalla Carta sembra raggiungere lo scopo in modo apparentemente non conflittuale e soprattutto, ancora una volta, graduale, com’è tipico di tutti i grandi passaggi epocali dell’evoluzione dell’integrazione comunitaria.
Arde ancora sotto la cenere, per ora, lo scontro con le Corti nazionali,
ma certo in questo senso la natura non vincolante della Carta sembra
giocare ancora una volta in favore della Corte di giustizia, ben difficilmente potendo le Corti statali ricorrere alla Carta a fini interpretativi,
per via del suo campo di applicazione e per la tradizionale difesa ad
oltranza da parte delle giurisdizioni nazionali del sistema di tutela offerto dalle costituzioni statali.
4. Conclusioni. La Carta e la “costituzione europea”
La Carta viene spesso presentata e analizzata nel contesto, invero assai arido,
dei dibattiti intorno alla cd. “costituzione europea”. Anche su questo punto le
letture divergono a seconda delle lenti attraverso le quali si guarda al fenomeno.
In chiave positivistica (rectius, formalistica), si può discorrere a lungo, e poco
fruttuosamente, sul fatto che la Carta rappresenti o meno il nucleo di una costituzione europea. Nell’ottica sostanziale, per contro, è facile ricordare che in
base all’art. 16 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789)
“ogni società nella quale non siano assicurate la garanzia dei diritti e la separazione dei poteri non ha costituzione”, (dunque l’Unione ha una costituzione, sia
pure sui generis rispetto a quelle degli Stati membri), e che la Corte di giustizia
ha definito il trattato la “carta costituzionale” della comunità, pur dovendosi
riconoscere che alla “costituzione europea” manca il carattere di atto fondatore,
di contratto sociale.
Più che sulla poco appassionante questione dell’esistenza della “costituzione
europea” la Carta stimola riflessioni sulla natura di tale costituzione, sulle fina- 64 -
lità dell’integrazione comunitaria, sui suoi tempi, sui suoi strumenti e sul livello
di multiculturalismo (anche dei diritti) che intende raggiungere. A conclusione
di quanto si è detto nelle pagine che precedono è ora possibile abbozzare una
lettura della Carta in parziale risposta a questi quesiti.
La natura giuridicamente ibrida della Carta appare perfettamente conforme alla
natura giuridicamente ibrida dell’integrazione europea. Ibrida, beninteso, solo
nella tradizionale visuale che non concepisce che in termini contrapposti lo Stato (nazione) da un lato e la confederazione di Stati (sovrani) dall’altro. Se vista
invece con gli occhi del funzionalismo sovranazionale (che sono poi gli occhi
del sistema costituzionale comunitario), appare evidente che la Carta sta seguendo il percorso tradizionale di tutte o quasi le politiche e le azioni comunitarie, con un inizio per nulla o assai poco vincolante per poi integrarsi in spire
sempre più avviluppanti attraverso la loro concreta gestione e soprattutto la loro
progressiva assimilazione da parte della Corte di giustizia (spill-over).
Sembra insomma trattarsi di una nuova prima tappa, destinata ad essere lentamente ma progressivamente metabolizzata dal sistema comunitario, nel quale
non mancherà di manifestare i propri effetti, potenzialmente esplosivi, sia pure
a piccoli passi. In questo senso la Carta non differisce da tante altre attività che
hanno caratterizzato il processo di integrazione. Ciò che sembra distinguere
l’operazione di innesto della Carta nel sistema comunitario rispetto ad altri obiettivi di grande portata realizzati in passato (o in corso di realizzazione) non è
dunque tanto il metodo quanto la direzione verso cui l’operazione sembra tendere.
La Carta sembra infatti voler ricondurre ad unità e ad omogeneità la comunità
plurale di cittadini e di popoli europei attraverso l’identificazione di valori comuni che stanno alla base della convivenza. Valori della tradizione giuridicoculturale europea, che consentono di più facilmente discernere tra (e necessariamente contrapporre) “noi” (gli Stati membri e i loro popoli) e “loro” (tutti gli
altri). In quest’ottica, la metafora dei cerchi concentrici e quanto si è detto a
proposito dell’allargamento assume un significato più chiaro: il nocciolo duro
dell’integrazione è costituito necessariamente da una comunità di valori fortemente connotati in chiave ideologica e culturale. Più che di una Carta dei diritti
sembra dunque trattarsi di una Carta dei valori, anche se fortemente incompleta
sotto il profilo del pluralismo.
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Contrariamente alla cittadinanza europea, che ha significato un passo nella direzione dell’integrazione funzionale, la Carta aggiunge un mattone alla costruzione dell’integrazione nazionale. “Noi” come gruppo ristretto che condivide valori e cultura sostanzialmente comuni (almeno in materia di diritti fondamentali), contrapposto necessariamente a “loro”, che tali principi non condividono
appieno (gli Stati aderenti alla CEDU) o per nulla (gli altri). Un modo per ricondurre ad unità un popolo che unitario non è, e per accettare che, se anche si è
governati dal “diverso” (nell’unica cittadinanza multinazionale), questo tanto
diverso non può essere perché condivide (deve condividere) i medesimi valori,
dunque la medesima cultura, dunque le medesime finalità, dunque la medesima
“nazione” in senso tradizionale.
Sotto questo profilo la Carta sembrerebbe rappresentare una capitolazione davanti agli stantii criteri ribaditi con forza dal Tribunale costituzionale federale
tedesco nella sentenza Maastricht. Essa infatti sembra ricorrere ai medesimi
parametri per superarne le obiezioni (il popolo europeo deve iniziare ad esistere
e per farlo deve cercare gli elementi comuni), fingendo di ignorare che l’unità
del “popolo” europeo sta proprio nella sua eterogeneità. In quest’ottica si spiega, ancora una volta, il già ripetutamente ricordato e biasimato silenzio della
Carta sui diritti che potremmo definire “di complessità”, come i diritti culturali,
delle minoranze, di partecipazione, all’autogoverno, ecc. Perché su questi occorre riconoscere maggiori diversità alle quali questo primo sforzo di
codificazione non voleva essere preordinato, nonostante solo tali diversità possano fare della comunità europea dei diritti una vera unione.
Sarà comunque ancora una volta la prassi concreta della Carta, la sua interpretazione da parte della Corte di giustizia, il suo progressivo radicamento nella
simbologia dell’integrazione a consentire di superarne le lacune. Si tratta, per
ora, di un piccolo passo indietro sulla via di una nuova cultura della diversità
per privilegiare un’unità apparente. Un nuovo, per ora embrionale contratto sociale, un passo verso un nuovo “nazionalismo multinazionale” in attesa di divenire una base per il nuovo pluralismo. Una Carta dei diritti che, se per il diritto
positivo è ancora soltanto un cartina, può già essere cartina al tornasole dell’evoluzione del processo di integrazione europea attraverso i diritti.
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(1)
Ipotesi non solo meramente astratta. Si pensi ad es. alla differenza interpretativa sul diritto alla inviolabilità
del domicilio emersa tra la Corte di giustizia (caso Hoechst, sent. 21-9-1989, cause riunite 46/87 e 227/
88, in Racc., 1989, 2859) e la Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. l’analogo caso Niemietz v. Germany
del 16-12-1992, in Reports of Judgements and Decisions, A 251-B, p. 97). Per la prima, il diritto fondamentale all’inviolabilità del domicilio “si impone nell’ordinamento giuridico comunitario in quanto
principio comune ai diritti degli Stati membri per quanto attiene al domicilio privato delle persone
fisiche”, ma “lo stesso non può dirsi per quanto riguarda le imprese” (punto 17), mentre per la seconda
il medesimo diritto include “certain professional or business activities” (punto 31). Cfr. per altri casi N.
PHILIPPI, Divergenzen im Grundrechtsschutz zwischen EuGH und EGMR, in Zeitschrift für Europäische
Studien (ZEuS), 2000, pp. 97 ss. Va comunque ricordato che non vi sono finora stati casi in cui la Corte
di giustizia si sia discostata (almeno sostanzialmente) dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (ma semmai si sia verificato il contrario).
(2)
Piuttosto strana anche la formulazione linguistica: “nessuno può essere condannato alla pena di morte,
né giustiziato”. A parte l’ovvia considerazione dell’impossibilità per le autorità comunitarie e per gli
Stati membri nell’attuazione del diritto comunitario (cui la Carta si applica, art. 51 c. 1) di condannare
alla pena di morte per violazione del diritto comunitario, stupisce anche la distinzione tra l’essere condannati a morte e l’essere “giustiziati” (quasi la seconda previsione potesse consentire di attenuare la
prima, giustificando financo la condanna a morte, purché non sia eseguita) e non ultimo l’uso del verbo
“giustiziare”. Una cultura fondata sul rigetto della pena di morte non può ritenere in alcun modo (nemmeno a livello meramente terminologico) che l’esecuzione della condanna sia opera di “giustizia”. La
“svista” sembra tuttavia imputabile più alla traduzione che alle intenzioni dei membri della Convenzione (dove pure non pochi italiani erano presenti). Migliori, sotto questo aspetto, le versioni in altre lingue
ufficiali (inglese: No one shall be condemned to the death penalty, or executed; francese: Nul ne peut
être condamné à la peine de mort, ni exécuté; tedesco: Niemand darf zur Todesstrafe verurteilt oder
hingerichtet werden; spagnolo: Nadie podrá ser condenado a la pena de muerte, ni ejecutado).
(3)
Cfr. Corte eur. dir. uomo, sent. 18-2-1999, causa n. 24833/94, Matthews c United Kingdom of Great
Britain and Northern Ireland, in Reports of Judgments and Decisions, 1999-I.
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COLLANA “QUADERNI DEL CDE”
1.
La tutela delle minoranze etnico-linguistiche in relazione alla rappresentanza politica: un’analisi comparata
2. Le professioni turistiche nell’ottica comunitaria
3. Euro: una sfida per la pubblica amministrazione
4. L’accesso ai documenti amministrativi nella prospettiva comunitaria
5. Cooperative, associazioni e mutue nelle normative e nelle politiche della
comunità europea
6. Accesso alle fonti informative comunitarie
7. Opportunità di cofinanziamento comunitario nel settore dell’ambiente
8. Documento elettronico e firma digitale
9. Gioventù – il programma Europeo per l’educazione non formale e la mobilità internazionale (in corso di pubblicazione)
10. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
11. Programma comunitario “Cultura 2000” (in corso di pubblicazione)
12. Disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato
Le pubblicazioni sono disponibili su Internet al seguente indirizzo:
http://www.provincia.tn.it/cde, oppure si possono richiedere a:
Provincia Autonoma di Trento,
Centro di Documentazione Europea, via Romagnosi, 9
38100 Trento, tel. 0461/495087-88, fax 0461/495095, e-mail: [email protected]
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