Università di Brescia Facoltà di Economia DISPENSE DI ECONOMIA POLITICA Prof. Giulio PALERMO Tel 030 29 88 824 Fax 030 29 88 837 [email protected] http://www.eco.unibs.it/~palermo ANNO ACCADEMICO 2008-09 PREMESSA Un insegnante di economia che si rispetti dovrebbe innanzi tutto selezionare con la massima cura gli argomenti degni di essere insegnati, dando spazio a quelli più utili alla comprensione (e alla risoluzione) dei problemi economici, senza scendere a compromessi con quanto insegnano i colleghi (soprattutto quelli per i quali non ha alcun rispetto scientifico). In questo corso, invece, io scendo a compromessi e, siccome la cosa non mi piace, provo ad offrire qualche giustificazione. Ai fini della comprensione delle dinamiche del capitalismo, la microeconomia, ad esempio, non ha granché da insegnare. Non solo si tratta di una teoria incapace di risolvere le questioni che essa stessa pone, ma proprio le questioni che pone hanno poco a che fare con quelli che, secondo me, sono i problemi del mondo economico. In definitiva, questa teoria si riduce ad un'apologia (peraltro contraddittoria) del capitalismo, nella sua versione ultraliberista, e poco più. Eppure anch'io, come molti, la insegno. Il processo di omologazione degli insegnamenti economici, guidato dalle università americane e dai loro think tank liberisti ha ormai prodotto un forte conformismo scientifico in cui l'autonomia scientifica dell'insegnante si riduce alla scelta del manuale più accattivante sul piano formale, essendo i contenuti per lo più standardizzati. E anche qui, come fan tutti, io pure suggerisco il manuale di turno, scegliendolo tra quelli che vanno per la maggiore e limitandomi giusto a minimizzare il danno. Il problema è infatti che, stando così le cose, uno studente che segua un percorso “troppo” diverso dal cammino omologante ha più problemi che vantaggi. Nella misura in cui i temi alternativi su cui ha riflettuto siano veramente utili alla comprensione del mondo, si trova certo in posizione vantaggiosa rispetto ai suoi colleghi ben omologati. Ma, nel suo percorso di studi incontrerà ostacoli maggiori, non avendo a disposizione quel corpo di conoscenze che invece la maggior parte degli altri insegnanti assumeranno per noto. Se la mia difesa si fermasse qui non avrebbe avuto senso scrivere questa premessa. Sono infatti ben cosciente del fatto che accettare un simile compromesso significa partecipare 2 attivamente al processo di omologazione scientifica. Se dunque ho scelto di insegnare anch'io molti degli argomenti tipici dei corsi di microeconomia e macroeconomia, è perché mi sono riservato il diritto di evidenziarne i limiti, le contraddizioni, le falsità, le premesse ideologiche e le implicazioni perverse, criticando il manuale, come si dovrebbe fare con ogni testo sacro. La demistificazione della teoria economica aiuta infatti, secondo me, a riflettere, a scoprire l'essenza che si cela dietro l'apparenza, a ricercare le proprie priorità scientifiche. Questa è la sola ragione per me valida per insegnare la teoria dominante. Certo sottraggo spazio e tempo agli argomenti che, secondo me, sono più direttamente utili a capire quelli che io considero i problemi economici più gravi. Ma, anche per una questione di umiltà scientifica, non credo che il vero problema sia di far passare i miei messaggi o quelli degli economisti che, secondo me, meglio centrano il problema. Credo invece che esista una sola difesa, individuale e collettiva, contro i processi di omologazione e indottrinamento, quale che ne sia l'ideologia fondante: lo studio critico. Per questo il programma che ho da offrire, anche se fatico ad ammetterlo, è frutto di duri compromessi e, ciononostante, ne sono soddisfatto. Ma forse, senza tutte queste giustificazioni, la verità è più semplice: come molti dei miei colleghi, anch'io non sono un insegnante degno di rispetto. Sarà lo spirito critico dello studente a giudicare. 3 PROGRAMMA DEL CORSO DESCRIZIONE DEL CORSO Le scuole di pensiero economico esistenti adottano definizioni diverse dell’economia politica. In senso generale, l’economia politica studia i rapporti di produzione e distribuzione del reddito e della ricchezza nella società. Secondo l’impostazione dominante, l’economia politica si suddivide nella microeconomia e nella macroeconomia. Queste due discipline, in realtà, hanno origini storiche diverse e sviluppano concezioni teoriche in gran parte incompatibili tra loro. La microeconomia ha origine verso la fine del XIX secolo dal contributo di tre economisti, Léon Walras, Stanley William Jevons e Carl Menger, oggi riconosciuti come i fondatori della scuola neoclassica. Tale scuola, divenuta ormai egemonica a livello accademico, sviluppa una concezione liberista dell’economia, secondo la quale lo stato deve limitare al massimo il proprio intervento nell’economia, lasciando il massimo spazio alle relazioni di mercato. Dal punto di vista teorico, la microeconomia si occupa del singolo consumatore e della singola impresa. Attraverso il modello di equilibrio economico generale e l’economia del benessere, essa offre un quadro normativo per valutare l’efficienza delle diverse forme di organizzazione dei mercati. La macroeconomia prende invece ispirazione dall’opera dell’economista inglese John Maynard Keynes, vissuto nel XX secolo. Essa sviluppa una concezione del sistema capitalista come sistema instabile e si pone come obiettivo la sua regolazione attraverso interventi diretti dello stato. Dal punto di vista teorico, la macroeconomia si concentra sulle relazioni tra le variabili economiche aggregate, come la produzione, i consumi, gli investimenti e il reddito nazionale. Essa offre un quadro interpretativo direttamente applicabile ai problemi di politica economica. La nascita dell’economia politica è tuttavia antecedente sia alla microeconomia, sia alla macroeconomia. Essa ha origine nel XVII secolo con il contributo degli economisti 4 classici e riceve un nuovo impulso critico nel XIX secolo con l’opera di Karl Marx. Per dar conto di questi diversi approcci, il corso si suddivide in tre parti: l'economia classica e marxiana, la macroeconomia e la microeconomia. REQUISITI INDISPENSABILI Il corso non richiede alcuna propedeuticità. OBIETTIVI Il corso si propone di favorire la comprensione degli aspetti economici della società capitalista e di mettere in luce sia gli interessi comuni, sia quelli contrapposti che si intrecciano nei processi economici e politici. Particolare importanza è data alla critica teorica come strumento attivo per sviluppare una propria interpretazione dei problemi economici. INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE 1. Giulio Palermo, Dispense di Economia politica (le stai leggendo) 2. Giulio Palermo, Il Mito del Mercato Globale, Manifestolibri [pp. 9-43, 64-118]. 3. AA.VV., Letture di economia classica e marxiana I testi indicati sono scaricabili dal sito http://www.eco.unibs.it/~palermo oppure possono essere reperiti presso le librerie “la matricola” e “club”. La dispensa al punto 1 raccoglie tutto il materiale discusso in aula. Essa sintetizza e commenta i seguenti testi (cui si rimanda per chiarimenti ed approfondimenti): 1. John Sloman, Elementi di economia, Il Mulino. [Esclusa la terza parte]. 2. Mario Cassetti, Concorrenza, valore e crescita: modelli di economia classica, Franco Angeli. [Esclusi i paragrafi contrassegnati con l’asterisco]. 3. Alessandro Roncaglia, Lineamenti di economia politica, Laterza [Solo i paragrafi 111]. 5 4. Olivier Blanchard, Macroeconomia, Il Mulino. [Solo appendici 2 e 3 e glossario]. Il testo al punto 2 è una sorta di contro-manuale critico della microeconomia. La dispensa al punto 3 raccoglie varie letture, tra cui le parti dei libri di Cassetti e Roncaglia che utilizziamo nel corso. Il manuale di riferimento è il libro di Sloman. Su richiesta saranno date indicazioni alternative in lingua inglese o francese per gli studenti con problemi linguistici. METODO DIDATTICO • Lezioni in aula • Esercitazioni • Seminari • Assistenza individuale dopo le lezioni e nell’orario di ricevimento • NB: Tutti i servizi didattici sono aperti anche ai non iscritti al corso o alla facoltà. VALUTAZIONE La valutazione si basa su una prova finale scritta. L’eventuale uso di libri o appunti durante l’esame sarà deciso all’inizio del corso di comune accordo con gli studenti. È comunque facoltà di ogni studente richiedere una prova integrativa orale. SERVIZI IN LINGUA STRANIERA • Attività di assistenza studenti anche in lingua inglese e francese • Possibilità di sostenere l’esame in lingua inglese o francese. 6 INDICE INTRODUZIONE E INQUADRAMENTO STORICO 1. Cenni di storia del pensiero economico 2. Dal feudalesimo al capitalismo 3. L’impostazione moderna allo studio dell’economia I. ECONOMIA CLASSICA E MARXIANA 1. La concorrenza 2. La concorrenza come meccanismo di armonia sociale in Adam Smith 3. La concorrenza e il conflitto tra capitalisti e proprietari terrieri in David Ricardo 4. Concorrenza, sfruttamento e alienazione in Karl Marx II. MACROECONOMIA 1. Problematiche macroeconomiche 2. La determinazione del reddito nazionale e la politica fiscale 3. Moneta e politica monetaria 4. Il modello IS-LM III. MICROECONOMIA 1. Introduzione 2. Domanda individuale e domanda di mercato 3. Elasticità e aggiustamento dei mercati 4. Offerta dell’impresa e offerta di mercato 5. Forme di mercato 7 INTRODUZIONE E INQUADRAMENTO STORICO 1. Cenni di storia del pensiero economico [Bibliografia di riferimento: Roncaglia, paragrafi 1-7] LA NASCITA DELL’ECONOMIA POLITICA CLASSICA • Il termine “economia politica” viene dal greco: oîkos = casa, nómos = legge, pólis sono le città stato dell’antica Grecia. • La nascita dell’economia politica come scienza autonoma si deve, secondo alcuni storici del pensiero economico, a William Petty, nel XVII secolo: il suo obiettivo è di descrivere, non di giudicare, il funzionamento della società, misurando i fenomeni economici e individuando “leggi economiche”, cioè relazioni sistematiche tra i diversi aspetti della realtà economica che operano indipendentemente dalla volontà dei soggetti economici. Petty usa i termini di aritmetica politica o anatomia politica. • Molti storici individuano nello scozzese Adam Smith (XVIII secolo), più che in Petty, la nascita dell’economia politica classica. Nella rappresentazione di Smith, la società è divisa in tre classi sociali: capitalisti, proprietari terrieri e lavoratori. Il reddito nazionale, cioè il valore di quello che viene prodotto in un anno nell’economia, si distribuisce tra le tre classi sociali sotto forma di profitti, rendite e salari. Secondo Smith, i rapporti tra classi sociali non sono conflittuali, ma armonici. Il mercato è lo strumento che permette di conciliare il perseguimento dell’interesse personale con la desiderabilità sociale. • Secondo l’economista inglese David Ricardo (tra il XVIII e il XIX secolo) il compito principale dell’economia politica è lo studio delle leggi che regolano la distribuzione del reddito tra le classi sociali. A differenza di Smith, Ricardo considera i rapporti tra classi sociali come necessariamente conflittuali e, nello scontro capitalisti – proprietari terrieri, prende posizione in difesa dei capitalisti. 8 • Marx (XIX secolo) sviluppa la visione conflittuale della società, schierandosi apertamente dal lato dei lavoratori. La sua critica riguarda non solo il capitalismo, ma anche la rappresentazione che ne fornisce l’economia politica borghese. Oltre a cercare di spiegare i meccanismi di funzionamento del sistema economico, Marx cerca di spiegare anche le ragioni per cui gli economisti tendono a rappresentarlo sposando il punto di vista delle classi dominanti. • In generale, secondo la definizione degli economisti classici, l’economia politica è una scienza sociale che studia le caratteristiche di un sistema sociale dal punto di vista della produzione, distribuzione e impiego del reddito. LA RIVOLUZIONE MARGINALISTA E LA MICROECONOMIA [Bibliografia di riferimento: Cassetti, capitolo 5] • Nel 1870, compaiono tre testi di autori di diverse nazionalità, Léon Walras, Stanley William Jevons (fondatori della scuola neoclassica) e Carl Menger (fondatore della scuola austriaca) che diventano rapidamente i nuovi riferimenti teorici in materia economica, soppiantando gli approcci ricardiano e marxiano, allora assai diffusi. • Il cambiamento radicale a livello teorico e metodologico rispetto all’approccio classico e marxiano porta a definire questa svolta teorica come una rivoluzione scientifica: la “rivoluzione marginalista”. • Il termine “marginalista” fa riferimento all’uso del calcolo differenziale come metodo universale di analisi delle questioni economiche. Secondo un importante economista e storico del pensiero economico, Joseph Schumpeter, ciò che accomuna la scuola neoclassica e quella austriaca è il rifiuto dell’approccio classico e marxiano basato sulla teoria oggettiva del valore e la proposta di una teoria del valore di tipo soggettivo. L’uso del calcolo differenziale è invece sviluppato unicamente dalla scuola neoclassica, dato che la scuola austriaca mantiene una posizione critica nei confronti del formalismo matematico. Da questo punto di vista sarebbe più corretto parlare di “rivoluzione soggettivista”, piuttosto che “marginalista”. • L’approccio marginalista-soggettivista si basa su due aspetti fondamentali: (1) l’utilità soggettiva come fondamento della teoria del valore; (2) l’ipotesi che i soli soggetti economici rilevanti siano gli individui, il che significa che tutte le proposizioni economiche devono essere costruite a partire da postulati riguardanti le regole di 9 comportamento individuali (non c’è posto per soggetti aggregati quali le classi sociali, centrali nell’impostazione classica). • Rispetto all’impostazione classica, basata sul concetto di classi sociali (e, in particolare nelle teorie di Ricardo e di Marx in cui tale rapporto è di natura conflittuale), la scuola marginalista implica un cambiamento radicale di prospettiva in cui apparentemente non esiste alcun conflitto di interessi, ma un comune interesse allo scambio da parte di tutti gli individui. L’obiettivo economico per eccellenza diventa la soddisfazione del consumatore (dato il suo potere d’acquisto). L’individuo conta quindi innanzi tutto in quanto consumatore e non, come ad esempio nella teoria marxista, in quanto lavoratore. Secondo questa impostazione, un sistema economico che funziona bene è un sistema in cui gli individui che hanno soldi per comprare trovano sul mercato i beni che essi desiderano. Il fatto che altri individui possono non avere mezzi per esprimere sul mercato i propri bisogni non incide sulla valutazione del buon funzionamento del sistema. • Le ragioni dell’affermazione dell’approccio marginalista-soggettivista possono essere ricondotte, da una parte, ai problemi interni incontrati dalle teorie ricardiana e marxiana e, dall’altra, alle implicazioni politiche di queste teorie (in particolare di quella di Marx), le quali evidenziano gli aspetti conflittuali dei rapporti economici e politici del capitalismo con importanti implicazioni rivoluzionarie. Di fatto nel decennio 1870-80 diversi paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia) e gli Stati Uniti sono attraversati da moti rivoluzionari, seguiti da violente repressioni. In questo clima, gli ambienti accademici e borghesi accettano con favore la nuova impostazione basata su un rifiuto netto della teoria oggettiva del valore e i concetti ad essa legati di sfruttamento, e lotta di classe. Come nota Maurice Dobb, dei tre economisti protagonisti della “rivoluzione soggettivista”, solo Jevons è pienamente cosciente della portata politica del nuovo approccio. • Secondo una celebre definizione della scuola marginalista, l’economia è la scienza che studia la condotta umana come relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi (Lionel Robbins). Mentre i desideri umani sono illimitati, le risorse disponibili per soddisfare tali desideri sono limitate. Tutti i problemi economici sono problemi di scarsità. L’economia si occupa di stabilire il modo migliore per ottenere un certo scopo utilizzando le risorse scarse a disposizione. • Con questa definizione, l’economia perde il suo carattere di scienza essenzialmente storica (nel senso che le diverse forme di organizzazione economica nei diversi contesti storici 10 funzionano secondo principi e meccanismi diversi) per diventare, o almeno pretendere di diventare, una scienza universale valida, al pari delle scienze esatte quali la matematica o la fisica. • Un tipico esempio di questo approccio economico è il problema del consumatore che dispone di un certo reddito e deve decidere come impiegarlo per soddisfare al meglio i suoi bisogni e le sue preferenze. Un altro esempio è il problema del produttore che deve decidere cosa e quanto produrre, che tecnica produttiva utilizzare nella ricerca del massimo profitto, utilizzando un certo capitale iniziale. LA RIVOLUZIONE KEYNESIANA E LA MACROECONOMIA • Dal 1870 agli anni ’20, il dibattito economico è caratterizzato da una certa tranquillità che vede il consolidarsi della teoria neoclassica come scuola di pensiero dominante. • I problemi economici degli anni ’20 –la deflazione, la caduta salariale, la disoccupazione e la crisi economica, accentuatasi tra il 1929 e il 1932– producono forti polemiche teoriche che portano all’affermazione della teoria di John Maynard Keynes. • Dal punto di vista teorico, la rivoluzione keynesiana non può essere posta sullo stesso piano di quella marginalista. Essa infatti non si basa su un cambiamento profondo della struttura concettuale della teoria dominante, quanto piuttosto sulla proposta di un diverso modo di gestire i problemi economici del tempo. La teoria di Keynes non si oppone alla teoria del valore e della distribuzione allora in vigore (quella neoclassica-marginalista); anzi si muove al suo interno, contestandone tuttavia un aspetto fondamentale: l’assunto del pieno impiego delle risorse produttive (in particolare, del pieno impiego della forza lavoro disponibile). NB: nel linguaggio dell’economia ortodossa (non marxiana), la forza lavoro è l’offerta di lavoro, cioè la popolazione in età lavorativa occupata o in cerca di occupazione. • Sebbene la teoria neoclassica riconosca la possibilità di attriti che impediscano il raggiungimento dell’equilibrio di pieno impiego, si suppone comunque che il sistema tenda verso di esso. L’implicazione di politica economica è che periodi prolungati di disoccupazione non possono che dipendere da un livello troppo alto dei salari rispetto al livello d’equilibrio di piena occupazione. • Keynes contesta questa proposizione sostenendo che non esistono tendenze necessarie a muovere il sistema dei prezzi verso l’equilibrio di piena occupazione e che l’equilibrio può invece fissarsi a qualsiasi livello di produzione e di occupazione. 11 • Rispetto all’approccio neoclassico basato sull’analisi del comportamento dei singoli soggetti economici come premessa indispensabile per discutere tutti i fenomeni economici, Keynes sposta l’accento sull’analisi di variabili aggregate quali il consumo, l’occupazione e il reddito nazionale. In questo senso la teoria keynesiana costituisce il fondamento di quella che in termini moderni si chiama macroeconomia, contrapponendosi alla teoria neoclassica che mantiene un approccio di tipo microeconomico. • La teoria keynesiana si afferma soprattutto negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, con politiche di forte intervento pubblico nella maggior parte dei paesi occidentali. Anche a livello accademico, si delinea così una separazione tra due filoni di ricerca: la microeconomia e la macroeconomia. In realtà la distinzione indica soprattutto che ci troviamo di fronte a due approcci diversi alla scienza economica, l’approccio marginalista e quello keynesiano. I moderni libri di testo li presentano come complementari, ma in realtà essi nascono e si sviluppano come antagonistici. LE “LEGGI ECONOMICHE” NELLE DIVERSE IMPOSTAZIONI METODOLOGICHE • Una fondamentale differenza tra l’approccio classico e quello marginalista riguarda il metodo d’analisi. • Secondo la scuola classica, la società si modifica nel tempo ed è perciò naturale studiare società diverse nello spazio e nel tempo secondo teorie diverse. Le leggi economiche che l’economia politica cerca cambiano infatti anch’esse nelle diverse forme sociali (o, secondo la terminologia di Marx, che è l’economista che più ha insistito sul carattere storico delle diverse forme di organizzazione della società, modi di produzione). Le leggi di funzionamento della società schiavistica sono diverse da quelle della società feudale, da quelle della società capitalista e da quelle della società socialista. • Secondo l’approccio marginalista invece, anche se le forme sociali cambiano nel tempo, il problema economico di fondo rimane sempre lo stesso in ogni società e in ogni epoca: come utilizzare nel migliore dei modi le risorse a propria disposizione. Si tratta evidentemente di domande diverse che vengono sollevate dai due approcci, ognuna delle quali porta ad assumere determinate ipotesi come punto di partenza dell’analisi. Come vedremo, nella teoria marginalista si insiste sul ruolo delle preferenze individuali, le quali determinano i criteri di scelta all’interno di un ventaglio di opzioni disponibili. Questo porta ad assumere sia le preferenze, sia il set di scelte a disposizione di ciascun soggetto come un dato da cui partire, non come fenomeni da spiegare. 12 • Il fatto che i diversi approcci teorici si pongano domande diverse rende difficile parlare di progresso teorico come nelle altre scienze. IDEOLOGIA E TEORIA ECONOMICA • Parallelamente all’affermazione dell’approccio marginalista si sviluppa la convinzione che la teoria economica debba essere estranea ad ogni tipo di giudizio di valore. Questo porta alla distinzione netta tra “economia positiva” ed “economia normativa”: la prima produce analisi descrittive (di ciò che è), mentre la seconda produce analisi prescrittive (di ciò che dovrebbe essere secondo particolari posizioni etiche). • Secondo questa impostazione, solo a livello normativo è necessario introdurre giudizi di valore, mentre nell’analisi positiva la teoria non riflette altro che giudizi di fatto. • Questa distinzione ha dato luogo ad un lungo dibattito nel quale si è evidenziato come la stessa economia positiva, non possa considerarsi estranea alla visione ideologica e ai giudizi di valore dell’economista. Come sostiene l’economista svedese Gunnar Myrdal, premio Nobel nel 1974, l’oggettività nella ricerca sociale non può mai essere assoluta e universale poiché necessariamente riflette, se non altro nella definizione del problema da analizzare e nella scelta degli strumenti d’analisi (ma a volte anche nelle conclusioni teoriche), le convinzioni e i valori del teorico, i quali non possono considerarsi al di sopra delle parti. • Le categorie analitiche di qualsiasi teoria positiva riflettono necessariamente una particolare visione del mondo. Non è possibile immaginare una teoria economica che sia indipendente da una particolare visione del mondo poiché l’economista è egli stesso parte della società che studia e la posizione che egli ricopre nella società influisce necessariamente sul suo modo di vedere le cose, di individuare i problemi economici e di definire le priorità della ricerca teorica. • L’oggettività nella ricerca sociale non può mai essere assoluta e universale poiché necessariamente riflette, se non altro nella definizione del problema da analizzare e nella scelta degli strumenti d’analisi (ma a volte anche nelle conclusioni teoriche), le convinzioni e i valori del teorico, i quali, in un mondo fatto di interessi contrastanti, non possono in alcun modo considerarsi al di sopra delle parti. • Spesso, tuttavia, la visione (di parte) delle teorie economiche è presentata dai loro sostenitori come se fosse invece super partes, cioè come se si trattasse di un punto di vista neutrale, unanimemente condivisibile, ispirato al semplice perseguimento del bene 13 comune. Il problema è che, il bene comune, ammesso che esista in una società fatta di interessi contrastanti quale è il capitalismo, non è facilmente identificabile. • Da un punto di vista marxista, la teoria economica borghese non è affatto neutrale ma riflette semplicemente la visione, le aspirazioni e le preoccupazioni della classe dominante del capitalismo: la borghesia. Il motivo per cui le proposizioni della teoria borghese appaiono neutrali sul piano dei valori è che implicitamente la teoria prende per dato il sistema capitalista e sposa il punto di vista della sua classe dominante. • Secondo Marx ed Engels la storia dei rapporti economici è storia di lotta di classe e, così come la società evolve secondo gli interessi contrastanti delle diverse classi sociali, la morale stessa è sempre una morale di classe. Chiaramente, secondo l’approccio marxista, è la classe dominante che ha interesse a presentare la propria morale come eterna e universale ed è sempre la classe dominante che ha interesse a rivendicare la neutralità della propria visione dei rapporti economici sostenendo che la (propria) teoria si fonda sul principio del bene comune. 14 2. Dal feudalesimo al capitalismo [Bibliografia di riferimento: Roncaglia, paragrafi 8-11] • Nel corso tratteremo spesso del mercato. Il mercato può essere definito come il luogo nel quale avvengono le transazioni economiche, gli scambi di merci contro denaro. Nella teoria economica, il termine non si riferisce necessariamente a particolari luoghi fisici, bensì indica una rete di relazioni tra operatori economici, anche distanti tra loro, che scambiano uno stesso tipo di bene. • Il mercato esiste da molto tempo ed è presente anche in società come la Grecia antica, o nell’epoca feudale. Ma rispetto a quell’epoca il ruolo del mercato nella società è profondamente cambiato. Nella società capitalista, che è l’oggetto principale del nostro studio, il mercato svolge un ruolo primario nei processi di produzione e distribuzione delle risorse. Rispetto alla forma sociale che ha preceduto il capitalismo –la società feudale– i rapporti di mercato hanno subito uno sviluppo enorme trasformando le relazioni sociali sia da un punto di vista quantitativo, sia qualitativo. • Per comprendere meglio il ruolo del mercato nelle diverse forme sociali, analizziamo, seppure in termini molto generali, l’organizzazione della società feudale e il ruolo che in essa svolgeva il mercato. • Tre classi sociali: nobiltà, clero e servi della gleba. I nobili detengono il potere politico. I servi della gleba sono obbligati a fornire le corvées, ossia devono dedicare parte del loro tempo di lavoro ai nobili, ai quali va tutto il prodotto delle terre padronali (fondi dominici). I servi della gleba pagano inoltre le decime al clero, che sono una forma di tassa pari a circa un decimo del prodotto. Quello che rimane è utilizzato dal servo della gleba e la sua famiglia per il sostentamento. L’attività economica è tutta organizzata attorno al nobile e il suo castello dal quale domina le terre circostanti. Le famiglie nobiliari costituiscono in gran parte unità produttive autosufficienti. • Il mercato riguarda solo una parte minima degli scambi che avvengono nella società e riguarda quasi esclusivamente scambi che non sono strettamente necessari alla sopravvivenza delle singole unità produttive e alla riproduzione del sistema. I servi della gleba consumano direttamente il prodotto delle terre servili e non hanno modo di entrare in possesso di denaro. Le decime sono pagate in natura. I nobili ottengono il prodotto delle terre padronali in natura e solo una parte di questo viene scambiato sul mercato per 15 lo più in cambio di prodotti manufatti provenienti da artigiani che vivono nelle vicinanze del castello, nel dominio del nobile; un’altra parte viene invece da lontano (pietre preziose, spezie, tessuti). • La transizione al capitalismo è avvenuta con tempi diversi nei diversi paesi. Prima in Olanda e in Inghilterra intorno al XVII secolo, più lentamente in altri paesi. • Fattori che hanno inciso sul processo di transizione: 1. Crescita degli scambi, crescita delle città (in cui si sviluppa l’artigianato e in cui si riversano i servi della gleba che fuggono dalle campagne). 2. Sviluppo dei commerci a lunga distanza (che aumenta i desideri dei nobili, i beni oggetto di scambio sul mercato e lo sfruttamento dei servi della gleba, dando luogo a rivolte e fughe di massa dalle campagne). 3. Nascita del putting out system (sistema di lavoro a domicilio in cui il mercante porta ai suoi lavoranti le materie prime e poi ritira il prodotto pagando in forma di denaro un salario al livello di sussistenza). 4. Prima rivoluzione agricola (inizio XVIII secolo). Si diffonde l’allevamento del bestiame e del pascolo. Diminuisce il numero di lavoratori agricoli allontanando i servi della gleba dalle terre che fino ad allora avevano coltivato. Le terre vengono recintate permettendo ai nobili di ottenere maggiori redditi grazie alle nuove tecnologie agricole. Nasce così la proprietà privata della terra (il dominio politico del nobile sulla regione si trasforma in un diritto esclusivo allo sfruttamento economico della terra) e quello che Marx chiamerà l’esercito industriale di riserva (esercito di potenziali lavoratori disponibili per quei mercanti che decidono di sviluppare una propria attività manifatturiera). Si instaura così il rapporto di lavoro salariato e la separazione tra lavoratore e proprietà dei mezzi di produzione. • I cambiamenti non sono solo quantitativi, ma anche qualitativi: i fenomeni descritti modificano infatti le istituzioni stesse che regolano l’interazione sociale, portando alla scomparsa delle istituzioni feudali e all’instaurarsi di istituzioni capitalistiche. • Il capitalismo si regge sul rapporto di lavoro salariato. L’estendersi dei rapporti di mercato supera gradualmente gli scambi occasionali di particolari beni e il mercato tende a diventare la principale istituzione che regola i rapporti tra i cittadini. Al mercato non vanno più soltanto le eccedenze rispetto alle capacità di autoconsumo, come nel feudalesimo. La vendita sul mercato diventa invece l’obiettivo stesso della produzione. Il 16 progressivo estendersi dei mercati tende ad abbracciare sempre nuovi aspetti dei rapporti sociali. • Ma il vero salto qualitativo si ha con l’emergere del mercato del lavoro, in cui è possibile comprare e vendere le prestazioni lavorative, e con l’affermarsi della compravendita della forza lavoro come principale forma di produzione delle merci. Questa trasformazione modifica sostanzialmente i rapporti sociali facendo dipendere l’esistenza di ampi strati della popolazione –i lavoratori– dai rapporti di mercato. • Il processo di emersione del mercato del lavoro è particolarmente violento ed è importante ricordare che tanto nella letteratura marxista, quanto in quella non marxista, gli storici hanno evidenziato la resistenza della società civile all’instaurazione dei rapporti di mercato. Affinché infatti potesse crearsi un mercato del lavoro, fu necessaria l’espropriazione dei lavoratori i quali, mentre si liberavano dei vincoli imposti dalle istituzioni feudali, si trovavano al tempo stesso privi di qualsiasi mezzo per sopravvivere e furono quindi costretti a vendere la propria forza lavoro al miglior offerente. Con la trasformazione della forza lavoro in merce da scambiarsi sul mercato, la vita stessa dei lavoratori diventa soggetta alle dinamiche imposte dalle leggi del mercato, le quali si affermano indipendentemente dalla volontà e dai desideri dei singoli soggetti economici. La separazione tra lavoro e mezzi di produzione è quindi la caratteristica fondamentale delle società capitaliste. • La divisione in classi sociali che viene a prevalere è in tre classi: capitalisti, lavoratori e proprietari terrieri. I capitalisti sono i proprietari dei mezzi di produzione, pagano un salario ai lavoratori e sono proprietari del prodotto del processo produttivo. La vendita sul mercato di tale prodotto, in condizioni normali, consente al capitalista di ottenere un profitto. I proprietari terrieri ottengono una rendita come remunerazione dell’affitto della terra. I lavoratori ottengono un salario in forma monetaria che spendono nell’acquisto di beni necessari alla sussistenza. • Questa divisione in classi ovviamente evolve nel tempo e assume configurazioni diverse nei diversi contesti: ad esempio diversi individui possono percepire redditi in parte da capitale e in parte da lavoro e le dimensioni delle tre classi possono essere assai diverse se si confrontano diversi periodi o diversi paesi. In particolare il ruolo dei proprietari terrieri è diminuito notevolmente nel corso della storia del capitalismo e la struttura interna della classe capitalista è diventata più articolata, con la separazione più o meno netta tra 17 capitale industriale e capitale finanziario. La divisione in classi sociali rimane comunque il tratto distintivo del modo di produzione capitalistico che è l’oggetto del nostro corso. • Fattori che hanno inciso sull’aumento di produttività nello sviluppo del capitalismo: 1. Invenzione della macchina a vapore che costituisce l’aspetto principale della rivoluzione industriale basata sul sistema di fabbrica che consente una stretta sorveglianza del capitalista-imprenditore sui lavoratori (disciplina, orari rigidi, ritmi di lavoro controllati). 2. Seconda rivoluzione agricola basata sull’introduzione delle macchine nel lavoro dei campi e sull’uso dei fertilizzanti artificiali ottenuti grazie ai progressi della chimica. 3. Produzione su larga scala dell’energia elettrica e suo utilizzo in numerosi campi (illuminazione, forza motrice per i macchinari industriali). 4. Più di recente: micreoelettronica e informatica che permettono lo sviluppo dell’automatizzazione e modificano i rapporti di lavoro nelle fabbriche e negli uffici. 5. Trasporti: passaggio dalla diligenza al treno, dalle navi a vela a quelle a vapore, diffusione dell’automobile e del trasporto aereo. 6. Comunicazioni: telegrafo e telefono, radio e televisione, fax e posta elettronica. 18 3. L’impostazione moderna allo studio dell’economia [Bibliografia di riferimento: Sloman, introduzione] IL “PROBLEMA ECONOMICO” • L’impostazione di fondo dei moderni manuali di economia è quella dell’approccio marginalista integrato con la teoria keynesiana. Nel menzionare i problemi economici si parla di moneta, produzione, consumo, ma non si parla invece di distribuzione del reddito, la quale, come abbiamo visto, è il grande tema degli economisti classici, né delle questioni di sfruttamento e alienazione, care a Marx. • Il problema economico fondamentale è la scarsità e tutte le questioni economiche sono presentate in termini di equilibrio tra domanda e offerta. Nella microeconomia i concetti di domanda e di offerta sono riferiti ai singoli individui, nella macroeconomia la domanda e l’offerta sono invece concetti aggregati, che si riferiscono cioè ad aggregati di individui. • Microeconomia. La microeconomia studia il comportamento dei singoli soggetti (consumatori, imprese) e da esso deriva le leggi di funzionamento della società nel suo complesso. Ogni società, implicitamente o esplicitamente, effettua tre tipi di scelte: quali beni produrre, come produrli, per chi produrli. La microeconomia risponde a queste domande prendendo come punto di partenza le scelte individuali e valutandole dal punto di vista individualistico. • Macroeconomia. La macroeconomia studia invece direttamente il comportamento di aggregati, come il reddito nazionale, gli investimenti, i consumi e i problemi che si affrontano sono quelli dell’inflazione, della crescita della produzione, della disoccupazione, dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti. LA FRONTIERA DELLE POSSIBILITÀ PRODUTTIVE • Consideriamo un sistema semplificato in cui esistono solo due beni x1 e x2. Se tutte le risorse produttive esistenti (lavoro, capitale, terra) fossero utilizzate per produrre x1, utilizzando le tecniche più efficiente, si otterrebbero 7 milioni di unità di x1. Alternativamente, se tutte le risorse fossero utilizzate per produrre x2, si otterrebbero ottenendo 8 milioni di unità di x2. esistono poi tutta una serie di casi intermedi in cui parte delle risorse è utilizzata per produrre x1 e parte è utilizzata per produrre x2. L’insieme delle combinazioni di x1 e x2 che possono essere realizzate efficientemente con le risorse 19 esistenti prende il nome di “frontiera delle possibilità produttive”. Tale insieme può essere rappresentato graficamente come una curva decrescente sul piano cartesiano (x1, x2). • Il concetto di frontiera delle possibilità produttive può essere utilizzato per esprimere alcuni concetti tipici della microeconomia e della macroeconomia. • In microeconomia, si parla di costo-opportunità. Come vedremo, secondo l’approccio microeconomico, ogni scelta comporta il sacrificio delle altre alternative possibili. La migliore alternativa tra quelle scartate costituisce il “costo-opportunità” della scelta. In questo caso il costo opportunità esprime il numero di unità di x1 cui si deve rinunciare per incrementare di un’unità la produzione di x2. Secondo un’ipotesi diffusa, la frontiera delle possibilità produttive è concava, il che significa che il costo-opportunità è crescente. • In macroeconomia, il concetto di frontiera delle possibilità produttive può essere utilizzato per evidenziare i problemi di un sottoutilizzo delle risorse produttive. In tal caso, il sistema non riesce a realizzare combinazioni produttive sulla frontiera e porta invece alla produzione di punti interni alla frontiera. LO SCAMBIO DI MERCATO COME FENOMENO NATURALE • Tutto questo apparato teorico, comprendente la macroeconomia e la microeconomia, si basa sull’ipotesi che gli individui abbiano una propensione naturale a scambiare e a perseguire il guadagno personale e che i rapporti di mercato emergano spontaneamente come risposta a tali propensioni naturali. • Questo modo di vedere le cose non è esente da critiche. 1. Che la scarsità sia un problema universale caratteristico di tutte le società è un fatto contestato dagli storici economici i quali evidenziano invece come la scarsità sia un fenomeno tipico della società capitalista per due ragioni: primo, col balzo in avanti nella produzione della ricchezza realizzato con l’avvento del capitalismo si è avuto parallelamente un balzo in avanti nella produzione della povertà; secondo, la scarsità delle risorse è definita in relazione all’ipotesi di bisogni illimitati, i quali tuttavia nelle società precapitalistiche erano di fatto limitati e determinati da fattori legati alla tradizione. 2. La stessa ipotesi fondamentale dell’economia ortodossa secondo cui la società di mercato nasca dalla propensione naturale dell’uomo allo scambio (come riteneva Smith e come ritengono gli economisti neoclassici) non trova alcun riscontro storico: come sostiene lo storico economico Karl Polanyi gli atti individuali di baratto erano 20 del tutto eccezionali nelle società primitive e nei grandi imperi come l’antico Egitto, Roma, la Cina e l’Europa medievale, i quali si basavano invece su meccanismi sociali di distribuzione indipendenti dallo scambio diretto tra singoli soggetti. 3. La propensione allo scambio, che l’individuo della società capitalista percepisce come naturale, si sviluppa invece solo col procedere del capitalismo. Partire dallo scambio isolato come fondamento del mercato è dunque un falso storico. 4. Lo stesso commercio a lunga distanza non era affatto basato sul mercato e lo scambio di equivalenti, bensì sulla rapina, l’espropriazione violenta, il colonialismo. In altri casi, gli scambi avvenivano senza alcun meccanismo di “do ut des”, ma semplicemente in forma di dono. 5. L’ipotesi che il movente dell’attività economica sia il guadagno personale è anch’essa storicamente falsa e può essere considerata valida soltanto all’interno dell’interazione sociale di tipo capitalistico. 21 I ECONOMIA CLASSICA E MARXIANA 1. La concorrenza [Bibliografia di riferimento: Cassetti, capitolo 1] • Il concetto di concorrenza e la teoria economica. • Due fattori generali determinano la concorrenza: 1. l’esistenza di un beneficio scarso, insufficiente a soddisfare tutti i partecipanti all’interazione sociale; 2. un atteggiamento conflittuale, non solidale, tra soggetti interscambiabili tra loro. • I rapporti tra interesse personale e benessere sociale costituiscono l’interrogativo fondamentale della ricerca economica e le diverse teorie della concorrenza forniscono risposte diverse a tale interrogativo. • Non essendoci nessuna istituzione che coordina esplicitamente le decisioni individuali di produzione e di consumo, come mai il risultato empirico non è il caos? La risposta di Smith è che la concorrenza è un meccanismo che tende a rendere coerenti (ex post) le decisioni individuali ed è perciò grazie alla concorrenza se nel sistema di mercato le decisioni individuali si ricompongono in modo armonioso. • La risposta che daranno in modo in parte diverso Marx e Keynes è che il fatto che nel capitalismo non si generi il caos non è completamente vero, visto che tutti i sistemi capitalisti sono caratterizzati da ricorrenti crisi e difficoltà di impiegare tutte le risorse disponibili. Secondo Marx e Keynes, queste difficoltà dipendono dai limiti stessi della concorrenza come meccanismo dominante di coordinamento delle decisioni individuali. 22 2. La concorrenza come meccanismo di armonia sociale in Adam Smith [Bibliografia di riferimento: Cassetti, capitolo 2] • Due opere principali: Teoria dei sentimenti morali e Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (comunemente chiamato La ricchezza delle nazioni). • Il teorema della mano invisibile: l’interazione tra individui egoisti che perseguono il proprio interesse personale produce risultati economici socialmente desiderabili a patto che non ci siano barriere economiche o restrizioni istituzionali al perseguimento delle attività economiche e all’operare della concorrenza. • Il concetto di sovrappiù e la teoria del valore. Consideriamo un processo produttivo in cui si produce grano a mezzo di grano e lavoro: a⊕l→b a = quantità di grano immessa nel processo produttivo; l = quantità di lavoro immessa nel processo produttivo; b = quantità di grano ottenuta dal processo produttivo. Indichiamo con w il salario per unità di lavoro espresso in termini di grano, o saggio di salario (reale) e assumiamo che esso sia un dato del problema e che sia fissato al livello di sussistenza del lavoratore. S = b – (a + wl) S é il sovrappiù, cioè la parte del prodotto che eccede la necessità di sussistenza dei lavoratori e la ricostituzione dei mezzi di produzione. Il sovrappiù può essere consumato dai capitalisti e dai proprietari terrieri o può essere reinvestito. In quest’ultimo caso si ha un sistema in espansione in cui la produzione aumenta di anno in anno (produzione su scala allargata). • La capacità di produrre un sovrappiù deriva dal lavoro, non dalla terra come ritenevano i fisiocrati. Il lavoro è la fonte della ricchezza. 23 • L’estendersi della divisione del lavoro è la principale causa dell’aumento della produttività del lavoro. • Il sovrappiù si forma in tutti i settori e la sua dimensione dipende dal grado di sviluppo dalla divisione del lavoro. In un sistema in cui si producono beni di diversa natura si pone un problema nella misurazione del sovrappiù: i beni prodotti (output) e i beni utilizzati come mezzi di produzione (input) possono essere diversi il che rende problematico determinare il sovrappiù in termini fisici e rapportarlo ai mezzi di produzione per ottenere una misura del saggio di profitto. (NB: anche in presenza di input e output comprendenti lo stesso insieme di beni, è sufficiente che la composizione dell’output e quella dell’input siano diverse a impedire una misurazione del saggio di profitto in termini fisici). • Esprimendo i diversi input e output in termini di valore è possibile misurare il sovrappiù e calcolare il saggio di profitto. • Problema del valore: come si determina il valore delle merci? Valore d’uso e valore di scambio: il valore d’uso è la proprietà di un bene di soddisfare un dato bisogno; il valore di scambio è il rapporto con cui una quantità di un bene si scambia sul mercato con quantità di altri beni (prezzo relativo). • Lavoro contenuto. Smith: “In ogni tempo e luogo è caro ciò che costa molto lavoro, è a buon mercato ciò che si può avere con pochissimo lavoro”. • Consideriamo un modello grano standardizzato (in cui cioè i parametri siano definiti in modo tale che l’output sia pari ad un’unità): a⊕l→1 a = quantità di grano immessa nel processo produttivo; l = quantità di lavoro immessa nel processo produttivo; b = 1 (si ottiene un’unità di grano dal processo produttivo). • Si può utilizzare anche la seguente notazione più compatta: [a, l] → 1 con a < 1 come condizione affinché il processo sia vitale. • Introduciamo l’ipotesi di rendimenti di scala costanti: 24 [αa, αl] → α • per ∀ α > 0. Con queste ipotesi, determiniamo il lavoro contenuto in un’unità di grano: [a, l] → 1 [a2, al] → a [a3, a2l] → a2 … [an, an-1l] → an-1 … si tratta di una serie geometrica di ragione a, la quale è pari a l/(1 – a), se, come nel nostro caso, a < 1: λ = l + al + a2l + a3l + … + an-1l + … = l/(1 – a) Come si vede il lavoro contenuto (λ) è maggiore del semplice lavoro diretto (l). • Secondo Smith il concetto di lavoro contenuto tiene conto solo dei redditi da lavoro, ma non tiene conto del profitto e della rendita, i quali sono centrali nel capitalismo. Se infatti tutto il valore prodotto dal lavoro andasse al lavoratore in forma di salario, non ci sarebbe spazio per il profitto e la rendita. Affinché possano esistere altre categorie di reddito accanto al salario, il prezzo del bene non può essere pari ai salari pagati per produrre il bene stesso. NB: nella teoria classica per profitto non si intende la remunerazione del capitalista per la sua attività di direzione e coordinamento del processo produttivo, bensì si intende la quota di reddito di cui il capitalista si appropria in virtù dell’aver anticipato il capitale. È per questo, come vedremo in un attimo, che nel definire il saggio di profitto si rapporta il profitto al capitale anticipato. • Lavoro comandato. Il valore di una merce è determinato dal lavoro che essa può acquistare (non dal lavoro che è occorso per produrla): λcom = p/w. • w è il saggio di salario monetario: quantità di moneta per unità di lavoro (w = wp). • Smith si riferisce allo scambio di merci contro lavoro, lo scambio capitalistico per eccellenza, quello tra capitalisti e lavoratori. 25 • Che relazione esiste tra λ e λcom ? Vogliamo dimostrare che λ < λcom. Il lavoro che si può acquistare vendendo una merce è maggiore del lavoro occorso per produrla. La ragione è che il prezzo della merce può scomporsi in tre componenti: la parte che remunera il lavoro (salario), quella che remunera il capitale (profitto) e quella che remunera la terra (rendita). Solo nel caso in cui tutto il reddito ricavato dalla vendita del prodotto andasse interamente al lavoro, il lavoro comandato sarebbe uguale al lavoro contenuto. Qualora invece esistano parti del valore prodotto che sono attribuite al capitalista (il profitto) o al proprietario terriero (la rendita), il reddito del lavoratore (il salario) non può che diminuire. In questo modo, il capitalista che vende al prezzo p una merce che contiene λ ore di lavoro, riceve una quantità di denaro superiore rispetto a quella necessaria a remunerare il lavoro. Questo significa che la quantità di lavoro che il capitalista comanda (λcom) è superiore al lavoro contenuto nella merce (λ). • Consideriamo la relazione tra λ e λcom in termini analitici. Tralasciando per semplicità la rendita, il prezzo può essere espresso come somma dei costi sostenuti per produrre la merce, più un profitto di cui si appropria il capitalista (avendo egli anticipato i mezzi di produzione). Ricavi ≡ costi + profitti In termini unitari (dividendo per q): p ≡ costi unitari + profitti unitari. Per avere una misura del guadagno del capitalista, il profitto viene riferito alla quantità di capitale anticipato. Si definisce allora il saggio del profitto (r): r = profitti / valore del capitale anticipato. Il prezzo può allora essere espresso così: p = (pa + wl)(1 + r) 26 dove: (pa + wl) è il costo unitario e r(pa + wl) è il profitto unitario [NB: nel testo di Cassetti c’è un errore di battitura a pag. 22. Non è (pa + wλ) il costo unitario e r(pa + wλ) il profitto unitario]. Per confrontare λ e λcom conviene riscrivere l’equazione del prezzo come segue: p = (pa + wl)(1 + r) = pa(1 + r) + wl(1 + r) Consideriamo ora il lavoro comandato: λcom = p/w = (p/w)a(1 + r) + l(1 + r) (p/w) [1 – a(1 + r)] = l(1 + r) (p/w) = l(1 + r) / [1 – a(1 + r)] = l / [1/(1 + r) – a] Ricordando che λ = l/(1 – a) e che 1/(1 + r) < 1, segue che: 1. λcom ≥ λ 2. λcom = λ solo se r = 0. • Si noti che il lavoro comandato può fare da misura del valore di scambio delle merci ma non può spiegare quest’ultimo poiché esso dipende da p e w che sono altri valori di scambio. Il lavoro comandato non può quindi risolvere il problema del valore inteso come problema di determinare gli elementi che fanno sì che una merce abbia un certo valore: se per determinare il valore di scambio di una merce (il prezzo) si deve già conoscere il suo prezzo, la teoria risulta contraddittoria e il ragionamento diventa circolare. • La questione è che il lavoro contenuto e il lavoro comandato rispondono a due interrogativi diversi: con il concetto di lavoro contenuto si tenta di spiegare il valore di scambio delle merci (i loro prezzi); con il concetto di lavoro comandato si fornisce invece semplicemente una misura alternativa (rispetto a quella monetaria) del valore di scambio delle merci. • Questa distinzione non è chiara in Smith, il quale invece propone di utilizzare il lavoro comandato anche come teoria del valore di scambio delle merci. A tale scopo Smith elabora una teoria additiva del valore secondo cui le tre componenti del prezzo (salario unitario, profitto unitario e rendita unitaria) gravitano attorno ai loro livelli naturali. 27 • Il prezzo che consente di pagare i salari, i profitti e le rendite ai loro saggi naturali prende il nome di prezzo naturale, che si distingue dal prezzo di mercato il quale è il prezzo effettivo prevalente sul mercato. Il prezzo naturale forma l’oggetto dell’analisi di Smith poiché è verso di esso che il sistema gravita continuamente. Lo scopo è quindi quello di distillare le forze dominanti e persistenti che muovono il sistema economico, astraendo dai fattori secondari e contingenti che influiscono giorno per giorno sui prezzi di mercato. • Il salario naturale è determinato dal livello di sussistenza dei lavoratori. Quando il salario reale differisce dal salario naturale entrano in gioco due tipi di meccanismi: fattori istituzionali (diverse capacità di coalizzarsi e di condurre un conflitto da parte dei lavoratori e dei capitalisti) e fattori demografici (nel breve periodo i salari sono stimolati dalla domanda, il che fa aumentare la popolazione riportando il salario verso il livello di sussistenza). Il salario naturale è perciò quel livello del salario che consente alla domanda e all’offerta di lavoro di crescere allo stesso tasso. La teoria del salario di Smith, per molti versi, anticipa la teoria della popolazione di Malthus. • Per effetto della concorrenza tra i capitalisti, se esiste libertà nel trasferire i capitali da un ramo produttivo all’altro, il tasso di profitto tenderà ad uguagliarsi in tutti i settori. La concorrenza tra acquirenti e tra venditori assicura che il prezzo di mercato graviti attorno al prezzo naturale (breve periodo). La concorrenza tra i capitalisti assicura l’uniformità del saggio di profitto (lungo periodo). La possibilità che il prezzo effettivo si mantenga ad un livello superiore rispetto al prezzo naturale (e che i saggi di profitto non siano uniformi) dipende dall’esistenza di asimmetrie informative (segreti che impediscano ai capitalisti di conoscere i saggi di profitto in tutti i settori) e regolamentazioni dei mercati (che istituzionalizzino il monopolio o comunque restringano la concorrenza ad un numero limitato di partecipanti). • La libera circolazione del lavoro e del capitale spinge i salari e i profitti verso i loro saggi naturali e fa tendere il prezzo di mercato verso il prezzo naturale. Il mercato tende quindi ad autoregolarsi. La ricerca del guadagno personale è il fattore trainante del sistema. • Non esiste in Smith una vera e propria teoria del livello naturale della rendita. • In ogni caso, dal punto di vista della determinazione del valore di una merce, il problema della teoria dei prezzi naturali è che salario, profitto e rendita sono essi stessi dei valori. 28 3. La concorrenza e il conflitto tra capitalisti e proprietari terrieri in David Ricardo [Bibliografia di riferimento: Cassetti, capitolo 3] • Approvazione delle leggi sul grano nel 1816: tariffe doganali che impediscono di fatto l’importazione di derrate alimentari più a buon mercato all’estero. Questo tiene alta la rendita a scapito dei profitti (essendo i salari già al livello di sussistenza). • Abolizione delle leggi sul grano nel 1846: egemonia politica della borghesia. • Per Ricardo il problema fondamentale dell’economia politica è la determinazione delle leggi che regolano la distribuzione del reddito tra le classi sociali. • Secondo Ricardo il saggio di profitto dell’intera economia dipende dal saggio di profitto del settore agricolo, nel quale si producono i beni di sussistenza che costituiscono il salario dei lavoratori. • Per determinare il saggio di profitto nel settore agricolo, si deve determinare innanzi tutto la rendita agricola. • MODELLO GRANO: esistono terre con diversi gradi di fertilità. La produttività in termini di grano si misura sulle ordinate, mentre sulle ascisse si misura la quantità di lavoro utilizzata su ciascuna terra. MODELLO GRANO (SENZA RENDITA) G ΠA ΠB ΠC ΠD WC WD w WA LA WB L1 LB L2 LC L3 LD L4 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 29 L LA = L1 è il numero di lavoratori sulla terra A. LB = L2 – L1 è il numero di lavoratori sulla terra B. … LA ⋅ GA è la produzione complessiva sulla terra A. LB ⋅ GB è la produzione complessiva sulla terra B. … • Il saggio di salario reale w sia dato e fissato al livello di sussistenza. • Monte salari (Wi): ammontare dei salari pagati ai lavoratori della terra i (i = A, B, C, D). Essendo dato il saggio di salario reale w, il monte salari è pari a: WA = LA ⋅ w WB = LB ⋅ w … • Monte profitti (Πi): ammontare dei profitti ottenuti sulla terra i (i = A, B, C, D). Se non ci fossero rendite: ΠA = (GA – w) LA ΠB = (GB – w) LB … ⇒ il saggio di profitto sarebbe più alto per le terre più fertili: rA > rB > rC > rD dove ri = Πi/Wi , i = A, B, C, D (Πi e Wi sono rispettivamente il profitto totale e il capitale anticipato sulla terra i). Tuttavia, la concorrenza tra capitalisti per ottenere le terre più fertili porterà questi ad offrire affitti più elevati, il che, nel lungo periodo, imporrà un saggio di profitto unico su tutte le terre (quello prevalente sulla terra meno fertile, chiamata anche terra marginale): 30 rA = rB = rC = rD. • La rendita fondiaria sarà perciò maggiore sulle terre più fertili e poi via via minore, fino ad essere nulla sulla terra marginale. MODELLO GRANO G RB RA ΠA RC ΠB ΠC ΠD WC WD w WA WB L1 L2 L3 L4 L Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Grazie all’ipotesi che la produzione di grano richiede come input solo grano e lavoro (e non anche altre merci) è possibile calcolare il sovrappiù agricolo in termini fisici e, rapportandolo al grano usato come input, il saggio di profitto. Una volta determinato il saggio di profitto nel settore agricolo (in termini fisici, senza conoscere i prezzi delle merci), la concorrenza tra capitalisti porterà questo saggio di profitto ad estendersi anche all’industria, determinando il prezzo relativo tra grano e prodotti industriali. In altri termini il valore di scambio tra grano e prodotti industriali sarà fissato al livello che garantisce l’uniformità del saggio di profitto nei diversi settori. • Da un punto di vista dinamico, se si immagina che col procedere dello sviluppo economico vengano coltivate terre via via meno fertili, il saggio di profitto nell’agricoltura tenderà a diminuire progressivamente (poiché compresso tra un saggio di salario dato e una rendita unitaria crescente), facendo diminuire il saggio di profitto dell’intera economia. Inoltre il fatto che le rendite (che tendono ad aumentare col procedere dello sviluppo) siano destinate al consumo o all’investimento improduttivo 31 sottrae risorse utilizzabili per l’accumulazione del capitale, il quale costituisce il motore dello sviluppo. In questo modo l’economia tende verso la stato stazionario (stato in cui il tasso di crescita dell’economia è pari a zero). Questa prospettiva può tuttavia essere allontanata dal progresso tecnico, al quale comunque Ricardo non assegna un’importanza particolare. TENDENZA VERSO LO STATO STAZIONARIO G w RA RB RC RD ΠA ΠB ΠC ΠD ΠE WC WD WE WA WB L1 L2 L3 L4 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • L5 L Vediamo in termini formali come si determinano le variabili distributive e i prezzi. MODELLO GRANO: si abbiano tre tipi di terra (A, B, C) caratterizzati da livelli crescenti di produttività su cui si utilizzano tecnologie a rendimenti di scala costanti. [ai, li] → 1 i = A, B, C. Terra A: [aA = 0.3, lA = 0.10] → 1 Terra B: [aB = 0.3, lB = 0.15] → 1 Terra C: [aC = 0.3, lC = 0.20] → 1 • In assenza di rendite, i prezzi sarebbero i seguenti: p = (pai + wli)(1 + ri) 32 i = A, B, C e i saggi di profitto sarebbero: ri = [p – (pai + wli)] / (pai + wli) i = A, B, C. Il salario reale w sia pari a 2 unità di grano: w = 2. Ponendo p = 1 (⇒ w = w = 2): rA = 100 % • rB = 66 % rC = 43 %. La concorrenza tuttavia impone l’uniformità dei saggi di profitto pari a quello sulla terra marginale (la terra C): rA = rB = rC = 43 %. La rendita sulle terre A e B sarà data perciò da: ρi = p – (pai + wli)(1 + rBi) • MODELLO GRANO-FERRO. i = A, B. Supponiamo ora che accanto al settore agricolo che produce grano esista un settore industriale che produce ferro. Supponiamo anche che il grano sia utilizzato come mezzo di produzione del ferro, mentre il ferro non sia utilizzato nella produzione del grano. Possiamo allora rappresentare il sistema economico con due espressioni relative al processo di produzione di grano (sulla terra marginale) e al processo di produzione di ferro: [a11, l1] → 1 unità di grano [a12, l2] → 1 unità di ferro dove a11 e a12 sono rispettivamente le quantità di grano necessarie a produrre un’unità di grano e un’unità di ferro. Il sistema dei prezzi è allora il seguente: 33 p1 = (p1a11 + wl1)(1 + r) p2 = (p1a12 + wl2)(1 + r) Il sistema contiene tre incognite (p1, p2 e r, mentre w è dato). Fissiamo il prezzo del grano pari a 1. 1 = (a11 + wl1)(1 + r) p2 = (a12 + wl2)(1 + r) • L’idea di Ricardo, ricordiamolo, è che il saggio di profitto dell’intero settore agricolo è quello determinato sulla terra marginale (dove può essere calcolato in termini fisici) e che esso, per effetto della concorrenza tra i capitalisti nei diversi settori produttivi, si estenda all’intera economia. In effetti, con le ipotesi introdotte è possibile determinare r dalla sola prima equazione e poi sostituirlo nella seconda equazione per determinare p2. r = [1 – (a11 + wl1)] / (a11 + wl1) p2 = (a12 + wl2) / (a11 + wl1) • Come si vede, con la coltivazione di terre meno fertili, scende il saggio di profitto nel settore agricolo (r) e, per l’ipotesi di uniformità del saggio di profitto nell’economia, scende il prezzo del ferro (p2). • MODELLO DI SRAFFA. Si tratta di una generalizzazione del modello di Ricardo in cui ambedue i settori utilizzano come mezzi di produzione merci prodotte in ambedue i settori (in realtà nel modello di Sraffa si considerano n merci). Questo fa cadere la possibilità di determinare il saggio di profitto in termini fisici (nel solo settore agricolo) prima della determinazione dei prezzi relativi poiché ora l’output (il grano) e gli input (il grano e il ferro) sono beni eterogenei. • Con le ipotesi di Sraffa, il sistema diventa: p1 = (p1a11 + p2a21 + wl1)(1 + r) p2 = (p1a12 + p2a22 + wl2)(1 + r) 34 • A questo punto il saggio di profitto (r) deve essere determinato simultaneamente ai prezzi relativi (p1 e p2). Sraffa, a differenza di Ricardo, non tratta il saggio di salario (w) come fissato al livello di sussistenza. Fissando p1 = 1, rimangono tre incognite e due equazioni. Si hanno allora due possibilità: 1. Fissando w (come faceva Ricardo), si determinano p2 e r 2. Fissando r, si determinano p2 e w. • In ogni caso, si dimostra che tra w e r esiste una relazione monotona inversa. Questo risultato generalizza il risultato di Ricardo che, ricordiamolo, era basato su un modello ad un solo bene (grano). La determinazione esatta delle due variabili distributive dipende però da fattori esterni al modello (quali la forza contrattuale delle parti sociali). • Questo risultato evidenzia la natura conflittuale dei rapporti tra classi sociali e si contrappone all’idea di Smith secondo cui la concorrenza è un processo di interazione armoniosa che conduce al bene comune. 35 4. Concorrenza, sfruttamento e alienazione in Karl Marx [Bibliografia di riferimento: Napoleoni; Cassetti, capitolo 4] IL MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTA • Secondo Marx, tutte le società divise in classi sono caratterizzate da rapporti di sfruttamento (della classe che si appropria dei frutti del lavoro sulla classe che lavora). • La specificità del capitalismo rispetto agli altri modi di produzione non sta nell’esistenza in esso della proprietà privata e del mercato, ma nell’estensione della proprietà privata e del mercato alla sfera produttiva: il modo di produzione capitalista si regge sul lavoro salariato, il quale presuppone la proprietà privata dei mezzi di produzione e la mercificazione della forza lavoro (la sua trasformazione in merce). • Il lavoro salariato si basa sulla concorrenza tra lavoratori “liberi”. Ma, come sottolinea Marx, si tratta di una doppia libertà, tutta particolare: i lavoratori sono (1) liberi di vendere la propria forza lavoro sul mercato e (2) liberi, nel senso di non avere più vincoli rispetto alla terra e ai mezzi produzione da cui, nel rapporto feudale, traevano sostentamento. • La libertà giuridica di disporre di se stessi si affianca così alla necessità economica di vendere se stessi. L’altra faccia della medaglia di questa libertà è l’obbligo di cercarsi un padrone a cui vendere liberamente la propria forza lavoro. Questi sono i due aspetti contraddittori della libertà economica dei rapporti capitalistici. • Nella concezione marxiana, la libertà personale e l’uguaglianza giuridica, in presenza di un’asimmetria economica (il monopolio di classe della proprietà dei mezzi di produzione) sono i presupposti stessi dello sfruttamento. • Anzi, storicamente, è proprio la condizione di libertà giuridica, associata alla privazione del lavoratore della proprietà dei mezzi di produzione, che consente (giuridicamente) e impone (economicamente) ai lavoratori di vendere la propria forza lavoro come condizione di sopravvivenza. IL CAPITALISMO COME SISTEMA MISTIFICATO • Nel capitalismo, l'uguaglianza nei rapporti giuridici offusca l'asimmetria di classe nei rapporti economici. 36 • Scopo dell'indagine scientifica è allora spiegare le condizioni storiche di origine e di sviluppo del capitalismo e svelare l'essenza economica dei rapporti di sfruttamento, che si nascondono dietro l'apparenza del libero scambio. LA CRITICA DELL'ECONOMIA POLITICA • Invece di svelare l'essenza asimmetrica dei rapporti sociali, l'economia borghese presenta i rapporti capitalistici come rapporti naturali ed eterni. • Le condizioni capitalistiche sono così analizzate come se fossero universali, invece che come condizioni storiche transitorie. • L'economia politica finisce così per presentare il sistema esistente come espressione di rapporti necessari e immutabili. PRODUZIONE, CIRCOLAZIONE E SFRUTTAMENTO • Per quanto riguarda lo sfruttamento, la critica marxiana dell’economia politica borghese riguarda l’aver trascurato il processo produttivo, riducendo l’analisi economica allo studio del processo di circolazione. Questo impedisce di cogliere l’origine dello sfruttamento nella sfera produttiva e porta a ricercarne le cause nello scambio ineguale nella sfera della circolazione (monopolio, asimmetrie giuridiche, eccetera). • Lo sfruttamento, secondo Marx, nasce invece nella sfera della produzione, non in quella della circolazione. TEORIA DEL VALORE-LAVORO • Marx utilizza il concetto di lavoro contenuto come fondamento del valore di scambio. LAVORO E FORZA LAVORO • A differenza degli economisti che lo precedono, Marx distingue tra forza lavoro e lavoro. La forza lavoro è l’insieme di capacità fisiche ed intellettuali impiegate dai lavoratori nel processo produttivo, il quale si distingue dal lavoro effettivamente erogato. • Quello che il capitalista acquista dal lavoratore è la forza lavoro, non il lavoro. La forza lavoro è la sola merce da cui è possibile estrarre lavoro ed è perciò la sola merce che ha il potere di creare valore. 37 • Come per ogni altra merce utilizzata come input nella produzione, l’obiettivo del capitalista è quello di sfruttarne al meglio (in termini qualitativi) e al massimo (in termini quantitativi) il suo utilizzo nel processo produttivo. • L’estrazione della massima quantità di lavoro dalla forza lavoro è uno degli obiettivi del capitalista esattamente come è suo obiettivo estrarre la massima quantità di ferro da una miniera di ferro. LA COMPRAVENDITA DELLA FORZA LAVORO • Nel capitalismo, il processo di produzione è necessariamente preceduto da un momento importante nella sfera della circolazione: l’acquisto della forza lavoro da parte del capitalista. Questa compra-vendita, come la compra-vendita di qualsiasi altra merce, avviene ad un prezzo (il salario) esattamente equivalente al valore della forza lavoro (cioè al lavoro contenuto nei beni che il lavoratore deve consumare per conservarsi e mantenersi). Si tratta dunque di uno scambio di equivalenti. • Nel processo produttivo vero e proprio, il capitalista estrae poi dalla forza lavoro acquistata il lavoro che serve a valorizzare il capitale accumulato. Qui il capitalista entra in possesso di una quantità di lavoro maggiore di quella che ha pagato poiché la durata della giornata lavorativa è superiore al tempo di lavoro necessario a produrre i beni che formano il salario del lavoratore. • Quando si è completato il processo produttivo, il capitalista ha ottenuto dal lavoratore più lavoro di quello che gli ha anticipato in forma di salario: lo scambio è dunque tra entità disuguali. VALORE D'USO E VALORE DI SCAMBIO DELLA FORZA LAVORO • Il valore d’uso della forza lavoro, ossia il valore che si ottiene dall'uso della forza lavoro, è il lavoro incorporato nei beni prodotti dal lavoratore. Tuttavia il suo valore di scambio (il salario) è fissato, in base alla concorrenza tra i lavoratori, al livello di sussistenza. • La differenza tra il valore d’uso della forza lavoro e il suo valore di scambio definisce il plusvalore. 38 PLUSVALORE E SFRUTTAMENTO • Il plusvalore si crea perché il lavoratore lavora per un numero di ore maggiore rispetto alle ore di lavoro necessarie a produrre i beni salario che riceve come remunerazione del suo lavoro. Tale lavoro addizionale prende il nome di pluslavoro. • L’esistenza di un pluslavoro descrive la condizione di sfruttamento del lavoratore. • Nella produzione capitalistica, il pluslavoro viene appropriato dal capitalista in forma di profitto. Mentre il pluslavoro è comune a tutte le società divise in classi, il plusvalore (cioè il pluslavoro trasformato in valore di scambio) è tipico della società capitalista. • Il valore aggiuntivo di cui si appropria il capitalista dipende dalla peculiarità della forza lavoro rispetto a tutte le altre merci: la forza lavoro è la sola merce capace di creare valore. LEGGE DEL VALORE E SFRUTTAMENTO • Lo sfruttamento capitalistico non è affatto una violazione della legge generale del valore (il valore-lavoro). All’operaio non è affatto pagato meno di quello che gli spetti secondo la teoria del valore. Al contrario, è proprio il fatto che il capitalista acquista la forza lavoro pagandola al suo valore che gli consente di ottenere un profitto, mettendola a lavoro per un periodo superiore a quello necessario a reintegrare i mezzi di sussistenza che formano il salario reale. IL VALORE DELLE MERCI M=C+l M = C + V+ S • C = capitale costante o lavoro morto (lavoro indiretto contenuto nel bene). Il capitale costante è dato dall’insieme dei mezzi di produzione prodotti in un tempo precedente a quello del processo produttivo in esame. Il suo valore è quindi quello che si incorpora in tali mezzi di produzione e viene trasferito nel valore della merce prodotta. • l = V + S = lavoro diretto o lavoro vivo. Il lavoro diretto si suddivide in lavoro necessario, o capitale variabile (V), e plusvalore (S). • Il capitale variabile (V) è dato dai beni salario che remunerano la forza lavoro del lavoratore. Il suo valore è quindi quello che si incorpora nei beni che il lavoratore riceve 39 in forma di salario. Questa parte del capitale è chiamata “variabile” perché il valore che produce supera il proprio valore: tralasciando per un momento il capitale costante, C, il capitalista anticipa il capitale variabile V, il quale produce un valore pari a V + S). Questo accade perché il lavoratore lavora per un tempo superiore a quello strettamente necessario a riprodurre i beni che formano il suo salario. • Il plusvalore (S) è definito dalla differenza tra il valore prodotto dal lavoro diretto (l) e il lavoro necessario (V). Tale differenza (S = l – V) è l’espressione in valore del pluslavoro effettuato dal lavoratore. • Il rapporto tra plusvalore (S) e capitale variabile (V) definisce il saggio di plusvalore o saggio di sfruttamento: σ=S/V • Marx definisce inoltre la composizione organica del capitale come il rapporto tra capitale costante (valore dei mezzi di produzione) e capitale variabile (valore dei salari dei lavoratori): COC = C / V • Quando i capitali costante e variabile sono esaminati nei loro aspetti materiali (invece che in termini di valore) tale rapporto prende il nome di composizione tecnica del capitale. • Il saggio di profitto è dato dal rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo anticipato: r = S / (C + V) • Esempio. Consideriamo un processo produttivo in cui si produce 1 chilo di grano al giorno, con una giornata lavorativa di 8 ore (prendiamo la giornata lavorativa come unità temporale di riferimento). Un chilo di grano incorpora dunque 8 ore di lavoro diretto [l = 8]. In aggiunta a queste 8 ore di lavoro diretto, supponiamo che siano necessarie altre 4 ore di lavoro indiretto, incorporato nel grano utilizzato come semente, o capitale costante [C = 4]. 40 Il lavoro totale necessario alla produzione di 1 chilo di grano (M) è allora pari a 12 ore. In altri termini, 1 chilo di grano incorpora 12 ore di lavoro e quindi vale 12 ore di lavoro. Il salario reale giornaliero, per una giornata lavorativa di 8 ore, sia pari a 1/2 di chilo di grano. Allora, il lavoro necessario a riprodurre la giornata lavorativa del lavoratore (fatta di 8 ore) è pari a 6 ore [V = 6]. In altri termini, il mezzo chilo di grano che il lavoratore riceve come remunerazione della giornata lavorativa, o capitale variabile, incorpora (vale) 6 ore di lavoro. Il plusvalore (S) è dunque pari a due ore di lavoro, cioè alla differenza tra le 8 ore di lavoro della giornata lavorativa del lavoratore (l) e le 6 ore di capitale variabile [S = l – V = 8 – 6]. Il saggio di sfruttamento (σ) risulta quindi pari a ¼ [S / V = 2/8]. Con questi dati, l’equazione del valore (M = C + V + S) è la seguente: 12 = 4 + 6 + 2. PLUSVALORE, PROFITTO E SFRUTTAMENTO • Esaminiamo la relazione tra saggio di profitto e saggio di sfruttamento: r = S / (C + V) r = (S/V) / (C/V + V/V) r = σ / (COC + 1) • Dal confronto tra r e σ, Marx ricava tre proposizioni: 1. r > 0 ⇔ σ > 0 2. r ≤ σ ; r = σ solo se C = 0 (ossia se non esiste capitale costante) 3. r cresce al crescere di σ. LA TRASFORMAZIONE DEI VALORI IN PREZZI • Se i beni si scambiassero secondo i loro valori contenuti, in presenza di processi produttivi a diversa composizione organica del capitale, ma con uno stesso valore del capitale anticipato (C + V), il plusvalore (S) risulterebbe differente nei diversi settori. Infatti, per l’ipotesi di concorrenza tra i lavoratori, il saggio di sfruttamento (σ) tende ad essere uniforme nei vari settori economici, il che significa che il plusvalore generato in ogni settore è proporzionale al capitale variabile anticipato (S = σV). Ma, allora, se è diverso il 41 plusvalore, è diverso anche il tasso di profitto (r) nei vari settori, visto che per ipotesi il capitale totale anticipato nei diversi settori è lo stesso. • La concorrenza tra capitalisti impone invece l’uniformità del saggio di profitto. Infatti il capitalista nel decidere i propri investimenti guarda al saggio di profitto, cioè al profitto per unità di capitale investito [S / (C + V)], e la concorrenza tra capitalisti tende a rendere tale saggio uniforme. Perciò, se i settori hanno diverse composizioni organiche del capitale (Ci / Vi ≠ Cj / Vj), affinché possa realizzarsi un saggio del profitto uniforme [Si / (Ci + Vi) = Sj / (Cj + Vj)] il rapporto di scambio tra i beni (pi / pj) non può riflettere il rapporto tra i lavori contenuti (Mi / Mj). In altre parole i prezzi pi e pj non possono coincidere semplicemente con i valori contenuti Mi e Mj, bensì devono divergere da essi, in modo tale da garantire l’uniformità del saggio di profitto (ri = rJ). • Il fatto che i prezzi relativi siano uguali ai valori relativi solo in una circostanza molto particolare (quella in cui la composizione organica del capitale sia la stessa nei due settori) significa che, in generale, le merci non possono scambiarsi secondo i loro lavori contenuti. • Lo stesso problema può essere posto affermando che, in ipotesi di composizioni organiche del capitale diverse nei due settori, se le merci si scambiassero secondo i loro lavori contenuti, non potrebbe realizzarsi l’uniformità del saggio del profitto. Nello schema marxiano, infatti, l’uniformità del saggio di profitto richiede che il prezzo del bene prodotto nel settore a più alta composizione organica del capitale sia maggiore del lavoro contenuto nel bene stesso e che, viceversa il prezzo del bene prodotto nel settore a più bassa composizione organica del capitale sia minore del lavoro contenuto nel bene stesso. LA SOLUZIONE MARXIANA • Marx ritiene che il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione possa essere risolto mantenendo la derivazione del sistema dei prezzi a partire dal sistema dei valori (operazione centrale nella metodologia marxiana) e analizzando il trasferimento di plusvalore dai settori a bassa composizione organica del capitale verso i settori a più alta composizione organica del capitale come condizione necessaria per il livellamento dei saggi di profitto settoriali. • Definendo C / V come la composizione media del capitale dell’intera economia, Marx raggiunge le seguenti conclusioni: 1. se Ci / Vi > C / V ⇒ pi > Mi ; se Ci / Vi < C / V ⇒ pi < Mi. 42 2. Trattandosi di una pura redistribuzione intersettoriale del plusvalore: i profitti totali sono uguali al plusvalore totale. 3. Il valore complessivo delle merci rimane invariato se misurato in termini di lavoro incorporato o di prezzi di produzione. L’“ERRORE” DI MARX E LA SOLUZIONE “CORRETTA” • Nella letteratura marxista e non marxista, il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione è oggetto di acceso dibattito. Secondo l’interpretazione standard di tale dibattito, le tre conclusioni di Marx sono errate a causa di un’incoerenza logica dovuta al fatto che nelle equazioni di Marx i prezzi di produzione vengono introdotti per valutare gli output del processo produttivo, ma non anche gli input (come se, in Marx, gli input venissero pagati ai valori invece che ai prezzi di produzione). • La soluzione corretta del problema passa dunque per l’applicazione dei prezzi di produzione anche agli input (il primo economista a proporre tale modifica è l’economista russo Dmitriev, la proposta è poi sviluppata da Von Bortkiewicz e da Sraffa). • Tuttavia, in tal caso, non c’è alcun bisogno di partire dai valori-lavoro: i prezzi possono essere applicati direttamente alle quantità fisiche delle merci, il che fa cadere la logica marxiana secondo cui i valori precedono logicamente i prezzi e ne sono la causa profonda. La teoria del valore-lavoro sarebbe in tal caso semplicemente sbagliata e inutile. IL PROBLEMA DELLA TRASFORMAZIONE NEL DIBATTITO TEORICO • Il dibattito sul problema della trasformazione svolge un ruolo cruciale nel confronto tra approccio marxista e approcci alternativi. Secondo i critici più radicali della teoria marxista, il problema della trasformazione è sufficiente a far cadere l’intero edificio teorico marxiano. • Una posizione meno radicale e più coerente consiste nel lasciar cadere le implicazioni dell’impianto marxiano basate sulla teoria del valore-lavoro conservando tutte le altri parti della teoria marxiana e marxista che non dipendono da tale teoria (alienazione, lotta di classe, crisi, contraddizioni del capitalismo, materialismo storico, imperialismo, …). • Una terza linea, quella della “trasformazione corretta”, consiste nel modificare l’analisi marxiana dello sfruttamento sulla base della trasformazione di Von Bortkievicz e di Sraffa, evidenziando comunque la contrapposizione di interessi tra la classe sociale dei lavoratori e quella dei capitalisti. Ricordiamo infatti che, se si segue quest’impostazione, 43 valgono i risultati di Sraffa secondo cui esiste una relazione inversa tra saggio di salario e saggio di profitto. • Contro queste posizioni, alcuni economisti marxisti difendono la trasformazione marxiana sostenendo che essa non incorpori alcuna incoerenza logica e che, al contrario, il vizio logico sta in chi critica la teoria marxiana senza capirne la logica. Questi economisti sostengono che la soluzione di Von Bortkievicz – Sraffa risponde in realtà ad una domanda diversa da quella posta da Marx e che, invece, rispetto alla problematica marxiana, la trasformazione può essere risolta in modo coerente mantenendo la centralità della teoria del valore-lavoro. ESERCITO INDUSTRIALE DI RISERVA E CRISI • La teoria marxiana del salario è basata sull’esercito industriale di riserva. Nei periodi di espansione della domanda e della produzione, la concorrenza tra i capitalisti per accaparrarsi i lavoratori fa crescere i salari. L’aumento del prezzo della forza lavoro, facendo diminuire il tasso di profitto, rallenta l’accumulazione del capitale. Il ciclo si inverte e si ha la crisi, la quale non deriva da sproporzioni nella crescita dei diversi settori, ma dal fatto che la produzione realizzata non riesce ad essere venduta ai prezzi che i capitalisti si attendevano. Con la crisi, diminuisce la domanda di lavoro e si riforma l’esercito industriale di riserva, ponendo le basi per una nuova fase di accumulazione. • Nel corso di questi cicli si modificano i rapporti tra le classi sociali: la formazione di associazioni dei lavoratori e dei padroni modifica i rapporti di forza esistenti e può allontanare il salario dal livello di sussistenza; inoltre il progresso tecnico, in periodi di crescita salariale, tende a risparmiare lavoro. • La spiegazione marxiana della crisi, come crisi generale del sistema economico, è radicalmente diversa dalle spiegazioni ortodosse che si basano sul presupposto che tutto il reddito percepito dagli agenti del sistema economico sia speso. Secondo quest’ultima spiegazione, infatti, una caduta della domanda in un settore deve necessariamente accompagnarsi ad una crescita della domanda in altri settori (dato che si esclude la possibilità che il denaro possa essere tesaurizzato nel periodo corrente per essere speso in periodi futuri), cosicché la crisi non sarebbe mai generale, ma solo settoriale. 44 PRODUZIONE CAPITALISTICA E ALIENAZIONE • Nella critica del capitalismo, accanto al problema dello sfruttamento, Marx si sofferma sull'alienazione derivante dal processo di mercificazione. • Il processo produttivo ha due aspetti: processo lavorativo e processo di valorizzazione. • Nel processo lavorativo, il lavoratore utilizza i mezzi di produzione (materie prime, macchine, eccetera) per produrre valori d’uso, ossia beni utili a soddisfare determinati bisogni. • Nel processo di valorizzazione, lo scopo della produzione è la produzione di valori di scambio. Qui non è l’operaio che utilizza i mezzi di produzione, ma sono questi ultimi che utilizzano l’operaio. • Primo tipo di alienazione: i mezzi di produzione sono di proprietà altrui. Nel sistema capitalista, il lavoratore produce beni che non gli appartengono; la sua vita dipende così da fattori esterni, che il lavoratore non controlla e che, attraverso il meccanismo concorrenziale (che schiaccia il salario vero la sussistenza), si ritorcono contro il lavoratore stesso. • Secondo tipo di alienazione: il lavoro non usa gli strumenti per i propri fini, ma è esso stesso strumento di valorizzazione dei mezzi di produzione. La finalità ultima del sistema diventa la produzione di valori di scambio e la valorizzazione del capitale (la ricerca del profitto); il lavoro è solo il mezzo attraverso cui questo fine viene realizzato. 45 II MACROECONOMIA 1. Problematiche macroeconomiche [Bibliografia di riferimento: Sloman, capitolo 7] OBIETTIVI MACROECONOMICI • La macroeconomia si occupa di quattro temi fondamentali: la crescita del prodotto, l’occupazione, l’inflazione e i rapporti internazionali. A ciascun tema corrisponde un obiettivo di politica economica: crescita continua e stabile, piena occupazione, stabilità dei prezzi, equilibrio della bilancia dei pagamenti. Val la pena di notare che rispetto alla problematica degli economisti classici e di Marx i problemi affrontati sono completamente diversi: non si parla più di distribuzione del reddito, di classi sociali, di sfruttamento, di alienazione del lavoratore. • Per analizzare questi quattro obiettivi macroeconomici, consideriamo le componenti della domanda aggregata. La domanda aggregata è data dalla spesa totale per l’acquisto di beni e servizi effettuata dall’economia in un dato periodo: Yd = C + I + G + X Yd: Domanda aggregata C: Consumo delle famiglie I: Investimenti delle imprese G: spesa pubblica X: Esportazioni 46 • Attraverso gli strumenti di politica economica a disposizione del governo e della banca centrale è possibile influenzare queste quattro variabili ed influire così sugli obiettivi di politica economica. IL FLUSSO CIRCOLARE DEL REDDITO • Per evidenziare i legami tra le componenti della domanda aggregata consideriamo il flusso circolare del reddito. • I soggetti che vengono posti al centro dell’analisi sono le imprese e le famiglie. Tali soggetti sono in relazione tra loro attraverso rapporti di mercato. 1. Imprese → famiglie: le famiglie domandano beni e servizi (di consumo) alle imprese (i beni passano dalle imprese alle famiglie). 2. Famiglie → imprese: la moneta passa dalle famiglie alle imprese. 3. Famiglie → imprese: le imprese domandano l’uso dei fattori di produzione alle famiglie (i servizi dei fattori di produzione passano dalle famiglie alle imprese). 4. Imprese → famiglie: la moneta passa dalle imprese alle famiglie in forma di salari, rendite, dividendi e interessi. • Introduciamo ora il settore bancario, il settore pubblico e il settore estero. • Concentriamoci sui flussi di moneta. Riconsideriamo innanzi tutto il flusso diretto tra imprese e famiglie: 1. Famiglie → Imprese: le famiglie domandano beni e servizi (di consumo) alle imprese (la moneta passa dalle famiglie alle imprese); 2. Imprese → Famiglie: le imprese domandano l’uso dei fattori di produzione alle famiglie (la moneta passa dalle imprese alle famiglie in forma di salari, rendite, dividendi e interessi). • Introduciamo ora i flussi indiretti tra famiglie e imprese mediati dal settore bancario (S, I), il settore pubblico (T, G) e il settore estero (M, X). • Rispetto ai redditi ricevuti dalle famiglie, solo una parte ritorna alle imprese (nazionali) sotto forma di spesa in consumi (C). Il resto esce dal flusso diretto secondo tre modalità di prelievo: risparmio (S), tassazione (T) e importazioni (M). 4. Risparmio netto (S). Il risparmio delle famiglie viene depositato presso le banche. Esistono ovviamente anche flussi dalle banche verso le famiglie (prestiti alle famiglie). Per risparmio netto si intende il flusso netto dalle famiglie alle banche. 47 5. Imposte nette (T). Le famiglie e le imprese pagano le imposte al governo. Esistono comunque anche flussi dallo stato alle famiglie e alle imprese: i trasferimenti. Per imposte nette si intende il flusso netto pagato dalle famiglie e dalle imprese. 6. Importazioni (M). Parte dei beni di consumo acquistati proviene da imprese residenti all’estero. Inoltre parte dei beni prodotti all’interno contengono componenti importate. • D’altra parte, oltre ai consumi delle famiglie, la domanda che si rivolge ai beni prodotti dalle imprese nazionali deriva anche da fonti esterne al flusso ristretto del reddito. Le immissioni nel flusso ristretto sono di tre tipi: 1. Investimenti (I). Gli investimenti delle imprese comprendono gli acquisti in macchinari e impianti e le scorte di prodotti finiti, fattori produttivi e semilavorati. 2. Spesa pubblica (G). Lo stato oltre a effettuare trasferimenti alle famiglie e alle imprese (che rientrano nella voce imposte nette) acquista beni e servizi dalle imprese per costruire scuole, strade, ospedali, eccetera. 3. Esportazioni (X). Parte della produzione delle imprese nazionali è acquistata da soggetti residenti all’estero. IL FLUSSO CIRCOLARE DEL REDDITO IMMISSIONI X G IMPRESE I Pagamento dei fattori FLUSSO RISTRETTO Consumo di beni e servizi prodotti internamente Banche ecc. Settore pubblico Estero S T FAMIGLIE M PRELIEVI Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • L’equilibrio si ha quando i prelievi uguagliano le immissioni: S+T+M=I+G+X 48 • Questo non significa che debba essere anche: (S = I) • (T = G) (M = X) Le decisioni di investimento e di risparmio sono prese da soggetti diversi quindi non è detto che risparmio ed investimento debbano uguagliarsi ex ante, cioè come variabili programmate (S = I). Allo stesso modo, lo stato non deve necessariamente avere una politica di bilancio in pareggio (T = G), né la domanda programmata di beni di importazione deve necessariamente uguagliare quella di beni di esportazione (M = X). • Torniamo ai quattro obiettivi di politica economica. Se le immissioni ex ante risultano superiori ai prelievi ex ante si ha una domanda aggiuntiva (rispetto alla domanda di beni di consumo delle famiglie) che si rivolge alle imprese nazionali. Questo farà aumentare la produzione delle imprese e il reddito nazionale. Quindi si avrà: 1. Crescita del prodotto. 2. Aumento dell’occupazione (si ipotizza che esista una relazione diretta tra produzione e occupazione). 3. Inflazione (si suppone che le imprese nel tentativo di espandere la produzione incontrino costi crescenti soprattutto quando sono vicine al pieno utilizzo della capacità produttiva). 4. Peggioramento del saldo della bilancia dei pagamenti: se era in pareggio tenderà ad andare in deficit a causa della maggiore domanda di beni di importazione (si ipotizza che le importazioni aumentino all’aumentare del reddito mentre le esportazioni siano esogene e dipendenti dalla domanda mondiale; inoltre, se si è in regime di cambi fissi, l’inflazione interna rende i prodotti nazionali meno competitivi facendo diminuire le esportazioni). • Processo d’aggiustamento. Se le immissioni ex ante (I, G, X) superano i prelievi ex ante (S, T, M) si è in disequilibrio: questo porta ad un aumento del reddito nazionale, al quale si accompagna non solo un aumento della spesa in consumi (C) delle famiglie, ma anche un aumento dei risparmi (S), delle tasse (T) e delle importazioni (M), che tenderà a riportare in equilibrio l’economia. 49 CONTABILITÀ NAZIONALE [Bibliografia di riferimento: Blanchard, appendice 2] • Le variabili macroeconomiche considerate trovano una definizione precisa nella contabilità nazionale. In particolare, qui ci concentriamo sul concetto di reddito. Esistono diverse definizione e misure del reddito di un’economia. • Il prodotto interno lordo (PIL) è definito come il valore di mercato di tutti i beni e servizi finali prodotti dai fattori di produzione situati in un dato paese, in un dato periodo di tempo (un anno). NB: nel calcolare il PIL si devono sommare i valori dei soli beni e servizi finali, non anche di quelli intermedi (altrimenti si avrebbero problemi di doppio conteggio). Alternativamente il PIL può essere calcolato secondo il metodo del “valore aggiunto”: si considerano tutti i beni e servizi (finali e intermedi), ma per ciascun bene o servizio non si considera il suo valore totale, bensì solo il suo valore aggiunto (definito come differenza tra il suo prezzo di mercato e il valore dei beni occorsi alla sua produzione). • Se invece di far riferimento ai soggetti presenti, si considerano i soggetti residenti nel paese, si parla di prodotto nazionale lordo (PNL). Ad esempio i profitti di uno stabilimento di proprietà statunitense situato in Giappone non rientrano nel PIL statunitense, ma nel PNL. La relazione che lega PNL e PIL è la seguente: PNL = PIL + redditi dei fattori nazionali situati all’estero – redditi dei fattori esteri situati nel paese • Per passare dal prodotto lordo al prodotto netto (PIN o PNN), si deve sottrarre dal primo l’ammortamento del capitale (o consumo di capitale fisso). Ad esempio a partire dal PNL, si ottiene il PNN secondo la seguente relazione: PNN = PNL – consumo di capitale fisso • Il reddito nazionale è definito come il reddito che origina dalla produzione di beni e servizi da parte dei residenti di un dato paese. Esso si ottiene sottraendo le imposte indirette dal PNN e aggiungendo i trasferimenti ricevuti dalle imprese. La relazione che lega reddito nazionale e PNN è la seguente: 50 Reddito nazionale = PNN – imposte indirette + trasferimenti • Considerando il flusso circolare del reddito, il reddito nazionale corrisponde anche alla somma di tutti i redditi percepiti dai soggetti residenti in un dato paese: redditi da lavoro (in gran parte salari e stipendi), redditi da lavoro autonomo (redditi delle persone che svolgono un lavoro indipendente), profitti di impresa (differenza tra ricavi e costi), interessi pagati dalle imprese, e rendite (redditi da proprietà immobiliari). Reddito nazionale = redditi da lavoro + profitti + interessi + rendite • Il calcolo del PIL (e di tutti gli altri aggregati) può essere fatto a prezzi correnti (PIL nominale) o a prezzi costanti (PIL reale). Nel primo caso si applicano alle quantità prodotte i prezzi di mercato dell’anno corrente, nel secondo caso si considerano i prezzi esistenti in un anno base preso come riferimento. Nel confronto tra il PIL in due periodi diversi, il metodo a prezzi costanti consente di isolare le variazioni delle quantità prodotte, astraendo dalle variazioni dei prezzi. • Sempre in riferimento al flusso circolare del reddito, come abbiamo visto, il PIL può essere analizzato dal punto di vista della domanda: domanda di beni di consumo, di beni di investimento, spesa pubblica e domanda estera netta (esportazioni – importazioni). PIL = consumi + investimenti + spesa pubblica + esportazioni nette PRIMO OBIETTIVO DI POLITICA ECONOMICA: CRESCITA • Crescita effettiva e potenziale. La crescita effettiva riguarda il prodotto interno lordo (valore dei beni e servizi prodotti in un anno nel territorio di un certo paese) o, secondo un’altra definizione, il prodotto nazionale lordo (valore dei beni e servizi prodotti in un anno da soggetti economici residenti in un certo paese). La crescita potenziale riguarda la capacità produttiva dell’economia (il prodotto potenziale). • Nel breve periodo la crescita dipende dalle variazioni della domanda aggregata. Nel lungo periodo, la crescita effettiva deve essere sostenuta anche da un’adeguata crescita del prodotto potenziale (altrimenti la crescita della domanda si scarica sui prezzi generando inflazione). 51 • Secondo una rappresentazione diffusa, l’andamento della produzione può essere scomposto in una componente ciclica e una componente di trend. • Il ciclo viene descritto come susseguirsi di ripresa, boom, rallentamento, recessione. Tuttavia la variabilità nella durata e nella dimensione delle fasi rende problematico individuare i cicli in concreto. Ex post, peraltro, anche un processo tipo random walk (cioè un processo in cui di periodo in periodo la crescita della produzione varia in modo completamente aleatorio) può essere descritto come susseguirsi di cicli di diversa durata ed ampiezza. Inoltre la teoria non spiega l’andamento ciclico ma si limita a descriverlo. • Il trend è determinato dalla crescita potenziale, la quale dipende dall’aumento delle risorse disponibili (capitale, lavoro, terra e materie prime) e dalla loro produttività. • Capitale. Il prodotto potenziale aumenta se aumenta lo stock di capitale. Ipotizziamo che il rapporto capitale / prodotto (K / Y) sia costante e pari a k: k=K/Y Allora sarà costante e pari a k anche il suo rapporto incrementale (ΔK / ΔY): k = (ΔK / ΔY) Sia i la proporzione del reddito nazionale investita: i = I / Y = ΔK / Y Sia s la proporzione del reddito nazionale risparmiata: s=S/Y Ipotizziamo che tutto il risparmio sia investito: S=I Il tasso di crescita del prodotto (g = ΔY / Y) è allora il seguente: 52 g = ΔY / Y = (ΔY / ΔK)(ΔK / Y) = (ΔY / ΔK)(I / Y) = i / k = s / k • Lavoro. Il prodotto potenziale aumenta se aumenta la popolazione attiva (o forza lavoro): popolazione attiva = occupati + persone in cerca di occupazione La popolazione attiva aumenta (1) se aumenta il tasso di partecipazione e (2) se aumenta la popolazione totale: tasso di partecipazione = popolazione attiva / popolazione totale • Terra e materie prime. Il prodotto potenziale aumenta se aumentano le risorse disponibili. Secondo Sloman la scoperta di materie prime, come ad esempio il petrolio, è una questione di fortuna. • Produttività dei fattori. Date le quantità dei fattori, il prodotto potenziale aumenta se aumentano le loro produttività. Secondo un’ipotesi diffusa, quando aumenta la disponibilità di un solo fattore produttivo mentre gli altri rimangono fissi, il prodotto aumenta ma a tassi decrescenti (produttività marginale decrescente). Questo fa diminuire il tasso di rendimento del fattore in questione. Quest’ipotesi prende il nome di “legge della produttività marginale decrescente”. • Politiche in favore della crescita. Le politiche di domanda influiscono sul livello e sulla composizione della domanda aggregata. Le politiche di offerta influiscono sul prodotto potenziale. SECONDO OBIETTIVO DI POLITICA ECONOMICA: OCCUPAZIONE • Si definiscono disoccupate le persone in età lavorativa che sono senza lavoro ma che vorrebbero lavorare alle condizioni di mercato esistenti (nelle definizioni statistiche più importanti si aggiunge anche la condizione che le persone siano alla ricerca attiva di un lavoro). Come abbiamo visto, si definisce forza lavoro l’insieme delle persone occupate e delle persone disoccupate. Il tasso di disoccupazione è il rapporto tra disoccupati e forza lavoro. • Misure della disoccupazione. 53 1. In Italia la definizione ufficiale di disoccupazione è quella dell’ISTAT (Istituto nazionale di statistica): è disoccupato chi ha più di 15 anni e dichiara di non aver lavorato neanche un’ora in un dato periodo, ma di essere comunque in cerca di lavoro e di essere disposto ad accettare un lavoro se gliene viene offerta la possibilità. 2. Disoccupazione di diritto: numero di persone che ricevono sussidi di disoccupazione (nei paesi in cui esiste quest'istituto). 3. Tasso di disoccupazione standardizzato. Indice statistico calcolato dall’ILO (International Labour Office) e dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Si dice standardizzato perché applica la stessa definizione ai diversi paesi per i quali è calcolato. • Offerta di lavoro (SL): per ogni livello del salario reale (w), indica il numero di lavoratori (l) disposti ad accettare un lavoro (curva crescente). • Domanda di lavoro (DL): per ogni livello del salario reale (w), indica il numero di lavoratori (l) che le imprese sono disposte ad impiegare (curva decrescente). • Equilibrio: l’incontro tra le due curve determina il livello di occupazione (le) e il salario d’equilibrio (we). IL MERCATO DEL LAVORO Salario reale medio • Offerta di lavoro (SL) numero di lavoratori disposti ad accettare un lavoro per un dato salario reale • Domanda di lavoro (DL) SL EQUILIBRIO SUL MERCATO DEL LAVORO we numero di lavoratori che le imprese sono disposte ad assumere a un dato salario reale DL le N. di lavoratori Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Disoccupazione di disequilibrio: quando l’offerta è superiore alla domanda e il salario è rigido (e rimane quindi ad un valore superiore a we). In tal caso si ha l < le (cioè disoccupazione). 54 1. Disoccupazione da salario reale. I sindacati, ammesso che siano uniti, col loro potere di mercato impongono un salario superiore a quello dell’equilibrio concorrenziale. Graficamente, il monopolio nell’offerta di lavoro permette al sindacato di scegliere un particolare punto della curva di domanda di lavoro: se il sindacato fissa w ad un livello superiore a we (sulla curva di domanda di lavoro) si ha disoccupazione (l < le). Salario reale medio DISOCCUPAZIONE DA SALARIO REALE TROPPO ALTO In corrispondenza del livello di salario reale w1 l’occupazione è pari a l1 DISOCCUPAZIONE DI DISEQUILIBRIO SL w1 we l1 < le DL l1 le N. di lavoratori Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 NB: simmetricamente, anche se nella maggior parte dei manuali (tra i quali lo Sloman) non si dice, si può avere disoccupazione anche se i salari sono troppo bassi a causa del potere di mercato delle associazioni padronali. Graficamente, il monopolio nella domanda di lavoro permette alle associazioni padronali di scegliere un particolare punto della curva di offerta di lavoro: se Confindustria fissa w ad un livello inferiore a we (sulla curva d’offerta di lavoro) si ha un livello di occupazione inferiore a quello d’equilibrio (l < le). 55 In corrispondenza del livello di salario reale w1 le imprese assumono un numero di lavoratori pari a l1 l1 < le Salario reale medio SOTTO-OCCUPAZIONE DA SALARIO REALE TROPPO BASSO SL we w1 DL l1 le N. di lavoratori Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 2. Disoccupazione da carenza di domanda. Nelle fasi recessive del ciclo economico le imprese riducono la produzione e l’occupazione. 3. Disoccupazione da crescita dell’offerta di lavoro. Se aumenta l’offerta di lavoro, il salario d’equilibrio diminuisce. Se c’è rigidità verso il basso nei salari si ha disoccupazione. • Disoccupazione d’equilibrio: si introduce una terza curva rappresentante il numero di persone che cercano un lavoro ma che non per questo sono disposte ad accettare un lavoro esistente (N); la differenza tra N e SL indica il numero di persone che cercano un lavoro ma che non sono disposte ad accettare un lavoro esistente. La disoccupazione d’equilibrio viene chiamata anche disoccupazione naturale (cosa ci sia di “naturale” non è chiaro). 1. Disoccupazione frizionale. Persone che perdono il lavoro e ne cercano uno nuovo ma preferiscono non accettare il primo impiego che gli viene offerto nella speranza di trovarne uno migliore (problema di informazione). Si tratta di disoccupazione d’equilibrio nel senso che gli individui che cercano lavoro, scelgono di non accettare un lavoro esistente. 2. Disoccupazione strutturale. Quando cambia la struttura settoriale dell’economia si modifica la domanda di lavoro nei vari settori. A livello aggregato la domanda e l’offerta di lavoro possono anche rimanere invariate, ma viene comunque meno la corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro nei singoli settori. Questo può accadere a causa di variazioni nella composizione della domanda o nelle tecniche di 56 produzione che tendono a sostituire lavoro con macchine (in questo caso si ha una diminuzione netta della domanda di lavoro e si parla di disoccupazione tecnologica). Quando la disoccupazione strutturale si manifesta in particolari aree territoriali si parla di disoccupazione regionale. 3. Disoccupazione stagionale. In alcuni settori la domanda di lavoro è legata a fattori stagionali. DISOCCUPAZIONE DI EQUILIBRIO Salario reale medio Al salario d’equilibrio alcuni lavoratori non sono disposti a lavorare e preferiscono attendere un posto migliore SL N DISOCCUPAZIONE DI EQUILIBRIO we La disoccupazione di equilibrio è pari alla differenza tra forza lavoro totale (N) e offerta di lavoro DL le N. di lavoratori Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 TERZO OBIETTIVO DI POLITICA ECONOMICA: INFLAZIONE • Il tasso di inflazione misura l’aumento percentuale dei prezzi. 1. Inflazione da domanda. La causa sono aumenti continui della domanda, ai quali le imprese rispondono aumentando in parte la produzione e in parte i prezzi (secondo l’inclinazione della curva d’offerta). Graficamente: spostamento verso destra della curva di domanda aggregata (per ogni livello del prezzo la quantità domandata è maggiore) e conseguente movimento lungo la curva d’offerta aggregata. 57 INFLAZIONE DA DOMANDA p Yo Quanto più è inclinata la curva d’offerta aggregata, tanto più aumenti della domanda si riflettono in aumenti dei prezzi, con un impatto modesto sulla produzione p2 p1 Yd2 Yd1 Y1 Y Y2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 2. Inflazione da costi. La causa sono aumenti continui dei costi di produzione, i quali si traducono in parte in aumenti dei prezzi e in parte in diminuzioni della quantità d’equilibrio (secondo l’inclinazione della curva di domanda). Graficamente: spostamento verso sinistra della curva di offerta aggregata (la stessa quantità deve ora essere venduta ad un prezzo più alto per recuperare i maggiori costi) e conseguente movimento lungo la curva di domanda aggregata. INFLAZIONE DA COSTI p Yo2 Yo1 Quanto più è inclinata la curva di domanda aggregata, tanto più gli spostamenti della curva d’offerta si scaricano sui prezzi, con un impatto modesto sulla produzione p2 p1 Yd Y2 Y1 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 58 Y 3. Inflazione strutturale. Quando cambia la struttura settoriale dell’economia (perché si modifica la struttura della domanda e/o quella dell’offerta) alcune industrie registrano eccessi di domanda e altre eccessi d’offerta. Nelle prime si registrerà un aumento dei prezzi (e della produzione) e nelle seconde una diminuzione dei prezzi (e della produzione). L’impatto relativo sui prezzi e sulla produzione dipende dall’elasticità delle curve d’offerta dei vari settori. A livello aggregato si possono quindi avere tanto aumenti quanto diminuzioni dell’indice aggregato dei prezzi. 4. Aspettative di inflazione. L’inflazione corrente dipende inoltre dal tasso atteso di inflazione il quale viene incorporato nei contratti. • Il tasso di inflazione risulta importante nel determinare il tasso di interesse reale. Con un tasso di interesse (nominale) del 10%, dando a prestito un euro, se ne riceve dopo un anno 1,1. Tuttavia, dal punto di vista dei beni che si possono acquistare, se anche i prezzi sono aumentati del 10%, in termini reali, non si è ottenuto alcun interesse (nel senso che il potere d’acquisto di 1,1 euro fra un anno è lo stesso di un euro oggi). La relazione che lega tasso di interesse reale (definito in termini dei beni che si possono acquistare), tasso di interesse nominale (definito in termini monetari) e tasso di inflazione è la seguente: tasso di interesse reale = tasso di interesse nominale – tasso di inflazione Considerando l’inflazione attesa invece di quella effettiva si ottiene l’equazione di Fisher: tasso di interesse reale atteso = tasso di interesse nominale – tasso atteso di inflazione 59 2. La determinazione del reddito nazionale e la politica fiscale [Bibliografia di riferimento: Sloman, capitolo 8] LA SCUOLA KEYNESIANA E IL PROBLEMA DELLA DOMANDA AGGREGATA • La scuola keynesiana nasce negli anni trenta nel contesto della riflessione sulle cause della grande depressione. Keynes, in aperta polemica con la teoria allora (e tuttora) dominante secondo cui le cause della disoccupazione erano da individuarsi in un livello eccessivamente alto del salario reale, ritiene che le cause della depressione siano nella carenza della domanda aggregata. • Secondo Keynes, l’economia si era avvolta in un circolo vizioso: la domanda aggregata era bassa perché era basso il livello del reddito; il reddito era basso perché i salari e l’occupazione erano bassi; salari e occupazione erano bassi perché era basso il livello della produzione; la produzione era bassa perché erano bassi i consumi e la domanda in generale. • La soluzione proposta da Keynes consiste nell’interrompere tale circolo vizioso attraverso interventi volti ad aumentare la domanda aggregata ad esempio aumentando la spesa pubblica o riducendo le tasse (politiche fiscali espansive). LA LEGGE DI SAY E LA DOMANDA EFFETTIVA • I liberisti della scuola austriaca e neoclassica insistevano sulla validità della cosiddetta “legge di Say”. • La legge di Say afferma che l’offerta crea da sé la propria domanda. L’idea prende forma considerando un’economia di baratto. In un’economia di baratto, lo scambio del bene X avviene direttamente con il bene Y. Dire che ad un dato livello del prezzo relativo tra i due beni pX / pY vi è un eccesso di offerta per il bene X è lo stesso che dire che, a quel livello del prezzo, vi è un eccesso di domanda del bene Y (in altri termini, al prezzo corrente, pX / pY, ci sono più persone che hanno il bene X e che vorrebbero scambiarlo col bene Y di quante non siano le persone che hanno il bene Y e vorrebbero scambiarlo col bene X). L’eccesso di offerta di un bene è necessariamente un eccesso di domanda per un altro bene. • La legge di Say implica che non ci può essere disoccupazione involontaria poiché una carenza di domanda in un settore si accompagna sempre ad un’abbondanza di domanda in 60 un altro settore, di conseguenza, i lavoratori espulsi dal settore in contrazione possono essere occupati nel settore in espansione. • In un’economia monetaria, i beni non si scambiano direttamente tra loro, ma con moneta. In tal caso la legge di Say vale soltanto se gli individui che vendono il bene X spendono tutta la moneta che ricevono per acquistare il bene Y. Se viceversa la moneta viene risparmiata (in vista di spese future), l’eccesso di offerta del bene X può non comportare alcun eccesso di domanda per il bene Y (semplicemente perché quelli che hanno venduto il bene X, invece di comprare il bene Y, preferiscono tenersi i soldi in forma liquida). A livello aggregato viene quindi meno la condizione che garantisce che l’offerta aggregata e la domanda aggregata si uguaglino. La legge di Say vale dunque solo nel caso particolare in cui non c’è tesaurizzazione della moneta. • In un sistema in cui la moneta svolge un ruolo essenziale come riserva di valore, la tesi di Say non è valida ed è possibile che si verifichino crisi da insufficienza della domanda aggregata. • Say è un economista francese di fine Settecento fortemente criticato da Marx. Quest’ultimo evidenzia che, in un’economia monetaria, l’uguaglianza tra domanda aggregata e offerta aggregata non è affatto garantita proprio per via della possibilità di tesaurizzazione della moneta (teoria marxiana della crisi). • Keynes sviluppa la critica attraverso il principio della domanda effettiva. Secondo tale principio il livello del prodotto (e quindi dell’occupazione) dipende dal livello della domanda aggregata. Non è la domanda che si adegua all’offerta come sostenuto da Say, bensì l’offerta che si adegua alla domanda. • Le ipotesi di fondo su cui si basa il principio della domanda effettiva sono due: 1. il mercato dei beni non è caratterizzato da concorrenza perfetta; 2. le imprese tendono a tenere i prezzi fissi (adeguando piuttosto la produzione alle variazioni della domanda). • Con queste ipotesi la curva d’offerta risulta orizzontale (p = p) e variazioni della domanda aggregata (Yd) si scaricano interamente sulle quantità d’equilibrio della produzione (Yo) e non sui prezzi. 61 IL PRINCIPIO DELLA DOMANDA EFFETTIVA p Yo La domanda aggregata determina il livello di produzione di equilibrio dell’economia Yd Y* Yd1 Y** Yd, Yo Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Il meccanismo di aggiustamento che porta l’offerta ad adeguarsi alla domanda è il seguente: se la produzione è inferiore al livello d’equilibrio di produzione (Y < Y*) si ha un eccesso di domanda (Yd > Yo); le imprese utilizzano le scorte; nel periodo successivo esse vorranno ricostituire il livello di scorte desiderato e aumenteranno quindi la produzione finché (Y = Y*). Il punto è che tale processo d’aggiustamento assicura che la quantità offerta si adegui alla quantità domandata ma non che la domanda sia ad un livello sufficiente ad occupare tutte le risorse disponibili. LA FUNZIONE KEYNESIANA DEL CONSUMO • Secondo Keynes la principale variabile da cui dipende il livello di consumo (C) delle famiglie è il reddito corrente: C = C(Yo) Assumiamo, per semplicità, una funzione lineare: C = a + bYo a > 0; 0 < b < 1 62 FUNZIONE DEL CONSUMO LINEARE a>0, 0<b<1 C=a+bYo C b a Yo a: consumo di sussistenza b: propensione marginale al consumo Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 L’intercetta (a) indica il consumo di sussistenza. Il coefficiente angolare (b) è la propensione marginale al consumo (PMGC): PMGC = dC / dYo = b Definiamo inoltre la propensione media al consumo (PMEC): PMEC = C / Y = a / Y + b Essendo il risparmio (S) la differenza tra il reddito e il consumo (S = Yo – C), la definizione di una particolare funzione del consumo definisce anche una particolare funzione del risparmio: S = Yo – C = Yo – a – bYo = – a + (1 – b)Yo 63 FUNZIONE DEL RISPARMIO LINEARE S=Yo–C= Yo– a–bYo=–a+(1–b)Yo a>0, 0<b<1 S (1–b) Yo –a –a: risparmio di sussistenza 1–b: propensione marginale al risparmio Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 L’intercetta (–a) indica il risparmio di sussistenza (negativo). Il coefficiente angolare (1 – b) è la propensione marginale al risparmio (PMGS): PMGS = dS / dYo = 1 – b La propensione media al risparmio (PMES) è: PMES = S / Y = –a / Y + (1 – b) IL MOLTIPLICATORE • Il modello del moltiplicatore, nella sua formulazione generale, si basa su tre principi teorici: 1. Il principio della domanda effettiva (p = p; Yo = Yd = Y) 2. L’equazione della domanda aggregata (Yd = C + I + G + X) 3. La funzione del consumo (C = C(Yo)). Per semplicità facciamo le seguenti ipotesi: 1. I = I (l’investimento è esogeno e pari al livello I) 64 2. G = G (la spesa pubblica è esogena e pari al livello G) 3. X = 0 (si tratta cioè di un’economia chiusa) 4. C = a + bYo (funzione del consumo lineare). Il modello del moltiplicatore è allora il seguente: Yo = Yd = Y Yd = C + I + G C = a + bYo Sostituendo: Y = a + bY + I + G Da cui si ricava il reddito d’equilibrio: Y* = [1 / (1 – b)](a + I + G) Indichiamo con m il moltiplicatore e con A e la domanda aggregata esogena: m = 1 / (1 – b) A=a+I+G Il reddito d’equilibrio è allora dato dalla seguente equazione: Y* = mA 1 < m < +∞ Il principio del moltiplicatore può essere enunciato come segue: un aumento esogeno della domanda aggregata produce un aumento proporzionalmente maggiore nel reddito d’equilibrio (m > 1). ΔY* = mΔA 65 • Dal punto di vista economico, si immagini un aumento della domanda esogena A pari a 1 euro volto alla costruzione di un ponte (il discorso è lo stesso sia se la domanda aumenta a causa di un aumento esogeno della spesa pubblica G, sia se aumenta a causa di un aumento esogeno degli investimenti privati I): ΔA = 1. Quest’aumento della domanda di 1 euro si traduce in un aumento del reddito dei lavoratori assunti per la costruzione del ponte e di tutti quanti vendano allo stato o all’impresa privata le risorse necessarie per la costruzione del ponte. Complessivamente, il reddito delle famiglie aumenta dunque anch’esso di 1 euro. Secondo la funzione del consumo, una parte di quest’aumento di reddito delle famiglie, pari a un euro, sarà consumata (b), mentre la restante parte sarà risparmiata (1 – b). La parte b spesa in consumo a sua volta produrrà un aumento della produzione di b euro (e ritornerà alle famiglie sotto forma di reddito aggiuntivo). Si ha dunque un ulteriore aumento del reddito pari a b euro (essendo b < 1, questo nuovo aumento di reddito è inferiore ad un euro). E il processo continua. Una parte (b) di quest’ulteriore aumento di reddito delle famiglie, di b euro, sarà consumata (b2 euro), mentre la restante parte sarà risparmiata ((1 – b)b euro). I b2 euro spesi in consumo a loro volta produrranno un aumento della produzione di b2 euro (e ritorneranno alle famiglie sotto forma di reddito aggiuntivo). Si ha dunque un ulteriore aumento del reddito pari a b2 euro (essendo b < 1, quest’ulteriore aumento di reddito è inferiore al precedente: b2 < b). Il processo continua producendo un aumento totale del reddito pari a: ΔY = 1 + b + b2 + b3 + … + bn + … Si tratta di una serie geometria di ragione b, la quale è pari a 1/(1 – b) se, come nel nostro caso, b < 1. ΔY = 1 + b + b2 + b3 + … + bn + … = 1/(1 – b) • Dal punto di vista grafico, il modello del moltiplicatore può essere rappresentato riportando sugli assi cartesiani l’offerta (asse orizzontale) e la domanda (asse verticale) aggregate. La bisettrice del primo quadrante (retta a 45°) indica il luogo dei punti in cui vale l’equilibrio D = O. La funzione di domanda aggregata è rappresentata dalla retta di 66 intercetta pari ad A e coefficiente angolare pari a b. L’intersezione tra la retta di domanda aggregata e la retta a 45° determina il reddito d’equilibrio. DERIVAZIONE GRAFICA DELL’EQUILIBRIO (RETTA A 45°) Yd Yd=Yo Yd A Yo Y* Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 Una variazione (verticale) della domanda esogena (A) produce una variazione (orizzontale) più che proporzionale nel reddito d’equilibrio. IL PRINCIPIO DEL MOLTIPLICATORE (RETTA A 45°) Yd Un aumento della domanda aggregata esogena (da A0 a A1) determina un aumento proporzionalmente maggiore del reddito (da Y* a Y**) Yd1 Yd0 A1 A0 Yd=Yo ΔY* = mΔA 1 < m < +∞ Y* Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 67 Y** Yo • Un modo alternativo di analizzare il modello del moltiplicatore si basa sulla funzione del risparmio (invece che sulla funzione del consumo). Riconsideriamo la condizione d’equilibrio e sostituiamo S al posto di Yo – C: Yo = Yd = C + I + G Yo – C = I + G S=I+G La condizione d’equilibrio è allora la seguente: –a + (1–b)Yo = I + G • Dal punto di vista grafico, questo diverso modo di guardare al moltiplicatore può essere rappresentato tramite la funzione del risparmio e le funzioni esogene degli investimenti e della spesa pubblica: DERIVAZIONE GRAFICA DELL’EQUILIBRIO (S=I) S I+G S I+G –a Y* Yo Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 68 IL PRINCIPIO DEL MOLTIPLICATORE (S=I) S I+G S I1 + G1 I0 + G0 –a Y* Y** Yo Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 LA POLITICA FISCALE • Le politiche fiscali (variazioni esogene di G e/o di T) che fanno aumentare il reddito d’equilibrio costituiscono interventi espansivi, quelle che lo fanno diminuire, interventi restrittivi. • Un aumento della spesa pubblica (ΔG) produce una traslazione verso l’alto della retta di domanda aggregata e un conseguente aumento più che proporzionale del reddito d’equilibrio. NB: si suppone che l’aumento della spesa pubblica, ΔG, sia finanziato senza influire sulle variabili che compaiono esplicitamente nel modello. Ad esempio si può immaginare che la spesa pubblica aggiuntiva sia finanziata stampando moneta e che questo non abbia alcun impatto sul livello dei prezzi (i quali sono per ipotesi fissi nel modello), né sulle variabili finanziarie (come ad esempio il tasso d’interesse) le quali potrebbero avere effetti di ritorno sulle variabili contemplate esplicitamente nel modello. • Un aumento delle imposte (ΔT) fa diminuire il reddito d’equilibrio. In presenza di tasse, il consumo dipende dal reddito disponibile (Yd), cioè dal reddito al netto del prelievo fiscale. Il reddito disponibile si definisce come segue: Yd = Y – T La funzione del consumo prende allora la seguente forma: 69 C = a + bYd C = a + b(Y – T) • Esistono diverse forme di tassazione. La forma più semplice (dal punto di vista del modello teorico) è quella in somma fissa, secondo la quale si suppone il livello di tassazione (T) sia fissato esogenamente dallo stato in modo del tutto indipendente dalle altre variabili del modello (come ad esempio il reddito): T = T. Forme di tassazione più realistiche sono quella proporzionale e progressiva rispetto al reddito. Nel primo caso il livello della tassazione aumenta proporzionalmente al reddito: T = tY; nel secondo caso aumenta più che proporzionalmente: se t1, t2, …, tn sono le aliquote di imposta sui diversi scaglioni di reddito ordinati in senso crescente, la tassazione progressiva è tale che t1 < t2 < … < tn. • Nel nostro modello, per semplicità, assumiamo una tassazione in somma fissa (T = T). La funzione del consumo è allora: C = a + b(Y – T) • Introduciamo ora questa funzione del consumo, in cui abbiamo esplicitato le tasse T, nel modello del moltiplicatore: Y = a + b(Y – T) + I + G Il reddito d’equilibrio è ora il seguente: Y* = [1 / (1 – b)](a + I + G – bT) L’impatto sul reddito d’equilibrio di una variazione della spesa pubblica [1 / (1 – b)] è maggiore dell’impatto di una variazione del prelievo fiscale [–b / (1 – b)]. Consideriamo due interventi espansivi di uguale portata, uno aumentando la spesa pubblica, l’altro diminuendo le tasse. Sia ΔG = 1 (la spesa pubblica aumenta di 1 euro). Si ha allora un effetto diretto sulla domanda aggregata pari a 1 euro, cui seguono gli effetti moltiplicativi indiretti (b + b2 70 + b3 + …) causati dall’aumento del reddito delle famiglie (i quali, sommati all’effetto diretto, producono alla fine un aumento del reddito di 1 / (1 – b) euro). Sia ora ΔT = –1 (le tasse si riducono di 1 euro). Qui non si ha alcun effetto diretto sulla domanda aggregata; si hanno solo gli effetti indiretti (b + b2 + b3 + …) generati dall’aumento del reddito disponibile (producendo alla fine un aumento del reddito pari a b / (1 – b) euro). Rispetto al caso in cui aumenta la spesa pubblica, viene ora meno l’aumento diretto della domanda aggregata di 1 euro. L’effetto sul reddito di un aumento della spesa pubblica di 1 unità, 1 / (1 – b), è quindi superiore a quello della riduzione dell’imposizione fiscale di 1 unità, b / (1 – b): 1 / (1 – b) > b / (1 – b) il primo effetto è superiore al secondo di 1 unità. IL BILANCIO DELLO STATO • Dal punto di vista del bilancio dello stato una politica espansiva (aumento della spesa pubblica e/o riduzione delle imposte) implica un peggioramento del saldo di bilancio (G – T). L’ammontare del disavanzo determina il fabbisogno finanziario del settore pubblico (cioè l’ammontare di risorse necessarie a finanziare il disavanzo). Per finanziare il disavanzo di bilancio lo stato deve emettere titoli del debito pubblico che possono essere acquistati dalla banca centrale (in questo caso, la banca centrale emette moneta) o dai privati. In questo secondo caso, lo stato negli anni successivi dovrà pagare gli interessi sul debito accumulato. Il saldo di bilancio può allora essere espresso dalla seguente relazione: BS = T – G – rB Dove r è il tasso di interesse sul debito, B è lo stock di titoli del debito pubblico in circolazione e (T – G) è l’avanzo primario. IL MOLTIPLICATORE DEL BILANCIO IN PAREGGIO • Consideriamo ora, come caso particolare del modello del moltiplicatore, l’ipotesi in cui il bilancio dello stato rimane in pareggio (G = T). Sostituendo nell’equazione della domanda aggregata (G = T): 71 Y = a + b(Y – G) + I + G Il reddito d’equilibrio è il seguente: Y* = [1 / (1 – b)](a + I) + G Il moltiplicatore risulta pari a 1: un aumento di 1 euro di spesa pubblica finanziato con un aumento di 1 euro di prelievo fiscale aumenta esattamente di 1 euro il reddito d’equilibrio (gli ulteriori effetti moltiplicativi sulla domanda sono annullati dall’aumento dell’imposizione fiscale). NB: Il reddito aumenta senza alcun impatto sul bilancio dello stato. Questo significa che la politica fiscale può aumentare il reddito e l’occupazione senza produrre alcun deficit di bilancio pubblico: se lo stato vuole aumentare il reddito di 100 euro, deve aumentare simultaneamente tasse e spesa pubblica di 100 euro. La diminuzione delle tasse, invece, perde i suoi effetti espansivi in un contesto in cui lo stato non possa andare in deficit: in tale contesto, la riduzione delle tasse dovrà infatti essere accompagnata da una riduzione anche della spesa pubblica, con un effetto complessivo restrittivo sul reddito e sull’occupazione. LE VARIAZIONI DEI PREZZI • Il modello del moltiplicatore considerato è a prezzi fissi. Si suppone cioè che le variazioni della domanda si traducano interamente in variazione della produzione. Quest’ipotesi è plausibile quando esistono molte risorse inutilizzate. Quando le imprese operano a livelli prossimi al pieno impiego della capacità produttiva (Ypo), gli aumenti della domanda tendono a scaricarsi in aumenti dei prezzi. Graficamente è come se assumessimo che i prezzi non varino finché la domanda è inferiore al reddito di pieno impiego (curva d’offerta orizzontale per 0 ≤ Y < Ypo) e che poi ogni ulteriore aumento di domanda si scarichi interamente sui prezzi, lasciando invariata la produzione (curva d’offerta verticale per Y = Ypo) 72 LA CURVA DI OFFERTA AGGREGATA NEL MODELLO KEYNESIANO • • Per livelli di produzione inferiori al reddito di piena occupazione, i prezzi rimangono fissi Dopodiché l’aumento della domanda produce solo aumenti dei prezzi p Ypo Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • In generale, piuttosto che ipotizzare una curva d’offerta ad angolo, si può supporre che questa sia inclinata positivamente (e che l’inclinazione aumenti all’aumentare della produzione) e che, quindi, le variazioni della domanda producano variazioni sia nella quantità prodotta, sia nei prezzi. LA CURVA DI OFFERTA AGGREGATA • • Quando la produzione è lontana dalla piena occupazione, incrementi di domanda provocano forti aumenti della produzione e aumenti contenuti dei prezzi. Avvicinandosi al pieno impiego i prezzi aumentano sempre di più p Ypo Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 73 • In tal caso, il moltiplicatore è minore rispetto al modello a prezzi fissi poiché gli aumenti della domanda aggregata si traducono solo in parte in aumenti della produzione (l’altra parte si traduce in aumenti dei prezzi). VARIAZIONI DELLA DOMANDA E CURVE D’OFFERTA p p Yo Yo Y* Yd Yd1 Yd Y** Y* Yd, Yo Y** Yd1 Yd, Yo Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 LA CURVA DI PHILLIPS • Relazione empirica (inversa) tra tasso di aumento dei salari e tasso di disoccupazione. Dato che nel periodo considerato da Phillips (1861–1957 per l’Inghilterra) il tasso di crescita dei salari rimase mediamente superiore di circa il 2% al tasso di crescita dei prezzi, è possibile individuare una relazione inversa anche tra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione (rispetto alla curva con il tasso di aumento dei salari, la curva con il tasso d’inflazione sta più in basso). 74 LA CURVA DI PHILLIPS Tasso di inflazione Curva di Phillips: relazione inversa tra tasso di crescita dei salari e tasso di disoccupazione Curva di Phillips (sui prezzi): Relazione inversa tra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione Curva di Phillips (salari) Curva di Phillips (prezzi) Disoccupazione Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • NB: la produttività del lavoro aumenta continuamente nel tempo per effetto del progresso tecnico, di conseguenza aumenti dei salari superiori agli aumenti dei prezzi non intaccano necessariamente la crescita dei profitti. Ad esempio, con una crescita annua della produttività del 10%, se i salari crescono del 7% e i prezzi del 5%, i profitti crescono dell’8%: i ricavi aumentano infatti del 15% (a parità di quantità di lavoro utilizzata, l’output cresce del 10%, e viene inoltre venduto ad un prezzo più alto del 5%) mentre i costi aumentano del 7%; quindi i profitti aumentano dell’8%. In generale, quindi, in presenza di progresso tecnico, affinché la distribuzione tra salari e profitti rimanga invariata, i salari devono crescere ad un tasso superiore al tasso d’inflazione, beneficiando così, assieme a profitti, degli aumenti di produttività. • Dal punto di vista dello schema domanda aggregata – offerta aggregata, la curva di Phillips può essere interpretata come la conseguenza di spostamenti della curva di domanda in presenza di una curva d’offerta crescente: quando aumenta la domanda, diminuisce la disoccupazione e aumenta l’inflazione; il contrario accade quando la domanda diminuisce (spostamenti lungo la curva di Phillips). Gli spostamenti della curva sarebbero invece legati ai fattori esogeni dello schema domanda aggregata – offerta aggregata: disoccupazione frizionale e strutturale, inflazione da costi da costi e strutturale, aspettative. • L’ipotesi che esistesse una curva di Phillips relativamente stabile nella realtà ha suggerito che esistesse un ventaglio di combinazioni inflazione – disoccupazione nell’ambito del 75 quale i governi potessero scegliere, attraverso opportune politiche economiche, la combinazione ritenuta ideale. Tale ipotesi si è dimostrata infondata alla luce dell’aumento congiunto dei tassi d’inflazione e di disoccupazione nella maggior parte dei paesi capitalisti occidentali negli anni ’80 (l’aumento contemporaneo dell’inflazione e della disoccupazione prende il nome di “stagflazione”, dall’inglese “stagflation”). Una possibile spiegazione è che la curva di Phillips si sia spostata nel tempo. L’ACCELERATORE • Nella teoria del moltiplicatore le variazioni del reddito sono ricondotte a variazioni della domanda. In particolare le variazioni esogene degli investimenti (legate alle aspettative dei capitalisti) sono una delle principali cause dell’alternarsi di periodi di espansione e recessione. • Accanto alle variazioni della domanda è possibile introdurre anche i cambiamenti nelle condizioni dell’offerta per spiegare la dinamica della produzione. La teoria dell’acceleratore spiega il livello dei nuovi investimenti facendolo dipendere dal tasso di crescita della produzione: gli investimenti (lasciando da parte quelli necessari a rimpiazzare il capitale che diventa obsoleto) aumentano la capacità produttiva. A fronte di un aumento della domanda (che gli investitori considerano duraturo) si avrà dunque un aumento degli investimenti e della capacità produttiva. • Mentre il livello della produzione varia lentamente nel tempo, il suo tasso di crescita (da cui secondo questo modello dipendono le variazioni degli investimenti) varia in misura molto maggiore. Questo spiega l’alta volatilità degli investimenti. La teoria dell’acceleratore può allora essere enunciata affermando che le variazioni degli investimenti sono molto più accentuate di quelle del reddito nazionale. • Facendo interagire il principio del moltiplicatore e quello dell’acceleratore si producono effetti cumulati sul ciclo economico: 1. Le variazioni del reddito producono effetti accentuati sugli investimenti (acceleratore); 2. Le variazioni degli investimenti producono aumenti proporzionalmente maggiori nel reddito (moltiplicatore). 3. Le risultanti variazioni del reddito si riflettono nuovamente sugli investimenti attraverso l’acceleratore, e così via. 76 IL CICLO ECONOMICO • Le scorte variano in senso anticiclico rispetto alla dinamica della produzione. Di fronte ad aumenti della domanda, le imprese rispondono innanzi tutto utilizzando le scorte di magazzino accumulate. Solo quando l’aumento di domanda dovesse confermarsi duraturo (cioè quando il livello delle scorte desiderato dovesse scendere troppo) esse saranno disposte ad aumentare la capacità produttiva. • NB: dal punto di vista contabile, le scorte sono considerate come una componente degli investimenti, per cui l’aumento delle scorte nelle fasi recessive del ciclo appare in contabilità come un investimento. • Fattori che incidono sul persistere delle fasi espansive e recessive: 1. Il processo d’aggiustamento nel flusso circolare del reddito prende tempo; 2. L’interazione tra moltiplicatore e acceleratore produce effetti cumulati. • Fattori che incidono sull’inversione del ciclo: 1. Nelle fasi espansive, il raggiungimento del pieno utilizzo della capacità produttiva impedisce, nel breve periodo, ulteriori aumenti della produzione (è necessario investire per ampliare ulteriormente la capacità produttiva, il che richiede tempo). 2. Nelle fasi recessive, il consumo di sussistenza delle famiglie garantisce un livello minimo di domanda al di sotto del quale il consumo non scende ulteriormente. 3. Secondo il principio dell’acceleratore, gli aumenti degli investimenti devono essere sostenuti da una crescita sempre maggiore del consumo. Se la crescita del consumo rallenta, gli investimenti diminuiranno e il ciclo tenderà ad invertirsi. 4. Nel corso del ciclo, la politica economica interviene spesso in senso anticlico comprimendo la domanda nelle fasi espansive (per impedire effetti inflazionistici) ed espandendola nelle fasi recessive (per impedire una caduta della domanda e un aumento della disoccupazione). Le politiche di stabilizzazione dell’andamento della produzione attorno al suo trend prendono il nome di politiche di “fine tuning”. • Accanto alle politiche di fine tuning, l’attenuazione del ciclo dipende dall’esistenza di “stabilizzatori automatici”: 1. Una tassazione dipendente dal reddito (invece di quella completamente esogena ipotizzata nel nostro modello semplificato) implica un aumento del gettito fiscale nelle fasi espansive (poiché aumenta il reddito) e una diminuzione nelle fasi recessive. Questo riduce le variazione del reddito disponibile (da cui dipendono i consumi) rispetto alle variazioni del reddito e attenua gli effetti moltiplicativi. 77 2. Un altro stabilizzatore automatico è costituito dai sussidi di disoccupazione i quali sostengono la domanda nelle fasi recessive del ciclo. 78 3. Moneta e politica monetaria [Bibliografia di riferimento: Sloman, capitolo 9] FUNZIONI DELLA MONETA • Mezzo di scambio: strumento accettato per convenzione o per forza legale come mezzo di pagamento. • Unità di conto: unità di misura dei prezzi di beni, servizi e attività finanziarie. • Riserva di valore: strumento per trasferire nel tempo potere d’acquisto. IL SISTEMA FINANZIARIO • Le banche 1. Banche commerciali: si rivolgono ad un pubblico indistinto; 2. Banche d’affari (o di investimento): forniscono linee di credito alle imprese. • Passività bancarie (debiti delle banche nei confronti di quanti abbiano depositato i propri risparmi). 1. Depositi a vista: depositi che possono essere prelevati senza penale (per esempio depositi in conto corrente). 2. Depositi vincolati: depositi che possono essere prelevati solo con un preavviso e/o pagando una penale (per esempio libretti di risparmio). 3. Certificati di deposito: prodotti finanziari emessi e gestiti dalle banche sui quali esiste un mercato secondario nel quale possono essere scambiati. 4. Pronti contro termine: contratto di compravendita di titoli con cui una parte vende (a pronti) un certo prodotto finanziario (per esempio titoli del debito pubblico) e lo ricompra ad una scadenza fissata (a termine). • Attività bancarie (crediti delle banche nei confronti di terzi). 1. Circolante: contante tenuto per soddisfare le richieste quotidiane dei clienti. 2. Conto corrente presso la banca centrale: conto utilizzato per le operazioni sul mercato interbancario. 3. Prestiti a breve termine: prestiti monetari concessi principalmente ad altre istituzioni finanziarie; nel caso dei pronti contro termine, titoli acquisiti in cambio del prestito a pronti che saranno restituiti allo scadere del prestito (tali titoli sono denominati “repo”). 79 4. Prestiti a lungo termine: prestiti alle famiglie e alle imprese a scadenza fissa, scoperti e mutui; titoli acquistati come investimento (ad esempio del debito pubblico). • Redditività e liquidità: La redditività misura la capacità di fare profitti (lucrando sul differenziale tra il tasso di interesse ricevuto sui prestiti e quello pagato sui depositi) e viene generalmente rapportata al denaro raccolto o al valore dell’attivo. La liquidità misura la facilità e i costi con cui un’attività può essere convertita in moneta; il tasso di liquidità è il rapporto tra attività liquide e attività totali. In genere le attività più redditizie sono anche le meno liquide. • La banca centrale 1. Vigilanza sul sistema bancario: la banca centrale controlla che le banche e le istituzioni finanziarie operino in modo efficiente (con un adeguato tasso di liquidità) e nel rispetto della normativa bancaria. Inoltre ha compiti di ispezione e stabilisce la percentuale di riserve obbligatorie che le banche devono tenere come garanzia di liquidità. Infine svolge la funzione di prestatore di ultima istanza per garantire un’adeguata offerta di moneta da parte delle banche. Nel Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC), tali compiti sono svolti dalle banche centrali dei singoli paesi. 2. Offerta di moneta e politica monetaria. In molti paesi la banca centrale operava in stretta collaborazione col governo (il che permetteva un coordinamento stretto tra politica fiscale e monetaria); recentemente è venutosi affermandosi il principio dell’indipendenza della banca centrale (principio cui si ispira anche la Banca Centrale Europea), secondo il quale la politica monetaria è competenza solo della banca centrale (la quale non è sottoposta ad alcun controllo politico popolare). Come strumenti di attuazione della politica monetaria, la banca centrale ha il monopolio nell’emissione di banconote, agisce come banca per il governo (organizza le emissioni di titoli del debito pubblico emessi dal Tesoro e decide in che misura finanziare i deficit pubblici emettendo moneta) e per le banche (le quali tengono dei conti per le compensazioni sul mercato interbancario). Attraverso il controllo dei tassi d’interesse ufficiali (il tasso di sconto innanzi tutto) e la gestione dell’emissione e dell’acquisto dei titoli del debito pubblico e di altri strumenti finanziari influisce sui tassi d’interesse di mercato e sulla quantità di moneta. Attraverso il controllo delle riserve valutarie influisce sui tassi di cambio. 80 L’OFFERTA DI MONETA • Base monetaria (o moneta ad alto potenziale): circolante. • M3 (o moneta in senso ampio): circolante + depositi. • Moltiplicazione della moneta (o dei depositi). Supponiamo che le banche abbiano un tasso di liquidità desiderato pari a l (per ogni euro di depositi, una frazione l è tenuta come riserva e la frazione (1 – l) è data in prestito). Ipotizziamo ora che la spesa pubblica aumenti di 1 euro pagando con assegni emessi sul conto del Tesoro presso la banca centrale. I beneficiari di tali assegni li depositeranno presso una banca. La banca ha ora un eccesso di liquidità e cercherà quindi di prestare una frazione, pari a (1 – l), di tali depositi aggiuntivi. Quando le famiglie o le imprese spendono gli (1 – l) euro presi a prestito, i venditori depositeranno presso una banca gli (1 – l) euro ricevuti e la banca vorrà a questo punto darne in prestito una frazione pari a (1 – l): essa darà quindi a prestito una cifra pari a (1 – l)2 euro. Il processo continua producendo un aumento totale dei depositi pari a 1 + (1 – l) + (1 – l)2 + (1 – l)3 + …+ (1 – l)n + … = 1/l Si tratta di una serie geometria di ragione (1 – l), la quale è pari a 1/l se, come nel nostro caso, (1 – l) < 1. Il moltiplicatore dei depositi (1/l) è dunque pari all’inverso del tasso di liquidità (l). Le ipotesi su cui si basa tale calcolo sono (1) che il tasso di liquidità desiderato dalle banche rimanga invariato nel tempo, (2) che i clienti delle banche prendano a prestito tutto l’ammontare che le banche desiderano dare in prestito senza alcun impatto sul tasso d’interesse, (3) che tutti i fondi presi a prestito tornino al sistema bancario in forma di depositi. • Le determinanti dell’offerta di moneta. 1. Tasso di liquidità delle banche: le riduzioni nel tempo del tasso di liquidità (a seguito dello sviluppo di pagamenti con assegni, bancomat, eccetera) aumentano il moltiplicatore della moneta. 2. Flussi dall’estero: un surplus di bilancia dei pagamenti produce un afflusso di capitali che vanno ad aumentare l’offerta di moneta. 3. Disavanzi del settore pubblico: quando lo stato registra un disavanzo deve finanziarsi emettendo titoli del debito pubblico. Se i titoli sono acquistati dalla banca centrale si ha un aumento nella quantità di moneta (la banca centrale apre un credito allo stato per 81 il valore dei titoli emessi; quando lo stato spende questa somma, si ha un aumento della moneta, il quale genera ulteriori aumenti attraverso il processo di moltiplicazione dei depositi). Se sono invece acquistati dal settore privato l’offerta di moneta non varia poiché l’aumento della moneta nelle mani del settore pubblico è compensata da una diminuzione di pari entità di quella nelle mani del settore privato. 4. Tasso d’interesse: nella misura in cui la banca centrale sia in grado di controllare completamente l’offerta di moneta, la curva d’offerta di moneta è verticale. Tasso di interesse OFFERTA DI MONETA ESOGENA L’offerta di moneta non dipende dal tasso di interesse Mo Offerta di moneta Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 Qualora invece le banche siano invogliate ad aumentare i prestiti (e quindi la quantità di moneta) al crescere del tasso d’interesse, la banca centrale non ha un controllo pieno sull’offerta di moneta. In tal caso, la curva d’offerta di moneta (Mo) é crescente rispetto al tasso d’interesse. 82 Tasso di interesse OFFERTA DI MONETA ENDOGENA L’offerta di moneta cresce al crescere del tasso d’interesse Mo Offerta di moneta Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 Negli sviluppi futuri, tuttavia, per semplicità assumeremo che l’offerta di moneta sia completamente esogena e che non dipenda dal tasso d’interesse. Essa sarà quindi espressa dalla seguente funzione [cf. Sloman, cap. 10]: Mo = M LA DOMANDA DI MONETA • Keynes distingue tre motivi che spingono a detenere moneta. 1. Movente transazionale. Si detiene moneta per effettuare le transazioni ordinarie. La domanda di moneta tenuta per tale scopo dipende (direttamente) dal reddito. 2. Movente precauzionale. Si detiene moneta per fronteggiare spese impreviste. La domanda di moneta tenuta per tale scopo dipende (direttamente) dal reddito. Gli scopi transazionale e precauzionale portano a domandare moneta per la sua funzione di mezzo di scambio. Tale domanda di moneta è nota come “saldo monetario attivo”. 3. Movente speculativo. Si detiene moneta per poter cogliere le opportunità di guadagno acquistando titoli quando il loro prezzo è basso e vendendoli quando è alto. Per semplicità, d’ora in avanti supponiamo che l’unica alternativa al detenere moneta in forma liquida sia acquistare attività finanziarie (per esempio obbligazioni). Questo significa che l’equilibrio sul mercato della moneta implica l’equilibrio sul mercato delle obbligazioni e viceversa (nel senso che se la quantità di moneta detenuta è quella 83 desiderata, anche la quantità di obbligazioni detenuta è necessariamente quella desiderata). Quanto maggiore è il guadagno che si può ottenere da un’obbligazione, tanto minore è la quantità di moneta che si vuole detenere a scopo speculativo. Perciò la domanda di moneta tenuta per tale scopo dipende (inversamente) dal tasso d’interesse: quando il tasso d’interesse è alto, gli individui preferiscono detenere titoli piuttosto che moneta (i titoli sono meno liquidi della moneta, ma pagano un interesse che invece la moneta non paga); quando invece il tasso d’interesse è basso, gli individui preferiscono tenere moneta piuttosto che titoli (poiché gli svantaggi della minore liquidità dei titoli rispetto alla moneta rimangono gli stessi, mentre i vantaggi della maggiore redditività diminuiscono). Tale domanda di moneta è nota come “saldo monetario inattivo”. • La domanda totale di moneta (Md) è data dalla somma delle domande di moneta per questi tre moventi. Essa dipende quindi inversamente dal tasso d’interesse e positivamente dal reddito. Mantenendo fisso il reddito, la domanda di moneta può essere rappresentata come una curva decrescente rispetto al tasso d’interesse. Tale curva prende il nome di “preferenza per la liquidità”. Un aumento del reddito produce uno spostamento verso destra della curva della preferenza per la liquidità. LA PREFERENZA PER LA LIQUIDITÀ • • • r Decrescente rispetto a r Una variazione del tasso di interesse provoca un movimento lungo la curva Una variazione del reddito provoca uno spostamento della curva Y1>Y0 Md1 Md0 Domanda di moneta Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 Se, per semplicità, assumiamo una funzione lineare, la curva di domanda di moneta può essere espressa dalla seguente retta nel piano (r, Y) [cf. Sloman, cap. 10]: 84 Md = fY – gr • f > 0, g > 0 Relazione tra prezzo di un titolo e tasso d’interesse [cf. Sloman, cap. 10] Nella teoria keynesiana il motivo per cui la domanda di moneta per scopi speculativi varia inversamente al variare del tasso d’interesse è leggermente diverso da quello visto sopra. Secondo Keynes, gli operatori dei mercati finanziari ritengono che esista un prezzo “normale” delle obbligazioni. Keynes assume dunque che essi comprino obbligazioni quando il prezzo di mercato è inferiore a tale prezzo e le vendano in caso contrario. D’altra parte, il prezzo di mercato di un’obbligazione, cioè la sua quotazione in borsa, q, è legata al tasso d’interesse da una relazione inversa. Infatti, consideriamo un’obbligazione che garantisce un rimborso di 100 euro dopo un anno. Supponiamo che il suo prezzo oggi sia paria a 95 euro. Se compriamo oggi l’obbligazione e la teniamo un anno, il tasso d’interesse, r, che ne ricaviamo sarà pari al 5,26%: r = (100 – 95) / 95 = 0,0526 In generale, indicando con VN il valore nominale dell’obbligazione (la somma di denaro che il soggetto che emette l’obbligazione si impegna a pagare alla scadenza), la relazione che esiste tra il prezzo di un titolo, q, e il tasso d’interesse che esso fornisce è la seguente: r = (VN – q) / q Questo significa che quanto maggiore è il prezzo del titolo, tanto minore è il tasso d’interesse effettivo pagato dal titolo stesso. Alla luce di questa relazione inversa tra prezzo del titolo e tasso d’interesse, se gli operatori ritengono che esista un valore normale cui la quotazione dell’obbligazione tende, essi venderanno obbligazioni (cioè domanderanno moneta) quando il loro prezzo è alto (più alto del prezzo normale), e cioè quando il tasso d’interesse è basso (più basso del tasso d’interesse normale), e viceversa. 85 L’EQUILIBRIO • L’equilibrio sul mercato della moneta si ha quando l’offerta uguaglia la domanda (Mo = Md) [cf. Sloman, cap. 10]: M = fY – gr L’EQUILIBRIO SUL MERCATO DELLA MONETA r Mo re Md Me M Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Il processo d’aggiustamento. Se il tasso d’interesse fosse superiore a quello d’equilibrio, si avrebbe un eccesso di offerta di moneta e gli individui cercherebbero di acquistare titoli. Questo farebbe aumentare il prezzo dei titoli e scendere il loro tasso di rendimento (cioè il tasso d’interesse), riportando il sistema verso l’equilibrio. 86 IL PROCESSO D’AGGIUSTAMENTO r1>re: eccesso di offerta di moneta. Gli individui acquistano obbligazioni r ECCESSO DI OFFERTA Mo r1 re Il prezzo delle obbligazioni aumenta e il tasso di interesse diminuisce Md Me M Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Gli spostamenti delle curve di offerta e/o di domanda di moneta determinano nuove quantità di moneta e tassi d’interesse d’equilibrio. • Mercato delle valute. L’uguaglianza tra domanda e offerta di una valuta rispetto alle altre valute determina il tasso di cambio. Quando la domanda di una valuta supera la sua offerta si ha un apprezzamento del suo tasso di cambio e viceversa. • Relazione tra tasso d’interesse e tasso di cambio. Se a partire da una situazione d’equilibrio sul mercato delle valute, il tasso d’interesse interno sale [scende] rispetto a quello estero, i titoli interni diventano relativamente più [meno] profittevoli di quelli esteri; questo provoca un aumento di domanda per la valuta nazionale [estera], un afflusso [deflusso] di capitali e un apprezzamento [deprezzamento] del tasso di cambio. LA POLITICA MONETARIA • Gli obiettivi e le strategie della politica monetaria sono notevolmente cambiati nel corso del tempo. Nel periodo che va dal dopoguerra agli anni ’70 predominava l’impostazione keynesiana, secondo cui la politica fiscale era il principale strumento di politica economica, mentre la politica monetaria doveva accomodare le scelte di politica fiscale, mantenendo stabili i tassi di interesse. A partire dagli anni ’70 e, con maggior forza negli anni di Reagan e Thatcher negli Stati Uniti e in Gran Bretagna rispettivamente (anni ‘80), si afferma l’impostazione liberista, secondo la quale il contenimento dell’inflazione è l’obiettivo primario della politica monetaria. A livello istituzionale, tale principio trova la 87 sua espressione più forte nel Trattato dell’Unione Europea, firmato a Maastricht nel 1992, che, tra le altre cose, istituisce la BCE, assegnandole come obiettivo prioritario la stabilità dei prezzi (definita come aumento dell’indice dei prezzi al consumo per l’area dell’euro inferiore al 2%); tutti gli altri obiettivi della BCE sono definiti in termini vaghi e possono essere perseguiti solo se compatibili con l’obiettivo della stabilità dei prezzi. • Tre categorie di intervento attraverso cui la banca centrale determina la politica monetaria 1. Controllo dell’offerta di moneta. La banca centrale può controllare la base monetaria agendo sul credito concesso alle banche. Questo può essere fatto attraverso tre canali principali. (1) Le “operazioni di mercato aperto” sono vendite o acquisti di titoli del debito pubblico da parte della banca centrale sul mercato: quando la banca centrale vende titoli, gli acquirenti pagano tali titoli con moneta riducendo così la quantità di moneta in circolazione nel sistema. Attraverso operazioni di mercato aperto, la banca centrale può anche cambiare la struttura dei titoli del debito pubblico detenuti (ad esempio vendendo quelli a breve e acquistando quelli a lunga), influendo così sul grado di liquidità dei titoli in circolazione presso il settore privato. (2) Il coefficiente di “riserva obbligatoria” è un deposito che le banche sono obbligate a tenere presso la banca centrale e che le banche non possono utilizzare senza il consenso della banca centrale (tale deposito è quindi illiquido): variando il coefficiente di riserva obbligatoria la banca centrale influisce sul moltiplicatore della moneta e sulla capacità delle banche di concedere prestiti. (3) La banca centrale può fornire prestiti alle banche commerciali a tassi di interesse inferiori a quelli di mercato: variando lo stock di moneta disponibile per tali prestiti la banca centrale può quindi modificare l’offerta di moneta. 2. Controllo dei tassi d’interesse. Il controllo dei tassi d’interesse avviene (1) attraverso la definizione dei tassi di riferimento (il tasso di sconto o altri tassi di rifinanziamento delle banche presso la banca centrale) e (2) attraverso interventi diretti sul mercato monetario, in particolare mediante operazioni di pronti contro termine. Va notato che nella realtà esistono diversi tassi d’interesse a seconda della scadenza temporale (i quali producono effetti diversi sulle variabili macroeconomiche reali, in particolare sugli investimenti di breve e di lungo periodo). Quindi, attraverso operazioni di mercato aperto, la banca centrale può influire anche sulla struttura temporale dei tassi d’interesse: ad esempio, vendendo titoli a breve e acquistando titoli a lunga, la banca centrale può ridurre i tassi d’interesse a lungo termine facendo salire quelli a breve termine. 88 3. Razionamento del credito. La banca centrale può razionare il credito e influire così sul moltiplicatore della moneta (1) imponendo alle banche di limitare i prestiti (per esempio limitandoli a quelli meno rischiosi), (2) fissando un ammontare minimo dei depositi, o (3) fissando dei tempi massimi di restituzione dei prestiti. Nella realtà, spesso la banca centrale attua la propria politica nei confronti delle banche attraverso strumenti di pressione piuttosto che di coercizione. • L’efficacia della politica monetaria dipende (1) dagli strumenti di controllo sui tentativi delle banche di eludere (o evadere) eventuali forme di razionamento del credito, (2) dalla sensibilità della domanda di moneta alle variazioni dei tassi d’interesse, (3) dalle aspettative degli operatori (in particolare, di fronte ad aspettative pessimistiche degli investitori, la riduzione dei tassi potrebbe non essere sufficiente ad aumentare il livello degli investimenti). 89 4. Il modello IS-LM [Bibliografia di riferimento: Sloman, capitolo 10] LA LOGICA DEL MODELLO • Il modello IS-LM non è altro che un’analisi congiunta del mercato dei beni e del mercato della moneta. • Rispetto all’analisi dei due mercati considerati separatamente, dobbiamo innanzi tutto estendere l’analisi del mercato dei beni esplicitando le variabili da cui dipendono gli investimenti (per semplicità nel capitolo 8 avevamo supposto che essi fossero completamente esogeni). Dopodiché è possibile considerare congiuntamente i due mercati per determinare le condizioni dell’equilibrio macroeconomico. • In tutto il modello, per semplicità continueremo a supporre che i prezzi siano fissi (inflazione pari a zero). LA FUNZIONE DEGLI INVESTIMENTI • Si suppone che gli investimenti dipendano negativamente dal tasso d’interesse. Tale ipotesi è giustificata dal fatto che il tasso d’interesse è un costo per le imprese che prendono a prestito i fondi per finanziare gli investimenti (per le imprese che finanziano gli investimenti con fondi propri il tasso d’interesse rappresenta comunque un costoopportunità). Una seconda determinate degli investimenti è data dalle aspettative degli investitori (gli animal spirits nel linguaggio di Keynes). Considerando la forma funzionale lineare, la funzione degli investimenti può allora essere espressa dalla seguente: I = I – dr d>0 L’EQUILIBRIO SUL MERCATO DEI BENI: LA CURVA IS • La curva IS rappresenta il luogo di punti nel piano (Y, i) tale che il mercato dei beni è in equilibrio. Rispetto all’analisi svolta nel capitolo 8, dobbiamo ora completare l’analisi del mercato dei beni introducendo esplicitamente la funzione degli investimenti. Il modello è dunque il seguente: Yo = Yd = Y 90 Yd = C + I + G C = a + bYo I = I – dr Sostituendo: Y = a + bY + I – dr + G Da cui si ricava il reddito d’equilibrio: Y* = [1 / (1 – b)](a + I + G) – [d / (1 – b)]r Come si vede, a differenza della formula ottenuta nel capitolo 3 (in cui non si teneva conto del tasso d’interesse), il reddito d’equilibrio dipende ora anche dal tasso d’interesse: per ogni valore di r esiste un unico valore di Y che garantisce l’equilibrio sul mercato dei beni. DERIVAZIONE GRAFICA DELLA CURVA IS I, S S E1 I1 E2 I2 Al tasso d’interesse r1 corrispondono gli investimenti I1 e il reddito Y1 Y r E2 r2 r1 E1 IS Y2 Y1 Al tasso d’interesse r2 (r2>r1) corrispondono gli investimenti I2 (I2<I1) e il reddito Y2 (Y2<Y1) Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 Dal punto di vista grafico, le combinazioni di r e Y che garantiscono l’equilibrio sul mercato dei beni possono essere rappresentate come una retta nel piano (Y, r) di intercetta 91 [a + I + G) / d] e coefficiente angolare [–(1 – b) / d]. Infatti, esplicitando il tasso d’interesse r si ottiene: r* = (a + I + G) / d – [(1 – b) / d]Y Le intersezioni con gli assi sono dunque le seguenti: ponendo r = 0: Y = [1 / (1 – b)](a + I + G) ponendo Y = 0: r = (a + I + G) / d LA CURVA IS r (a + I + G) / d IS –(1 – b) / d [1 / (1 – b)](a + I + G) Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • L’inclinazione della IS. L’inclinazione negativa dipende dal fatto che un aumento del tasso d’interesse implica una diminuzione degli investimenti: per mantenere l’equilibrio, alla diminuzione della domanda si deve accompagnare una diminuzione dell’offerta e del reddito. La IS è tanto più piatta, quanto maggiori sono i parametri d e b. 1. Dal punto di vista economico, una forte sensibilità degli investimenti alle variazioni del tasso d’interesse (un valore di d elevato) significa che un aumento unitario del tasso d’interesse produce una forte caduta degli investimenti (cioè della domanda) e, quindi (per l’ipotesi d’equilibrio), dell’offerta e del reddito. 92 2. Nel caso del parametro b, una forte sensibilità del consumo alle variazioni del reddito (un valore di b elevato) implica un forte effetto moltiplicativo. Un aumento unitario del tasso d’interesse produce una certa diminuzione degli investimenti (determinato dal parametro d) e, se l’effetto moltiplicativo è alto (se cioè il valore di b è elevato), l’impatto sulla domanda e sul reddito è forte. • Punti di disequilibrio. I punti sopra la curva IS indicano combinazioni (Y, r) con valori di r superiori a r*. Ad un simile livello del tasso d’interesse (più alto del livello d’equilibrio), la domanda di beni d’investimento è minore di quella che garantirebbe l’equilibrio sul mercato dei beni. Si ha dunque un eccesso d’offerta. Simmetricamente nei punti al di sotto della curva IS si ha un eccesso di domanda di beni. DISEQUILIBRIO SUL MERCATO DEI BENI • • Punto W: per un dato valore di Y, il tasso di interesse è troppo basso → la domanda di investimenti è dunque troppo alta rispetto a quella che garantisce l’equilibrio → c’è eccesso di domanda di beni Punto K: per un dato Y, il tasso di interesse è troppo alto → la domanda di investimenti è troppo bassa rispetto a quella d’equilibrio → c’è eccesso di offerta di beni r K ECCESSO DI OFFERTA W ECCESSO DI DOMANDA Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Spostamenti della curva IS. Se aumenta [diminuisce] una delle componenti esogene della domanda la curva IS si sposta verso destra [sinistra]: per ogni livello del tasso d’interesse, un aumento della componente esogena della domanda (ad esempio di G) produce un aumento del reddito d’equilibrio pari al moltiplicatore keynesiano: ΔY = 1/(1 – b) ΔΑ 93 GLI SPOSTAMENTI DELLA CURVA IS • • Un aumento della componente esogena della domanda (ad esempio di G) provoca uno spostamento della curva IS verso destra pari a [1/(1 – b)] ΔG r ΔG>0 Una diminuzione provoca uno spostamento verso sinistra dello stesso ammontare ΔG<0 IS1 IS2 IS Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 L’EQUILIBRIO SUL MERCATO DELLA MONETA: LA CURVA LM • Come abbiamo visto, se si suppone che l’unica alternativa al detenere moneta in forma liquida è acquistare obbligazioni, l’equilibrio sul mercato della moneta implica l’equilibrio sul mercato delle obbligazioni e viceversa. Questo risultato può essere visto come una conseguenza della “legge di Walras”, secondo la quale “in un sistema composto da n mercati, se n–1 mercati sono in equilibrio, è in equilibrio anche l’ennesimo mercato”. NB: nel testo (Sloman) la legge di Walras viene richiamata a sproposito, sostenendo che se due dei tre mercati (moneta, obbligazioni e beni) sono in equilibrio, lo è anche il terzo. Questo non è vero: se il mercato della moneta è in equilibrio, come si è detto, lo è anche il mercato delle obbligazioni; ma questo non significa che lo sia anche il mercato dei beni. • La curva LM rappresenta il luogo di punti nel piano (Y, i) tale che il mercato della moneta (e, quindi, quello delle obbligazioni) è in equilibrio. Come abbiamo visto nel capitolo 9, la condizione d’equilibrio sul mercato della moneta (e delle obbligazioni) è la seguente: M = fY – gr Esplicitando Y, si ricava il reddito d’equilibrio: Y* = M / f + (g / f)r 94 Per ogni valore di r esiste un unico valore di Y che garantisce l’equilibrio sul mercato della moneta. DERIVAZIONE GRAFICA DELLA CURVA LM Mo r r2 r1 r Md2 LM E2 Md 1 E2 E1 E1 Y1 M Y2 Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 Dal punto di vista grafico, le combinazioni di r e Y che garantiscono l’equilibrio sul mercato della moneta possono essere rappresentate come una retta nel piano (Y, r) di intercetta [–(M / g)] e coefficiente angolare [f / g]. Infatti, esplicitando il tasso d’interesse r si ottiene: r* = –(M / g) + (f / g)Y Le intersezioni con gli assi sono dunque le seguenti: ponendo r = 0: Y=M/f ponendo Y = 0: r = –(M / g) 95 LA CURVA LM r LM f/g M/f Y – (M / g) Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • L’inclinazione della LM. L’inclinazione positiva dipende dal fatto che un aumento del tasso d’interesse implica una diminuzione della domanda di moneta a scopo speculativo (perché aumenta la domanda di obbligazioni); dato che l’offerta di moneta è per ipotesi fissa (poiché esogena), per mantenere l’equilibrio sul mercato della moneta è necessario che aumenti la domanda di moneta a scopo transazionale e precauzionale, cioè è necessario che aumenti il reddito d’equilibrio. La LM è tanto più piatta, quanto maggiore è il parametro g e quanto minore è il parametro f. 1. Dal punto di vista economico, una forte sensibilità della domanda di moneta alle variazioni del tasso d’interesse (un valore di g elevato) significa che un aumento unitario del tasso d’interesse produce una forte caduta della domanda di moneta a scopo speculativo, la quale per essere compensata da un aumento di pari entità della domanda di moneta a scopo transazionale e precauzionale richiede un forte aumento del reddito. 2. Simmetricamente, una forte sensibilità della domanda di moneta (a scopo transazionale e precauzionale) alle variazioni del reddito (un valore di f elevato) significa che, di fronte ad un aumento unitario del tasso d’interesse (che produce una certa diminuzione della domanda di moneta a scopo speculativo), è sufficiente un piccolo aumento del reddito a compensare la diminuzione della domanda di moneta a scopo speculativo. 96 Trappola della liquidità. Un caso particolare importante si ha quando la LM (o, un suo tratto) è orizzontale. In questo caso, le variazioni della quantità di moneta non producono alcuna variazione nel tasso d’interesse d’equilibrio: al tasso d’interesse d’equilibrio corrispondono infiniti livelli di reddito d’equilibrio. LA TRAPPOLA DELLA LIQUIDITÀ r Il reddito è così basso che tutti sono disponibili a detenere una qualsiasi quantità di moneta offerta in forma liquida LM rmin Y0 Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Punti di disequilibrio. I punti sopra la curva LM indicano combinazioni (Y, r) con valori di r superiori a r*. Ad un simile livello del tasso d’interesse (più alto del livello d’equilibrio), la domanda di moneta è minore di quella che garantirebbe l’equilibrio sul mercato della moneta (perché la domanda di moneta a scopo speculativo è troppo bassa). Si ha dunque un eccesso d’offerta di moneta. Simmetricamente nei punti al di sotto della curva LM si ha un eccesso di domanda di moneta. 97 DISEQUILIBRIO SUL MERCATO DELLA MONETA • • Punto W: per un dato valore di Y, il tasso di interesse è troppo basso → la domanda di moneta con movente speculativo è troppo alta rispetto a quella che garantisce l’equilibrio → c’è eccesso di domanda di moneta Punto K: per un dato Y, il tasso di interesse è troppo alto → la domanda di moneta con movente speculativo è troppo bassa rispetto a quella di equilibrio → c’è eccesso di offerta di moneta r K ECCESSO DI OFFERTA W ECCESSO DI DOMANDA Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Spostamenti della curva LM. Se aumenta [diminuisce] l’offerta di moneta, M, (la sola variabile esogena nel mercato della moneta) la curva LM si sposta verso destra [sinistra]: per ogni livello del tasso d’interesse (cioè per ogni livello della domanda di moneta a scopo speculativo), un aumento di M, produce un eccesso di offerta di moneta, al livello del reddito corrente; affinché si ristabilisca l’equilibrio sul mercato della moneta si deve avere un aumento anche nella domanda di moneta (a scopo transazionale e precauzionale), il che significa che deve aumentare il reddito d’equilibrio. ΔY = (1/ f) ΔΜ 98 SPOSTAMENTI DELLA CURVA LM • • Un aumento dell’offerta di moneta provoca uno spostamento della curva LM verso destra pari a ΔY = (1/ f) ΔM r LM2 LM LM1 ΔM<0 Una diminuzione provoca uno spostamento verso sinistra dello stesso ammontare ΔM>0 Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 L’EQUILIBRIO MACROECONOMICO: L’INTERSEZIONE IS-LM • L’intersezione tra la curva IS e la curva LM determina il livello d’equilibrio del reddito (Y*) e del tasso d’interesse (r*). Dal punto di vista analitico, si tratta di risolvere il sistema composto dalle due equazioni che descrivono l’equilibrio del mercato dei beni (IS) e della moneta (LM). IS: Y = a + bY + I – dr + G LM: M = fY – gr Risolvendo il sistema rispetto a Y e r: Y* = {1 / [1 – b + (df / g)]}[A + (dM / g)] r* = {(f / g) / [1 – b + (df / g)]}A – {(1 – b) / [g(1 – b) + df]}M dove: A = a + I + G 99 DERIVAZIONE GRAFICA DELL’EQUILIBRIO r L’equilibrio si trova in corrispondenza dell’intersezione tra le curve IS e LM. LM E Nel punto E, sia il mercato dei beni, sia quello della moneta sono in equilibrio r* IS Y* Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Esistenza dell’equilibrio. L’esistenza di un punto di intersezione tra la IS e la LM è garantita dalle diverse inclinazioni delle due curve. L’esistenza di un punto d’equilibrio non implica tuttavia che esso si stabilisca ad un livello di reddito compatibile con la piena occupazione dei fattori produttivi. • Stabilità dell’equilibrio. Nei punti che non appartengono alle curve IS e LM si suppone che esistano dei meccanismi capaci di condurre il sistema verso l’equilibrio. 1. Nei punti al di sopra della IS (in cui c’è eccesso d’offerta di beni), le scorte delle imprese tendono ad aumentare; l’aumento indesiderato delle scorte incentiva le imprese a ridurre la produzione, il che fa diminuire il reddito e riporta il sistema verso la IS. Simmetricamente nei casi di eccesso di domanda di beni, il reddito tende ad aumentare. 2. Nei punti al di sopra della LM (in cui c’è eccesso d’offerta di moneta o, il che è lo stesso, eccesso di domanda di titoli), gli operatori accumulano titoli; questo fa salire il loro prezzo e fa scendere il tasso d’interesse, riportando il sistema verso la LM. Simmetricamente nei casi di eccesso di domanda di moneta, il tasso d’interesse tende ad aumentare. Spesso si suppone che l’aggiustamento sui mercati finanziari sia più rapido di quello sul mercato dei beni. In tal caso il sistema si porta dapprima sulla curva LM, per poi spostarsi lungo tale curva fino ll)intersezione con la curva IS. 100 ST A B IL IT À D E L L’E Q U ILIB R IO • • K : eccesso di offerta di beni e di m oneta. r dim inuisce rapidam ente → K ’ (equilibrio sul m ercato della m oneta) K ’: eccesso di dom anda di beni. Y aum enta gradualm ente → E (equilibrio anche sul m ercato dei beni) r K LM E K' IS Y N B : nel processo K ' → E , lungo la LM , r aum enta, com prim endo la dom anda di m oneta a scopo speculativo e com pensando così l’aum ento di dom anda di m oneta a scopo precauzionale e transazionale generato dall’aum ento di Y S lom an , E le m e nti d i eco nom ia, Il M ulino , 20 02 POLITICHE FISCALI E MONETARIE • Gli effetti della politica fiscale e monetaria sul reddito e sul tasso d’interesse sono descritti dalle condizioni d’equilibrio del modello IS-LM. Riconsideriamo l’equazione del reddito d’equilibrio nella seguente forma: Y* = {1 / [1 – b + (df / g)]}A + {(d / g) / [1 – b + (df / g)]} M • La politica fiscale, ΔG, opera attraverso il moltiplicatore {1 / [1 – b + (df / g)]}: un aumento unitario della spesa esogena, A (la quale comprende la spesa pubblica G) aumenta il reddito di un ammontare pari a tale moltiplicatore. NB: in questa versione s\emplificata del modello IS-LM, non abbiamo esplicitato l’imposizione fiscale T. 101 LA POLITICA FISCALE r LM • • • E3 Un aumento di G sposta la IS verso destra: IS1 → IS2 Y aumenta r aumenta r3 r1 E2 E1 IS2 IS1 Ye1 Ye3 Y2 Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • La politica monetaria, ΔM, opera attraverso il moltiplicatore {(d / g) / [1 – b + (df / g)]}: un aumento unitario dell’offerta di moneta aumenta il reddito di un ammontare pari a tale moltiplicatore. LA POLITICA MONETARIA r • • • LM1 Un aumento di M sposta la LM verso destra: LM1 → LM2 Y aumenta r si riduce r1 LM2 E1 E2 r2 IS Ye1 Ye2 Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Politica fiscale e “spiazzamento”. Rispetto al modello del moltiplicatore considerato nel capitolo 8 (senza l’interazione del mercato della moneta), l’effetto di un aumento esogeno 102 della spesa pubblica, G, sul reddito (cioè il moltiplicatore della domanda esogena, A) è ora inferiore. Dal punto di vista matematico, il moltiplicatore è diminuito poiché il suo denominatore è aumentato di una quantità positiva pari a df / g. Dal punto di vista economico, questo dipende dal fatto che gli aumenti della spesa pubblica o, più in generale, gli aumenti della domanda esogena (spostamenti della IS verso destra), mentre fanno aumentare il reddito, provocano anche un aumento del tasso d’interesse (lungo la LM). Questo avviene perché, al crescere del reddito, aumenta la domanda di moneta a scopo transazionale e precauzionale; per ottenere questa maggiore liquidità (dato che l’offerta di moneta è fissa) gli operatori vendono titoli, facendone diminuire il prezzo e facendo aumentare il tasso d’interesse. Sul mercato dei beni, l’aumento del tasso d’interesse comprime (“spiazza”) gli investimenti privati, riducendo l’effetto espansivo sulla domanda. POLITICA FISCALE E SPIAZZAMENTO • • A seguito di un aumento di G, secondo il modello del moltiplicatore (in cui si ipotizza la costanza di r), Y dovrebbe aumentare da Ye1 a Y2 Sul mercato della moneta, però, l’aumento di Y fa aumentare r. Sul mercato dei beni, questo comprime I e riduce in parte l’effetto espansivo su Y. Il sistema si porta in Ye3 r LM E3 r3 r1 E1 E2 IS2 IS1 Ye1 Ye3 Y2 Y L’aumento di G ha spiazzato in parte I Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 Nei casi limite in cui la LM è verticale (la domanda di moneta a scopo speculativo non varia al variare del tasso d’interesse [g = 0], oppure la domanda di moneta a scopo transazionale e precauzionale è infinitamente sensibile alle variazioni del reddito [f = ∝], caso quest’ultimo scarsamente significativo sul piano economico) o la IS è orizzontale (gli investimenti sono infinitamente sensibili alle variazioni del tasso d’interesse [d = ∝], oppure tutto il reddito è consumato [b = 1]), lo spiazzamento è totale: un aumento della 103 spesa pubblica riduce di un pari ammontare gli investimenti privati lasciando invariato il reddito d’equilibrio. In generale, l’effetto spiazzamento degli investimenti privati è forte quando maggiore è l’inclinazione della LM è quanto minore è l’inclinazione della IS. LA DIMENSIONE DELLO SPIAZZAMENTO (L’INCLINAZIONE DELLA LM) r r LM E2 LM E1 IS2 IS2 IS1 IS1 Ye1 Ye2 Y Ye1Ye2 Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 LA DIMENSIONE DELLO SPIAZZAMENTO (L’INCLINAZIONE DELLA IS) r r E2 LM LM E2 E1 E1 IS2 Ye1 Ye2 Y£ Y IS2 IS1 IS1 Ye1 Ye2 Y£ Y [1/(1 – b)] Δ G [1/(1 – b)] Δ G – Δ I: Spiazzamento Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 104 – Δ I: Spiazzamento • Il coordinamento della politica monetaria e fiscale. Al fine di evitare (o, semplicemente, ridurre) l’effetto spiazzamento provocato da una politica fiscale espansiva (ΔG > 0), la banca centrale può attuare una politica monetaria anch’essa espansiva (ΔM > 0) volta ad impedire l’aumento dei tassi d’interesse da cui dipende lo spiazzamento degli investimenti privati. Dal punto di vista grafico, si ha uno spostamento sia della IS, sia della LM, con un forte impatto sul reddito e un impatto ridotto (o, se le politiche sono ben coordinate, nullo) sul tasso d’interesse. Dal punto di vista economico, nel momento in cui l’aumento del reddito provocato dalla politica fiscale espansiva fa salire la domanda di moneta, la banca centrale soddisfa tale incremento aumentando l’offerta di moneta e impedendo quindi che il tasso d’interesse aumenti (il fatto che la banca centrale adegui l’offerta di moneta alle variazioni della domanda di moneta porta a definire una simile politica monetaria “accomodante”). COORDINAMENTO DELLA POLITICA FISCALE E MONETARIA • ΔG>0, ΔM>0 La politica fiscale espansiva è accompagnata da una politica monetaria espansiva r LM1 r1 L’aumento del tasso di interesse viene neutralizzato dall’aumento dell’offerta di moneta E1 E2 IS2 IS1 Ye1 LM2 Ye2 Y L’effetto spiazzamento è neutralizzato da una politica monetaria accomodante Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Politica monetaria e “trappola della liquidità”. Nel caso limite in cui la LM è orizzontale (la domanda di moneta a scopo speculativo è infinitamente sensibile al tasso d’interesse [g = ∝], oppure la domanda di moneta a scopo transazionale e precauzionale non varia al variare del reddito [f = 0], la politica monetaria risulta del tutto inefficace. Infatti, gli aumenti nell’offerta di moneta (ΔM > 0) spostano la LM verso destra; tuttavia, essendo la LM orizzontale, non si ha alcuna modificazione della configurazione d’equilibrio. 105 Viceversa, in tal caso, l’efficacia della politica fiscale è massima poiché le variazioni della spesa pubblica non producono alcun impatto sul tasso d’interesse (spiazzamento nullo) e il moltiplicatore viene a coincidere con quello calcolato nel capitolo 8 (in cui non si teneva conto del mercato della moneta, cioè si ragionava “a parità di tasso d’interesse”). VISIONE KEYNESIANA E TRAPPOLA DELLA LIQUIDITÀ r Se la LM è orizzontale, la politica monetaria è inefficace e l’unico strumento efficace è la politica fiscale LM LM1 rmin IS1 IS Y* Y*1 Y Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Le visioni keynesiana e monetarista. Il caso appena visto, di una LM orizzontale, corrisponde alla posizione keynesiana nel dibattito sullo stato dell’economia durante la crisi degli anni ’30. Il caso opposto, di una LM verticale, corrisponde invece alla posizione della scuola monetarista secondo cui le politiche fiscali espansive non producono alcun effetto di rilievo sul reddito e fanno soltanto aumentare il tasso d’interesse, spiazzando gli investimenti privati. Secondo i monetaristi dunque, la politica monetaria è lo strumento più efficace per incidere sul reddito d’equilibrio. 106 LA VISIONE MONETARISTA LM r LM1 r*1 Se la LM è verticale, la politica fiscale è inefficace e l’unico strumento efficace è la politica monetaria r* IS1 r*2 IS Y* Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 107 Y*1 Y III MICROECONOMIA 1. Introduzione [Bibliografia di riferimento: Sloman, introduzione, capitolo 1, capitolo 2] RAZIONALITÀ E SCELTE ECONOMICHE • La microeconomia studia le scelte individuali in condizioni di scarsità: dati gli obiettivi del decisore, gli strumenti a sua disposizione sono limitati. Con questa concezione del problema economico, diventano importanti i seguenti concetti. 1. Costo opportunità. In ogni problema decisionale, una scelta comporta il sacrificio delle altre alternative possibili. La migliore alternativa tra quelle scartate costituisce il “costo-opportunità” della scelta. 2. Costi e benefici totali e razionalità ottimizzante. Ogni scelta comporta dei costi e dei benefici. Gli insiemi dei costi e dei benefici associati alla scelta costituiscono i costi e i benefici totali. Una scelta è razionale quando massimizza la differenza tra benefici totali e costi totali. Il criterio di razionalità è quindi un criterio di massimizzazione. 3. Costi e benefici marginali. Nel caso di scelte di tipo quantitativo (quanta pasta mangiare, quante ore studiare), si definiscono costi e benefici marginali, i costi e i benefici aggiuntivi che si presentano quando si aumenta di una quantità infinitesimale un dato livello di scelta. Dal punto di vista matematico, si tratta delle derivate delle funzioni dei costi totali e dei benefici totali. • Razionalità e analisi marginale. Dal punto di vista matematico, nella maggior parte dei problemi che tratteremo, le funzioni dei costi e dei benefici totali saranno derivabili e soddisferanno opportune condizioni di convessità (cioè sulla derivata seconda). Con queste ipotesi, condizione necessaria e sufficiente per la massimizzazione della differenza tra i benefici e i costi totali è l’uguaglianza tra i benefici e i costi marginali. Per questo motivo l’analisi marginale svolge un ruolo di primaria importanza nei problemi di 108 ottimizzazione (con il termine “ottimizzazione” si intende in senso generico sia la “massimizzazione” che la “minimizzazione”). • Dal punto di vista economico, questo significa che, dovendo decidere, ad esempio, quanto riso mangiare, il “consumatore razionale” confronta il beneficio che gli apporterebbe il consumo di un ulteriore chicco di riso (beneficio marginale) con il suo costo (costo marginale). Se il beneficio marginale è superiore al costo marginale, significa che è conveniente mangiare il chicco di riso aggiuntivo (il che significa che la quantità di riso che stava consumando in precedenza non era ottimale). Se invece il costo di un ulteriore chicco di riso è superiore al suo beneficio, allora non conviene aumentare il consumo di riso. Anzi, probabilmente vale la pena di verificare se non convenga ridurre la quantità da consumare. Operativamente: se, ad un dato livello di consumo, il beneficio marginale è superiore al costo marginale, conviene aumentare la quantità consumata; se invece il costo marginale è superiore al beneficio marginale, conviene diminuire la quantità consumata. Solo quando costo marginale e beneficio marginale sono uguali, si determina la quantità ottima da consumare. DOMANDA E OFFERTA • Il meccanismo dei prezzi: il prezzo (dei beni finali e dei fattori di produzione) tende ad aumentare quando, al prezzo corrente, la quantità domandata supera la quantità offerta, e diminuisce in caso contrario. Il meccanismo dei prezzi opera come sistema di segnali (un aumento del prezzo indica che si è verificato un aumento della domanda e/o una diminuzione dell’offerta) e di incentivi (gli aumenti del prezzo incentivano le imprese ad espandere la produzione e i consumatori a ridurre i consumi riportando il sistema verso l’equilibrio tra domanda e offerta). • Interdipendenza dei mercati dei beni e dei fattori: le variazioni della domanda di beni producono effetti sulla produzione e si riversano così sul mercato dei fattori di produzione. • Interdipendenza e interesse pubblico: la mano invisibile. • La concorrenza perfetta: nella definizione ortodossa si tratta semplicemente di una forma di mercato in cui le imprese devono prendere il prezzo per dato (se provassero ad alzare il prezzo perderebbero tutti i clienti). Si tratta di un’astrazione che non ha un riscontro reale e che viene presentata come modello ideale. Ma: ideale per chi? Perché si dà tanta importanza ad un modello irrealista? Vedremo che la risposta sta nelle implicazioni 109 normative che si cerca di trarre dalla concorrenza perfetta, le quali permettono di capire per chi è effettivamente ideale vivere in un mondo interamente regolato da mercati perfettamente concorrenziali. • La domanda: relazione tra quantità domandata e prezzo. Si rappresenta come una curva di domanda. La curva è costruita tenendo ferme le altre determinanti della domanda (gusti, beni sostituti e complementari, reddito e sua distribuzione, aspettative). Quando varia il prezzo, rimanendo invariate le altre variabili, si ha un movimento lungo la curva. Quando varia una delle altre componenti si ha uno spostamento dell’intera curva. • L’offerta: relazione tra quantità offerta e prezzo. Si rappresenta come una curva di offerta. La curva è costruita tenendo ferme le altre determinanti dell’offerta (costi di produzione, redditività dei beni alternativi, redditività dei beni in produzione congiunta, aspettative). Quando varia il prezzo, rimanendo invariate le altre variabili, si ha un movimento lungo la curva. Quando varia una delle altre componenti si ha uno spostamento dell’intera curva. • L’equilibrio: quantità e prezzo d’equilibrio come intersezione delle curve di domanda e di offerta (l’equilibrio è una situazione in cui nessuno ha incentivo a cambiare strategia). • Spostamento verso un nuovo equilibrio a seguito di uno spostamento della curva di domanda (ad esempio un aumento): al prezzo corrente si ha un eccesso di domanda, il prezzo tende ad aumentare (movimento lungo la curva d’offerta). • Se invece si sposta la curva d’offerta (ad esempio aumenta), al prezzo corrente si ha un eccesso d’offerta, il prezzo tende a diminuire (movimento lungo la curva di domanda). ECONOMIA DI MERCATO E ECONOMIA PIANIFICATA • Nell’economia di mercato, la produzione è affidata all’iniziativa privata. Le decisioni relative ai beni da produrre e in quali quantità e la scelta delle tecniche da utilizzare sono prese dalle imprese, le quali hanno per obiettivo la massimizzazione del profitto. La produzione non è quindi direttamente finalizzata alla soddisfazione dei bisogni della popolazione, bensì alla vendita sul mercato. La possibilità di soddisfare i propri bisogni rimane invece subordinata al potere d’acquisto di ciascuno sul mercato. In tale sistema, lo stato è tutt’altro che assente: infatti, senza lo stato che fissa le regole (e ne garantisce il rispetto) all’interno delle quali le parti sociali e i singoli individui stipulano i contratti, un sistema di mercato non potrebbe funzionare. Lo stato inoltre interviene in forme e gradi diversi nella produzione di particolari beni e servizi attraverso interventi diretti e di regolamentazione, incide sui prezzi relativi e sui redditi attraverso sussidi, trasferimenti e 110 imposte, influisce sulla struttura dei consumi attraverso la legislazione, la sovvenzione o la fornitura diretta di alcuni beni e servizi, partecipa alla contrattazione tra le parti sociali e sorveglia la dinamica delle variabili macroeconomiche e finanziarie (inflazione, disoccupazione, saldo della bilancia dei pagamenti, tassi d’interesse, tassi di cambio). Per questo motivo, i sistemi di mercato con una forte presenza dello stato nell’economia sono anche detti “economie miste”. • Nell’economia pianificata, invece, tutte le decisioni di produzione e distribuzione sono prese dallo stato o, comunque da agenzie pubbliche. La centralizzazione nelle decisioni di produzione e distribuzione non va confusa con la privazione delle libertà economiche. La scelta dei beni da produrre e dei criteri per distribuirli tra la popolazione può essere il risultato di diverse procedure di aggregazione delle preferenze individuali. Tali procedure possono essere di tipo “dittatoriale” (un pianificatore con pieni poteri stabilisce le priorità nella produzione e i criteri di distribuzione del prodotto) o “democratico” (i cittadini, attraverso opportuni modelli di voto e di partecipazione politica, esprimono le loro preferenze, determinando così gli obiettivi economici della società). Quello che è centralizzato è invece il piano di produzione dell’intera economia (i beni da produrre, gli scambi tra imprese necessari alla realizzazione del piano, le tecniche di produzione più idonee), una volta stabiliti gli obiettivi della produzione. • Critiche degli economisti liberisti all’economia pianificata: 1. Raccolta delle informazioni necessarie alla pianificazione. 2. Uso inefficiente delle risorse in assenza di prezzi di mercato che segnalino la scarsità relativa di ciascuna risorsa. 3. Carenza di incentivi per i lavoratori e per i dirigenti. 4. Riduzione delle libertà individuali perché il lavoratore non può scegliere dove lavorare, i consumatori non possono scegliere cosa consumare. Questi problemi, secondo i critici della pianificazione, sarebbero la causa della crisi economica e del crollo politico dell’Unione Sovietica e dei paesi del blocco comunista. • Repliche dei sostenitori della pianificazione: 1. Se il problema fosse la raccolta delle informazioni necessarie alla pianificazione, questo dovrebbe riguardare anche la pianificazione capitalista. Infatti, la centralizzazione dell’informazione e la pianificazione sono proprio gli strumenti delle imprese che operano sul mercato. Le più grandi multinazionali hanno bilanci superiori a quelli di interi paesi e realizzano profitti secondo quelli che sono considerati i più alti criteri di efficienza economica. I moderni sistemi capitalisti non sono basati su 111 scambi tra agenti isolati, come i modelli della teoria neoclassica suppongono, bensì su imprese ad alta concentrazione del capitale che pianificano tutto: produzione, vendita, commercializzazione, trasporto, variabili finanziarie, assistenza alla clientela, carriere interne, rapporti con le altre imprese, rapporti con lo stato. Il confronto tra capitalismo e socialismo non ha niente a che vedere col confronto tra modello centralizzato e modello decentralizzato. Quello che differenzia i due sistemi è che le imprese capitalistiche (e i loro profitti) sono private mentre le imprese socialiste (i loro mezzi di produzione e i loro prodotti) sono pubbliche. 2. Le moderne tecniche di pianificazione forniscono un sistema di indicatori di scarsità (chiamati anche “prezzi ombra”) che possono essere utilizzati per risolvere i problemi di efficienza nell’uso delle risorse, fornendo la stessa informazione in merito alle scarsità delle varie risorse fornita dai prezzi di mercato nel sistema capitalista. 3. Se si sostiene che l’impresa socialista è meno produttiva di quella capitalista per via dei minori incentivi legati alla performance, questo equivale ad ammettere che l’impresa capitalista sfrutta maggiormente i lavoratori, ossia che i maggiori livelli di produttività sono ottenuti tramite maggiori sforzi da parte dei lavoratori, cioè tramite un aumento dell’input “lavoro”, il che non ha niente a che vedere con l’efficienza, la quale presuppone che il massimo dell’output sia ottenuto a parità di input. 4. Nel capitalismo, la vera asimmetria è tra capitalista e lavoratore: il capitalista sceglie se lavorare o meno, il lavoratore sceglie invece solo per chi lavorare, ma è comunque obbligato a trovarsi qualcuno per cui lavorare. Nel socialismo questa asimmetria non esiste. Per quanto riguarda la libertà di scelta nel consumo, non è affatto detto che nel sistema pianificato i consumatori non possano conservare dei gradi di libertà nella scelta dei beni da consumare. La priorità tuttavia è nella soddisfazione dei bisogni primari di tutta la popolazione (alimentazione, abitazione, salute) e poi di quelli via via superiori (istruzione, trasporti, cultura, sport, arte); solo, una volta assicurata la soddisfazione dei bisogni, si pone il problema delle preferenze individuali per i diversi beni di consumo. Nel capitalismo invece è il diverso potere d’acquisto dei cittadini che determina i gradi di libertà di ciascuno nelle scelte di consumo, senza alcuna garanzia che i bisogni di tutti siano effettivamente soddisfatti. Le cause del crollo dei sistemi socialisti vanno ricercate nell’insostenibilità dei costi della guerra fredda, nell’iperespansione dell’Unione Sovietica ben oltre i confini della propria capacità economica e nelle specifiche strategie di sviluppo dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti. Questi problemi devono essere analizzati in ottica storica e non possono 112 essere banalizzati nel confronto astratto tra modello centralizzato e modello decentralizzato. • NB: il linguaggio economico della teoria dominante è carico di valenze ideologiche e di mistificazioni. Parlare di “libere scelte individuali”, “libera economia di mercato” e “libero mercato” è privo di senso. Al contrario, (1) le scelte individuali non sono affatto libere, bensì vincolate: come abbiamo visto, nei problemi di scelta individuale, si suppone che, dati gli obiettivi del decisore, gli strumenti a sua disposizione siano limitati, il che significa che la scelta avviene necessariamente all’interno di una serie di vincoli e non è perciò mai libera (e, come vedremo, i vincoli economici dei diversi soggetti che interagiscono nel mercato sono molto diversi fra loro). (2) Associare l’economia di mercato alla libertà individuale è un falso storico: al contrario gli esempi passati e presenti di economie di mercato non democratiche o addirittura dittatoriali sono numerosi. (3) Cosa significhi, infine, l’espressione “libero mercato” è tutt’altro che chiaro: la libertà può essere delle persone, non delle istituzioni che regolano le loro interazioni e, come abbiamo visto, le scelte individuali non sono mai completamente libere. Se invece per “libero mercato” si intende il principio che il meccanismo di mercato è lasciato libero di operare, allora non si capisce che senso abbia farne una questione normativa, visto che esistono meccanismi che se lasciati liberi di operare non portano alla libertà individuale, bensì al suo opposto (il meccanismo nazista di relazioni razziali, se fosse stato lasciato libero di operare, avrebbe portato allo sterminio completo degli ebrei). In definitiva, l’associazione dell’idea di libertà all’interazione di mercato è solo il frutto dell’ideologia liberista da cui trae ispirazione la teoria neoclassica. • Vantaggi delle economie di mercato secondo gli economisti liberisti: 1. Non c’è bisogno di tanta burocrazia. 2. Se i mercati sono concorrenziali nessuno ha tanto potere di mercato. 3. Le imprese più efficienti vengono meglio remunerate e permettono la migliore soddisfazione del consumatore. • Svantaggi delle economie di mercato secondo i critici del liberismo: 1. La concorrenza è spesso limitata. 2. La produzione che massimizza il profitto può avere effetti collaterali indesiderabili (ad esempio l’inquinamento o gli incidenti sul lavoro). 3. Instabilità macroeconomica (con ricorrenti periodi di crisi) dovuta alla mancanza di un coordinamento centralizzato nella produzione. 113 4. Incoraggiando il perseguimento dell’interesse individuale, l’interazione di mercato incentiva comportamenti egoistici e sviluppa l’individualismo, il che, secondo alcuni, può essere condannato su un piano morale. TEORIA DELLE DECISIONI E MICROECONOMIA • L’ottica consequenzialista. Il comportamento individuale è rappresentato come un problema di scelta tra diverse azioni possibili, considerando unicamente le conseguenze economiche di ciascuna azione. Il primo passo nell’analisi della scelta è la definizione dell’insieme delle conseguenze economiche associate a ciascuna azione possibile (“insieme delle alternative economiche possibili”). Una volta determinato l’insieme delle alternative economiche possibili, la scelta di una particolare azione si basa sulla valutazione delle diverse alternative economiche secondo gli obiettivi che il decisore si prefigge. • Un’interpretazione di tipo positivo (o descrittivo) di questa teoria delle decisioni consiste nel supporre che gli agenti economici agiscano effettivamente secondo un criterio di razionalità ottimizzante. • Secondo un’interpretazione di tipo normativo (o prescrittivo), la teoria neoclassica delle decisioni fornisce i criteri che un decisore razionale dovrebbe seguire per massimizzare la realizzazione dei propri obiettivi. • La microeconomia si sviluppa secondo l’interpretazione positiva della teoria delle decisioni. Questo significa che la teoria assume un potere esplicativo della realtà solo nella misura in cui si possa verosimilmente ritenere che gli agenti si comportino secondo criteri di scelta ottimizzanti (o, almeno, secondo comportamenti che possano essere approssimati da criteri ottimizzanti). Viceversa, tutti gli sviluppi in senso descrittivo della teoria neoclassica cadono non appena si prendano in considerazione agenti con comportamenti ispirati a criteri di razionalità diversi dalla pura ottimizzazione. • Le due principali applicazioni microeconomiche della teoria ottimizzante delle decisioni si hanno nel campo della teoria del consumo e della teoria della produzione. Nei due casi, si tratta dunque di esplicitare l’insieme delle alternative economiche possibili e gli obiettivi del decisore. 114 2. Domanda individuale e domanda di mercato [Bibliografia di riferimento: Sloman, capitolo 2] L’INSIEME DELLE ALTERNATIVE POSSIBILI: LA RETTA DI BILANCIO • Per poter descrivere il comportamento del consumatore come risultato di scelte ottimizzanti si deve innanzi tutto determinare l’insieme delle alternative di consumo possibili. La definizione di tale insieme equivale alla determinazione dei vincoli all’interno dei quali il consumatore può operare la propria scelta. • Se non esistessero possibilità di scambio tra gli agenti economici, le alternative di consumo di ciascun individuo sarebbero determinate dalle sue dotazioni iniziali e dalla sua capacità di trasformare le risorse naturali in beni di consumo. Così, un individuo che disponesse di un paniere di beni A costituito di quattro libri e tre litri di latte (che può essere rappresentato con la notazione A = (4, 3)), potrebbe consumare al massimo quattro libri e tre litri di latte. Questo significa che il paniere A definirebbe il suo vincolo di consumo. • Dal punto di vista grafico, riportando sugli assi cartesiani le quantità dei due beni, i diversi panieri possono essere rappresentati come punti nel piano: se sull’asse orizzontale riportiamo il numero di libri e sull’asse verticale i litri di latte, il paniere A, costituito di quattro libri e tre litri di latte, è rappresentato dal punto di coordinate (4, 3). • Se invece esiste la possibilità di scambiare i beni sul mercato, le alternative di consumo aumentano poiché oltre al paniere A, il consumatore può ottenere panieri diversi, vendendo parte dei libri e del latte e acquistando altri beni. Ovviamente l’insieme delle alternative di consumo possibili dipende in tal caso, oltre che dalle dotazioni iniziali (i quattro libri e i tre litri di latte) dai prezzi di mercato. Per semplicità, nell’analisi dello scambio di mercato, i beni sono considerati come perfettamente divisibili (si suppone cioè che sia possibile acquistare e vendere anche frazioni infinitesime di libri). • In generale, i vincoli possono essere distinti in “vincoli fisici” e “vincoli economici”. I primi sono quei vincoli di consumo che non possono essere superati neanche attraverso l’interazione economica. I secondi sono invece quei vincoli di consumo che si determinano attraverso l’interazione economica. Nell’analisi della scelta del consumatore l’unico vincolo che prenderemo in esame è di natura economica ed è il vincolo di bilancio. 115 • Vincolo di bilancio. Si tratta delle limitazioni al consumo imposte dal potere d’acquisto di un dato reddito monetario. Supponiamo che il prezzo di mercato di un libro sia di 1 € e quello del latte di 2 € al litro e supponiamo anche che il consumatore non possa influire in nessun modo su tali prezzi (il che, come vedremo, equivale a supporre che il mercato sia perfettamente concorrenziale dal lato della domanda). Con un reddito monetario di 10 €, se il consumatore volesse consumare solo libri, potrebbe consumarne al massimo 10, se volesse consumare solo latte, potrebbe consumarne 5 litri, altrimenti potrebbe consumare una combinazione di libri e latte. Indicando i due beni con x1 e x2, e i loro prezzi con p1 e p2, le diverse combinazioni dei due beni che il consumatore può acquistare con il reddito monetario m sono determinate dalla seguente disequazione: x1 p1 + x2 p2 ≤ m Se il consumatore decide di spendere interamente il suo reddito monetario m, le diverse quantità dei beni x1 e x2 che egli può acquistare sono determinate dalla seguente equazione: x1 p1 + x2 p2 = m Dal punto di vista grafico, si tratta di una retta nel piano (x2, x1), la cui equazione esplicita rispetto a x1 è la seguente: x1 = m / p1 – (p2 / p1) x2 Tale retta prende il nome di retta di bilancio. L’intersezione con l’asse delle x2 è data da: x 2 = m / p2 ottenuta ponendo x1 = 0 L’intersezione con l’asse delle x1 è data da: x 1 = m / p1 ottenuta ponendo x2 = 0 116 RETTA DI BILANCIO x1 m / p1 - p2 / p1 x2 m / p2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 2/9 Considerando la disequazione invece dell’equazione, l’insieme delle alternative di consumo possibili è dato dalla regione triangolare compresa tra la retta di bilancio e gli assi cartesiani. INSIEME DELLE SCELTE POSSIBILI B: Se il consumatore spende tutto il suo reddito (S = m), la sua scelta si situa sulla retta di bilancio A: Se il consumatore non spende tutto il suo reddito (S < m), la sua scelta si situa all’interno del triangolo scuro C: Il consumatore ha un reddito insufficiente ad acquistare punti esterni al triangolo scuro (S > m) x1 C B A Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • x2 cap. 2/9 Se aumenta il reddito monetario m, a prezzi costanti, la retta di bilancio si sposta verso l’alto. 117 VARIAZIONE DEL REDDITO NOMINALE x1 m2 < m0 < m1 m1/p1 m0/p1 m2/p1 m2/p2 m0/p2 m1/p2 x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/14 Se aumenta il prezzo p1, a parità di prezzo p2 e di reddito monetario m, la retta di bilancio ruota verso l’interno facendo perno sul punto di intersezione con l’asse x2. VARIAZIONE DI p1 x1 p21 < p01 < p11 m/p21 m/p01 m/p11 m/p2 x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/16 Se aumenta il prezzo p2, a parità di prezzo p1 e di reddito monetario m, la retta di bilancio ruota verso l’interno facendo perno sul punto di intersezione con l’asse x1. 118 VARIAZIONE DI p2 x1 p22 < p02 < p12 m/p1 m/p12 m/p02 m/p22 x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/17 Economicamente, il fatto che la retta di bilancio ruota verso l’interno quando aumenta uno dei due prezzi significa che il vincolo di bilancio diventa più stringente: l’aumento di uno dei due prezzi riduce infatti le possibilità complessive d’acquisto del consumatore. LA FUNZIONE OBIETTIVO: L’UTILITÀ DEL CONSUMATORE • Una volta individuato l’insieme delle alternative possibili (determinato dal vincolo di bilancio) si devono specificare i criteri scelta all’interno di quest’insieme. • L’ipotesi di fondo è che il consumatore tragga un’utilità dal consumo dei beni. La funzione obiettivo del consumatore è dunque la sua funzione d’utilità, che egli cercherà di massimizzare compatibilmente con le proprie risorse monetarie. La scelta di consumo ottima all’interno dell’insieme delle scelte possibili è quella che massimizza la funzione d’utilità del consumatore. • La funzione d’utilità è una funzione che fa corrispondere ad ogni paniere di beni un numero reale indicante appunto l’utilità che il consumatore ricava dal consumo di quel particolare paniere di beni. • Dal punto di vista matematico, se i beni esistenti sono in numero di n, la funzione d’utilità è semplicemente una funzione di n variabili. U = U (x1, x2, … , xn) 119 • Negli sviluppi analitici, per semplicità, restringeremo l’analisi a due soli beni di consumo. U = U (x1, x2) Su questa funzione d’utilità è possibile definire i concetti di utilità marginale (UMG) e di utilità media (UME) rispetto a ciascuno dei due beni. L’utilità marginale rispetto a x1 (o a x2) è la derivata parziale della funzione rispetto a x1 (o a x2); l’utilità media rispetto a x1 (o x2) è il rapporto tra l’utilità totale e la quantità consumata di x1 (o di x2) UMG1 = ∂U / ∂x1 UMG2 = ∂U / ∂x2 UME1 = U / x1 UME2 = U / x2 • Sulla funzione d’utilità è possibile imporre un certo numero di restrizioni. Ad esempio, come vedremo, si suppone in genere che tale funzione sia crescente rispetto a ciascuna variabile, il che significa assumere che, se il consumo di un qualsiasi bene aumenta, aumenta anche l’utilità totale del consumatore. • Ogni particolare specificazione matematica della funzione d’utilità implica particolari tipi di preferenze del consumatore per i diversi beni che compongono i panieri di consumo. Consideriamo due semplici esempi di funzioni d’utilità lineari: U = 7x1 + 2x2 U = x1 + 10x2 La prima funzione d’utilità implica che se il consumo del bene x1 aumenta di un’unità, l’utilità complessiva del consumatore aumenta di 7 punti, mentre un aumento del consumo di un’unità del bene x2 comporta un aumento dell’utilità complessiva di soli 2 punti; questo significa che il consumatore assegna un’importanza maggiore ad un’unità di x1 rispetto ad un’unità di x2, ossia il consumatore preferisce un’unità di x1 rispetto x2. Nella seconda funzione d’utilità, invece, il consumatore preferisce x2 a x1: un aumento del 120 consumo di un’unità del bene x1 comporta un aumento dell’utilità complessiva di 1 punto, mentre un aumento del consumo di un’unità del bene x2 comporta un aumento dell’utilità complessiva di 10 punti. In generale, con funzioni di utilità più complesse dal punto di vista matematico, la preferenza relativa per un bene o per l’altro non può essere stabilita in via assoluta, bensì dipende anche dalle quantità che si consumano dei due beni. In genere, assumiamo che l’utilità di un’unità del bene sia alta quando disponiamo di poche unità del bene stesso e vada diminuendo a mano a mano che la disponibilità del bene stesso aumenta: se disponiamo di tre mele e ce ne offrono una quarta, l’utilità aumenta notevolmente; se viceversa disponiamo di trenta chili di mele e ce ne offrono un’altra ancora l’utilità aumenta solo di poco. • Secondo un approccio largamente diffuso, piuttosto che sviluppare l’analisi a partire dalle proprietà della funzione d’utilità, è possibile analizzare il comportamento del consumatore a partire da particolari ipotesi sulle sue preferenze. Più precisamente, secondo l’approccio assiomatico alla teoria del consumatore, si definiscono una serie di assiomi sulla struttura delle preferenze del consumatore, i quali costituiscono i principi fondamentali che regolano le sue scelte di consumo. • Relazioni di preferenze. Ipotizziamo innanzi tutto che il consumatore sia in grado di ordinare le diverse alternative di consumo possibili (i diversi panieri cui può accedere). Dati due panieri A e B, se il consumatore preferisce strettamente A a B, scriviamo A > B; se il consumatore è indifferente tra A e B, scriviamo A ∼ B; infine, se il consumatore preferisce debolmente A a B (se cioè egli ritiene che A è almeno tanto buono quanto B), scriviamo A ≥ B. • Imponiamo inoltre i seguenti assiomi sulle preferenze del consumatore. 1. Completezza. Assumiamo che il consumatore sia in grado di ordinare tutte le alternative a sua disposizione: presi due panieri qualsiasi, A e B, il consumatore è sempre in grado di stabilire (1) se A ≥ B, (2) se B ≥ A, o (3) se entrambe le precedenti condizioni sono vere, se cioè A ∼ B. 2. Transitività. Assumiamo anche che se il consumatore preferisce debolmente il paniere A al paniere B (A ≥ B), e il paniere B al paniere C (B ≥ C), allora egli preferisce anche il paniere A al paniere C (A ≥ C). 3. Monotonicità. Assumiamo che tra due panieri A e B identici tra loro in tutto meno che per il fatto che il paniere A contiene una quantità maggiore di uno o più beni rispetto al 121 paniere B, il consumatore preferisce A a B (A ≥ B). In altri termini il consumatore preferisce sempre avere a disposizione una maggiore quantità di ciascun bene. 4. Convessità. Dati due panieri A e B indifferenti fra loro, assumiamo che tutti i panieri ottenuti come combinazione lineare dei due panieri A e B siano preferiti ai due panieri in questione. NB (definizione di combinazione lineare): un punto C è una combinazione lineare di A e B se può essere ottenuto come C = α A + (1 – α) B [con α ∈ (0, 1)]. Ad esempio se un consumatore è indifferente tra un piatto di riso e un piatto di pasta (e le sue preferenze rispettano l’assioma di convessità), piuttosto che un piatto intero dell’uno o dell’altro, egli dovrebbe preferire un piatto con un po’ dell’uno e un po’ dell’altro (ad esempio metà e metà, o un terzo di pasta e due terzi di riso). La logica di tale assioma è la seguente: quando il consumatore possiede x1 in abbondanza, egli è disposto ad accettare una grande riduzione del consumo di x1 pur di ottenere un aumento unitario del consumo di x2; viceversa, quando la disponibilità di x1 è scarsa (cioè quando x1 è relativamente prezioso per il consumatore), egli sarà disposto a cedere solo una piccola quantità di x1 in cambio di un’unità di x2. L’assioma di completezza e quello di transitività sono assolutamente necessari alla costruzione dell’intera teoria del consumatore. Gli assiomi di monotonicità e di convessità possono invece in alcuni casi essere attenuati senza che ciò comporti la caduta dell’intera costruzione analitica. • Gli assiomi introdotti hanno delle precise implicazioni grafiche. In particolare, gli assiomi di completezza, monotonicità e convessità sono di immediata interpretazione. 1. Completezza. Presi due punti qualsiasi A e B del piano, il consumatore è in grado di confrontarli e stabilire se A ≥ B, B ≥ A, o A ∼ B. 2. Monotonicità. Considerando il punto del piano A, il consumatore preferisce tutti i punti che si trovano a nord-est, mentre preferisce A a tutti i punti che si trovano a sudovest. La monotonicità implica infatti che il consumatore preferisce ad A tutti i panieri che contengono la stessa quantità di un bene e una quantità maggiore dell’altro bene, mentre preferisce A a tutti i panieri che contengono la stessa quantità di un bene e una quantità minore dell’altro bene. 3. Convessità. Presi due punti A e B indifferenti tra loro, tutti i punti sul segmento che unisce A e B sono preferiti sia ad A che a B. NB: dal punto di vista grafico, tutte le combinazioni lineari di due punti qualsiasi sono rappresentate dal segmento che unisce i due punti. 122 • Curve di indifferenza. Una curva di indifferenza è definita come il luogo dei punti del piano cartesiano A, B, C, … rispetto ai quali il consumatore è indifferente (A ∼ B ∼ C …). In pratica, una curva di indifferenza si ottiene unendo tutti i punti (tutti i panieri di beni) che forniscono al consumatore uno stesso livello di utilità. CURVA DI INDIFFERENZA x1 Luogo dei panieri indifferenti secondo le preferenze del consumatore x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/21 Ovviamente non esiste un’unica curva di indifferenza, ma ne esistono tante: una per ogni diverso livello di utilità del consumatore. 123 MAPPA DI INDIFFERENZA x1 I3 I2 I1 x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/22 Gli assiomi sulle preferenze conferiscono alle curve d’indifferenza le seguenti proprietà. 1. Completezza. Ciascun punto del piano appartiene ad una curva d’indifferenza. 2. Monotonicità [in senso stretto]. Le curve di indifferenza sono decrescenti. Il fatto che, preso il punto A, il consumatore preferisce [in senso forte] tutti i punti che si trovano a nord-est impedisce che la curva di indifferenza passante per il punto A possa passare anche per punti a nord-est di A (cioè impedisce che sia crescente o, più precisamente, impedisce che sia non decrescente). Al contrario, se aumenta la disponibilità di un bene, affinché il consumatore rimanga indifferente, deve necessariamente diminuire la disponibilità dell’altro bene. Questo significa anche tutti i punti al di sopra di una curva di indifferenza sono preferiti ai punti della curva di indifferenza, mentre i punti sulla curva sono preferiti a quelli al di sotto della curva. 124 CARATTERISTICHE DELLE CURVE DI INDIFFERENZA (1) A>B>C x1 Per l’assioma di monotonicità, i panieri sulle curve di indifferenza più lontane dall’origine sono preferiti a quelli più vicini all’origine A B C x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 2/22 3. Transitività. Le curve d’indifferenza non si intersecano mai. Supponiamo per assurdo che per il punto A passino due curve di indifferenza distinte I1 e I2. Questo significa che il punto A dovrebbe essere indifferente sia ai punti sulla I1, sia ai punti sulla I2. Ma allora, per la transitività della relazione di indifferenza, anche gli altri punti sulla I1 e sulla I2 dovrebbero essere indifferenti tra loro, il che contraddice l’ipotesi che I1 e I2 siano due curve di indifferenza distinte. CARATTERISTICHE DELLE CURVE DI INDIFFERENZA (2) Due curve di indifferenza non si intersecano mai x1 A Per assurdo: B C se A ~ C eB~C => A ~ B (transitività) x2 Il che contraddice A > B (monotonicità) Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 125 cap. 2/23 4. Convessità. Le curve di indifferenza sono convesse. • Funzione d’utilità e curve di indifferenza. Dal punto di vista matematico, le curve di indifferenza si ricavano a partire dalla funzione d’utilità. Si consideri la funzione d’utilità U = U (x1, x2) e si fissi un certo livello di utilità U = U. L’equazione U = U (x1, x2) definisce il luogo di punti che forniscono l’utilità U. I valori di x1 e x2 che soddisfano l’equazione determinano quindi i punti della curva di indifferenza di livello U. • Saggio marginale di sostituzione. Se, a partire da un particolare paniere di coordinate (x2, x1), si aumenta di un’unità il consumo del bene x2, affinché l’utilità del consumatore rimanga invariata, è necessario ridurre di un certo ammontare il consumo del bene x1. Il “saggio marginale di sostituzione” (SMS) indica la quantità del bene x1 cui si deve rinunciare per compensare esattamente un aumento infinitesimale del consumo del bene x2 (in modo tale cioè che l’utilità del consumatore resti invariata). Supponiamo, ad esempio, che le quantità x1 e x2 forniscano il livello di utilità U. Immaginiamo ora di aumentare di una quantità Δx1 la quantità del bene x1; questo comporterà un aumento del livello di utilità. Diminuendo di un’opportuna quantità il bene x2 sarà comunque possibile riportare l’utilità al livello iniziale U. Questo significa che il nuovo punto (x1 + Δx1, x2 – Δx2) appartiene alla stessa curva di indifferenza del punto (x1, x2) e il rapporto (– Δx2 / Δx1) misura la sostituzione tra i due beni che lascia invariato il livello di utilità. SAGGIO MARGINALE DI SOSTITUZIONE x1 Una riduzione di x1 riduce l’utilità del consumatore. Per ritornare sulla curva di indifferenza originaria, si deve aumentare il consumo di x2 Δx11 Δx12 Δx21 Δx21 x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 126 cap. 2/25 • In termini analitici, si tratta di calcolare il differenziale totale della funzione d’utilità (che indica la variazione totale dell’utilità quando x1 e x2 aumentano simultaneamente di quantità infinitesime) e porre che esso sia pari a zero (imporre cioè che le variazioni di x1 e x2 siano tali da compensarsi esattamente dal punto di vista dell’utilità). Il differenziale totale è dato dalla seguente espressione: dU = (∂U / ∂x1) dx1 + (∂U / ∂x2) dx2 = UMG1 dx1 + UMG2 dx2 Ponendo dU = 0, si impone che il livello di utilità rimanga costante e si determina così in che misura il consumo di un bene deve diminuire per compensare l’aumento del consumo dell’altro bene, muovendosi lungo una stessa curva di indifferenza: dU = UMG1 dx1 + UMG2 dx2 = 0 dx1 / dx2 = – (UMG2 / UMG1) La misura (dx1 / dx2) prende il nome di saggio marginale di sostituzione. Matematicamente, esso è determinato dal rapporto tra le utilità marginali rispetto a x2 e x1 cambiato di segno: SMS = dx1/ dx2 = – (UMG2 / UMG1) Dal punto di vista analitico, si tratta della derivata della curva di indifferenza. Dal punto di vista grafico, esso è rappresentato dalla tangente alla curva di indifferenza. È opportuno notare che il saggio marginale di sostituzione è una misura puntuale della sostituibilità tra i beni. In generale infatti l’inclinazione della curva di indifferenza può variare lungo la curva stessa. • In generale, assumeremo che le curve di indifferenza siano convesse, il che significa che il saggio marginale di sostituzione varia al variare della disponibilità relativa dei due beni. • Consideriamo tuttavia due eccezioni. 1. Beni sostituti. Se le curve di indifferenza sono lineari, i beni sono “perfettamente sostituti”. La quantità del bene x1 cui si deve rinunciare per compensare l’aumento del consumo del bene x2 è la stessa indipendentemente dal fatto che si disponga di una grande quantità o di una piccola quantità del bene x2. 127 Il saggio marginale di sostituzione in tal caso è lo stesso in ogni punto della curva di indifferenza (si noti che non è rispettato l’assioma di convessità). Supponiamo, ad esempio, che io –che possiedo un chilo di fragole e una sola ciliegia– sia pronto a rinunciare a due fragole per ottenere una ciliegia aggiuntiva. Allora, se per me fragole e ciliegie sono perfette sostitute, io considererò due fragole come equivalenti a una ciliegia, anche quando possiedo due sole fragole e tre chili di ciliegie. Per molti consumatori, esempi di beni sostituti, anche se non perfetti, sono il caffè e il tè, la pasta e il riso, le fragole e le ciliegie. Da quanto detto, un consumatore che consideri due beni come perfettamente sostituti ha preferenze che non rispettano l’assioma di convessità. BENI PERFETTI SOSTITUTI x1 curve di indifferenza lineari Il SMS è costante x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 2/27 2. Beni complementi. Due beni sono “perfetti complementi” quando l’utilità del consumatore aumenta solo se la disponibilità dei due beni aumenta simultaneamente; se invece aumenta la disponibilità di uno solo dei due beni, l’utilità resta invariata. Un esempio di beni di questo tipo sono gli sci e gli attacchi: se, invece di avere un paio di sci e un paio di attacchi, si ha un paio di sci e due paia di attacchi, l’utilità non cambia (stiamo escludendo il fatto che, siccome gli attacchi possono rompersi, può essere comunque meglio averne un paio in più). L’utilità invece aumenta se aumentano simultaneamente sia gli sci che gli attacchi. In questo caso si ha una violazione dell’assioma di monotonicità stretta e le curve di indifferenza sono a forma di L (cioè 128 non sono decrescenti). Esempi di beni complementi, anche se non perfetti, possono essere il caffè e lo zucchero, il tabacco e le cartine. BENI PERFETTI COMPLEMENTI x1 Curve di indifferenza con un punto angoloso L’aumento di un solo bene non permette di spostarsi su una curva di indifferenza più lontana dall’origine. È necessario invece che aumentino entrambi in date proporzioni. x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 2/28 L’OTTIMO DEL CONSUMATORE • La scelta ottima del consumatore si ottiene massimizzando il livello di utilità, compatibilmente con il vincolo di bilancio. Dal punto di vista grafico, questo problema di massimizzazione vincolata equivale alla scelta del punto all’interno dell’insieme delle alternative possibili (che rispetti cioè il vincolo di bilancio) che appartiene alla curva di indifferenza più a nord-est possibile (che fornisce cioè l’utilità massima). • Per l’ipotesi di monotonicità, il punto ottimo si troverà sulla retta di bilancio e non al di sotto di essa. Infatti tutti i panieri al di sotto della retta di bilancio contengono meno beni di quelli sulla retta e il loro consumo fornisce quindi un’utilità minore. Se è rispettato anche l’assioma di convessità (il quale tuttavia, come abbiamo visto, è piuttosto forte), la scelta ottima è determinata dal punto di tangenza tra la retta di bilancio e la curva di indifferenza più a nord-est possibile. 129 L’OTTIMO DEL CONSUMATORE x1 • • per l’assioma di monotonicità l’ottimo sta sulla retta di bilancio l’ottimo sta sulla curva di indifferenza più lontana dall’origine B A x*1 C x*2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • x2 cap. 2/29 Dal punto di vista analitico, il punto di ottimo è determinato dalla seguente condizione: SMS = dx1 / dx2 = – (p2 / p1) Tale condizione esprime appunto la tangenza tra la retta di bilancio di coefficiente angolare – (p2 / p1) e la curva di indifferenza di inclinazione dx1 / dx2. • Dal punto di vista economico questo significa che la valutazione soggettiva dell’importanza relativa dei beni espressa dal consumatore coincide con la valutazione oggettiva del mercato rappresentata dal rapporto dei prezzi. Ricordando che il SMS esprime il rapporto tra le utilità marginali col segno cambiato, la condizione di ottimo può infatti scriversi anche nel modo seguente: UMG2 / UMG1 = p2 / p1 Per chiarire il significato di questa condizione, supponiamo che i due beni abbiano lo stesso prezzo (p2 = p1). Allora, se con un dato paniere di consumo, l’utilità che il consumatore trae da un’unità aggiuntiva del bene x2 fosse maggiore dell’utilità che egli trae da un’unità aggiuntiva del bene x1 (UMG2 > UMG1), egli potrebbe comprare un’unità del bene x2 e vendere un’unità del bene x1 aumentando così la propria utilità (continuando comunque a rispettare il proprio vincolo di bilancio, dato che i due beni hanno, per ipotesi, 130 lo stesso prezzo). Se, viceversa, si avesse UMG2 < UMG1, allora il consumatore potrebbe aumentare la propria utilità vendendo x2 e comprando x1. Nel punto di ottimo si suppone che tutte le possibilità di aumentare l’utilità attraverso operazioni di questo tipo siano state sfruttate e che quindi debba essere UMG2 = UMG1. • La condizione di ottimo SMS = – (p2 / p1) può essere utilizzata nella maggior parte dei problemi di massimizzazione dell’utilità del consumatore. Esistono tuttavia diversi casi in cui la determinazione del paniere ottimo non può ottenersi sfruttando la suddetta condizione. Qui ne consideriamo due: 1. Soluzioni d’angolo: se lungo tutte le curve di indifferenza il SMS è sempre maggiore o sempre minore del rapporto dei prezzi, la massimizzazione dell’utilità si ottiene consumando solo il bene x1 o solo il bene x2. SOLUZIONI D’ANGOLO (1) x1 Il saggio marginale di sostituzione è sempre maggiore del prezzo relativo Il consumatore ha una predilezione talmente forte per il bene x1 che non è disposto a scambiarlo al prezzo di mercato esistente x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 131 cap. 2/35 SOLUZIONE D’ANGOLO (2) x1 Beni perfetti sostituti Il consumatore consuma solo il bene per cui è maggiore il rapporto tra prezzo e grado di soddisfazione x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 2/36 2. Curve di indifferenza non derivabili: se le curve di indifferenza non sono derivabili (come nel caso di beni perfetti sostituti), non è possibile calcolare il SMS per cui, ovviamente, la condizione di ottimo non può essere espressa in termini del SMS. SOLUZIONI D’ANGOLO (3) x1 Beni perfetti complementi L’ottimo si ha nel punto angoloso della curva di indifferenza (dove non ci sono sprechi dei due beni) x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 2/37 NB: nei casi in cui la soluzione ottima non può essere calcolata sfruttando la condizione SMS = – (p2 / p1), questo non significa che l’ottimo non esiste o che non può essere 132 determinato. La regola generale rimane quella della determinazione del punto sulla retta di bilancio che appartiene alla curva di indifferenza più a nord-est possibile. • Riassumendo, il problema di ottimo del consumatore si basa su due dati: la retta di bilancio e le preferenze. La retta di bilancio a sua volta dipende da due fattori: il reddito e i prezzi relativi. Le variazioni del reddito e dei prezzi relativi producono spostamenti della retta di bilancio e quindi, se le preferenze del consumatore si suppongono date, del paniere ottimo scelto dal consumatore. • Si noti che il problema di ottimo del consumatore può essere impostato anche in modo simmetrico rispetto al procedimento seguito. Si può cioè definire l’insieme delle alternative possibili come l’insieme di punti appartenente ad una certa curva di indifferenza e la funzione obiettivo come la retta di bilancio. In tal caso piuttosto che cercare di massimizzare l’utilità dato un vincolo di spesa, il problema del consumatore consiste nel minimizzare la spesa dato il vincolo di raggiungere un determinato livello di utilità. Questo secondo modo di analizzare la scelta ottima del consumatore prende il nome di “problema duale”, mentre il problema che abbiamo sviluppato è chiamato “problema primale”. Dal punto di vista grafico, invece di ricercare il punto di una data retta di bilancio che appartiene alla curva di indifferenza più a nord-est possibile (problema primale), si dovrà cercare il punto di una data curva di indifferenza che appartiene alla retta di bilancio più a sud-ovest possibile (problema duale). Le condizioni analitiche di ottimo rimangono le stesse. In caso di convessità, ad esempio, si verifica facilmente che l’ottimo è raggiunto nel punto di tangenza tra la retta di bilancio e la curva di indifferenza. GLI EFFETTI DELLE VARIAZIONI DI REDDITO • Come abbiamo visto, al variare del reddito monetario m, a prezzi costanti, la retta di bilancio si sposta mantenendo invariato il coefficiente angolare. Questo porta alla determinazione di un nuovo punto di ottimo del consumatore. 133 GLI EFFETTI DI UN AUMENTO DEL REDDITO (BENI NORMALI) x1 aumentano sia x*1 sia x*2 x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/39 In generale, gli incrementi di reddito producono aumenti nel consumo di entrambi i beni. La misura in cui aumentano i due beni dipende dalla forma delle curve di indifferenza. In alcuni casi, tuttavia, con determinate curve di indifferenza, l’aumento del reddito può provocare un forte aumento del consumo di un bene e una diminuzione del consumo dell’altro. Ad esempio, al crescere del reddito i beni di bassa qualità vengono sostituiti da beni di qualità superiore, cosicché il loro consumo totale può diminuire invece che aumentare. • Quando il consumo di un bene diminuisce all’aumentare del reddito, il bene si dice “inferiore”. I beni il cui consumo aumenta all’aumentare del reddito si dicono invece “normali” o “superiori”. 134 GLI EFFETTI DI UN AUMENTO DEL REDDITO (BENI INFERIORI) x1 aumenta x*1 diminuisce x*2 → il bene x2 è un bene inferiore x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/40 Si noti che, in un sistema in cui sono presenti solo due beni, non è possibile che ambedue siano inferiori. Infatti la riduzione del consumo del bene inferiore si spiega soltanto ipotizzando che esso sia sostituito con altri beni, il che significa che il consumo dell’altro bene deve necessariamente aumentare (e in misura considerevole) all’aumentare del reddito. In generale se nel sistema ci sono n beni, al massimo n–1 di essi possono essere inferiori e almeno uno deve essere normale. • Unendo tutti i punti di ottimo che si ottengono facendo variare il reddito monetario m, si ottiene il “sentiero di espansione del reddito” (SER) [gli assi cartesiani riportano i due beni x1 e x2]. Il SER ha inclinazione positiva se i due beni sono entrambi normali. Se il bene x1 è inferiore esso avrà un tratto a pendenza negativa. Se è il bene x2 ad essere inferiore, il SER avrà un tratto “in cui ritorna indietro”. 135 SENTIERO DI ESPANSIONE DEL REDDITO (SER) x1 Luogo dei punti di ottimo al variare del reddito SER Indica come variano le quantità domandate dei due beni al variare del reddito del consumatore x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/41 La “curva di Engel” rappresenta il consumo ottimo di un bene al variare del reddito [gli assi cartesiani riportano il bene x1 e il reddito monetario m]. La curva di Engel è crescente per i beni normali e decrescente per i beni inferiori. CURVA DI ENGEL m Relazione tra la quantità domandata di un bene e il livello del reddito del consumatore • crescente per i beni normali • decrescente per i beni inferiori x Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 136 cap. 2/42 GLI EFFETTI DELLE VARIAZIONI DEI PREZZI • Come abbiamo visto, al variare del prezzo p1, rimanendo costante il prezzo p2 e il reddito monetario m, la retta di bilancio si sposta facendo perno sul punto di intersezione con l’asse x2. Questo porta alla determinazione di un nuovo punto di ottimo del consumatore con nuovi livelli di consumo di x1 e x2. • Effetto sostituzione e effetto reddito. L’effetto dell’aumento del prezzo p1 può essere scomposto in due componenti: (1) l’aumento del prezzo p1, a parità di reddito monetario, produce una riduzione del reddito reale, il che diminuisce le possibilità complessive di consumo (l’insieme delle alternative di consumo possibili si restringe) [“effetto reddito”]; (2) l’aumento del prezzo p1, a parità del prezzo p2, fa aumentare il prezzo relativo p1/p2, il che rende il bene x2 più a buon mercato rispetto al bene x1 e porta a diminuire il consumo di x1 a vantaggio di quello di x2 [“effetto sostituzione”]. L’effetto reddito e l’effetto sostituzione possono essere quantificati secondo due criteri diversi. Sia E1 il punto di equilibrio prima della variazione del prezzo (ottenuto come tangenza della curva di indifferenza I1 e della retta di bilancio R1) e E2 il punto di equilibrio dopo la variazione del prezzo (ottenuto come tangenza della curva di indifferenza I2 e della retta di bilancio R2). 1. Compensazione di Hicks. Si tracci una retta di bilancio teorica, R3, con la stessa inclinazione della R2 e tangente alla I1. Si indichi con E3 tale punto di tangenza. La differenza tra il punto E3 e il punto E1 misura l’effetto sostituzione, cioè quella variazione del consumo di x1 (lungo la curva di indifferenza I1) dovuta al solo fatto che è cambiato il prezzo relativo (indipendente cioè dal fatto che la variazione del prezzo p1, facendo variare il reddito reale, permette in realtà di spostarsi su una nuova curva di indifferenza). La differenza tra il punto E2 e il punto E3 isola invece l’effetto reddito: dati i prezzi relativi (quelli vigenti dopo l’aumento di p1), la variazione del consumo di x1 dal punto E2 al punto E3 è imputabile solo ad una variazione del reddito. 137 COMPENSAZIONE DI HICKS x1 Confronto a utilità costante E1 E2 E3 I2 I1 EFFETTO DI SOSTITUZIONE R1 R3 EFFETTO DI REDDITO Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 R2 x2 cap. 2/48 2. Compensazione di Slutsky. Si tracci una retta di bilancio teorica, R3, con la stessa inclinazione della R2 e passante per il punto E1. Si indichi con E3 il punto teorico di ottimo che si avrebbe con questa nuova retta di bilancio R3 e si indichi con I3 la nuova curva di indifferenza tangente a tale retta. La differenza tra il punto E3 e il punto E1 misura l’effetto sostituzione, cioè quella variazione del consumo di x1 (lungo la retta di bilancio teorica R3 che mantiene invariato il reddito reale che si aveva in E1) dovuta al solo fatto che è cambiato il prezzo relativo. La differenza tra il punto E2 e il punto E3 isola invece l’effetto reddito: dati i prezzi relativi (quelli vigenti dopo l’aumento di p1), la variazione del consumo di x1 dal punto E2 al punto E3 è imputabile solo ad una variazione del reddito. 138 COMPENSAZIONE DI SLUTSKY x1 Confronto a potere d’acquisto costante E1 E2 E3 I2 I1 EFFETTO DI SOSTITUZIONE R1 R3 EFFETTO DI REDDITO Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 I3 R2 x2 cap. 2/49 Nei due casi, la variazione del consumo di x1 causata da una variazione del prezzo p1 (E2 – E1) viene scomposta in due componenti: l’effetto reddito (E2 – E3) e l’effetto sostituzione (E3 – E1): (E2 – E1) = (E2 – E3) + (E3 – E1) • In generale, all’aumentare del prezzo p1, il consumo del bene x1 diminuisce. Infatti, (1) l’effetto sostituzione necessariamente implica una diminuzione del consumo di x1 a vantaggio di x2; (2) l’effetto reddito anche, in generale, tende a ridurre il consumo di x1. Tuttavia fa eccezione il caso in cui x1 sia un bene inferiore. In tal caso, infatti, la diminuzione del reddito fa aumentare il consumo di x1. Questo significa che, nel caso di un bene inferiore, se l’aumento del consumo causato dall’effetto reddito è maggiore della diminuzione del consumo causata dall’effetto sostituzione, il consumo complessivo di x1 potrebbe anche aumentare all’aumentare del prezzo p1. • I beni il cui consumo varia nella stessa direzione delle variazioni del loro prezzo si dicono “beni di Giffen”. • Si noti, che affinché un bene sia di Giffen esso deve essere necessariamente un bene inferiore (altrimenti, l’effetto reddito rinforzerebbe l’effetto sostituzione). Tuttavia non tutti i beni inferiori sono anche beni di Giffen (infatti, non solo è necessario che l’effetto 139 reddito vada in senso opposto rispetto all’effetto sostituzione, ma esso deve anche essere più forte del secondo). • Unendo tutti i punti di ottimo che si ottengono facendo variare il prezzo p1, si ottiene il “sentiero di espansione del prezzo p1” (SEP1) [gli assi cartesiani riportano i due beni x1 e x2]. Ripetendo lo stesso esercizio per il prezzo p2 si ottiene il “sentiero di espansione del prezzo p2” (SEP2). SENTIERO DI ESPANSIONE DEL PREZZO (SEP2) x1 SEP Luogo dei punti di ottimo al variare del prezzo di uno dei beni x2 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/51 La “curva di domanda” rappresenta il consumo ottimo di un bene al variare del suo prezzo [gli assi cartesiani riportano il bene x1 e il prezzo p1]. La curva di domanda è crescente solo nel caso di beni di Giffen; altrimenti è decrescente. NB: la possibilità teorica di curve di domanda crescenti costituisce un serio problema (molto spesso sottovalutato) per la coerenza interna dell’intera teoria: come si è visto, affinché la teoria della domanda possa avere un potere esplicativo della realtà è necessario interpretarla in senso descrittivo. A questo riguardo, è la verifica empirica che stabilisce se effettivamente la teoria può essere considerata valida o meno. Se la teoria stabilisse inequivocabilmente che la curva di domanda deve essere decrescente, sarebbe possibile utilizzare le stime empiriche sulle curve di domanda reali per accettare o rigettare la teoria. Al contrario, visto che la teoria della domanda è compatibile anche con curve crescenti, viene meno la stessa possibilità di dimostrare che la teoria non è valida e la sua accettazione diventa un atto di fede. 140 FUNZIONE DI DOMANDA INDIVIDUALE x1 Relazione tra la quantità Domandata di un bene al suo prezzo p1 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/52 Finora abbiamo considerato solo variazioni del consumo di un bene prodotte da variazione del prezzo del bene stesso. È comunque possibile considerare anche gli effetti delle variazioni del prezzo di un bene sul consumo dell’altro bene. Si parla in tal caso di “effetto incrociato della variazione del prezzo”. DOMANDA DI MERCATO E SURPLUS DEI CONSUMATORI • La curva di domanda indica, per ogni livello del prezzo, la quantità del bene che un consumatore desidera consumare. Se, per ogni livello del prezzo, si sommano le quantità del bene che ciascun consumatore desidera consumare si ottiene la curva di domanda di mercato. Essa indica, per ogni livello del prezzo, la quantità totale del bene che i consumatori desiderano consumare. Dal punto di vista grafico, essa è la somma orizzontale delle curve di domanda individuali. • Dal punto di vista matematico, la curva di domanda è una funzione che mette in relazione prezzo e quantità. Più precisamente, per ogni prezzo, essa determina la quantità domandata. È allora possibile considerare la “funzione di domanda inversa” come relazione tra quantità e prezzo: per ogni quantità, essa determina il prezzo al quale il consumatore è disposto ad acquistare quella quantità. Dal punto di vista matematico, la funzione di domanda inversa si ottiene semplicemente esplicitando il prezzo in funzione delle quantità. 141 FUNZIONE DI DOMANDA INVERSA p1 Inversa della funzione di domanda p’1 fornisce una misura della disponibilità a pagare del consumatore per ottenere una determinata quantità del bene x1 x’1 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/54 Surplus del consumatore. Consideriamo un bene che è possibile domandare solo in quantità discrete e ipotizziamo che ciascun consumatore possa solo scegliere, per ogni livello del prezzo, se domandare un’unità del bene o se non domandarlo affatto. Questo permette di determinare un “prezzo di riserva”, come prezzo massimo che il consumatore è disposto a pagare per avere un’unità del bene. Ipotizziamo inoltre che i consumatori abbiano diversi prezzi di riserva e ordiniamo i consumatori da quello con il prezzo di riserva più alto a quello con il prezzo di riserva più basso. Una volta che si determina un certo prezzo sul mercato, solo i consumatori con un prezzo di riserva almeno pari al prezzo di mercato acquisteranno il bene, mentre quelli con un prezzo di riserva più basso non lo acquisteranno. Tra i consumatori che acquistano il bene, ce ne saranno comunque alcuni con prezzi di riserva più alti del prezzo di mercato. La differenza tra il loro prezzo di riserva e il prezzo di mercato viene chiamata “surplus del consumatore”. Con le ipotesi introdotte il surplus totale dei consumatori è dato dall’area compresa tra la curva di domanda e il livello del prezzo di mercato. 142 IL SURPLUS DEL CONSUMATORE p • • Per un consumatore: differenza tra prezzo di riserva e prezzo di mercato (p) Per il mercato: somma del surplus di tutti i consumatori (area compresa tra la funzione di domanda inversa e il prezzo di mercato) p X Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 2/56 L’introduzione del concetto di surplus del consumatore serve a dare un contenuto normativo alla teoria (come vedremo infatti, il bene comune sarà definito come la massimizzazione del surplus totale e l’obiettivo della società sarà di massimizzare la soddisfazione del consumatore), contravvenendo all’interpretazione puramente positiva fin qui seguita. 143 3. Elasticità e aggiustamento dei mercati [Bibliografia di riferimento: Sloman, capitolo 3] SIGNIFICATO MATEMATICO • Data una qualsiasi funzione Y = f (X), l’elasticità si definisce nel modo seguente: e = (dY / Y) / (dX / X) • Il valore di e misura di quanto varia in termini percentuali la variabile dipendente (la Y) a fronte di una variazione dell’uno per cento della variabile indipendente (la X). • In generale, l’elasticità non è la stessa in ogni punto della funzione, ma varia lungo la funzione. L’elasticità di una funzione in un particolare punto dipende da due fattori: (1) l’inclinazione della curva, (2) la posizione del punto nel piano cartesiano. SIGNIFICATO ECONOMICO • In campo economico, la variabile dipendente è la quantità (Q) e quella indipendente il prezzo (p). La definizione prende allora la seguente forma. e = (dQ / Q) / (dp / p) • Tale definizione si applica tanto alla funzione di domanda (nel qual caso la indichiamo con ε) quanto alla funzione d’offerta (e in questo caso la indichiamo con η). Nel caso della domanda, essendo la curva inclinata negativamente (a parte il caso di beni di Giffen), come convenzione, l’elasticità si definisce col segno invertito (in modo tale che il suo valore sia sempre positivo): • Elasticità della domanda: ε = – (dQD / QD) / (dp / p) Elasticità dell’offerta: η = (dQS / QS) / (dp / p) Sia per la domanda che per l’offerta, il valore dell’elasticità dipende dai seguenti fattori: 1. pendenza bassa ⇒ e alta (in risposta ad una variazione data del prezzo si ha una forte variazione della quantità). 144 2. punto vicino all’asse p ⇒ e alta (sull’asse p: e = ∞). 3. punto vicino all’asse Q ⇒ e bassa (sull’asse Q: e = 0). ELASTICITÀ DELLA DOMANDA (INCLINAZIONE DELLA CURVA) p p1 → p2 : l’aumento della quantità è maggiore sulla curva D2 (meno inclinata e più elastica) che sulla curva D1 p1 p2 D2 D1 Q1 Q2 Q Q3 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 3/3 ELASTICITÀ DELL’OFFERTA (INCLINAZIONE DELLA CURVA) S1 p S2 p1 p1 → p2 : La diminuzione delle quantità è maggiore sulla curva S2 (meno inclinata e più elastica) che sulla curva S1 p2 Q2 Q3 Q Q1 Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 145 cap. 3/3 ELASTICITÀ DELLA DOMANDA E DELL’OFFERTA (INTERSEZIONI CON GLI ASSI) S p ε=∞ ε=0 D η=∞ Q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 3/3 Una curva di dice elastica se e > 1 e anelastica se e < 1: 1. e > 1. A fronte di una variazione del prezzo dell’uno per cento, la variazione percentuale della quantità è maggiore dell’uno per cento. 2. e < 1. A fronte di una variazione del prezzo dell’uno per cento, la variazione percentuale della quantità è minore dell’uno per cento. 3. e = 1. A fronte di una variazione del prezzo dell’uno per cento, la variazione percentuale della quantità è dell’uno per cento. • Nel caso della domanda, il punto in cui ε = 1 è particolarmente significativo dal punto di vista della spesa complessiva del consumatore. Considerando un bene x normale (non di Giffen), con una curva di domanda decrescente, spostandosi dal punto A al punto B, a destra di A, aumenta la quantità e diminuisce il prezzo. L’aumento della quantità domandata tende a far aumentare la spesa complessiva del consumatore per il bene x; tuttavia, la diminuzione del prezzo tende a far diminuire la spesa del consumatore. Dire che l’elasticità è alta (superiore a uno) significa dire che la variazione percentuale della quantità è forte (cioè è superiore alla variazione percentuale del prezzo), il che fa aumentare la spesa del consumatore di più di quanto non la faccia diminuire il fatto che il prezzo è diminuito: 1. Effetto quantità: Q ↑ ⇒ Spesa del consumatore per il bene x ↑ 146 2. Effetto prezzo: p ↓ ⇒ Spesa del consumatore per il bene x ↓ Se ε >1, l’effetto quantità è maggiore dell’effetto prezzo ⇒ la spesa del consumatore aumenta quando ci si sposta verso destra lungo la curva di domanda. • Lo stesso ragionamento può essere fatto considerando il punto di vista delle imprese che vendono il bene x. Infatti alla spesa dei consumatori per l’acquisto del bene x, corrispondono i ricavi delle imprese per la vendita del bene x. Quindi, dal punto di vista delle imprese, quando ci si sposta dal punto A al punto B, l’aumento della quantità venduta tende a far aumentare i ricavi complessivi; tuttavia, la diminuzione del prezzo tende a farli diminuire. Se l’elasticità è alta (superiore a uno) significa che la variazione percentuale della quantità è superiore alla variazione percentuale del prezzo e l’effetto netto è quindi un aumento dei ricavi delle imprese: 1. Effetto quantità: Q ↑ ⇒ Ricavi delle imprese dalla vendita del bene x ↑ p ↓ ⇒ Ricavi delle imprese dalla vendita del bene x ↓ 2. Effetto prezzo: Se ε >1, l’effetto quantità è maggiore dell’effetto prezzo ⇒ i ricavi delle imprese aumentano quando ci si sposta verso destra lungo la curva di domanda. SPESA TOTALE DEI CONSUMATORI E RICAVI TOTALI DELLE IMPRESE La spesa totale per l’acquisto di un bene è data dal prezzo di acquisto moltiplicato per la quantità acquistata. Dal punto di vista delle imprese, la spesa totale dei consumatori corrisponde al ricavo totale p S = pQ = RT SPESA DEI CONSUMATORI RICAVI DELLE IMPRESE Q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 147 cap. 3/8 CURVA DI DOMANDA ANELASTICA Di fronte ad una variazione di p la risposta di Q è meno che proporzionale p La spesa varia nella stessa direzione del prezzo D Q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 3/11 CURVA DI DOMANDA ELASTICA Di fronte ad una variazione di p la risposta di Q è più che proporzionale p La spesa varia nella stessa direzione delle quantità D Q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 3/11 ESEMPI • Funzione di domanda lineare: all’intersezione con l’asse p, ε = ∞ ; andando verso destra, l’elasticità decresce ed è pari a zero nel punto di intersezione con l’asse Q. Nel punto medio si ha ε = 1. • Funzione di domanda lineare perfettamente anelastica: retta verticale. • Funzione di domanda lineare perfettamente elastica: retta orizzontale. 148 • Funzione di domanda ad elasticità unitaria in tutti i punti: iperbole equilatera. CURVE DI DOMANDA PARTICOLARI p Domanda perfettamente elastica: |ε| = +∞ Q1 Q2 Q p Domanda perfettamente anelastica: |ε| = 0 Q p Domanda ad elasticità unitaria: |ε| = 1 Q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • cap. 3/12 Funzione d’offerta lineare. Si hanno due casi a seconda che l’intercetta sia positiva o negativa (nel caso della domanda, l’intercetta è sempre positiva): 1. Intercetta positiva. All’intersezione con l’asse p, η = ∞ ; andando verso destra, l’elasticità decresce e tende a 1 quando Q → ∞ (quindi η > 1 sempre) 2. Intercetta negativa. All’intersezione con l’asse Q, η = 0; andando verso destra, l’elasticità cresce e tende a 1 quando Q → ∞ (quindi η < 1 sempre) 149 CURVE DI DOMANDA E DI OFFERTA LINEARI S1 p ε=∞ S2 ε=1 η=∞ ε=0 ε=0 D Q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 3/3 ALTRE ELASTICITÀ • Elasticità della domanda al reddito. Dal punto di vista matematico, si definisce come segue: εm = (dQD / QD) / (dm / m) Essa esprime di quanto varia in termini percentuali la domanda a fronte di una variazione dell’uno per cento del reddito monetario m. • Elasticità incrociata della domanda. Dal punto di vista matematico, si definisce come segue: εm = (dQD1 / QD1) / (dp2 / p2) Essa esprime di quanto varia in termini percentuali la domanda del bene x1 a fronte di una variazione dell’uno per cento del prezzo del bene x2. DETERMINANTI DELLE ELASTICITÀ • Elasticità della domanda al prezzo: 1. Numero di beni sostituti e grado di sostituibilità. 2. Porzione di reddito spesa nel bene. 150 3. Orizzonte temporale. Quanto più è esteso il periodo considerato, tanto maggiore è la reazione in termini di quantità piuttosto che di prezzo (e quindi tanto maggiore è l’elasticità). • Elasticità dell’offerta al prezzo: 1. Ampiezza dell’aumento dei costi in seguito all’aumento della produzione. 2. Orizzonte temporale. • Elasticità della domanda al reddito: 1. Grado di necessità del bene (beni normali, beni inferiori). 2. Livello di reddito. • Elasticità incrociata della domanda: 1. Grado di sostituibilità o di complementarità tra i due beni. SPECULAZIONE, RISCHIO E INCERTEZZA • In un contesto in cui i prezzi cambiano da un periodo all’altro, le decisioni di acquisto e di vendita nel periodo corrente si basano sulle aspettative riguardanti i prezzi futuri. I comportamenti basati sulle aspettative di prezzo volti a massimizzare il guadagno si dicono speculativi. • La speculazione è stabilizzante quando gli operatori credono che una variazione del prezzo sia solo temporanea (vendono quando i prezzi salgono e comprano quando scendono, attenuando le fluttuazioni del prezzo) ed è destabilizzante se credono invece che essa sarà seguita da ulteriori variazioni nello stesso senso (comprano quando i prezzi salgono e vendono quando scendono, amplificando le fluttuazioni del prezzo). • Si parla di situazioni di “rischio” quando la probabilità di un dato evento è nota (il lancio di un dado). Si parla invece di situazioni di “incertezza” quando la probabilità non è nota (passare l’esame di economia politica). • Dal punto di vista economico, le scorte sono in alcuni casi un utile strumento per far fronte all’incertezza. Si deve tuttavia tener conto che esse hanno anche un costo. PREZZI CONTROLLATI • Nei mercati perfettamente concorrenziali il prezzo che si determina è tale da uguagliare la quantità offerta e la quantità domandata. In alcuni casi, tuttavia, il governo può intervenire per modificare il prezzo fissando un prezzo superiore o inferiore a quello di mercato. Se il 151 prezzo viene fissato ad un livello superiore si determina un eccesso d’offerta. Se invece viene fissato ad un livello inferiore si determina un eccesso di domanda. PREZZI CONTROLLATI PREZZO MINIMO PREZZO MASSIMO p p ECCESSO DI OFFERTA S S pmin pe pe pmax QD QS Q QS Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • D ECCESSO DI DOMANDA D QD Q cap. 3/41 Ragioni che possono portare il governo a fissare un prezzo minimo: 1. Proteggere i redditi dei produttori. 2. Creare un surplus. 3. Impedire che i redditi dei lavoratori scendano al di sotto di un certo livello • Per mantenere il prezzo ad un livello superiore a quello di mercato, il governo ha diversi strumenti: 1. Acquistare il surplus 2. Ridurre l’offerta imponendo delle quote massime di produzione 3. Aumentare la domanda attraverso trasferimenti e incentivi o imponendo tasse sui beni sostituti. • Ragioni che possono portare il governo a fissare un prezzo massimo: 1. Questioni di equità distributiva (permettere l’acquisto anche ai più poveri). Lo svantaggio, secondo Sloman, è che in tal caso vige il principio “chi prima arriva, meglio alloggia”. Il fatto, tuttavia, è che con i prezzi di mercato vale invece il principio “chi ha più soldi, meglio alloggia”. In presenza di scarsità, necessariamente si determina un razionamento dei beni. Il razionamento del mercato non è neutrale come non lo sono gli altri tipi di razionamento: in un caso alloggia meglio chi arriva 152 per primo, nell’altro chi ha più soldi. Un secondo svantaggio, sempre secondo Sloman, è che tenderebbe a formarsi un mercato nero dove i consumatori più ricchi riuscirebbero comunque ad accaparrarsi i beni a danno dei più bisognosi. Non si capisce però perché questo sia uno svantaggio rispetto al mercato ordinario, visto che in quest’ultimo l’accaparramento dei beni da parte dei più ricchi (anche se meno bisognosi) avviene nella perfetta legalità ed è considerato addirittura la condizione di efficienza dell’intero sistema. La differenza è semmai che nel caso del mercato nero, si tratta di un illecito che può essere perseguito, mentre nel caso del mercato ordinario (senza controlli sui prezzi) esso è perfettamente legale. • Per mantenere il prezzo ad un livello inferiore a quello di mercato, il governo ha diversi strumenti: 1. Incoraggiare l’offerta attraverso trasferimenti o sgravi fiscali 2. Ridurre la domanda favorendo beni alternativi o controllando i redditi. 153 4. Offerta dell’impresa e offerta di mercato [Bibliografia di riferimento: Sloman, capitolo 4] COSTI, RICAVI E PROFITTI • Assumiamo che l’obiettivo dell’impresa sia la massimizzazione dei profitti. I profitti sono determinati dalla differenza tra i ricavi e i costi. • Al variare della quantità prodotta, q, variano sia i costi totali dell’impresa, sia i suoi ricavi totali. L’obiettivo dell’impresa è quindi di determinare la quantità ottima da produrre in modo tale da massimizzare i profitti totali. • Per quanto riguarda i ricavi, introduciamo un’ipotesi assai forte, secondo la quale l’impresa riesce a vendere qualsiasi livello di produzione essa realizzi. Dal punto di vista dei costi si pone invece un problema aggiuntivo: per ogni livello di produzione che l’impresa intende realizzare, si deve determinare il modo più economico di combinare gli input, così da minimizzare i costi di produzione. Si hanno quindi due problemi distinti: 1. Determinare la combinazione ottima dei fattori di produzione per ogni possibile livello di produzione q (problema di minimizzazione dei costi). 2. Determinare il livello ottimo di produzione q in modo tale da rendere massima la differenza tra ricavi e costi (problema di massimizzazione dei profitti). In altri termini, per poter massimizzare i profitti è necessario, non solo che l’impresa determini la quantità ottima da produrre ma anche che la produca al costo più basso possibile. • Dal punto di vista matematico, i costi totali, i ricavi totali e i profitti totali sono funzioni della quantità prodotta. • Costi totali: CT = CT(q) Ricavi totali: RT = RT(q) Profitti totali: π = π(q) = RT(q) – CT(q) A partire da queste funzioni, è possibile definire le rispettive funzioni medie e marginali. Costi medi: CME = CT / q Ricavi medi: RME = RT / q 154 Profitti medi: πME = π / q Costi marginali: CMG = ∂CT / ∂q Ricavi marginali: RMG = ∂RT / ∂q Profitti marginali: πMG = ∂π / ∂q Costi, ricavi e profitti medi indicano rispettivamente il costo, il ricavo e il profitto per unità di prodotto che si ottengono quando si produce una quantità pari a q. Costi, ricavi e profitti marginali indicano invece l’aumento del costo, del ricavo e del profitto quando la quantità prodotta aumenta di un’unità (dal livello q passa al livello q+1). Matematicamente, si tratta della derivata delle funzioni del costo, del ricavo e del profitto totali. COSTI • Si suppone che esistano due soli input, lavoro (L) e capitale (K). I costi totali (CT) sono allora determinati dalla spesa che l’impresa sostiene per l’acquisto di questi due input. CT = wL + rK dove w e r sono i prezzi del lavoro e del capitale rispettivamente. Assumiamo che i mercati dei fattori di produzione (L e K) siano caratterizzati da concorrenza perfetta dal lato della domanda e che, quindi, l’impresa non possa in nessun modo influire sui prezzi w e r. Tale ipotesi, anche se poco realistica, non sarà abbandonata mai. • Per poter di analizzare come variano i costi dell’impresa al variare delle quantità prodotta, dobbiamo innanzi tutto determinare come varia la quantità prodotta al variare delle quantità di input utilizzate. A tale scopo definiamo il concetto di funzione di produzione. • Combinando opportunamente i due input si ottiene l’output (q), secondo la seguente funzione di produzione: q = q (L, K) • A partire dalla funzione di produzione, è possibile definire le produttività medie e marginali del lavoro e del capitale: 155 Produttività media del lavoro: PMEL = q / L Produttività media del capitale: PMEK = q / K Produttività marginale del lavoro: PMGL = ∂q / ∂L Produttività marginale del capitale: PMGK = ∂q / ∂K La produttività media del lavoro (o del capitale) indica la quantità di prodotto per unità di lavoro (o di capitale). Le produttività marginali indicano di quanto aumenta il prodotto quando l’uso di uno dei due fattori viene aumentato di un’unità. • In generale, i fattori di produzione possono essere distinti in “fattori fissi” e “fattori variabili”. I primi sono quelli che non possono essere variati in un certo arco di tempo preso come riferimento (nel nostro caso semplificato a due soli fattori, il capitale); i secondi possono invece essere utilizzati in quantità variabili anche nell’arco di tempo considerato (il lavoro). Definiamo allora “breve periodo” l’arco di tempo in cui possono essere variati solo i fattori variabili e “lungo periodo” un arco di tempo sufficientemente lungo in cui può essere variata la quantità di tutti i fattori di produzione. COSTI DI BREVE PERIODO • La quantità di capitale impiegata, K, è data e l’output, q, può essere variato solo impiegando quantità diverse di lavoro, L. La funzione di produzione diventa in questo caso dipendente solo da L. q = q (L) • In questo caso il problema della minimizzazione dei costi è banale poiché l’impresa non ha alcun margine di manovra sul modo di ottenere un certo livello di produzione q. Come vedremo, tale problema è invece complesso nel lungo periodo poiché in quel caso uno stesso livello di produzione q può essere ottenuto con combinazioni diverse di L e K, il che solleva la questione di determinare la particolare combinazione (L, K) più economica per l’impresa. • Secondo un’ipotesi comunemente accettata, quando si combinano quantità crescenti di un fattore variabile con una quantità costante del fattore fisso, l’output cresce in misura 156 sempre minore. Tale ipotesi prende il nome di “legge della produttività marginale decrescente”. • Dal punto di vista grafico, questa ipotesi implica che la curva della produttività marginale del lavoro, PMGL, abbia un tratto decrescente. Più in particolare, supporremo che la PMGL sia prima crescente (per bassi livelli di output, incrementi nella quantità di L danno luogo ad incrementi crescenti di q poiché, ad esempio, dato un impianto di una certa dimensione, K, l’impiego di quantità molto piccole di L non permette di utilizzarlo al meglio) e poi decrescente (per la legge della produttività marginale decrescente). • In termini della funzione di produzione questo equivale a dire che essa sia prima convessa e poi concava (nella figura, il cambio di concavità si ha nel punto di flesso: A). In generale si suppone che la funzione di produzione sia sempre crescente, ossia che all’aumentare delle quantità di input l’output aumenti (seppure in misura via via decrescente). Sloman, tuttavia, ipotizza che oltre un certo limite (punto C), non solo dosi aggiuntive di un input smettono di avere effetti positivi sulla produzione, ma finiscono addirittura per diminuirla. In tal caso, la produttività marginale diventa negativa. • La curva della produttività media si suppone anch’essa prima crescente e poi decrescente. Graficamente, la produttività media è rappresentata dall’inclinazione del segmento che unisce l’origine ai vari punti della funzione di produzione. Tale inclinazione aumenta inizialmente, raggiunge un massimo in B e poi diminuisce. PRODUTTIVITÀ MEDIA q • PMEL: crescente fino a B (punto in cui il rapporto q/L è massimo); decrescente in seguito B L PMEL B PMEL L Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 157 • Dal punto di vista matematico, vale la seguente regola generale: se una curva media è prima crescente e poi decrescente (o, viceversa, prima decrescente e poi crescente), la corrispondente curva marginale è anch’essa prima crescente e poi decrescente (o, viceversa, prima decrescente e poi crescente). Inoltre la curva marginale interseca sempre la curva media nel punto di massimo (o di minimo) di quest’ultima. FUNZIONE DI PRODUZIONE E PRODUTTIVITÀ MEDIA E MARGINALE q • • PMGL: crescente fino ad A (punto di flesso della funzione di produzione); decrescente in seguito; negativa dopo C (punto di massimo della funzione di produzione) PMEL: crescente fino a B (punto di maggiore inclinazione del rapporto q/L); poi decrescente C B A L PMEL PMGL A B PMEL C Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • L PMGL Una volta determinata la quantità di L che deve essere utilizzata per ottenere una certa quantità di q (ricordiamo che nel breve periodo la quantità di K è data e non può essere modificata), è possibile analizzare come variano i costi totali al variare della quantità da produrre (q). • Abbiamo visto che il costo totale può essere espresso dalla seguente relazione: CT = wL + rK NB: il fatto che la quantità di K sia data nel breve periodo non toglie che essa deve essere comunque pagata al prezzo r. • Più in generale il costo totale (CT) è determinato dalla somma dei costi variabili (CV) e dei costi fissi (CF). CT = CV + CF 158 NB: dato che tutti i tipi di costi variano in generale al variare della quantità prodotta, sarebbe più corretto scrivere CT(q), CV(q) e CF(q). Per brevità, d’ora in avanti, non esplicitiamo la variabile indipendente (che è sempre la q). NB: in base alle ipotesi semplificatrici introdotte secondo cui esistono due soli input, valgono le due seguenti relazioni: CV = wL CF = rK • • Come per i costi totali, è possibile definire anche i costi variabili medi e i costi fissi medi. Costi variabili medi: CVME = CV / q Costi fissi medi: CFME = CF / q Come per i costi totali, vale inoltre la seguente equazione: CME = CVME + CFME • Una volta noti CV e CF, le formule presentate consentono di ricavare tutti gli altri tipi di costi: CT, CME, CMG, CFME, CVME. • Le curve dei costi presentano diversi andamenti al variare di q. 1. CF. Retta orizzontale. 2. CV. Curva crescente, prima concava (si ipotizza che a livelli bassi di output il fattore fisso non possa essere utilizzato al meglio), poi convessa (per la legge della produttività marginale decrescente). 3. CT. Curva con lo stesso andamento della CV, ma traslata verso l’alto di un ammontare pari a CF. 4. CME. Andamento a U: a livelli bassi di output il fattore fisso non viene utilizzato al meglio ed è perciò possibile risparmiare sul costo unitario aumentando la produzione; oltre un certo livello di produzione entra tuttavia in gioco la legge della produttività marginale decrescente. 159 5. CMG. Andamento a U per gli stessi motivi della CME. Come abbiamo già visto, dal punto di vista matematico, si tratta di una legge generale: se una curva media ha andamento a U, la corrispondente curva marginale è anch’essa a U. Inoltre la curva marginale interseca sempre la curva media nel punto di minimo di quest’ultima. 6. CFME. Curva decrescente perché i costi fissi vengono ripartiti su un numero crescente di prodotti. 7. CVME. Andamento a U per gli stessi motivi della CME. COSTO TOTALE, MEDIO E MARGINALE CT CT CV • • CF CMG: decrescente fino ad A (punto di flesso della CT e della CV); crescente in seguito. Interseca la CVME e la CME nei loro punti di minimo (punti B e C). CFME: sempre decrescente A CV A CF q CME CMG CMG CME CVME C B A CFME q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 COSTI DI LUNGO PERIODO • Nel lungo periodo, per definizione, tutti i fattori sono variabili. La distinzione tra CF e CV dunque non si pone e ci concentriamo unicamente sul costo medio di lungo periodo (CMELP) e il costo marginale di lungo periodo (CMGLP). Come vedremo, secondo la teoria neoclassica, entrambe queste curve dei costi hanno un andamento a U. Prima di analizzare i costi, dobbiamo però discutere le ipotesi riguardanti la tecnologia. • A differenza del breve periodo la quantità q dipende ora sia dalla quantità di L sia da quella di K. q = q (L, K) 160 • Ora che ambedue gli input possono essere variati, è probabile che al variare della quantità da produrre si renda conveniente variare le proporzioni di capitale e lavoro utilizzate. • Il procedimento che seguiamo per determinare la combinazione ottima di L e K è analogo a quello seguito nell’analisi della scelta del consumatore. Ricordiamo che il problema del consumatore poteva essere definito come consistente nel determinare la combinazione ottima di x1 e x2 che consentiva di massimizzare l’utilità, dato un certo vincolo di spesa. Il procedimento per la soluzione di tale problema portava a determinare la retta di bilancio e le curve di indifferenza. Nel caso del produttore, il problema consiste nel determinare la combinazione ottima di L e K che consente di minimizzare i costi per ottenere un certo livello di produzione. Tale procedimento porta a determinare la retta di isocosto e gli isoquanti. • NB: Ricordiamo che nell’analisi del problema del consumatore era possibile definire due impostazioni simmetriche: massimizzare l’utilità dato un vincolo di spesa (problema primale) oppure minimizzare la spesa per ottenere un certo livello di utilità (problema duale). Nell’analisi del problema del produttore sviluppiamo l’impostazione duale, cioè cerchiamo di minimizzare i costi dato il vincolo di ottenimento di un certo livello di produzione. Anche in questo caso è comunque possibile definire un problema simmetrico consistente nella massimizzazione del livello di produzione dato un vincolo di spesa per l’acquisto degli input. Come nel caso del consumatore, la soluzione ottima non cambia. L’INSIEME DELLE ALTERNATIVE POSSIBILI: GLI ISOQUANTI • Secondo un procedimento simile a quello introdotto nell’analisi delle scelte del consumatore, introduciamo una serie di ipotesi sulla funzione di produzione (nella teoria del consumatore le ipotesi riguardavano le relazioni di preferenze e la funzione d’utilità). • Assumiamo in particolare che uno stesso livello di produzione q possa essere ottenuto utilizzando quantità variabili dei fattori di produzione (ad esempio tanto K e poco L oppure tanto L e poco K). • Isoquanto. Un isoquanto è definito come il luogo dei punti nel piano (L, K) che danno luogo allo stesso livello di produzione. In pratica, un isoquanto si ottiene unendo tutti i punti (tutte le diverse combinazioni di L e K) che danno luogo ad uno stesso livello di produzione. 161 ISOQUANTI K Luogo delle combinazioni (L, K) che consentono di ottenere uno stesso livello di produzione q0 L Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Ovviamente non esiste un unico isoquanto, ma ne esistono tanti: uno per ogni diverso livello di produzione. MAPPA DI ISOQUANTI K • A isoquanti più lontani dall’origine corrispondono livelli di produzione maggiori (q2>q1>q0) q2 q1 q0 L Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Le ipotesi sulla funzione di produzione conferiscono agli isoquanti le seguenti proprietà: 1. Completezza. A ciascun punto del piano appartiene un isoquanto. 162 2. Monotonicità. Gli isoquanti sono decrescenti. L’ipotesi che la produzione aumenti quando aumenta la quantità di uno dei due input implica che per mantenere invariato il livello di produzione deve diminuire l’impiego dell’altro input. Questo significa anche tutti i punti al di sopra di un isoquanto danno luogo ad una produzione maggiore, mentre quelli sotto l’isoquanto danno luogo a livelli di produzione inferiori. In altri termini, agli isoquanti più lontani dall’origine corrispondono livelli crescenti di produzione. 3. Definizione di funzione. Gli isoquanti non si intersecano mai. Supponiamo per assurdo che per il punto A passino due isoquanti distinti q1 e q2. Questo significa che il punto A dovrebbe dar luogo a due livelli di produzione distinti, il che contraddice l’ipotesi che la funzione di produzione sia ben definita, ossia che associ ad ogni punto del piano (K, L) un unico valore q. 4. Convessità. Gli isoquanti sono convessi. Se vale la legge della produttività marginale decrescente, quando l’impresa utilizza tanto K e poco L, essa può ridurre di molto l’utilizzo di K (il che dà comunque luogo ad una caduta relativamente modesta della produzione), compensando tale caduta della produzione con un aumento anche piccolo di L (il quale, essendo utilizzato in quantità ancora scarsa, dà un grande contributo alla produzione). • Funzione di produzione e isoquanti. Dal punto di vista matematico, gli isoquanti si ricavano a partire dalla funzione di produzione esattamente con lo stesso procedimento con cui si ricavano le curve di indifferenza dalla funzione d’utilità. Si consideri la funzione di produzione q = q (L, K) e si fissi un certo livello di produzione q = q. L’equazione q = q (L, K) definisce il luogo di punti che forniscono la produzione q. I valori di L e K che soddisfano l’equazione determinano quindi i punti dell’isoquanto di livello q. • Saggio tecnico (marginale) di sostituzione. Se, a partire da un particolare punto di coordinate (L, K), si aumenta di un’unità l’impiego di L, affinché la produzione rimanga invariata, è necessario ridurre di un certo ammontare l’impiego di K. Il “saggio tecnico (marginale) di sostituzione” (STS) indica di quanto si deve diminuire la quantità del fattore K per compensare esattamente un aumento infinitesimale dell’impiego di L (in modo tale cioè che il livello di produzione resti invariato). In termini analitici, si tratta di calcolare il differenziale totale della funzione di produzione (che indica la variazione totale della produzione quando L e K aumentano simultaneamente di quantità infinitesime) e porre che esso sia pari a zero (imporre cioè che le variazioni di L e K siano 163 tali da compensarsi esattamente dal punto di vista della produzione). Il differenziale totale è dato dalla seguente espressione: dq = (∂q / ∂L) dL + (∂q / ∂K) dK = PMGL dL + PMGK dK Ponendo dq = 0, si impone che il livello di produzione rimanga costante e si determina così in che misura l’impiego di un fattore deve diminuire per compensare l’aumento dell’impiego dell’altro fattore, muovendosi lungo uno stesso isoquanto: dq = PMGL dL + PMGK dK = 0 dK / dL = – (PMGL / PMGK) La misura (dK / dL) prende il nome di saggio tecnico (marginale) di sostituzione. Matematicamente, esso è determinato dal rapporto tra le produttività marginali dei due fattori cambiato di segno: STS = dK/ dL = – (PMGL / PMGK) Dal punto di vista analitico, si tratta della derivata dell’isoquanto. Dal punto di vista grafico, esso è rappresentato dalla tangente all’isoquanto. Come per le curve di indifferenza, notiamo che il saggio tecnico (marginale) di sostituzione è una misura puntuale della sostituibilità tra i fattori. In generale infatti l’inclinazione dell’isoquanto varia lungo l’isoquanto stesso. LA FUNZIONE OBIETTIVO: LE RETTE DI ISOCOSTO • Riconsideriamo la funzione del costo totale: CT = wL + rK Per l’ipotesi di concorrenza perfetta sul mercato dei fattori di produzione, w e r sono dei parametri (dati sui quali l’impresa non ha alcun controllo). Fissato un certo livello del costo totale, CT, è allora possibile determinare tutte le diverse combinazioni di L e K che, acquistate ai prezzi (w, r), comportano un costo totale pari a CT. Tali combinazioni sono quelle che soddisfano la seguente equazione: 164 CT = wL + rK Dal punto di vista grafico, si tratta di una retta nel piano (L, K), la cui equazione esplicita rispetto a K è la seguente: K = – (w/r)L + CT/r Tale retta prende il nome di retta di isocosto. L’intersezione con l’asse L è data da: L = CT / w ottenuta ponendo K = 0 L’intersezione con l’asse K è data da: K = CT / r ottenuta ponendo L = 0 ISOCOSTI K CT0/r – w/r CT0/w L Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 165 MAPPA DI ISOCOSTI K A rette di isocosto più lontane dall’origine corrispondono livelli di costo maggiore per l’impresa L Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Se aumenta il costo totale CT, a prezzi dei fattori costanti, la retta di isocosto si sposta verso l’alto. • Se aumenta r (il prezzo del fattore K), a parità di w e di costo totale CT, la retta di isocosto ruota verso l’interno facendo perno sul punto di intersezione con l’asse L. • Se aumenta w (il prezzo del fattore L), a parità di r e di costo totale CT, la retta di isocosto ruota verso l’interno facendo perno sul punto di intersezione con l’asse K. LA MINIMIZZAZIONE DEI COSTI NEL LUNGO PERIODO • La scelta ottima del produttore si ottiene minimizzando i costi, compatibilmente con il vincolo di ottenere un certo livello di produzione. • Per l’ipotesi di convessità degli isoquanti, il punto di ottimo è determinata dalla condizione di tangenza tra l’isoquanto e la retta di isocosto più a sud-ovest possibile. 166 LA COMBINAZIONE OTTIMA DEGLI INPUT Dato il livello di produzione q*, la combinazione dei fattori più economica è (L*, K*), cui corrisponde un costo totale pari a CT* K E K* Dato il costo totale CT*, il livello di produzione massimo che si può ottenere è q* q* CT* L* L Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 Dal punto di vista analitico, il punto di ottimo è determinato dalla seguente condizione (che esprime appunto la tangenza tra l’isoquanto, di inclinazione dK / dL, e la retta di isocosto, di coefficiente angolare – (w / r)): STS = – (w / r) Ricordando la definizione del STS, tale condizione può scriversi anche nella seguente forma (uguaglianza delle produttività marginali ponderate): (PMGL / w) = (PMGK / r) LE CURVE DI COSTO DI LUNGO PERIODO • Una volta determinata la combinazione ottima di L e K per ogni livello di q è possibile determinare le curve del costo totale, medio e marginale in funzione di q. D’ora in avanti supponiamo quindi che ogni livello di produzione che l’impresa intenda produrre sia ottenuto avendo opportunamente risolto il problema di minimizzare i costi (ossia di determinare la combinazione (L, K) più economica) e ci concentriamo sull’andamento dei costi al variare della quantità che l’impresa intende produrre. 167 • Si parla di “rendimenti di scala costanti”, “crescenti” o “decrescenti” quando raddoppiando gli input, l’output aumenta del doppio, di più del doppio o di meno del doppio. • A tali concetti si collegano quelli di “economie” e “diseconomie di scala”. Le prime si realizzano quando i costi medi (cioè i costi per unità di prodotto) diminuiscono all’aumentare della scala di produzione (la curva dei costi medi sarà quindi decrescente). Le seconde quando i costi per unità di prodotto aumentano all’aumentare della scala di produzione (curva dei costi medi crescente). • Mentre il concetto di rendimenti di scala si riferisce strettamente alla struttura tecnologica, il concetto di economie di scala coinvolge anche i costi degli input, i quali potrebbero variare anch’essi al variare della quantità prodotta. Ad esempio una grande impresa potrebbe riuscire ad approvvigionarsi a costi inferiori rispetto ad una piccola impresa e questo potrebbe essere sufficiente a ridurre i costi per unità di prodotto anche in presenza di una tecnologia a rendimenti di scala costanti (semplicemente la grande impresa paga di meno gli input). • Ragioni dell’insorgenza di economie di scala: specializzazione e divisione del lavoro, indivisibilità, “principio del contenitore”, maggiore efficienza dei macchinari grandi, prodotti congiunti, produzione a stadi successivi, economie di organizzazione, economie finanziarie. • Ragioni dell’insorgenza di diseconomie di scala: problemi di coordinamento, difficoltà di controllo dei lavoratori sul posto di lavoro, maggiori capacità dei lavoratori di organizzarsi in difesa dei propri diritti, aumento del conflitto nelle relazioni tra le parti sociali. • Accanto alle economie e diseconomie di scala, che riguardano la singola impresa, si parla di “economie” e “diseconomie esterne” quando i costi medi per le imprese che producono uno stesso bene all’interno di un certo settore (di un’industria) diminuiscono o aumentano al crescere delle dimensioni dell’industria. • Ragioni dell’insorgenza di economie esterne: maggiori disponibilità di lavoratori specializzati, crescita dei servizi (finanziari, di commercializzazione, eccetera) di supporto all’industria, infrastrutture. • Ragioni dell’insorgenza di diseconomie esterne: determinati fattori di produzione potrebbero diventare scarsi ed aumentare di prezzo. 168 Le curve dei costi di lungo periodo presentano andamenti a U al variare di q. In particolare, si ipotizza che i prezzi dei fattori siano dati (cioè che il mercato dei fattori sia perfettamente concorrenziale), che lo stato della tecnologia sia anch’esso dato e che l’impresa scelga sempre la combinazione ottima dei fattori per ogni livello di produzione. 1. CMELP. Si ipotizza che per bassi livelli di q prevalgano le economie di scala e che oltre un certo livello di produzione prevalgano le diseconomie di scala. IL COSTO MEDIO DI LUNGO PERIODO • • • Fino al livello di produzione q1 prevalgono le economie di scala Nel tratto compreso tra q1 e q2 si hanno costi medi costanti A partire dal livello di produzione q2 prevalgono le diseconomie di scala Costo • ECONOMIE DI SCALA DISECONOMIE DI SCALA COSTI COSTANTI q1 q2 q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 La CMELP può essere vista anche come l’inviluppo dell’insieme delle CME. 169 RELAZIONE TRA CURVE DI COSTO MEDIO DI BREVE E DI LUNGO PERIODO Nel lungo periodo l’impresa può scegliere l’impianto più idoneo al livello di produzione da realizzare (ad ogni impianto corrisponde una CMEBP). Costi CMEBP1 CMEBP2 CMEBP4 CMEBP3 Per ogni livello di produzione, l’impresa sceglie l’impianto migliore e la sua intensità ottima di utilizzo CMELP q La CMELP rappresenta l’inviluppo inferiore delle CMEBP Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 2. CMGLP. L’andamento a U dipende dall’ipotesi di andamento a U della CMELP. Inoltre, la CMGLP interseca la CMELP nel punto di minimo di quest’ultima. COSTI MEDI E MARGINALI DI LUNGO PERIODO La CMGLP sta sotto la CMELP quando questa è decrescente; CMGLP CMGLP Costi CMELP CMELP = CMGLP Costi Costi Costi sta sopra quando è crescente CMELP CMGLP CMELP q Economie di scala Costi costanti q q q Diseconomie di scala Forma a U Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 RICAVI • Il ricavo totale dell’impresa è determinato dal prodotto tra prezzo di vendita (p) e quantità venduta (q). Il prezzo di vendita dipende dalla forma del mercato in cui opera l’impresa. 170 In generale, infatti, variando la quantità offerta, l’impresa potrebbe incidere sul prezzo di vendita. Il prezzo è quindi una funzione della quantità offerta. RT = p(q) q • La misura in cui un’impresa può incidere sul prezzo di vendita definisce il suo potere di mercato. Tale potere di mercato è determinato dall’elasticità della domanda che l’impresa ha di fronte. • NB: si potrebbe avere potere di mercato anche dal lato della domanda. Se, ad esempio, la domanda fosse caratterizzata da condizioni di monopsonio (un solo consumatore) questi, variando la quantità domandata, potrebbe incidere sul prezzo d’acquisto. In tutta l’analisi supporremmo tuttavia che la domanda sia caratterizzata da condizioni di concorrenza perfetta. • La curva di domanda dell’intero mercato si suppone sempre decrescente. Essa risulta dall’aggregazione delle domande individuali (cap. 2). NB: per ipotesi stiamo escludendo il caso di beni di Giffen. • La curva di domanda di mercato coincide con la curva di domanda della singola impresa solo nel caso di monopolio (caso in cui sul mercato opera una sola impresa e, quindi, tutta la domanda del mercato si rivolge alla sola impresa esistente). In generale, per conoscere la curva di domanda dell’impresa si deve conoscere la forma di mercato in cui l’impresa opera. • Una volta nota la curva di domanda che una singola impresa ha di fronte, è possibile conoscere le sue curve dei ricavi. La curva di domanda della singola impresa coincide infatti con i suoi ricavi medi: per ogni livello del prezzo, tutte le unità che i consumatori domandano all’impresa sono, dal punto di vista dell’impresa, unità vendute. D = RME • Quindi, una volta nota la curva di domanda dell’impresa, è nota anche la curva del suo ricavo medio e a partire da questa è possibile derivare anche il ricavo totale e il ricavo marginale. RT = RME q 171 RMG = ∂RT / ∂q PROFITTI • La massimizzazione dei profitti totali si ottiene producendo la quantità q* che massimizza la differenza tra ricavi totali e costi totali. π(q) = RT(q) – CT(q) • Per determinare il livello ottimo di produzione, q*, si possono utilizzare le curve dei ricavi e dei costi marginali. Dato un qualsiasi livello di produzione q’, se RMG(q’) > CMG(q’), allora conviene aumentare la quantità prodotta: il ricavo aggiuntivo che si ottiene producendo un’unità aggiuntiva è infatti maggiore del suo costo (il che significa che il livello di produzione q’ non è ottimale). Se, viceversa, RMG(q’) < CMG(q’), allora conviene ridurre la quantità prodotta: il ricavo aggiuntivo che si ottiene producendo un’unità aggiuntiva è minore del suo costo (il che significa, di nuovo, che il livello di produzione q’ non è ottimale). Il livello di produzione ottimo è perciò, il valore di q* tale che: RMG(q*) = CMG(q*) • I profitti totali corrispondenti al livello di produzione ottimo q* sono determinati dalla differenza tra il ricavo totale e il costo totale corrispondenti al valore q*: π(q*) = RT(q*) – CT(q*) Tale differenza può essere espressa anche in termini delle curve dei ricavi e dei costi medi: π(q*) = [p(q*) – CME(q*)]q • NB: in realtà, il profitto normale dell’impresa (inteso come il profitto che il capitalista potrebbe ottenere investendo il proprio capitale in un’altra attività, cioè il costoopportunità dell’investimento) è incluso nella curva dei costi. Quello che fin qui abbiamo 172 chiamato profitto (il rettangolo appena determinato) è perciò in realtà un “extra-profitto”, ossia un profitto aggiuntivo rispetto al profitto normale. Si deve anche notare che, nel breve periodo, l’impresa può trovare conveniente produrre anche in perdita (cioè ad un livello di produzione tale che RME < CME) a patto che sia in grado di recuperare almeno i costi variabili (RME ≥ CVME): i costi fissi ormai sono stati sostenuti e producendo ad un livello tale che il ricavo medio è superiore al costo variabile medio almeno si minimizzano le perdite. Nel lungo periodo invece l’impresa esce dal mercato se non recupera interamente i costi medi (RME ≥ CMELP). 173 5. Forme di mercato [Bibliografia di riferimento: Sloman, capitolo 5] GRADO DI CONCORRENZA • Sulla base (1) del numero di imprese presenti nel mercato, (2) delle barriere all’entrata e (3) della natura del prodotto è possibile distinguere quattro forme di mercato dal lato dell’offerta: concorrenza perfetta, concorrenza monopolistica, oligopolio e monopolio. In tutto il capitolo supporremo invece che dal lato della domanda ci sia concorrenza perfetta tra i consumatori. Ricordiamo inoltre che, nel determinare i costi dell’impresa, abbiamo supposto che questa sia in concorrenza perfetta con le altre imprese nell’acquisto dei fattori di produzione e che non abbia perciò alcun potere di influire sui prezzi dei fattori. • Le quattro forme di mercato hanno implicazioni diverse in termini della curva di domanda cui fanno fronte le imprese, il che porta le imprese ad avere comportamenti diversi a seconda della struttura di mercato. A sua volta, la diversa condotta delle imprese produce diversi risultati economici, innanzi tutto in termini di profitti. La logica è quindi la seguente: Struttura → Condotta → Performance CONCORRENZA PERFETTA • Definizione: mercato caratterizzato da un numero molto elevato di imprese, un identico prodotto, una conoscenza perfetta e la piena libertà di entrata e di uscita nel mercato. Queste ipotesi implicano che la curva di domanda che ha di fronte la singola impresa è orizzontale e l’impresa è price-taker (la quantità offerta dall’impresa è irrilevante rispetto all’offerta totale del mercato e il prezzo dunque non varia al variare della quantità prodotta). L’impresa non ha allora alcun potere di mercato e il prezzo è semplicemente un parametro che l’impresa prende per dato nelle sue decisioni di produzione. • La curva di domanda e la curva del ricavo medio sono due rette orizzontali al livello p. RME = D = p • Ricordando le relazioni tra le curve dei ricavi totali, medi e marginali: 174 RT = RME q = pq RMG = ∂RT / ∂q = p Il ricavo totale è una retta crescente di coefficiente angolare p e intercetta nulla. Il ricavo marginale è una retta orizzontale al livello p coincidente con la retta del ricavo medio (e con la curva di domanda). • Ricordando che la condizione per la massimizzazione dei profitti è CMG = RMG, l’impresa massimizza il profitto producendo la quantità, q* tale che p = CMG. • Al livello di produzione ottimo, è possibile che l’impresa realizzi extraprofitti (se p > CME) o che sia in perdita (se CVME < p < CME). Tale situazione costituisce un equilibrio di breve periodo. Essa tuttavia non è sostenibile anche nel lungo periodo. EQUILIBRIO DELL’IMPRESA CONCORRENZIALE NEL BREVE PERIODO • • • Curva di domanda dell’impresa orizzontale al livello pe. Profitto massimo nel punto RMG = p = CMG In corrispondenza di qe l’impresa consegue un extra-profitto (area tratteggiata) p CMG CME pe RME = RMG = pe qe q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • A livello dell’intera industria, il prezzo e la quantità d’equilibrio, p e Qe, si ottengono dall’intersezione delle curve di domanda e di offerta dell’industria (con inclinazione negativa la prima e positiva la seconda). 175 EQUILIBRIO CONCORRENZIALE DELL’INDUSTRIA NEL BREVE PERIODO p S Il prezzo di equilibrio (pe) è dato dall’intersezione tra le curve di domanda e di offerta del mercato pe D Qe Q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Nel breve periodo, la curva di offerta dell’impresa (cioè la relazione che esprime per ogni livello del prezzo, la quantità offerta dall’impresa) coincide con la curva del costo marginale nel tratto in cui questa giace al di sopra della curva del costo medio. Infatti, per ogni livello di p, la quantità ottima da produrre si ottiene proprio imponendo la condizione p = CMG. CURVA D’OFFERTA DELL’IMPRESA NEL BREVE PERIODO La curva d’offerta dell’impresa,(s) coincide con il CMG (nel tratto in cui questo è superiore al CVME) p p S p3 p2 p1 s CMG CVME D3 D1 D2 q Q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 176 • Nel lungo periodo, se l’impresa realizza extraprofitti, nuove imprese entrano nel mercato, la quantità totale prodotta aumenta, il prezzo si riduce e gli extraprofitti scompaiono. Simmetricamente, se le imprese sono in perdita, escono dal mercato, la quantità si riduce e il prezzo sale fino al livello sufficiente a coprire i costi medi. Nel lungo periodo quindi oltre alla condizione CMG = RMG, si stabilisce la condizione CME = RME la quale indica l’assenza di extraprofitti. L’EQUILIBRIO DELL’IMPRESA CONCORRENZIALE NEL LUNGO PERIODO In presenza di extra-profitti (RME > CME), nuove imprese entrano nell’industria → aumenta l’offerta → diminuisce il prezzo → spariscono gli extraprofitti S1 p p SL CMELP RME’ p1 pL RME” D qL Q Industria q Impresa Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Inoltre, si ha anche RMG = RME (poiché entrambe sono uguali a p) e, quindi, CMG = CME. Allora, dato che una curva marginale interseca sempre la sua curva media nel punto di minimo di quest’ultima, l’uguaglianza CMG = CME implica che il livello di produzione ottimo di lungo periodo è quello per il quale il costo medio è minimo. • Le posizioni di equilibrio di breve e di lungo periodo sono dunque caratterizzate dalle seguenti eguaglianze: Breve periodo: CMG = RMG = RME Lungo periodo: CMELP = CME = CMG = RMG = RME POTERE DI MERCATO • In tutte le forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta, la singola impresa ha un certo potere di mercato. La curva di domanda che l’impresa ha di fronte è inclinata 177 negativamente: riducendo la quantità offerta l’impresa può ottenere un prezzo più alto. Quanto più è inclinata la curva di domanda che ha di fronte l’impresa, tanto maggiore è il suo potere di mercato, ossia il potere di influire sul prezzo variando la quantità offerta. • A differenza del caso concorrenziale, in cui il ricavo medio dell’impresa non dipende dalla quantità prodotta, ora il ricavo medio (cioè la domanda che si rivolge all’impresa) è una funzione (decrescente) di q: RME = p(q) • Anche nella funzione del ricavo totale, quindi, il prezzo non è più un parametro, ma è funzione della quantità prodotta: RT = p(q) q La curva del ricavo totale è crescente nei tratti in cui l’elasticità della domanda è maggiore di uno. Se la curva di domanda che ha di fronte l’impresa ha un tratto in cui l’elasticità è minore di uno la RT diventa decrescente (all’aumentare della quantità, il ricavo diminuisce). RICAVI TOTALI, MEDI E MARGINALI DI UN’IMPRESA CON POTERE DI MERCATO • • • Ricavo medio: coincide con il prezzo (curva di domanda) Ricavo marginale: è positivo se la domanda è elastica; è negativo se la domanda è anelastica; è nullo se l’elasticità è pari a 1. RME RMG ε>1 RMG A (ε=1) ε<1 p = RME q RT Ricavo totale: crescente finché RMG>0; decrescente quando RMG<0 RT q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 178 • Matematicamente, la curva del ricavo marginale si ottiene derivando la funzione del ricavo totale: RMG = ∂RT / ∂q = ∂[p(q) q] / ∂q = p + (∂p / ∂q)q Ricordando la formula dell’elasticità della domanda, ε = – (∂q / ∂ p)(p / q), la RMG può essere espressa in funzione dell’elasticità della domanda: RMG = p [1 – (1/ε)] Se assumiamo che la curva di domanda che l’impresa ha di fronte è lineare, la RMG è anch’essa lineare e si trova sotto la RME. • Una volta noti i ricavi e i costi, la massimizzazione dei profitti avviene individuando la quantità q* che massimizza la loro differenza. Dal punto di vista grafico, si tratta di determinare il valore di q*, che rende massima la distanza verticale tra la RT(q) e la CT(q). MASSIMIZZAZIONE DEI PROFITTI (COSTI E RICAVI TOTALI) π RT CT π = RT − CT CT RT Il profitto è massimo dove è massima la differenza tra ricavo e costo totale q* q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 Sfruttando la condizione di ottimo RMG = CMG, la quantità ottima q* si ottiene come intersezione tra la RMG e la CMG. 179 MASSIMIZZAZIONE DEI PROFITTI (COSTI E RICAVI MARGINALI) RMG CMG CMG q*: punto di massimo profitto: RMG = CMG q* q RMG Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 Una volta trovata la quantità ottima da produrre, q*, l’ammontare totale dei profitti è dato dall’area del rettangolo avente per base la quantità q* e per altezza il profitto medio (cioè la differenza tra la RME e la CME). PROFITTO MASSIMO (COSTI E RICAVI MEDI) Quantità ottima da produrre: CMG Ricavi, costi CMG = RMG => q* CME RME Profitto massimo (area del rettangolo tratteggiato): q q* RMG [RME(q*) – CME(q*)]q* Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 180 MONOPOLIO • Definizione: mercato in cui è presente una sola impresa grazie all’esistenza di barriere all’entrata. La curva di domanda dell’industria coincide allora con la curva di domanda dell’impresa monopolistica. Essa è quindi decrescente. • Le barriere all’entrata possono essere determinate da diversi fattori: 1. Economie di scala (“monopolio naturale”). Le curve dei costi medi e marginali sono decrescenti. 2. Differenziazione del prodotto e fedeltà al marchio. 3. Superiorità tecnologica (che presuppone informazione imperfetta). 4. Proprietà e controllo di importanti fattori di produzione o delle reti di vendita. 5. Protezione legale. • Dato che la curva di domanda dell’industria coincide con quella dell’impresa, essa coincide anche con la curva dei ricavi medi dell’impresa (RME). Se assumiamo che la curva di domanda è lineare, la RMG è anch’essa lineare e sta sotto la RME. • Nel breve periodo, come nel lungo periodo, l’impresa massimizza il profitto producendo la quantità, q* tale che: CMG = RMG. A tale livello di produzione, l’impresa monopolista percepisce extraprofitti, i quali sono duraturi poiché esistono, per ipotesi, barriere all’entrata che impediscono alle altre imprese di espandere la produzione. EQUILIBRIO DI MONOPOLIO NEL BREVE E NEL LUNGO PERIODO p CMG CME pm La curva di domanda dell’impresa coincide con la domanda di mercato Qm RMG Qm Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 181 D = RME Q • Rispetto al caso concorrenziale, se i costi sono gli stessi, il prezzo si stabilisce ad un livello più alto e la quantità venduta è minore. CONFRONTO TRA CONCORRENZA E MONOPOLIO A PARITÀ DI COSTI 1. 2. p nel breve periodo, la concorrenza perfetta produce una quantità maggiore a un prezzo inferiore nel lungo periodo, i prezzi di concorrenza perfetta sono al livello minimo possibile CMG pm pc M C RMG D Qm Qc Q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Tuttavia, se il monopolio nasce dalla presenza di economie di scala, esso riesce a produrre a costi minori (il che potrebbe portare ad un prezzo più basso). • Quando i costi di entrata e di uscita da parte di potenziali rivali con la stessa tecnologia sono nulli, un mercato si dice “perfettamente contendibile”. Secondo la teoria dei mercati contendibili, un monopolista tende a comportarsi come se fosse in concorrenza perfetta, fissando il prezzo ad un livello sufficiente a coprire i costi medi, ma non tale da generare extraprofitti (in caso contrario, la concorrenza potenziale diventerebbe effettiva, con l’entrata di nuove imprese sul mercato). L’ipotesi di perfetta contendibilità, come quella di perfetta concorrenza è spesso poco plausibile. CONCORRENZA MONOPOLISTICA • Definizione: mercato in cui non ci sono barriere all’entrata, ma il prodotto delle imprese presenti è differenziato. Queste ipotesi implicano che la curva di domanda che ha di fronte la singola impresa è decrescente pur essendo piuttosto elastica (l’impresa ha un certo potere di mercato, ma se aumenta troppo il prezzo i propri clienti si rivolgono alle imprese concorrenti). 182 • Nel breve periodo, come sempre, l’impresa massimizza il profitto producendo la quantità, q* tale che RMG = CMG. A tale livello di produzione, l’impresa può ottenere extraprofitti (se p > CME). EQUILIBRIO DI CONCORRENZA MONOPOLISTICA NEL BREVE PERIODO p L’extra-profitto (area tratteggiata) è tanto più elevato quanto meno elastica è la domanda → la differenziazione del prodotto aumenta gli extra-profitti CMG CME pB RMG qB pB Q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Nel lungo periodo, tuttavia, se l’impresa realizza extraprofitti, nuove imprese entrano nel mercato, la curva di domanda della singola impresa si sposta verso sinistra e gli extraprofitti scompaiono. L’incentivo all’entrata di nuove imprese cessa quando la curva di domanda diventa tangente alla CMELP (il che implica assenza di extraprofitti). Nel lungo periodo si hanno dunque le seguenti eguaglianze: p = CMELP RMG = CMGLP 183 EQUILIBRIO DI CONCORRENZA MONOPOLISTICA NEL LUNGO PERIODO CMGLP CMELP p Gli extra-profitti di breve periodo incoraggiano l’entrata di nuove imprese nell’industria → la domanda delle imprese già operanti si riduce → spariscono gli extra-profitti (tangenza tra la domanda e il costo medio) pB pL RMG Q QL Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Rispetto alla concorrenza perfetta il prezzo di lungo periodo si stabilisce ad un livello più alto e la quantità venduta è minore. Inoltre la quantità prodotta non è tale da minimizzare il CMELP. CONFRONTO TRA CONCORRENZA MONOPOLISTICA E CONCORRENZA PERFETTA A PARITÀ DI COSTI p CMELP 1. 2. La concorrenza monopolistica produce una quantità minore a un prezzo superiore non viene minimizzato il CMELP p2 CM C pc L pcmL q2 q1 Q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • Rispetto al monopolio, se i costi sono gli stessi, il prezzo di lungo periodo è più basso e la quantità venduta maggiore. Tuttavia, se il monopolio nasce dalla presenza di economie di 184 scala, esso riesce a produrre a costi minori (il che potrebbe portare ad un prezzo più basso). OLIGOPOLIO • Definizione: mercato in cui ci sono barriere all’entrata e in cui le imprese esistenti interagiscono in modo strategico. Esistono diversi tipi di oligopolio: le barriere all’entrata possono derivare da una superiorità tecnologica con un prodotto omogeneo (oligopolio concentrato), oppure possono derivare dalla differenziazione del prodotto (oligopolio differenziato). • Secondo la forma dell’interazione strategica tra le imprese è possibile distinguere comportamenti collusivi e comportamenti competitivi. • Un accordo formale di collusione prende il nome di “cartello”. Se tutte le imprese dell’industria aderiscono al cartello, quest’ultimo si comporta come se fosse un unico monopolista: fissa la quantità ottima secondo la condizione RMG = CMG e il prezzo corrispondente in base alla curva di domanda. Una volta fissata la quantità globale da produrre, la quota di produzione di ciascuna impresa è stabilita da accordi espliciti tra le imprese. EQUILIBRIO DI OLIGOPOLIO COLLUSIVO p CMGcartello Le imprese del cartello determinano q* e p* come in monopolio e poi si spartiscono il mercato tramite l’assegnazione di quote p* RMGindustria q* Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 185 Dindustria q • In alcuni casi, i cartelli sono vietati dalla normativa anti-trust. In tal caso sono possibili “collusioni tacite”. Un esempio diffuso è la leadership di prezzo dell’impresa dominante: l’impresa leader fissa il prezzo ad un livello tale da garantire extraprofitti e le altre imprese si adeguano (senza tentare di guadagnare quote di mercato attraverso politiche ribassiste che genererebbero ritorsioni e diminuzioni dei profitti di tutte le imprese del settore). Un altro esempio di collusione tacita è la prassi di fissare il prezzo sulla base del costo medio (più un certo margine di profitto) evitando così la concorrenza di prezzo. In generale, costituiscono una collusione tacita tutte le regole di comportamento implicite volte a proteggere gli interessi generali delle imprese del settore. • La stabilità di un accordo collusivo dipende dai vantaggi che possono avere le imprese a rompere l’accordo. • L’oligopolio non collusivo è spesso studiato attraverso la teoria dei giochi. Per ogni strategia di un giocatore (per ogni scelta possibile), il guadagno (o, nei termini della teoria dei giochi, il pay-off) dipende dalla strategia degli altri giocatori. La teoria dei giochi considera allora gli effetti di possibili strategie. 1. Strategia del “maximin”. Per ogni strategia a propria disposizione, il giocatore calcola il pay-off minimo (quello corrispondente all’ipotesi più pessimistica in merito alla risposta dell’altro giocatore) e sceglie la strategia che garantisce quello più grande. 2. Strategia del “maximax”. Per ogni strategia a propria disposizione, il giocatore calcola il pay-off massimo (quello corrispondente all’ipotesi più ottimistica in merito alla risposta dell’altro giocatore) e sceglie la strategia che garantisce quello più grande. • Si definisce strategia dominante una strategia che garantisce il pay-off massimo indipendentemente dalla strategia del rivale. Una situazione in cui ambedue i giocatori giocano una strategia dominante definisce un equilibrio di Nash. In altri termini un equilibrio di Nash è una situazione in cui a nessun giocatore conviene cambiare strategia unilateralmente. • Nel caso della curva di domanda a gomito, ciascun oligopolista utilizza la strategia del maximin: di fronte alla possibilità di abbassare il prezzo, l’oligopolista suppone che anche i rivali faranno lo stesso, il che implicherà un modesto aumento della quantità venduta (secondo l’inclinazione della curva di domanda dell’industria); nel caso invece di un aumento del prezzo, egli suppone che gli altri non lo seguiranno, il che implicherà una forte caduta della quantità venduta a vantaggio dei rivali. Secondo questa teoria, dunque, i prezzi tendono a rimanere stabili nei mercati oligopolistici. 186 CURVA DI DOMANDA A GOMITO IN OLIGOPOLIO NON COLLUSIVO • • p Se un oligopolista abbassa il prezzo, i rivali lo seguono: le quote di mercato restano invariate (curva piatta) Se invece alza il prezzo, i rivali non lo seguono e perde molti clienti (curva inclinata) p1 D q1 q Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 • L’equilibrio di Nash non coincide necessariamente con la situazione ottimale per i due giocatori. In alcuni casi, infatti, se i giocatori potessero accordarsi e determinare una strategia comune (come negli accordi collusivi), essi potrebbero migliorare entrambi il proprio pay-off rispetto all’equilibrio di Nash. Un esempio di questo tipo sono le situazioni tipo “dilemma del prigioniero”. • Il prezzo di oligopolio è in generale più alto del prezzo di concorrenza e più basso del prezzo di monopolio. • Discriminazione di prezzo. Si ha discriminazione del prezzo quando l’impresa riesce a praticare prezzi diversi ai diversi consumatori. Ovviamente la possibilità di discriminazione del prezzo è un vantaggio per le imprese (infatti, alla peggio, l’impresa potrebbe sempre fissare un prezzo unico). • Si ha “discriminazione di primo grado” (discriminazione perfetta) quando l’impresa riesce a vendere ogni unità del bene al prezzo massimo che ciascun consumatore è disposto a pagare. • Si ha “discriminazione di secondo grado” quando l’impresa applica prezzi diversi ai clienti in base alla quantità acquistata da questi ultimi. • Si ha “discriminazione di terzo grado” quando i consumatori possono essere raggruppati in diversi segmenti (maschi e femmine, consumatori privati e imprese, giovani e anziani) a ciascuno dei quali viene praticato un prezzo diverso. 187 • Il caso ideale (per l’impresa), è ovviamente quello di discriminazione di primo grado. • Nel caso di discriminazione del terzo grado, dal punto di vista dei consumatori, alcuni potrebbero trarne un vantaggio (quelli che hanno una bassa disponibilità a pagare e che, con il prezzo unico, rimarrebbero esclusi dal consumo); altri tuttavia saranno svantaggiati (quelli con un alta disponibilità a pagare, che finiscono per pagare un prezzo più alto di quello che prevarrebbe con il prezzo unico). A livello globale, quello che è certo è che si ha una diminuzione del surplus globale dei consumatori e un aumento dei profitti delle imprese. 188