Liceo Ginnasio Scipione Maffei Sara Dal Cengio Classe III I a.s. 2010/11 IL GRANDE INQUISITORE tra Prometeo e Robespierre ovvero dalla metafisica della rivolta alle rivoluzioni storiche Marc Chagall “Trittico della Rivoluzione” 1937 SOMMARIO PREMESSA 3 IL GRANDE INQUISITORE DI DOSTOEVSKIJ 4 L’UOMO IN RIVOLTA 7 DAL MOTO DI RIVOLTA ALL’INSURREZIONE METAFISICA PROMETEO IL PORTATORE DEL FUOCO IL DIO SORDO DI EPICURO LUCREZIO E IL GRECO LIBERATORE LA RIVOLTA IN AZIONE, LA RIVOLUZIONE (?) 7 8 11 12 14 L’IDEOLOGIA RIVOLUZIONARIA 15 L’UOMO INCAPACE DI ESSERE LIBERO LA STORIA TRA ANTICHI E MODERNI (?) LA PROFEZIA DI MARX 15 17 19 RIVOLUZIONE E FALLIMENTO 22 UN NUOVO INIZIO IL SORGERE DELLA LIBERTÀ IL PATHOS TRAVOLGENTE E L’IDEA DI IRRESISTIBILITÀ LA QUESTIONE SOCIALE E IL SENTIMENTO DI COMPASSIONE DALLA COMPASSIONE ALLA PIETÀ ABNEGAZIONE E RISVOLTI DRAMMATICI 22 23 24 25 26 27 CONCLUSIONI 28 BIBLIOGRAFIA 30 2 Premessa Mi innamorai di Dostoevskij tre anni fa, quando nell’estate del 2008 lessi per la prima volta un suo romanzo, L’Idiota. Da allora si può dire che io sia diventata quasi “monografica” (la stessa cosa certo si potrebbe dire anche riguardo a Calvino, che ha lottato a lungo con il russo per il primato su questo lavoro): ho letto in tutto otto romanzi di Dostoevskij e l’ultima grande scoperta della scorsa estate sono stati I Fratelli Karamazov, in particolar modo un breve capitolo, inserito da Dostoevskij al centro del romanzo, la Leggenda del Grande Inquisitore. Questo breve racconto, che si risolve quasi tutto in un monologo, si isola completamente dal resto del romanzo, come se Dostoevskij avesse voluto sospendere per qualche breve pagina la traccia narrativa e offrire al lettore uno spunto riflessivo, che sarebbe stato tragicamente valido per tutti i secoli a venire (mi viene in mente a riguardo la funzione che il coro assumeva nelle antiche tragedie greche). Da quando l’ho letto, L’Inquisitore è diventato una sorta di costante nei miei passi, a partire dallo spettacolo di Silvio Castiglioni “Domani ti farò bruciare” tratto dal capitolo di Dostoevskij, che per poco mancai quando, nel settembre scorso, giravo per le strade di Mantova, durante il festival della Letteratura, fino ad arrivare alle riflessioni portate avanti in classe, quando cominciò quest’ultimo anno di liceo, grazie a quel “piccolo pertugio dell’ora di religione” da cui Don Marco mi parlava. E così l’idea del lavoro nacque da sola, e anche il suo sviluppo lievitò spontaneamente quasi senza che me ne accorgessi, arricchito sempre più dalle letture serali che portavo avanti da sola e dagli studi mattutini che scoprivo in classe. Sono approdata così al prodotto finale, quasi trenta pagine di testo, che non hanno la pretesa di essere esaustive e lineari nella descrizione dell’Inquisitore come metafora di rivolta e rivoluzione, per come ci è dato osservarle nella storia passata. Rivolta e rivoluzione non sono la stessa cosa, ma uno stretto legame le condanna l’una all’altra: che cos’è la rivolta? Che cos’è la rivoluzione? Come si generano e si mettono in atto? Perché si passa dall’una all’altra? E infine, che cosa può generare il loro fallimento? L’inquisitore è metafora di tutto questo, e a lui io guardo per tutto il corso del mio lavoro, trovando nelle parole di Dostoevskij le mie risposte, e mettendole a confronto con altri personaggi letterari o storici che ho conosciuto nella mia esperienza liceale. Non voglio dilungarmi oltre, solo un conclusivo ringraziamento a Chagall, che ancora non ho citato, per avermi accordato il suo Trittico della Rivoluzione in copertina. Anche questo è stato per me un incontro tanto fortunato quanto fortuito, avvenuto qui a Verona a Palazzo Forti, dove Chagall ha avuto cuore di alloggiare questa primavera. Buona lettura, Sara Dal Cengio 3 Il grande inquisitore di Dostoevskij La leggenda del Grande Inquisitore è, come si è già detto, il sorprendente capitolo centrale dell’ultimo romanzo di Dostoevskij, i fratelli karamazov (1879), considerato il vertice della sua produzione letteraria. Nonostante sia quindi da inserire all’interno di un’opera letteraria ben più vasta, La leggenda è al giorno d’oggi studiata (e pubblicata) come opera a sé stante, carica di un significato e un mistero unico, che facilmente è isolato e distinto dalla parabola della famiglia Karamazov. Il poemetto è inserito all’interno di un acceso dibattito tra due dei fratelli Karamazov, Ivan e Alioscia. Ivan, critico e disincantato nella sua atea e infelice visione di un mondo altrettanto infelice, dell’umanità e di dio, è pronto a gridare il suo credo di odio e disprezzo per un progetto divino incomprensibile di sofferenza ( il tutto è lecito1 dei Karamazov, che bene si inquadra al centro del nostro percorso) e divorato dal rifiuto di una vita dove lo sviluppo della virtù sembra impossibile (attenzione al significato che “virtù” assumerà in seguito, una volta imposta non solo come possibile ma necessaria); l’altro, il minore dei fratelli, eroe virtuoso e positivo del romanzo, è animato da quella bontà (volontariamente a questo riguardo non parlo di virtù) tanto cara a Dostoevski che caratterizza molti dei suoi protagonisti (avvicinabile forse al principe Myskin de L’idiota) fremente d’amore per la vita e per gli uomini, mosso dalla fiducia in Cristo e ispirato ed estasiato dal suo padre spirituale lo starec Zosima. Il confronto tra i due fratelli, così diversi l’uno dall’altro, sulla propria visione del mondo, sulle tematiche del bene-male e del giusto-ingiusto (molto care allo stesso Dostoevski di cui, non dimentichiamo, sono “figli” tanto l’uno quanto l’altro fratello) portano Ivan ad aprirsi completamente e a raccontare ad Alioscia un poemetto che ha partorito proprio da queste riflessioni circa un anno prima e che non ha mai avuto il coraggio di scrivere: Il Grande Inquisitore. Si apre allora un “romanzo” nel romanzo, in cui si sovrappongono tre voci narranti diverse: Dostoevskij che racconta il suo Ivan, Ivan che racconta il suo Inquisitore, e l’inquisitore che racconta sé stesso, a Cristo. Il poemetto è dunque un poema raccontato, in cui la narrazione spesso è intervallata dai commenti dell’interlocutore Alioscia, tutt’altro che passivo. L’ambientazione salta in continuazione dal 1867, anno di ambientazione dei Karamazov, indietro fino al sedicesimo secolo, durante il periodo della terribile inquisizione spagnola. Come inizio del poemetto, Ivan immagina che nella Siviglia sconvolta e animata dai “suntuosi autodafè” dove ogni giorno il cardinale Grande Inquisitore manda a morte gli L'assunto che “tutto è lecito” tornerà più volte nelle pagine dei Fratelli Karamazov, sia nella Leggenda del Grande Inquisitore, sia in altre parti del libro come nei dialoghi tra Ivan e Smerdjakov, il quale nella storia finirà per mettere tragicamente in atto questo teorico insegnamento nell’uccisione del padre (cfr ad esempio p.274: ‹Allora nel senso che “tutto è lecito”? Tutto è lecito, è questo che intendi, non è così?› […] ‹ E sia: “tutto è lecito”, ormai mi sono pronunciato in tal senso. Non la ritratto›. 1 4 eretici, proprio lì, a distanza di quindici secoli dalla sua venuta, Cristo si presenta nuovamente tra gli uomini. Cammina tra la folla e, incredibilmente, viene subito riconosciuto. Ivan descrive la figura di Cristo con grande sinteticità, come se fosse immediatamente riconoscibile anche al lettore: “Passa tra loro in silenzio, con un lieve sorriso di infinita compassione. Nel suo petto arde il sole dell’amore, dai suoi occhi si irradiano la Luce, la Sapienza e la Forza che si riversano sugli uomini e di rimando infiammano d’amore i loro cuori”.2 Il Cristo di Ivan è una figura luminosa, forte e saggia, ma al contempo muta (le uniche parole che pronuncia sono il “talitha kumi” con cui resuscita una piccola bambina). Cristo è muto intorno alla folla estasiata che lo venera ed è muto anche di fronte al Grande Inquisitore, vero protagonista del poemetto, il cui ingresso è dilatato e posticipato. Tanto nella descrizione del Cristo quanto in quella dell’Inquisitore, Ivan sottolinea il potere dello sguardo: se dagli occhi del figlio di Gesù si irradia la Luce, anche dal volto, scarno di novantenne dell’inquisitore, si sprigiona “una scintilla infuocata, un lucente bagliore” 2 che però è inevitabilmente sinistro. Ecco allora i due protagonisti subito avvicinati e al contempo allontanati. Il Grande Inquisitore punta il dito contro Cristo e ordina che sia condotto in prigione, e mentre Cristo esegue senza ribellarsi, la folla si inchina davanti alla potenza e all’autorità dell’inquisitore. Tutto questo rappresenta il preambolo del vero poema che invece si articola nel lungo sproloquio del vecchio inquisitore di fronte a Cristo imprigionato quando, a notte fonda, lo va a trovare, solo, nelle segrete dell’edificio del Sant’uffizio. Qui l’Inquisitore è finalmente libero di togliersi i paramenti cardinalizi e di raccontare tutto ciò che per novant’anni ha tenuto dentro senza poterlo riferire a nessuno, il suo segreto, indicibile e incomprensibile a qualunque uomo, eccetto proprio a Cristo. Le parole con cui esordisce l’inquisitore sono molto significative: “perché sei venuto a disturbarci?”3. Cristo rappresenta un pericolo per tutto il mondo dell’ ordine costruito dal grande inquisitore; egli non ha alcun diritto di intervenire e privare l’umanità del diritto alla fede e alla felicità per cui l’Inquisitore ha tenacemente lottato, in nome di un amore incondizionato per gli uomini. L’Inquisitore ha corretto l’imperfetta opera di Cristo e ora, prima di mandarlo a morte il giorno seguente, può rinfacciargli tutti i suoi errori. Cristo ha compiuto un fondamentale errore nel suo piano di salvazione dell’umanità: ha sopravvalutato gli uomini. Credeva che sarebbe stato sufficiente offrire agli uomini la parola di Dio, la sua verità, e che in cambio di questa verità essi lo avrebbero seguito nel deserto, tra gli affanni, negando ogni tentazione terrena. Quando Cristo nel deserto rifiutò le tre tentazioni dello spirito del Male, lo fece in nome di quella che lui considera la vera giustizia divina, l’autentica libertà. “Quale libertà sarebbe se l’ubbidienza è ottenuta al prezzo dei pani?”3. “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca i 2 3 F. Dostoevkij, La Leggenda del Grande Inquisitore, Salani editore, 2011 pag. F. Dostoevkij, La Leggenda del Grande Inquisitore, Salani editore, 2011 pag. 5 Dio”4. Ecco allora che Cristo non ha voluto asservire l’uomo al miracolo, per garantirgli una libera fede, una libera scelta tra bene e male, la vera libertà, non limitata da nulla. Così facendo però Cristo ha moltiplicato il peso della libertà sugli uomini, agendo come se non li amasse, non riconoscendo, o non volendo riconoscere in loro, i limiti strutturali dell’essere umano. Limiti che, invece, mostra di conoscere molto bene l’Inquisitore, il quale, nella sua anima grande, non sono li accetta ma anche li benedice. “Il segreto dell’esistenza umana non è soltanto nel vivere, ma nell’avere qualcosa per cui vivere”3, possibile che Cristo se ne sia dimenticato? Cristo si muove sulla terra a mani vuote, predicando la parola di Dio ma senza nulla in cambio: sconvolge gli uomini deboli che vagano nel mondo alla ricerca di un idolo universale, potente e inconfutabile ai cui piedi sacrificare il terribile peso della potenzialità di scelta. L’opera del Grande Inquisitore è allora giustificata dall’amore per l’umanità tutta: costruire un regno universale fondato sul miracolo, sul mistero e sull’autorità è l’unico modo per riappacificare le tormentate coscienze degli uomini, offrendo loro ciò che profondamente vogliono: un idolo da venerare, un prodigio a cui credere, un’autorità da rispettare. La condanna del Grande Inquisitore è ferma e non può avere replica: “Tu vai fiero dei tuoi eletti, ma si tratta appunto di pochi eletti, mentre noi daremo la tranquillità a tutti” 3. L’opera di Cristo è stata finalmente corretta, la felicità è ora alla portata di tutti, per quanto si tratti di una felicità umile e modesta. L’Inquisitore ne è consapevole. Per tutto il monologo del Grande Inquisitore, Cristo è rimasto in silenzio, un silenzio che pesa al vecchio cardinale più di qualsiasi obiezione. Il finale del poemetto è molto aperto: l’Inquisitore, finora fermamente convinto di voler condannare a morte Cristo e bruciarlo sul rogo l’indomani, come il peggiore degli eretici, ora lo lascia andare per le buie strade della città. Il finale rimane volutamente così sospeso, di fronte a una mancata condanna a morte ordinata dall’Inquisitore e a una altrettanto mancata risposta di Cristo alle sue parole, come se i due personaggi fossero destinati a rincontrarsi. Consideriamo questa introduzione al testo come un preambolo necessario alle considerazioni future che faremo sul personaggio del Grande Inquisitore e sulle sue implicazioni metafisiche e storiche. La più immediata osservazione su questa figura, a una prima lettura del testo, è che appare sostanzialmente un personaggio solo. Da una parte l’Inquisitore rifiuta Cristo e il suo messaggio, connotandosi come Anticristo e sostituendosi a lui nella vita degli uomini, dall’altra però appare anche distantissimo da quella debole umanità da lui così adorata. L’Inquisitore non è come tutti gli uomini, non partecipa né della loro felicità né della loro mediocrità: l’Inquisitore è evidentemente uno dei pochi eletti di Cristo 5 . Ecco quindi che nell’analisi di questo personaggio bisogna distinguere due diverse fasi in cui agisce modificando la realtà che lo circonda: nel suo rapporto con la 4 Vangelo di Matteo 4,4 Si vedano a riguardo le parole dell’Inquisitore: “Sappi che io non Ti temo. Sappi che anch’io sono stato nel deserto, che anch’io mi sono nutrito di cavallette e di radici, anch’io benedicevo la libertà con cui Tu hai benedetto gli uomini, e anch’io mi preparavo ad entrare nel numero dei Tuoi eletti, nel numero dei potenti e dei forti, nell’ardente desiderio di completare il numero”. 5 6 dimensione sovraumana e “metafisica” (prima) e nel suo rapporto con la dimensione umana e “storica” (poi). L’uomo in rivolta “L’uomo è per sua natura un ribelle; possono forse essere felici, i ribelli?” 6. Quando il Grande Inquisitore pronuncia queste parole, nel suo lungo monologo, fa evidentemente riferimento a sé stesso e alla sua condizione di infelicità (tanto causa quanto conseguenza dell’atto di rivolta). Abbiamo già introdotto le due dimensioni in cui si inquadra l’azione del Grande Inquisitore, ora ci concentriamo sul suo rapporto con il Divino. La prima connotazione dell’Inquisitore verso il sovrannaturale, esplicitata da lui stesso nel testo come propria di ogni uomo, con le opportune differenze, è il carattere di ribelle7. Il Grande Inquisitore è prima di tutto un uomo in rivolta, e la sua ribellione è, inevitabilmente, contro Cristo: “Prima sfamali, e poi vai a chiedere loro la virtù: ecco che cosa verrà scritto sullo stendardo della rivolta che abbatterà il tuo tempio.”8 Dal moto di rivolta all’insurrezione metafisica Per definire l’atto di rivolta Albert Camus parte dalla più immediata, e condivisibile, raffigurazione dell’uomo in rivolta: l’uomo che dice no 9 . Dopo aver accettato questa figura di partenza, bisogna però interrogarsi sul valore e sul contenuto di questo “no”. Proseguendo su un discorso generale è evidente che l’esistenza e l’accettazione di un “no” presuppone immediatamente anche un “sì”, e di conseguenza anche un limite: un confine tra il “sì” e il “no”. L’atto di rivolta muove dall’esistenza di una frontiera che delimita ciò che è accettabile/accettato e ciò che non può esserlo, in nome di un valore. Siamo entrati allora nel vivo della rivolta: la rivolta è un giudizio di valore, una presa di coscienza10. L’individuo che si ribella, lo fa in nome di un valore che ha riconosciuto come bene supremo con cui identificarsi e per cui è contemplato anche il sacrificio. Dopo aver definito l’atto di rivolta come strutturalmente positivo (riconoscimento di un diritto/valore), passiamo ora a dimostrare il suo secondo attributo fondamentale: atto di rivolta come atto “filantropico” (non egoista). Nello stesso momento in cui l’individuo genera in sé l’idea di rivolta, e questo, sia ben inteso, può avvenire anche per motivi egoisti (es. oppressione), non solo approda alla presa di coscienza di sé come “avente il diritto di” ma va oltre, estendendo questo diritto a bene comune. Nell’uomo in rivolta avviene allora contemporaneamente il riconoscimento di sé come individuo portatore di un valore, 6 F. Dostoevkij, La Leggenda del Grande Inquisitore, Salani editore, 2011 Si vedano a riguardo le parole dell’Inquisitore: “Si convinceranno pure (gli uomini) che non potranno mai nemmeno esser liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli.[…] Ribelli per natura[…].” 8 F. Dostoevkij, La Leggenda del Grande Inquisitore, Salani editore, 2011 9 Cfr. A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 2009 10 A. Camus, L’uomo in rivolta, così scrive: “Insieme alla ripulsa rispetto all’intruso, esiste in ogni rivolta un’adesione intera e istantanea dell’uomo a una certa parte di sé. Egli fa dunque implicitamente intervenire un giudizio di valore […] l’uomo che camminava sotto la sfera del padrone, ora fa fronte. Oppone ciò che è preferibile a ciò che non lo è. Non tutti i valori trascinano con sé la rivolta, ma ogni moto di rivolta fa tacitamente appello a un valore.” 7 7 positività della rivolta, e il superamento dell’individuo nella collettività, filantropia della rivolta. Dopo aver riconosciuto questo bene supremo (e comune), l’individuo tende ad assolutizzarlo identificando sé ad esso, e di conseguenza identificando sé a qualsiasi altro individuo, in quanto partecipe di questo stesso bene. Questo processo rende possibile la rivolta anche in nome di un’ingiustizia, più in generale di un male, subito da altri e non direttamente dall’individuo. Si tratta di una “immedesimazione psicologica” 11 . Possiamo dire quindi che nella rivolta ha luogo la solidarietà umana (“la rivolta trae l’uomo dalla sua solitudine”12), e che questa solidarietà umana è di fatto metafisica: l’individuo è pronto “a sacrificarsi a pro di un bene che egli giudica trascendentale al proprio destino”12. Alla luce di tutto ciò, Camus sottolinea la profonda lontananza tra il concetto di rivolta e il concetto di risentimento: sul risentimento incide molto l’invidia per qualcosa che non si ha, è quindi risentimento contro noi stessi, mentre la rivolta è prima di tutto una difesa di ciò che si riconosce essere, è un “principio di attività sovrabbondante e di energia”12. Seguendo il percorso fatto finora, il Grande Inquisitore bene si inquadra come uomo in rivolta, sia per il riconoscimento di un valore, sia per la filantropia dell’atto. L’azione dell’Inquisitore si muove contro il progetto di Cristo, quindi è una rivolta contro l’intera creazione e contro il creatore, una rivolta metafisica. Dio ha creato migliaia e migliaia di “esseri incompiuti, creati per prova, per burla” 13 incapaci di essere liberi, incapaci di sopportare la libertà di scelta tra bene e male, e poi ha preteso da loro proprio ciò che strutturalmente gli ha negato. Il Grande Inquisitore riconosce l’ingiustizia dell’opera di Cristo, in virtù dell’appropriamento, prima da parte dell’individuo, e poi allargato immediatamente a tutta l’umanità, del valore opposto, la giustizia. Paradossalmente allora la rivolta diventa l’aspirazione a un ordine, che per il Grande Inquisitore è rappresentato dal riconoscimento di un principio di giustizia. L’insorto metafisico non può essere in alcun modo ateo, ma blasfemo: l’inquisitore non nega Cristo, ma denuncia il supremo scandalo della sua opera: la sua falsa giustizia, ovvero la sua fittizia libertà. Prometeo Il portatore del fuoco Dopo aver introdotto il concetto di rivolta metafisica e aver delineato in pochi tratti l’Inquisitore di Dostoevskij come insorto metafisico, per comprendere meglio questa figura letteraria occorre “storicizzarla” ovvero inserirla in un contesto storico e culturale ben più ampio mettendola in confronto con altre figure filosofiche del passato, anch’esse legate al tema della rivolta metafisica. Sempre facendo riferimento al sentiero tracciato da Albert Camus nel suo saggio, trovo particolarmente interessante soffermarmi sul mondo greco-latino, principio della nostra Nota Camus che solo in questo processo di assolutizzazione del valore e di immedesimazione psicologica si rende possibile il completo concepimento di rivolta, in quanto essa presuppone anche l’accettazione dell’annullamento di sè, della morte: “La rivolta, contrariamente all’opinione comune, e benché nasca in quanto c’è di più strettamente individuale nell’uomo, mette in causa lo stesso concetto di individuo. Infatti se l’individuo accetta di morire, e muore quando se ne presenta l’occasione, nel suo moto di rivolta, mostra con questo di sacrificarsi a pro di un bene che egli giudica trascendente il proprio destino”. 12 A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 2009 13 F. Dostoevkij, La Leggenda del Grande Inquisitore, Salani editore, 2011 11 8 cultura europea prima che diventasse cristiana. Abbracciando il panorama storicoculturale nel suo complesso, appare in primo luogo evidente che lo sviluppo del concetto di rivolta metafisica è andato di pari passo, appunto, con lo sviluppo del cristianesimo (in particolar modo i grandi secoli della rivolta, e della rivoluzione come poi vedremo, sono il Settecento e l’Ottocento). L’interrogativo che dobbiamo porci è allora questo: è concepibile l’idea di rivolta metafisica nel mondo classico? Pensando all’immagine del ribelle in età antica, la prima e immediata figura che incontriamo è il Prometeo incatenato di Eschilo (l’omonima tragedia venne messa in scena intorno al 460 a.C. ad Atene e apparteneva ad una trilogia composta anche dal Prometeo liberato e il Prometeo portatore di fuoco). Ribelle antico per eccellenza, il Titano nella tragedia eschilea si scontra con il fiero e temibile Zeus, padre degli dei, signore dell’Olimpo, malvagio despota. L’azione di Prometeo è evidentemente classificabile come rivolta compiuta contro gli dei, così come lui stesso è a pieno diritto definibile Ribelle. Ci sono infatti delle chiare somiglianze tra la ribellione di Prometeo e quella del Grande Inquisitore: 1. Il rifiuto dell’ingiustizia: come il Grande Inquisitore rifiuta l’ingiustizia del progetto divino, la quale ai suoi occhi consiste da una parte nell’interdipendenza proclamata da Cristo (e sul piano storico dal Cristianesimo) tra verità e sofferenza 14, e dall’altra nell’impossibilità di tutti gli uomini di essere liberi15, così Prometeo si scaglia contro Zeus per l’ingiusta condanna del genere umano a dover morire e “precipitare nel nulla dell’Ade”. 2. Filantropia: tanto il Grande Inquisitore quanto Prometeo sono mossi e traggono la forza del loro agire dall’amore per gli uomini. Il Grande Inquisitore si rivolge a Cristo: “Forse ti sono care solo le decine di migliaia dei grandi e dei forti, e i restanti milioni di deboli che tuttavia ti amano, innumerevoli come la sabbia del mare, serviranno soltanto da materiale a uso dei grandi e forti? No, noi abbiamo a cuore anche i deboli.”16 Nell’amore per gli uomini del Grande Inquisitore e di Prometeo ritroviamo la stessa idea di un’umanità debole che necessita di essere amata ma soprattutto di essere accudita: “Essi, prima, pur vedendo non vedevano,/ pur udendo non udivano: simili a larve di sogni/passavano nel tempo una loro esistenza confusa/senza conoscere dimore di mattoni esposte al sole/senza lavorare il legno […] Finchè io additai loro il sorgere e il cadere degli astri,[…] la scienza dei numeri […] e l’accoppiamento delle lettere” 17 . Di fronte a questa povera e ingenua umanità entrambi si pongono come benefattori degli uomini, pronti ad offrire loro ciò che il Dio voleva negare, la felicità. 3. La sofferenza: l’azione dei due ribelli presi qui in considerazione porta alla sofferenza di entrambi, dovuta fondamentalmente a due fattori: il sacrificio e la consapevolezza. Prometeo si sacrifica per gli uomini sfidando il più temuto e Si vedano a riguardo le parole dell’Inquisitore il quale si attribuisce il merito di aver soppresso la libertà e “di averlo fatto per rendere felici gli uomini. Ora infatti per la prima volta è diventato possibile pensare alla felicità uomana”. 15 SI vedano a riguardo le parole di Ivan: “Occorre convincersi che milioni di altre creature di Dio sono rimaste imperfette, che esse non saranno mai in grado di servirsi della propria libertà […] che il grande idealista non ha sognato la sua armonia per una simile razza di oche”. 16 F. Dostoevkij, La Leggenda del Grande Inquisitore, Salani editore, 2011 17 (trova modo di scrivere in greco) Eschilo, Prometeo incatenato, vv.447-460 14 9 invincibile nemico, Zeus: sottrae agli dei il primato della techne (simboleggiato dal fuoco) per consegnarlo agli uomini e, per quest’atto di sfida, viene duramente condannato a una punizione fisica: imprigionato per sempre alla rupe della Scizia, un’aquila ogni giorno giunge a mangiargli il fegato, destinato a rigenerarsi ogni notte per essere divorato di nuovo. Il sacrificio del Grande Inquisitore non è corporale, ma consiste nel rinunciare al sogno di verità, proclamato da Cristo, a cui aveva un tempo prestato fiducia e che forse, eletto tra molti, avrebbe potuto realizzare 18. Il secondo aspetto della sofferenza, che fa di entrambi personaggi tragici, è la loro consapevolezza anche se è intesa in due modi diversi. La consapevolezza del Grande Inquisitore è la consapevolezza dell’inganno: “ Ma noi diremo che obbediamo a Te e che dominiamo in Tuo nome. Li inganneremo di nuovo, perché così non Ti lasceremo più avvicinare a noi. E in questo inganno risiederà il nostro cordoglio, perché saremo costretti a mentire” 19 , mentre la consapevolezza del Prometeo è la certezza di non riuscita. Prometeo è assolutamente cosciente che la sua è una lotta impossibile, “titanica”: proprio in questo si cela la profonda differenza tra lui e il Grande Inquisitore, differenza che li allontana irrimediabilmente. La rivolta di Prometeo è destinata a fallire non solo perché Zeus è un avversario invincibile e pronto a tutto pur di mantenere il suo dominio all’Olimpio ( Eschilo ce lo descrive irrequieto, indomito, efferato), ma soprattutto perché nella mentalità greca non è concepibile abbattere gli dei: nella visione panteistica del mondo antico la divinità è in tutto dappertutto, gli dei sono il destino, la vita e la natura. Rivoltarsi contro la natura è, per l’uomo greco, rivoltarsi contro se stessi: la sola rivolta coerente apparirebbe allora il suicidio. Dunque, nonostante le somiglianze colte precedentemente appare ora evidente la distanza tra le due rivolte: Prometeo non insorge contro l’intera creazione ma solo contro uno tra gli dei, peraltro senza pensare assolutamente all’idea di una possibile sostituzione. Non c’è altra realtà possibile sostitutiva a quella degli dei del pantheon tradizionale. Di conseguenza la trilogia eschilea non poteva che finire con un’inevitabile riconciliazione, come infatti accade grazie all’intervento di Eracle che uccide l’aquila quotidianamente inviata da Zeus (Prometeo liberato). Da notare inoltre che nel Prometeo incatenato non vi è affatto un conflitto tra mondo umano e mondo divino, ma è l’unica tragedia in cui i personaggi sono solo divinità: infatti anche Prometeo, benefattore e rappresentante degli uomini è un semidio: la sua rivolta è solo una lotta tra due esseri immortali. Il Grande Inquisitore invece, per quanto lontano e distante dal resto dell’umanità, è prima di tutto un uomo, un uomo contro il mondo divino. Nel mondo greco non era possibile una compiuta rivolta metafisica perché quest’ultima presupponeva una netta separazione tra divinità e umanità, laddove invece nella Grecia antica gli uomini percepivano ogni aspetto della realtà impregnato di spirito divino (e quindi sacro) e si sentivano sempre in diretto contatto con gli dei dell’Olimpo, attraverso i presagi, gli oracoli, i sacrifici. Il concetto di rivolta metafisica è strettamente legato invece con una Si vedano a questo riguardo le parole di Ivan sul Grande Inquisitore il quale è consapevole di “guidare gli uomini alla morte e all’annientamento, e intanto ingannarli per tutto il cammino, affinché non possano vedere dove sono condotti, affinché questi miseri ciechi almeno lungo il cammino continuino a coltivare la convinzione di essere felici. E nota: l’inganno è compiuto in nome di quella stessa essenza nel cui ideale il vecchio ha così appassionatamente creduto per tutta la sua vita! Non è forse infelicità questa?”. 19 F. Dostoevkij, La Leggenda del Grande Inquisitore, Salani editore, 2011 18 10 visione più semplificata della realtà, di netto contrasto tra innocenza e colpevolezza: se l’azione del Prometeo non poteva andare oltre a una semplice contestazione del bene20, la mentalità cristiana del Grande Inquisitore ragiona a partire da una contrapposizione tra bene e male. Il Dio sordo di Epicuro La classicità ha dunque negato la rivolta metafisica: è un’azione estranea all’uomo greco, ancora inconcepibile. Occorre quindi aspettare la crisi delle certezze caratteristiche dell’età antica, crisi che colpisce il mondo greco a partire dal IV secolo a.C. durante l’età ellenistica. Il grandioso progetto di Alessandro Magno di unire Oriente e Occidente in un impero universale, destinato a fallire con la sua morte (323 a.C.), muta profondamente l’identità sociale politica e religiosa dell’uomo greco. Scompare la dimensione della polis che lascia spazio ai grandi regni ellenistici: dalla democrazia si passa alla monarchia, dalla condizione di cittadino a quella di suddito. La certa distinzione tra greco e barbaros su cui si era sempre fondata la coscienza greca è ora messa in discussione: il greco è lingua comune parlata anche fuori dai confini della Grecia (koinè diàlectos) e la stessa religione tradizionale è stata contagiata dalle credenze e dalle usanze orientali importate dalle spedizioni alessandrine in Persia, Mesopotamia, Egitto ecc. ( sincretismo religioso). Le filosofie ellenistiche si adeguano alla nuova sensibilità dell’uomo greco e abbandonano le grandi problematiche teologiche alla ricerca di una vera e propria ricetta di felicità: una formula che assicuri la serenità interiore in una condizione di esistenza dove l’unica sfera rimasta all’uomo è quella individuale (non c’è più dimensione pubblica di comunità) spesso tormentata dalla tukè incontrollabile e maligna. Sembra un paradosso dire che è proprio in Epicuro, fondatore della prima scuola filosofica ellenistica (Il Giardino 308-7 a.C.), primo fra tutti a escludere la metafisica dalla sua dottrina, che Camus individua il primo passo avanti verso la mentalità dell’uomo in rivolta. Nell’ Etica edonistica epicurea, il centro della sua filosofia, Epicuro prescrive all’uomo ellenistico il farmakon per la felicità terrena che consiste, tra l’altro, nel non temere gli dei: la serenità dell’uomo deve essere ottenuta prima di tutto con l’assenza di dolore (aponia) per poi giungere all’assenza di turbamento (atarassia). Al fine di liberare l’animo da qualsiasi inutile paura, Epicuro offre agli uomini la sua verità, superando così l’empia religione del volgo: che gli dei esistano, è per Epicuro evidente, quindi inoppugnabile. Nel Canone, Epicuro definisce l’evidenza come prolexis, ossia idea innata nel genere umano che, pur non provata dai nostri sensi e quindi non conoscibile e dimostrabile, partecipa del criterio di verità, ovvero non può essere colpita da errore. Tutti gli uomini hanno dentro di sé una sorta di premonizione del divino che Epicuro coglie come prova dell’esistenza certa di esso. Gli dei esistono e quindi, in accordo con il materialismo di Epicuro, esistono fisicamente e hanno sembianza umana (l’antropomorfismo è accettato da Epicuro in quanto dimostrato dalla nostra prolexis). Per risolvere il problema che la corporeità degli dei ha posto, circa la loro localizzazione nello spazio, il filosofo ipotizza gli intermundia, spazi immaginati tra il nostro e gli altri mondi 20 A. Camus, L’Uomo in rivolta, Bompiani, 2009 11 dell’universo. Epicuro può allora coltivare il mito di queste divinità immortali che vivono lontano dal mondo umano e dalle sue disgrazie e sofferenze, dimostrando così che gli dei non potrebbero in alcun modo esserne la causa 21. Gli dei di Epicuro diventano così il modello per eccellenza della condizione di assoluta imperturbabilità a cui il discepolo epicureo deve guardare: vivono felici, beati in eterno, senza curarsi di nulla “giacché le occupazioni, le preoccupazioni, le ire, le benevolenze non sono conciliabili con la beatitudine, ma si verificano tutte in condizioni di debolezza, di timore, di bisogno[…]” 22. Si verificano cioè in condizioni esclusivamente umane. Ecco allora che Epicuro per primo pone quella necessaria distinzione, sconosciuta al mondo della classicità, tra dimensione umana e dimensione divina. Quale rapporto deve intercorrere tra questi due mondi lontani? Epicuro immagina che gli uomini, una volta liberati dal timore ingiustificato per gli dei, debbano assumerli come oggetto di venerazione, modello di esistenza. Per la prima volta abbiamo, con il filosofo del Giardino, una nuova idea di religione, diversa da quella tradizionale che prevedeva uno scambio diretto tra uomo e dio (religione del do ut des). Gli uomini giustamente venerano gli dei come è naturale venerare qualcosa di superiore, ma non potranno mai ricevere nulla in cambio, perché gli dei voltano le spalle alle loro preghiere. Involontariamente allora Epicuro introduce nella mentalità dell’uomo la figura del dio sordo, che corrisponde proprio all’unica rappresentazione religiosa dell’uomo in rivolta. L’evoluzione del pensiero di Epicuro non può ancora definirsi rivolta, perché è unicamente di carattere difensivo23. Lucrezio e il greco liberatore Questa linea di pensiero viene portata avanti e arricchita in ambito latino da un altro autore epicureo, Lucrezio (I sec a.C.), unico poeta e filosofo che diffuse l’Epicureismo a Roma. Nel De rerum natura, Lucrezio riprende parimenti l’atomismo democriteo, la logica e l’etica epicurei: si rivolge al suo protettore Memmio, riportando i principali insegnamenti di Epicuro, anche circa la condizione degli dei negli intermundia che descrive come “[…]sedesque quietae/ quas neque concutiunt venti nec nubila nimbis/ aspergunt neque nix acri concreta pruina/ cana cadens violat semper<que> innubilus aether / integit, et large diffuso lumine ridet.” (“sedi quiete / che né i venti percuotono né bagnano di pioggia le nubi/ né la neve, indurita in ghiaccio pungente/, cadendo candida, le viola e sempre privo di nubi il cielo/ le copre e ride nella luce largamente diffusa”24). Lucrezio rispetta quindi in linea generale la dottrina epicurea, e la sua novità non riguarda i principi di quest’ultima, quanto piuttosto la figura del maestro stesso Epicuro. L’azione di rinuncia passiva alla speranza, del filosofo greco (la scelta che prima abbiamo chiamato puramente difensiva di allontanare gli dei per “uccidere” le false speranze degli uomini) viene riletta da Lucrezio come “un’ascesi fremente che s’incorona talvolta di maledizione”25. Due sono le nuove figure introdotte da Lucrezio in tal senso: Si vedano a questo riguardo le parole di Epicuro, Vite dei filosofi, X, 123: “Per prima cosa devi ritenere che la divinità sia un essere vivente immortale e felice, così come suggerito dalla comune nozione del divino”; 22 Epicuro, Epistola a Erodoto, 76-77; 23 A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 2009 24 Lucrezio, De Rerum Natura, III, vv. 18-23; 25 A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 2009 21 12 1. La religio negativa: il termine religio in latino è una vox media che può indicare tanto “sentimento religioso” quanto “superstizione” e, nell’opera di Lucrezio, assume in sé i connotati di tutte le credenze umane tradizionali che schiacciano con il loro peso, dall’alto, gli uomini vaganti nel buio dell’ignoranza. Nel poema di Lucrezio la religio è l’Antagonista per eccellenza “quae caput a caeli regionibus ostendebat / horribili super aspectu mortalibus instans” ( “che mostrava il suo capo dalle regioni celesti/ con orribile aspetto incombendo dall’alto sugli uomini”) 26 . A partire da questa rappresentazione, quasi visiva, della malvagia religio il rapporto tra uomo e Dio, da Epicuroper la prima volta allontanati, si arricchisce nel poema latino di nuovi concetti (già avvicinabili a una sensibilità cristiana) come delitto, innocenza, colpevolezza e castigo. “Quod contra saepius illa/religio peperit scelerosa atque impia facta.” (Troppo spesso, fu proprio questa decantata religione a generare scellerati delitti”) 27 così scrive Lucrezio nel famoso passo di denuncia del primo delitto della religione: il sacrificio dell’innocente Ifigenia28. 2. L’eroe attivo Epicuro: di fronte a questa nuova figura di antagonista necessariamente, agli occhi di Lucrezio, il maestro Epicuro diventa l’eroe positivo salvatore dell’umanità29, che per primo ha avuto il coraggio di scatenare la rivolta umana contro gli “impia facta” della religio: “Primum Graius homo mortalis tollere contra/est oculus ausus primusque obsistere contra” ( per la prima volta un uomo greco osò sollevare gli occhi mortali contro di lei e per primo drizzarlesi contro). Ecco allora che da un iniziale moto di rivolta difensivo con Lucrezio approdiamo ad un “ragionamento aggressivo” nel quale Epicuro diventa il magnifico Ribelle che per primo (archetipo della “prima volta”) vince la religio30 Per la prima volta con Lucrezio viene introdotta un’idea completamente inedita nella cultura classica che aprirà la strada agli insorti metafisici, primo fra tutti il Grande Inquisitore: l’idea di una possibile sostituzione al dio, che bene viene resa da Lucrezio nell’immagine dell’apoteosi dell’eroe come giusto premio per la sua impresa e che, in parole cristiane, permetterà poi la concezione di una civitas mundi antitetica alla civitas dei (la famosa torre di Babele del Grande Inquisitore)31. Proprio da questa nuova idea (e questo nuovo linguaggio) di Lucrezio si palesa un’altrettanto nuova sensibilità che sta Lucrezio, De rerum natura, I, 62-65; Lucrezio, De rerum natura, I, 82-83; 28 Si vedano a riguardo le parole di Camus: “ Già in Lucrezio l’assassinio, nell’uomo, non è che una risposta all’assassinio divino. E non è un caso se il poema di Lucrezio si chiude su di una prodigiosa immagine di santuari divini gonfi dei cadaveri accusatori della peste.” 29 L’appellativo di Epicuro usato da Lucrezio è “Graiae gentis decus” ( gloria del popolo greco): nella tradizione poetica latina il sostantivo decus designa un valore frutto di fama, onore e gloria (usato anche da Virgilio per Mecenate); 30 Si vedano a riguardo le parole di Lucrezio, De rerum natura, I, 78-9: “Quare religio pedibus subiecta vicissim obteritur, nos exaequat victoria caelo” ( Perciò la superstizione, calpestata a sua volta, è schiacciata, la vittoria ci eguaglia in cielo”. 31 Cfr F. Dostoevskij, La leggenda del Grande Inquisitore, dalle parole dell’Inquisitore: “Al posto del Tuo tempio, sorgerà un nuovo edificio, sorgerà una nuova spaventosa torre di Babele”. 26 27 13 cominciando a formarsi e che genererà il concetto di “dio personale”32, presente poi nel poemetto di Dostoevskij, contro cui per l’uomo sarà finalmente possibile ribellarsi. Attraverso la descrizione fatta finora del ribelle Epicuro abbiamo in qualche modo delineato anche il ribelle Inquisitore, trovando tra i due grandi analogie. Un’importante differenza che ancora non è comparsa nel confronto indiretto tra i due ribelli e che a questo punto credo sia giusto far notare è che se da una parte Epicuro è esaltato come portatore di luce (cioè verità, ratio) tra le tenebre dell’ignoranza nelle quali domina la religio33, il Grande Inquisitore al contrario è portatore di un inganno per gli uomini, suo compito è nascondere loro la crudele realtà. Tale evidente differenza è, se vogliamo, in qualche modo superata dal fatto che l’obiettivo dei due ribelli rimane comunque il medesimo: riportare gli uomini a una rinnovata condizione di felicità, sia che questo comporti la rimozione dell’inganno sia che questo comporti, invece, la sua fondazione. La rivolta in azione, la rivoluzione (?) Ci avviciniamo a concludere questa prima analisi del Grande Inquisitore, qui ancora ribelle metafisico: la rivolta dell’Inquisitore, come abbiamo detto, è una rivolta collettiva che si fonda sul principio di giustizia, “inaugura l’impresa essenziale della rivolta, che sta nel sostituire al regno della grazia il regno della giustizia” 34. Ivan, il padre ideatore di questo personaggio muove dal categorico rifiuto della salvezza e della verità divine in quanto esse stesse presuppongono l’accettazione della sofferenza e dell’ingiustizia35. Il pericolo in cui cade lo stesso Ivan, di ragionare come se l’immortalità (e quindi la virtù, in quanto privata di una ricompensa) non esistesse, quando invece fino ad ora si era limitato a dire che non l’avrebbe comunque accettata, e che lo porta alla follia, è invece superato dal suo idolo (appunto il Grande Inquisitore) il quale compie la cosiddetta trasvalutazione dei valori non limitandosi a negare la verità, quanto piuttosto a fare della propria giustizia, nuova verità per gli uomini. Proprio in questo sta la chiave del “successo” (a questo livello possiamo ancora parlare di successo) del Grande Inquisitore e del fallimento di Ivan. Proprio in questo sta il passaggio, ormai necessario, da rivolta a rivoluzione, con tutte le implicazioni storicopolitiche del termine, finora non contemplate. Una volta che la rivolta è avviata, non si può permanere in essa, essa stessa deve farsi azione (appunto rivoluzione), deve dedicarsi alla pars construens: si deve costruire sulle macerie del vecchio mondo (in questo caso il progetto di Cristo), un mondo nuovo, a A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 2009 Si vedano a riguardo le parole di Lucrezio, De rerum natura, III, vv. 1-2 e ancora vv. 14-15: “E tenebris tantis tam clarum extollere lumen/ qui primis potuisti inlustrans commoda vitae” (Te, che primo sapesti da tenebre tanto profonde levare così splendida luce, e svelare le felicità della vita) “Nam imul ac ratio tua coepit vociferari/naturam rerum, divina mente coorta” (Non appena, infatti, il tuo insegnamento inizia a proclamare la realtà della natura); 34 A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 2009 35 A questo riguardo si vedano le parole di Ivan: “Se il patimento dei bimbi serve a compiere la somma dei dolori necessari al conseguimento della verità, affermo fin d’ora che questa verità non vale un tale prezzo”. 32 33 14 misura d’uomo. Questa capacità, questa ulteriore impresa che il Ribelle deve affrontare è la più ardua (e infelice) 36: sostituire Dio, farsi Legislatore. L’ideologia rivoluzionaria Come abbiamo già anticipato, una volta che il Grande Inquisitore ha intrapreso la sua rivolta contro Cristo e lo ha esiliato dal piccolo mondo degli uomini, deve ora procedere alla riaffermazione di un nuovo valore, di un nuovo potere e di un nuovo assoluto37 (che giustifichi appunto tale potere, una volta venuto meno l’assoluto divino). L’impresa del Grande Inquisitore rispecchia a riguardo l’impresa che, sul piano teorico prima, e su quello storico poi, hanno affrontato tutti i grandi rivoluzionari della storia. Ne diventa, possiamo dire, metafora letteraria38. Accettiamo questa interpretazione e proseguiamo nell’analisi della rivoluzione del Grande Inquisitore a partire dall’ideologia, dai presupposti teorici, su cui essa stessa si fonda. A questo livello del nostro percorso volontariamente posticipo una più accurata riflessione sul termine e sul fenomeno di “rivoluzione” in sé, curandomi di affrontarla in un secondo momento. Entriamo invece ora nei due principi cardine dell’ideologia rivoluzionaria dell’Inquisitore: la svalutazione della libertà e l’utopia dell’uguaglianza, entrambe ideologiche conseguenze del principio di giustizia di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. L’uomo incapace di essere libero Il primo evidente principio ideologico del Grande Inquisitore, su cui si fonda anche la sua critica a Cristo, è la svalutazione della libertà, come puramente formale e quindi sostanzialmente ingiusta. “Tu vuoi andare e vai nel mondo a mani vuote, con non so quale promessa di libertà che l’uomo, nella semplicità e nella innata intemperanza che gli appartiene, non può nemmeno arrivare a concepire” 39 . Cristo predica agli uomini la possibilità di essere liberi (come anche, essendo pura libertà, la possibilità di non esserlo) senza aver dato loro però la capacità di sopportare proprio questa infinita possibilità. L’uomo è pietrificato di fronte alla percezione del possibile, la percezione delle infinite scelte che gli stanno davanti. “Per burla” Dio ha creato milioni di esseri strutturalmente incapaci di essere liberi e poi ha donato loro proprio la possibilità di esserlo. In questo sta l’ingiustizia divina, contro cui si è levato l’Inquisitore.40 Così facendo Dio ha condannato gli uomini alla più totale infelicità. Nelle parole dell’Inquisitore è evidente la consapevolezza di questo fardello che, come si è già detto, corrisponde alla necessità di sopportare l’inganno (“saremo costretti a mentire”). La sua capacità di portare avanti la rivolta sottolinea la grande distanza dal resto degli uomini che, per quanto anch’essi ribelli per natura sono “ribelli deboli e incapaci di sopportare il peso della propria rivolta”. 37 Si vedano a questo riguardo le parole del Grande Inquisitore: “Non vi è affanno più tormentoso e continuo per l’uomo, rimasto libero, che il cercare al più presto un essere di fronte al quale prostrarsi”. [...] “perché la preoccupazione di queste misere creature non è soltanto di trovare un essere a cui questo o quell’uomo si inchini, ma di trovare uno tale che tutti credano in lui e lo adorino, tutti insieme, senza eccezione”: 38 L’interpretazione del Grande Inquisitore come metafora letteraria della grandi rivoluzioni storiche è sostenuta anche da H. Arendt, Sulla rivoluzione, Biblioteca Einaudi, 2006 39 F. Dostevskij, La leggenda del Grande Inquisitore, Salani Editore, 2011 36 Si può parlare a questo riguardo di antropologia del Grande Inquisitore che si fonda sulla distinzione tra uomini eletti e anime deboli: i primi sono in grado di accogliere la “sfida” di Cristo ( lo 15 40 Proviamo a fermarci sulla figura dell’uomo incapace di essere libero, su cui, nel suo monologo, il Grande Inquisitore insiste lungamente e volgiamo più ampiamente lo sguardo sul panorama filosofico-culturale a cui possiamo riferirla. Con certezza possiamo affermare che la filosofia di riferimento nella Russia ottocentesca in cui si muove Dostoevskij è certamente l’idealismo tedesco (il positivismo francese che pure si sviluppa in questo periodo non verrà mai importato in Russia) e guardiamo al primo autore di questa prosperosa corrente filosofica, Johann Fichte. Fichte, nonostante fu avviato alla filosofia dallo stesso Kant 41 , aderì con entusiasmo alla scia del criticismo kantiano trovando nella distinzione fenomeno/noumeno il limite insanabile di questo sistema filosofico. Fichte per primo nella sua Dottrina della scienza (1794) propose il superamento della distinzione tra mondo della necessità/natura (Critica della ragion pura) e mondo della libertà (Critica della ragion pratica) in un principio unificatore: l’Io assoluto. Nell’atto originario di autoposizione e nella sua capacità di autodeterminarsi, sta la auto-coscienza dell’io puro (e anche la sua libertà). Passaggio ulteriore (seconda legge di Fichte) è poi la fondazione di un non-io su cui l’io puro possa esercitare la propria conoscenza e quindi aumentare la coscienza di sé. Secondo Fichte, l’autentica libertà coincide con la condizione dell’io assoluto, sia nella sua capacità di autodeterminarsi sia nella sua forza creatrice (capacità di determinare il non-io). Nella sua filosofia Fichte distingue tra io assoluto e io empirici, gli individui concreti, ovvero gli uomini. L’io assoluto non si identifica con nessuno degli io individuali, ma ne è, per così dire, modello. Infatti gli uomini vivono nella dimenticanza di questa originaria autoposizione e si confrontano quotidianamente con una realtà esterna che identificano come “altro”. È proprio in questo continuo confronto con ciò che è “altro da sé” che l’uomo incrementa la propria autocoscienza avvicinandosi sempre più al proprio modello, l’io assoluto, la libertà. Essendo però l’io infinito, infinità è anche la resistenza del non-io, infinito il progresso dell’uomo verso la libertà. Da qui il concetto di idealismo etico di Fichte: la massima eticità dell’uomo sta nell’infinito sforzo (streben) di superare i propri limiti, acquistando una progressiva padronanza di sé, tendendo alla libertà/felicità. Funzionali al nostro discorso appaiono tre nuovi concetti della filosofia fichtiana: 1. Libertà come meta ideale dell’uomo, non concretamente raggiungibile (streben infinito); stesso Inquisitore appartiene a questa categoria) mentre i secondi rifuggono il solo pensiero della libertà . “ Essi (gli eletti) sopportarono la Tua croce, sopportarono la fame e il nudo deserto per decine di anni, cibandosi di cavallette e di radici, e certo Tu puoi appellarti con orgoglio a questi eroi della libertà, dell’amore libero, del libero e magnifico sacrificio compiuto in Tuo nome. Ma ricordati che erano in tutto appena alcune migliaia, ma i rimanenti? E che colpa ne hanno gli altri, gli uomini deboli, se non sono riusciti se non sono riusciti a sopportare ciò che i forti hanno sopportato? Che colpa ne ha l’anima debole, se non ha la forza di accogliere doni così terribili? Possibile che tu sia giunto davvero solo dagli eletti e per gli eletti?”. Fonte? 41 Dopo aver scritto il Saggio di una critica di ogni rivelazione Fichte lo porta a Kant, che lo farà pubblicare nel 1792 consentendo a Fichte di iniziare la carriera di docente universitario a Jena . 16 2. Coincidenza tra libertà e necessità, entrambe riunite nella condizione ideale dell’io puro: per l’uomo la ricerca dell’assoluto risponde tanto alla necessità strutturale della sua condizione quanto alla libertà, intesa come assoluta adesione a se stessi. Proprio in questa coincidenza sta, per Fichte, la moralità dell’uomo; 3. Visione finalistica della storia come progressiva manifestazione della libertà: Fichte immagina la storia divisa in cinque epoche progressive attraverso le quale si giungerà a una comunità perfetta e ideale in cui gli uomini avranno finalmente raggiunto la piena adesione all’io puro, rinunciando ai propri tratti individuali; La storia tra antichi e moderni (?) Da quest’ultimo punto, ovvero dall’interpretazione della storia come progressivo cammino a un fine ultimo, proprio della filosofia del Fichte più tardo, facciamo un salto avanti alle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel, pubblicate nel 1837, che Dostoevskij certamente conosce. Nell’introduzione alle Lezioni sulla filosofia della storia Hegel scrive: “La prima categoria che emerge dalla contemplazione della vicenda di individui, popoli e stati[…] è la categoria del mutamento.[...] A questa categoria del mutamento è però subito connesso anche l’altro motivo, che dalla morte sorge nuova vita. “42 Questa nuova vita, nell’ottica hegeliana, non rinasce mai nella stessa forma ma “accresciuta e trasfigurata” 42, in altre parole, migliore. Come Fichte anche Hegel guarda alla storia come progredire (evidentemente di progredire dialettico si tratta) verso un fine ultimo: l’emancipazione dello spirito, il dispiegamento della ragione. Nello storicismo hegeliano ogni evento storico ha un senso alla luce della totalità razionale, di conseguenza tutto è, possiamo dire, necessitato. La libertà degli individui storici è solamente una libertà apparente, “in questa dialettica dell’azione passionale vengono a coincidere lo scopo universale e l’intento particolare […] la meta a cui tendono inconsciamente gli individui storici non è l’oggetto di una volizione cosciente, bensì qualcosa che essi debbono volere” 43 . Come per Fichte anche nella filosofia hegeliana la libertà è annullata, nello stesso momento in cui viene introdotta sul piano storico la necessità (ricordiamo questo concetto che tornerà anche nel prossimo capitolo). Solo quando si sarà raggiunto il fine ultimo della storia, allora necessità e libertà coesisteranno, e in questo sarà la felicità degli uomini. Anche Hegel nella sua filosofia divide la storia in fasi: “L’oriente era l’infanzia della storia del mondo, la Grecia e Roma l’adolescenza e la virilità, i popoli cristiano-germanici costituiscono la vecchiaia”43 , La concezione che la storia sia diretta verso un fine ultimo è una concezione tipicamente biblica che ripropone la fede cristiana di una storia “guidata dalla provvidenza di una volontà divina”43, trae da questa la fede verso un compimento futuro e “finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico”43. Che la visione progressiva della storia 42 43 Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia (Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte) edizione? Così K. Löwith, Significato e fine della storia 17 sia di origine cristiana è evidente guardando alla concezione della storia che avevano i greci: nelle opere dei massimi storici del periodo antico ( Erodoto, Tucidide e, in età ellenistica, Polibio) la storia è vista come movimento circolare periodico (lo stesso termine rivoluzione, come vedremo, aveva per i greci un valore completamente diverso) e in virtù di questa sua ciclicità, l’attenzione degli storici era inevitabilmente per il passato: ad esempio Erodoto scrive le sue Storie “perché col tempo non vengano dimenticate le imprese degli uomini e neppure le opere grandi e meravigliose” 44. Infatti è solo con lo storicismo di impostazione biblica che l’attenzione dei moderni si volge alla ricerca di una meta futura e vengono introdotte sul piano storico concetti come attesa e speranza. Per gli antichi greci la saggezza dello storico era ancora legata alla conoscenza del passato perché, attraverso quest’ultima, si poteva prevedere il futuro 45 . Tra gli antichi storici Polibio sembra quello che più si avvicina alla concezione storicistica moderna nella problematica descrizione che fa della tukè la quale, se per certi versi compare come forza devastatrice e invincibile di cui “bisogna diffidare, soprattutto quando si gode del successo” 46 , dall’altra assume per altri carattere provvidenziale, come dotata di un progetto razionale che “ piegò in una sola direzione tutti gli avvenimenti del mondo abitato e li costrinse a dirigersi verso un unico fine”46: Roma. Nonostante questo ambivalente e mai chiarito rapporto con la Sorte, Polibio è comunque a pieno titolo inquadrabile in una visione ”classica” della storia: nella sua opera infatti non dimostra mai effettivo interesse per il futuro, ma è sempre rivolto all’analisi critica del passato, infatti “per gli uomini non esiste altro strumento educativo più efficace della conoscenza delle vicende trascorse”47. Solo così la storia potrà veramente essere magistra vitae per gli uomini del futuro.48 Dopo questo excursus sulla storiografia antica e sullo storicismo moderno siamo in grado di tornare all’ideologia rivoluzionaria del Grande Inquisitore arricchendola di nuove caratteristiche. Non solo infatti il Grande Inquisitore di Dostoevskij ha in comune con l’idealismo romantico la svalutazione della libertà, ma è ora evidente che condivide anche a pieno, o per lo meno è influenzato, dallo storicismo moderno in due importanti matrici (sarà poi nostro compito dimostrare che è proprio da questa stessa impostazione biblica che è resa possibile anche solo la concezione di rivoluzione): 1. Proiezione verso una meta futura di progresso: “Oh, quest’opera per il momento è solo agli inizi, ma è cominciata! Se ne dovrà attendere ancora a lungo la realizzazione e la terra soffrirà ancora molto, ma noi raggiungeremo la meta, saremo Cesari, e allora provvederemo all’universale felicità degli uomini”49. 2. Categoria universale di umanità: solo una storia che è unificata da un progetto divino, da un unico fine ultimo può essere concepita come universale, “L’umanità Erodoto, Le Storie, I Cosa assolutamente impossibile per l’uomo moderno (ad eccezione del filosofo), essendo il futuro “predeterminato dalla volontà personale di Dio”. 46 Polibio, Le storie, I 47 Polibio, Le storie, I 48 Sempre a questo riguardo, come altra argomentazione a sostegno del fatto che Polibio è ancora legato a una visione ciclica della storia si consideri il principio di decadenza insito in ogni forma di governo, destinata come tutte prima o poi a cadere, per lasciare spazio ad altre nuove. Questo vale anche per la celebrata Roma. 49 F. Dostoevskij, La leggenda del Grande Inquisitore 44 45 18 non è mai esistita nel passato storico e non può neppure esistere nel presente; essa è un’idea e un ideale per il futuro in quanto orizzonte necessario della concezione escatologica di una storia universale”50. La profezia di Marx Attraverso l’idealismo tedesco e lo storicismo moderno siamo riusciti a cogliere alcune caratteristiche e alcune “matrici” dell’ideologia rivoluzionaria dell’Inquisitore. Continuiamo su questo cammino e dalla Filosofia della storia di Hegel approdiamo alla produzione del successivo Karl Marx. Se infatti è stato per noi possibile avvicinare l’ideologia dell’Inquisitore a quella hegeliana, ancora più profondamente si trovano analogie con il pensiero del filosofo di Treviri. La prima importante constatazione che dobbiamo a questo punto chiarire, e che ci permette ancor più legittimamente di proseguire in maniera lineare da Hegel a Marx, è che, per quanto antitetici siano l’idealismo hegeliano e il materialismo marxiano, essi si fondano tuttavia sullo stesso presupposto, appunto lo storicismo. Infatti nonostante la pretesa di scientificità del proprio socialismo, ribadita da Marx nel Manifesto del partito comunista 51 , e sostenuta dal fatto di avere per primo finalmente liberato l’interpretazione storica da tutte le “sovrastrutture ideologiche” (in primis quella hegeliana), il documento scientifico di Marx sembra in realtà essere piuttosto un documento profetico. Nel suo metodo di indagine scrupoloso e analitico, Marx finisce infatti col ricorrere all’astrazione e alla formulazione di concetti universali che, come si è già detto, sono resi possibili solo in una concezione della storia altrettanto universale. “Mentre con Hegel il mondo era divenuto filosoficamente un regno dello spirito, ora, con Marx, la filosofia deve divenire mondanamente economica politica, cioè marxismo 52”. Possiamo dire, quindi, che le due filosofie sono la diversa applicazione del medesimo principio, per l’appunto la storicizzazione della realtà razionale53, che in Marx porta poi al concetto di profetismo. Dopo aver legittimato l’accostamento di questi due filosofi entriamo più a fondo nella concezione storica di Marx, che indubitabilmente è fondamento della sua filosofia 54. Anche per Marx possiamo parlare a pieno diritto di visione progressiva della storia la quale, secondo la filosofia marxiana, si dispiega seguendo la dialettica del rapporto tra le K. Löwith, Significato e fine della storia Scrive Marx nel Manifesto del partito comunista: “I comunisti hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato, di comprendere le condizioni, l’andamento e i risultati generali dell’andamento del movimento proletario” [...] Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su principi inventati”. 52 K. Löwith, Significato e fine della storia 53 A riguardo si vedano le parole di K. Löwith :”Il marxista concorda con la filosofia hegeliana della storia, che costituisce il presupposto immediato della concezione materialistica nel suo principio ma non nel suo svolgimento”. 54 A riguardo si vedano le parole di K. Löwith: “ Il carattere preminente di queste due opere non è l’insistenza dogmatica sulla lotta di classe e sulla relazione tra lavoro e capitale, bensì l’integrazione di tutte queste categorie in una vasta costruzione storica”. 50 51 19 classi 55 . Nella storia, i mutamenti economici portano a cicliche crisi dei rapporti di produzione su cui si fonda una determinata società. Queste crisi determinano così il passaggio a un’altra diversa organizzazione sociale che ritrova temporaneamente l’equilibrio tra le forze di produzione e i rapporti di produzione. Così è stato ad esempio il passaggio da età feudale a società borghese, sancito dalla rivoluzione francese: qui la borghesia ha avuto funzione rivoluzionaria per poi divenire, come è inevitabile nel progredire storico, classe reazionaria del sistema capitalistico. Questo processo storico-economico non è infinito, ma tende idealmente e utopisticamente (non me ne voglia Marx!) alla realizzazione di una società perfetta in cui non solo saranno annullate le lotte fra le classi (che rappresentano per Marx il vero motore del progresso) ma anche la divisione classista in sé. Questa meta ultima della dialettica storica marxiana è la società comunista, società capace di regolamentarsi da sola, senza più bisogno dello stato e dove “il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti”56. Trionfo di libertà, giustizia, felicità. Abbiamo spiegato lo storicismo marxiano, ma ancora non siamo entrati nel merito del suo profetismo, a cui abbiamo solo accennato. Nell’ideologia marxiana quale fenomeno si inserisce tra questi due concetti (storicismo e profetismo), legati ma distinti? Il fenomeno della rivoluzione. Marx profetizza infatti che il raggiungimento della società comunista è possibile solo attraverso la totale rivoluzione proletaria contro la società borghese. Solo e unicamente il proletariato salariato, in quando totalmente alienato57, può farsi artefice della redenzione sociale e compiere così la missione universale della storia. Torniamo finalmente al Grande Inquisitore e, servendoci dei concetti indagati finora, sottolineiamo le analogie ideologiche tra la filosofia storica e dialettica di Marx e l’ideologia rivoluzionaria dell’Inquisitore: 1. Il popolo eletto: “Marx vede nel proletariato lo strumento storico per il raggiungimento del fine escatologico di tutta la storia attraverso la rivoluzione mondiale58”. Esso è, nella profezia marxiana, il popolo eletto, cioè l’unico in grado di compiere la rivoluzione comunista. Lo stesso termine “eletto”, che è alla base di qualsiasi concezione messianica, è presente più volte nel monologo dell’Inquisitore e appartiene, come si è visto, alla sua antropologia. Solo gli uomini eletti, capaci di sopportare il peso della rivolta e poi quello della rivoluzione, proprio loro, gli eletti di La struttura classista della società, introdotta nell’Ideologia tedesca, è alla base della nuova lettura marxiana della storia. Per classe Marx intende l’aggregazione di tutti coloro che assumono il medesimo ruolo nel sistema produttivo della società. 56 K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, II 57 Qui Marx utilizza il termine “sfruttamento” per descrivere la condizione del proletariato rispetto alla classe dominante: il concetto di sfruttamento tradisce in sé la scientificità di Marx perché esso appare in tutto e per tutto un giudizio morale. Questo concetto contribuisce a fondare l’idea di una coscienza di classe: Marx si rivolge al proletariato convincendoli che la povertà non è affatto un fenomeno naturale bensì politico, “il risultato di violenza e violazione piuttosto che di scarsità di beni” (H. Arendt). Li persuade in questo modo che l’unica via per riappropriarsi della libertà (liberandosi dalla necessità inflitta loro dalla povertà) è la rivoluzione comunista. 58 K. Löwith, Significato e fine della storia 55 20 Cristo che prima credevano in lui, “finiranno per sollevare contro di Te (Cristo) il loro libero vessillo”59, proprio come ha fatto il Grande Inquisitore. 2. La critica alla religione: L’ateismo di Marx si spiega nel fatto che la “negazione della dipendenza dell’uomo da un ordine della creazione”60 è il presupposto della rivoluzione economica mondiale. Finchè la storia viene concepita come il dispiegarsi della volontà divina, l’uomo non può farsi artefice di essa. Il primo passo che conduce al dominio dell’uomo sul proprio mondo è l’annullamento della religione, intesa da Marx come una sovrastruttura capitalistica. “Noi rivendichiamo il contenuto della storia, ma non vediamo in essa una rivelazione di Dio, bensì dell’uomo”61. Questo concetto è anche alla base della rivoluzione dell’Inquisitore, che rivendica l’indipendenza dell’uomo dal progetto divino: “Al posto del Tuo tempio, sorgerà un nuovo edificio, sorgerà una nuova spaventosa torre di Babele”. Di fronte a questa nuova civitas mundi, che, per quanto spaventosa è tuttavia migliore della civitas dei (“Abbiamo corretto la Tua opera”59), la domanda dell’Inquisitore a Cristo è allora giustificata: “Perché sei venuto a disturbarci?59”. 3. La felicità reale: secondo Marx l’annullamento della religione tradizionale e della sua “beatitudine illusoria” sarà accompagnata e, di più, causata dall’esigenza di una “felicità reale e terrena”. Quando la felicità reale sarà pienamente raggiunta nella società comunista, la religione sarà stata privata della sua ragion d’essere. Così anche l’Inquisitore muove la sua ribellione contro Cristo in nome di una felicità terrena concretamente realizzabile solo dopo aver distrutto quella speranza illusoria, che tormenta gli uomini, di una conciliazione con Dio. Sarà una felicità “tranquilla, umile” come “la felicità degli esseri deboli quali essi sono fin dalla nascita”62, ma sarà reale. 4. Lavoro e uguaglianza: la società comunista ideale di Marx si fonda innanzitutto sull’abolizione della proprietà privata, come causa dell’alienazione operaia, e sulla iniziale concentrazione di ogni bene in mano allo stato. Una volta venuto meno il ruolo politico dello stato, “quando le differenze tra le classi saranno scomparse” “tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati”63 e si sarà raggiunta la completa uguaglianza, garantita anche dall’ottavo provvedimento: “Eguale obbligo di lavoro per tutti”63. Ugualmente l’Inquisitore, dalla svalutazione della libertà, approda alla valorizzazione dell’uguaglianza come unica forma di giustizia possibile tra gli uomini che garantisca loro la felicità. Secondo la logica dell’Inquisitore la felicità presuppone il “pane terreno”, cioè la soddisfazione dei bisogni primari dell’uomo, ma al contempo libertà e pane terreno “sono tra loro inconciliabili, giacchè mai essi (gli uomini) sapranno ripartirlo tra loro”62. Nella società dell’Inquisitore gli uomini saranno felici perché riceveranno il pane terreno da lui, diviso in maniera uguale, e F. Dostoevskij, La leggenda del grande inquisitore K. Löwith, Significato e fine della storia 61 M.E.G.A, parte I, vol II 62 F. Dostoevskij, La leggenda del Grande Inquisitore 63 K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, II 59 60 21 questo pane non sarà frutto di un miracolo, ma “frutto del loro stesso lavoro” 64. Infatti “noi certo li obbligheremo a lavorare”64 . Volontariamente ho trascurato, nel confronto tra le due ideologie, un’altra evidente caratteristica comune, sottesa a tutte le altre: l’idea di rivoluzione. Ora che abbiamo efficacemente delineato le caratteristiche ideologiche e teoriche che muovono l’azione del Grande Inquisitore, attraverso un confronto con l’idealismo tedesco, lo storicismo hegeliano e infine il profetismo marxista, possiamo finalmente entrare più specificatamente in questo concetto e nei suoi esiti. Rivoluzione e fallimento Finora, nel nostro percorso, abbiamo diverse volte nominato il termine rivoluzione senza aver mai specificato quali fossero le caratteristiche proprie di questo fenomeno, essendoci limitati esclusivamente a sottolineare la sua diversità dal fenomeno della rivolta e la relazione tra essi 65 : una rivolta per “sopravvivere” dopo aver distrutto il sistema deve convertirsi in rivoluzione e proporre un sistema alternativo in linea con i presupposti ideologici di cui lo spirito rivoluzionario è portatore. Una rivoluzione, di conseguenza, non può avvenire se prima non è avvenuta una rivolta, ma allo stesso tempo è profondamente diversa da questa: è, possiamo dire, una rivolta che si fa azione, che si fa storia, e quindi che si arricchisce di significati e conseguenze etico-politiche. Un nuovo inizio Se vogliamo stabilire le caratteristiche costanti che definiscono universalmente una rivoluzione, il primo concetto che bisogna tenere in conto è l’idea di un nuovo inizio, idea che accompagna qualsiasi tentativo rivoluzionario della storia. Questa prima caratteristica è anche quella che segna fin da subito l’unicità di questo fenomeno: le rivoluzioni sono i soli eventi politici che ci pongono direttamente e inevitabilmente davanti al problema di un nuovo inizio. “Le rivoluzioni non sono semplici mutamenti”66. È proprio in questo concetto di assoluta novità e unicità, insito nella natura della rivoluzione, che si svela la matrice cristiana di questo fenomeno, quella stessa matrice cristiana che apparteneva anche al fenomeno della rivolta. È infatti ovvio che solo a partire da una visione lineare della storia, gli eventi possono essere considerati unici e irripetibili e che quindi la rivoluzione non poteva neppure essere concepita nell’ottica greca di una storia circolare destinata a ripetersi. Fu infatti la filosofia cristiana che per prima introdusse l’idea di un evento assolutamente nuovo e unico che sconvolse il corso della storia: appunto la nascita di Cristo. I greci conoscevano bene i mutamenti politici e la violenza che spesso questi comportavano, ma né il termine stàsis (discordia civile) né il termine metabolè politeìon (le F. Dosteovskij, La leggenda del Grande Inquisitore Vedi pp. 12-13 66 H. Arendt, Sulla rivoluzione, biblioteca einaudi, 2006 64 65 22 naturali trasformazioni da una forma di governo all’altra 67 ) o la nuova teoria di Polibio sull’anaciclosi poterono mai essere tradotte o intese secondo il moderno significato di rivoluzione. Lo stesso termine rivoluzione aveva originariamente significato diverso, addirittura opposto rispetto a quello attuale. Derivato dal verbo latino revolvere (= volgere indietro) aveva inizialmente significato astronomico e descriveva il moto circolare dei pianeti che si muovono obbedendo a leggi immutabili. Non era quindi legato in alcun modo al carattere di novità o violenza che assume al giorno d’oggi, anzi rispondeva perfettamente alla visione storica dei greci: le forme di governo, come gli astri, erano destinate a ripresentarsi ciclicamente sempre uguali rispondendo a una qualche forza irresistibile, quella stessa forza che muove le orbite dei pianeti. Non solo nella mentalità greca era negato il concetto di unicità, ma anche quello di novità: nella società ellenica infatti i neoi (= i nuovi) erano i giovani, le nuove generazioni, destinate per natura a trasformare la realtà. Ma anche questi mutamenti erano consapevolmente visti come il “costante alternarsi di vicende nel campo della vita politica. Le vicende umane mutavano continuamente ma non producevano mai qualche cosa di interamente nuovo. […] Tutti rinascevano nei secoli dei secoli per essere partecipi di uno spettacolo naturale o storico che essenzialmente era sempre lo stesso ”68. Il sorgere della libertà Posto il concetto di nuovo inizio come prima caratteristica peculiare della rivoluzione, la seconda, almeno originariamente, era la pretesa del nuovo sorgere della libertà. Lo stesso Robespierre definiva il suo governo come il “dispotismo della libertà” e contemporaneamente Condorcet scriveva: “ La parola rivoluzione si può applicare solo alle rivoluzioni il cui fine è la libertà” 69 . In particolar modo, scrive la Arendt, per comprendere le rivoluzioni in età moderna è importante che “l’idea di libertà e l’esperienza di un nuovo cominciamento coincidano”68. Il problema, e già qui possiamo cominciare a parlare di fallimento della rivoluzione, tanto per quanto riguarda, sul piano storico, la rivoluzione francese, tanto per quanto riguarda, su quello metaforico, la rivoluzione del Grande Inquisitore (anche se, al contrario di Robespierre, il Grande Inquisitore è fin da subito pienamente consapevole che nel suo regno non può esserci spazio alcuno per la libertà), è la confusione tra libertà e liberazione. La liberazione è condizione e presupposto della libertà, ma mai potrà coincidere con il raggiungimento di quest’ultima, o per lo meno è da escludere che vi conduca automaticamente. A riguardo si vedano le parole di Hanna Arendt: “Si trattava sempre di cambiare la persona che deteneva in quel momento l’autorità, sia che fosse un usurpatore da eliminare per restituire il trono al re legittimo o un tiranno da rovesciare per instaurare un governo legale. Così, mentre si riconosceva il diritto di decidere chi non doveva, certamente non si pensava che potesse decidere chi doveva governare” (legato anche alle considerazioni precedenti che abbiamo fatto su Prometeo, figura di ribelle per eccellenza nel mondo greco). 68 H. Arentd, Sulla rivoluzione, Biblioteca Einaudi, 2006 69 A.N. Condorcet, Sur le sens du mot rèvolutionnaire, vol XII 67 23 La libertà dal bisogno, la libertà dalla paura, la libertà dalla sofferenza (come nel caso del Grande Inquisitore) sono tutte libertà al negativo, ovvero sono tutte “il risultato di un liberazione ma in alcun modo sono il contenuto della libertà”70. Poiché le rivoluzioni moderne hanno sempre puntato tanto alla ”liberazione da” tanto alla libertà, tra le due non vi è mai stato un confine netto e questo ha reso possibile, ad esempio ai rivoluzionari francesi, gustare il “fascino della libertà” solo nell’atto stesso della liberazione70. Il pathos travolgente e l’idea di irresistibilità Direttamente connessa alle prime due caratteristiche della rivoluzione, in particolar modo all’esperienza di qualcosa di nuovo, è un’altra costante dello spirito rivoluzionario: il pathos travolgente. Egli (il rivoluzionario) è fermamente convinto che “nulla di così grandioso e significativo era mai apparso in tutta la storia scritta dell’umanità” 70. Questo entusiasmo è evidente anche nelle parole del Grande Inquisitore (seppur accompagnato comunque da grande stanchezza) quando ribatte a Cristo che con la sua rivoluzione “spunterà per gli uomini il regno della pace e della felicità” e grazie a lui “tutti saranno felici e non si ribelleranno più, né si stermineranno tra loro, come facevano dappertutto nella Tua libertà”71. Se finora le caratteristiche che abbiamo enumerato sul concetto moderno di rivoluzione sono tutte completamente estranee all’originario significato che assumeva il medesimo termine, l’ultima a cui facciamo riferimento è invece l’unica che si riferisce proprio alla concezione più antica: si tratta dell’idea di irresistibilità. La concezione di movimento irresistibile legata appunto all’idea astronomica di una forza immutabile che determina le traiettorie circolari dei pianeti, è rimasta insita nell’idea di rivoluzione anche in fase moderna. Quando il re Luigi XIV esclamò “C’est une rivolte!” e il messaggero rispose: “ Non, Sire, c’est une rèvolution” la valenza con cui è pronunciato è proprio questa: L’irresistibilità dell’accaduto70. Fu proprio questa idea di irresistibilità che, una volta concettualizzata, probabilmente diede origine nel XIX secolo all’idea di necessità storica. “Dal punto di vista teoretico, la conseguenza di maggior portata della rivoluzione francese fu la nascita del concetto moderno di storia della filosofia di Hegel”70. Siamo così tornati allo storicismo hegeliano di cui abbiamo trattato nel capitolo precedente: nella filosofia hegeliana la rivoluzione francese diviene necessità storica e Napoleone diventa destino72. Il risultato è che la necessità (ecco che ricompare) diventa, al posto della libertà, la “categoria principale del pensiero politico e rivoluzionario”70 . Questa stessa idea di necessità è ribadita anche dall’Inquisitore: “ Ciò che dico si compirà (si deve compiere) e sorgerà il nostro regno”71. H. Arendt, Sulla rivoluzione, Biblioteca Einaudi, 2006 F. Dostoesvkij, La leggenda del Grande Inquisitore 72 Nella filosofia della storia Hegel immagina che le grandi personalità del passato, ad esempio Napoleone, siano stati scelti dallo spirito assoluto per portare avanti, inconsapevolmente, il disegno universale della storia. Queste figure, dette individui cosmico-storici, sono convinte di dominare la storia secondo un loro progetto individuale, ma in realtà sono eccezionali strumenti di cui la storia si serve per proseguire nel suo piano e, in quanto tali, vanno necessariamente superati. 70 71 24 Rimaniamo proprio sul tema della necessità per passare dalla definizione universale di rivoluzione, che abbiamo appena visto, all’ultimo quesito che intendiamo porci: il perché del suo fallimento. Infatti tanto la rivoluzione dell’Inquisitore di Dostoevskij, sul piano letterario, tanto la rivoluzione francese, su quello storico (continuiamo pure sul parallelismo tra le due che abbiamo già introdotto) rappresentano senza alcun dubbio un fallimento, nonostante la positività delle loro teorie ideologiche. La questione sociale e il sentimento di compassione Il primo concetto da introdurre, al quale possiamo ricondurre la finale svolta autoritaria delle due rivoluzioni (perché di questo stiamo parlando), è la coincidenza che si viene a creare tra l’idea teorica di irresistibilità (come abbiamo visto caratteristica costante del fenomeno della rivoluzione) e la questione sociale. Nello stesso momento in cui i rivoluzionari francesi, inizialmente spinti dalla volontà di far risorgere la libertà, posero il loro sguardo sulla condizione di miseria e povertà del popolo francese e si resero conto che essa (la libertà) è di per sé stessa incompatibile con tale povertà, in quanto è proprio la condizione di povertà in primis che costringe gli uomini a sottostare ai dettami del corpo (“ossia ai dettami assoluti della necessità 73 ”) abbandonarono il “dispotismo della libertà” e definitivamente assoggettarono il governo rivoluzionario “alla più sacra di tutte le leggi, il benessere del popolo, il più inconfutabile di tutti i diritti, la necessità74”.Il benessere dei molti divenne quindi il nuovo obiettivo della loro rivoluzione75. La questione sociale, che nella Francia del XVIII secolo era costituita dal problema della povertà delle classi inferiori, è ben rappresentata nel mondo dell’Inquisitore dal problema della sofferenza degli uomini deboli, condannati da Cristo a portare il peso della libertà (“per l’uomo e per la società umana nulla mai è stato più intollerabile della libertà75”) e privati di un idolo “di fronte a cui prostrarsi, tutti insieme76”. Possiamo dire che tanto il Grande Inquisitore tanto i rivoluzionari francesi, furono spinti alla rivoluzione “dall’urgenza del bisogno” di liberare l’umanità l’uno dalla sofferenza, gli altri dalla povertà, per raggiungere il benessere collettivo dopo aver superato la questione sociale77. Ecco allora che l’idea teorica di irresistibilità dopo l’inserimento di questa nuova componente (la questione sociale) si lega irrimediabilmente, e scaturisce insieme, al sentimento della compassione. H. Arendt, Sulla rivoluzione, Biblioteca Einaudi, 2006 Oeuvres de Maximilien Robespierre, a cura di Laponneraye, 1840, vol. III 75 Si vedano a riguardo le parole di Hannah Arendt: “Sotto la stretta appunto di tale necessità la moltitudine si scagliò in appoggio alla rivoluzione francese, la ispirò, la spinse avanti e infine la trascinò alla rovina e ciò proprio perché era la moltitudine dei popoli” 76 F. Dostoesvkij, La leggenda del Grande Inquisitore 77 Se prima abbiamo detto che la concettualizzazione teoretica dell’idea di irresistibilità della rivoluzione francese avvenne per mezzo della filosofia della storia di Hegel, la concettualizzazione della questione sociale come base fondante della rivoluzione fu invece dovuta alla filosofia di Marx, di cui abbiamo già trattato. Definitivamente con Marx ( poi nelle rivoluzioni successive, in primis quella russa) il problema rivoluzionario da politico divenne sociale. 73 74 25 Dalla compassione alla pietà Il termine compassione che etimologicamente deriva dal latino compati, ovvero soffrire insieme agli altri per i mali altrui, non è di per sé sentimento negativo, anzi, come vedremo, può positivamente generare il principio di solidarietà. Ciò che porta alla degenerazione del sentimento della compassione, sia del Grande Inquisitore sia dei rivoluzionari francesi, è che esso viene rivolto verso un’entità astratta78 e spersonalizzata, verso un’unica umanità sofferente, le peuple malheureux (=il popolo infelice) di Robespierre. L’umanità, unificata dalla condizione di miseria e sofferenza, non è più una pluralità di persone, ma è, agli occhi del Grande Inquisitore, una categoria astratta78. Alla sua comparsa sulla piazza “la folla, come un solo corpo, si curva fino a terra davanti al vecchio inquisitore; questi benedice il popolo e passa oltre79”. Questa umanità universale non solo è privata di qualsiasi connotato umano e individuale ma diventa “popolo”, cioè è arricchita inevitabilmente delle caratteristiche di debolezza, sofferenza e infelicità80. La compassione che in quanto tale ha bisogno di essere rivolta verso un soggetto, un individuo specifico, è inevitabilmente snaturata nel momento in cui viene indistintamente rivolta verso un altrettanto indistinta moltitudine. La compassione si trasforma allora in pietà. Le immediate e terribili conseguenze del sentimento della pietà sono fondamentalmente due: da una parte si genera una invalicabile barriera che distingue chi prova pietà e chi suscita pietà, che coincide di fatto con la distinzione che permea l’antropologia dell’Inquisitore, come abbiamo visto, tra gli uomini deboli e gli eletti 81 , dall’altra parte questo stesso sentimento di pietà finisce col nutrirsi della sofferenza altrui, traendo da questa la sua giustificazione. “ Senza la presenza della sfortuna la pietà non potrebbe esistere e quindi ha bisogno dell’ esistenza degli infelici allo stesso modo come la sete di potere ha bisogno dell’esistenza dei deboli”82. Lungo tutto il monologo dell’Inquisitore il suo sguardo è infatti rivolto esclusivamente verso i deboli, di cui ha deciso di prendersi cura. Quando afferma di fronte a Cristo “a noi sono cari anche i deboli”, sembra piuttosto che debba dire “ a noi sono cari solo i deboli”. La categoria degli eletti, la categoria di quegli uomini che potrebbero raggiungere la vera libertà, seguendo Cristo, non è mai presa veramente in considerazione. Se Cristo, agli occhi dell’Inquisitore, è venuto “solo per gli eletti” lui sembra invece essere venuto solo per i deboli, mosso dal sentimento di pietà che essi suscitano in lui. “Lasciai gli orgogliosi e tornai agli umili, per la loro felicità79”. In generale, l’iniziale compassione che muove lo spirito rivoluzionario, nata dalla contemplazione della sofferenza altrui (e dalla percezione dell’ingiustizia) si muta, nel momento in cui è rivolta a una categoria generica di umanità infelice, nel sentimento di La concezione astratta e universale di umanità, come abbiamo già visto, è legata all’idea di necessità storica. F. Dostoevskij, La leggenda del Grande Inquisitore 80 Queste caratteristiche si colgono nell’immagine veicolata dal Grande Inquisitore del popolo come “formicaio indiscutibilmente comune e concorde” 81 Nel caso della rivoluzione francese tra il popolo miserabile e i rivoluzionari illuminati. 82 H. Arendt, Sulla rivoluzione, Biblioteca Einaudi, 2006 78 79 26 pietà, la quale della stessa sofferenza finisce per nutrirsi, glorificando la propria causa e, come infine vedremo, giustificando la crudeltà. Abnegazione e risvolti drammatici Per spiegare quest’ultima affermazione dobbiamo introdurre un’altra conseguenza a cui il sentimento della pietà conduce: l’identificazione della virtù con l’abnegazione. Se il rivoluzionario, a questo livello, si muove per il benessere del popolo, allora la sua volontà deve coincidere con la volontà universale83 di tutti. Di conseguenza il rivoluzionario sarà tanto più virtuoso quanto più saprà rinunciare ai suoi interessi individuali per il benessere di tutti. Per Robespierre “il valore di una politica può essere verificato in base al grado in cui si oppone a tutti gli interessi particolari e il valore di un uomo può essere giudicato dal grado in cui egli agisce contro il proprio interesse e contro la propria volontà84”. In quest’ottica la più alta virtù diventa l’abnegazione e non più la bontà attiva. Di conseguenza il male più grande diventa l’egoismo (quello di cui l’Inquisitore accusa Cristo) e non la malvagità. Con l’abnegazione, in virtù di un progetto di benessere collettivo, il rivoluzionario può infine giustificare ogni crudeltà. Ecco il vero limite della virtù di Robespierre e del Grande Inquisitore, che non ha limiti. Per chi è spinto dall’urgenza di liberare i poveri dalla sofferenza, per chi opera, quindi, nel senso della rivoluzione, “tutto è permesso” anche la violenza o il terrore. Proprio questa parabola, che determina il fallimento dell’originario spirito di rivolta, e dell’originaria ideologia rivoluzionaria, storicamente avvenuta nella Francia del XVIII secolo, e drammaticamente destinata a ripetersi proprio nella patria di Dostoevskij nel XX secolo, è racchiusa nelle parole profetiche del Grande Inquisitore, quando, giustificandosi di fronte a un Cristo muto, chiede: “ Forse che non amavamo noi l’umanità, riconoscendone tanto umilmente la debolezza, alleviando con amore il suo fardello e concedendo alla sua debole natura magari anche di peccare, ma con il nostro consenso?” […] “Temeranno loro la nostra collera, i loro animi si faranno timidi, i loro occhi inclini al pianto, come quelli dei bambini e delle donne, ma con la medesima facilità passeranno- a un nostro cenno- all’allegria e al riso […] Oh, noi concederemo loro di peccare, perché li amiamo ed essi ci adoreranno come benefattori che si sono fatti carico dei loro peccati dinanzi a Dio”85. 83 La volontè gènèrale di Rousseau 84 H. Arendt, Sulla rivoluzione, Biblioteca Einaudi, 2006 85 F. dostoevskij, La leggenda del Grande Inquisitore 27 Conclusioni Siamo arrivati così alla conclusione del nostro percorso. L’Inquisitore lascia andare Cristo per le vie oscure della città e torna alla sua “suntuosa veste cardinalizia” deciso a perseguire ciò che ha intrapreso. Il regno della felicità si farà, costi anche la morte sul rogo di milioni di eretici e ribelli. Rimane però al vecchio novantenne il peso di quel silenzio e di quel bacio: l’invisibile segno di ”un’altra via”, la remota consapevolezza del suo fallimento. In queste brevi pagine, in questo dialogo “muto” tra Cristo e l’Inquisitore, tra la Compassione e la Pietà, Dostoevskij ha guardato al passato prevedendo il futuro e ci ha voluto descrivere, con tutta la sua abilità, l’ingranaggio segreto dell’età contemporanea. Nel concetto cristiano di rivolta, e in quello di rivoluzione, si può individuare infatti il motore della nostra storia, tra Ottocento e Novecento. A partire dalla rivoluzione francese, che ha segnato la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, tutto il pensiero filosofico europeo si appropria di queste categorie, concettualizzandole: per l’uomo contemporaneo diventa possibile (e non solo possibile, ma anche necessario) ciò che nella mentalità classica non era neppure pensabile, staccarsi dall’ordine divino e diventare artefice della propria rivoluzione terrena, in virtù di un ideale utopico: la società perfetta in terra. Attraverso questo personaggio letterario ci è stato possibile cogliere il legame tra rivolta e rivoluzione, unificate entrambe da una visione cristiana e messianica che, come abbiamo visto, è poi entrata con preponderanza in tutto il pensiero filosofico teorico dell’Ottocento. Siamo partiti dal concetto di rivolta dimostrando, attraverso il confronto con Prometeo, Epicuro e Lucrezio, che esso è reso possibile solo a partire da una separazione totale tra mondo divino e mondo umano, su cui si fonda appunto la religione cristiana ( “la religione della scissione” come la chiama Hegel). L’uomo cristiano si trova davanti a un dio distante e sordo, contro cui si sente legittimato a combattere, rivendicando per primo il panorama della storia come mondo esclusivo dell’uomo. L’uomo contemporaneo si libera così di quella religione “oppio dei popoli”, di quella speranza immobilizzante in una ricompensa futura e ultraterrena, senza però liberarsi di una categoria di pensiero che da questa stessa visione cristiana trae origine: la visione finalistica. Ecco allora che i grandi spiriti rivoluzionari (e filosofici) di Ottocento e Novecento, pur dichiarandosi atei e fondando le loro ideologie sulla critica alla religione cristiana, traggono proprio da essa l’idea di un progresso verso una meta ultima che, non potendo essere più religiosa e metafisica, diventa storica e politica. Nasce il concetto di necessità storica e, contemporaneamente, il concetto di storia universale. È proprio in questa prima incongruenza del pensiero rivoluzionario moderno che dobbiamo ricercare i motivi del fallimento della rivoluzione francese, come di quella russa: l’uomo rivoluzionario compie la sua rivolta contro l’ordine divino, ma nel momento stesso in cui dichiara la sua indipendenza dalla volontà divina, dichiara la sua dipendenza da un’altra forza sovrumana, sia questa storica anziché metafisica, sia questa Ragione anziché Provvidenza. 28 La filosofia della storia di Hegel e la dialettica della storia di Marx, teorizzati alla luce della rivoluzione francese, sono i più grandi manifesti filosofici di questa linea di pensiero tanto straordinaria quanto pericolosa: sono entrambi sistemi chiusi, che traggono da sé stessi la propria giustificazione, e di conseguenza inclini al fanatismo. Se questa ideologia rivoluzionaria teorica, di cui abbiamo tracciato le caratteristiche attraverso l’idealismo fichtiano, lo storicismo hegeliano e il profetismo marxista si unisce, come è stato, a una problematica sociale reale, come l’esistenza della povertà o della guerra, allora la rivoluzione che ne scaturisce finisce per trasmutare il suo pathos travolgente e l’idea di irresistibilità storica nel sentimento di compassione che, cristallizzato in una visione paternalistica verso un’umanità spersonalizzata, diventa sentimento di pietà. La conseguenza è la drammatica giustificazione, in virtù del più nobile dei fini, il benessere dei molti, di qualsiasi violenza: diventa possibile, alla luce di tutto questo, comprendere dunque l’avvento dei Regimi del Terrore ottocenteschi e novecenteschi, da Robespierre a Stalin, ma anche da Mussolini a Hitler. 29 BIBLIOGRAFIA Arendt Hanna, 2006, Sulla rivoluzione, Torino, Biblioteca Einaudi. Camus Albert, 2009, L’uomo in rivolta, Milano, Tascabili Bompiani. Dostoesvkij Fedor, 2009, I Fratelli Karamazov, Roma, Newton Compton Editore. Dostoevskij Fedor, 2010, La leggenda del Grande Inquisitore, Milano, Salani Editori. Epicuro, Vite di filosofi, X, 123, in L’esperienza del pensiero (Città di Castello PG, 2006 Loescher Editore) a cura di Sacchetto, Desideri, Petterlini. Erodoto, Le storie, proemio, in Hellenes percorsi tematici nei testi greci (Firenze, 1998, G.B. Palumbo Editore) a cura di Pantacuda e Trombino. Eschilo, Il Prometeo incatenato, vv. 436-506, in Storia e testi della letteratura greca (Città di Castello PG, 2003, G.B. Palumbo) a cura di Casertano, Nuzzo. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze 1941, in Significato e fine della storia (Milano, 1998, il Saggiatore) di Löwith. K. Löwith, Significato e fine della storia, Milano, 1998, Il Saggiatore. Lucrezio, De Rerum Natura, in Limina letteratura e antropologia di Roma antica (Città di Castello PG, 2005, La Nuova Italia) a cura di Bettini. K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, II trad. it. Di E. Cantimori Mezzemonti (Torino, 1974, Einaudi, p. 147-58) in L’Esperienza del pensiero (Città di Castello, 2006, Loescher Editore) a cura Sacchetto, Desideri, Petterlini. Polibio, Le storie, I in Storia e testi della letteratura greca (Città di Castello PG, 2004, G.B. Palumbo editore) a cura di Casertano, Nuzzo. 30 INDICE ANALITICO Alessandro Magno.................................................................................................................. 11 Arendt .......................................................................................................... 16; 24;25;27;28;29 Camus ............................................................................................................. 7;8;9;12;13;14;15 Condorcet ...............................................................................................................................25 Dostoevskij ................................................................. 4;7;8;9;10;14;16;20;22;23;26;27;28;29 Engels ............................................................................................................................... 21; 23 Epicuro .................................................................................................................. 12; 13; 14; 15 Erodoto ................................................................................................................................... 19 Eschilo .......................................................................................................................... 9; 10; 11 Fichte ................................................................................................................................ 17; 18 Hegel ............................................................................................................. 18; 20; 21; 26; 27 Kant ........................................................................................................................................ 17 Laponneraye ........................................................................................................................... 27 Löwith......................................................................................................................... 18; 21; 22 Lucrezio ....................................................................................................................... 13; 14; 15 Luigi XIV ............................................................................................................................... 26 Marx .............................................................................................................. 20; 21; 22; 23; 27 Napoleone ............................................................................................................................. 26 Polibio .............................................................................................................................. 19; 24 Robespierre ............................................................................................................... 25; 28; 29 Tucidide .................................................................................................................................. 19 31