64 2/2008 Sommario Dossier A frica e Mediterraneo C U L T U R A E S O C I E T À MEDICINA E MIGRAZIONE Introduzione. Immigrazione e povertà: una risorsa per il Nord del Pianeta Globalizzazione e culture della salute. Corpi migranti e società plurale I paradigmi del diritto umanitario e delle politiche del trauma in Italia Verso una clinica costituita da teorie molteplici Salute mentale e migranti. Il lavoro nel Dipartimento di Salute mentale di Bologna ESPERIENZE: Le service de psychopathologie de l’enfant et de l’adolescent de l’Hôpital Avicenne La salute delle persone in viaggio ESPERIENZE: Fondazione europea per la Genetica Una sfida per il futuro. L’INMP Chi cura la salute dei cittadini stranieri? ESPERIENZE: Centro Frantz Fanon; Centro di consulenza sulla relazione - Associazione Shinui La salute delle donne migranti Tubercolosi e immigrazione ESPERIENZE: Alimentazione e immigrazione: problemi aperti 2 di Stefano Allievi 8 di Sarah Klingeberg 14 di De Timmerman, Hounkpatin, Stortoni, Zountekpo 21 di Aldo Morrone di Silvia Festi e Paolo Ballarin 25 par Marie Rose Moro 30 31 35 36 39 di Rabih Chattat di Serena Paterlini di Aldo Morrone e Ottavio Latini di G. Dallari, T. Paganelli, P. Schildkraut di Nicola Villanova 46 47 51 58 La crisi somala e la partecipazione delle donne alla ricostruzione dello Stato di Elisa Pelizzari 59 Musei READ-ME. Musei etnografici e diaspora di Anna Maria Pecci Femmes dans les arts d’Afrique di Francesca Fattori 62 64 Intercultura I “luoghi comuni” dell’intercultura di Lorenzo Luatti Interacció 2008: politiche locali per l’intercultura di Sandra Federici a cura di Silvia Festi di Tatiana Di Federico e Marco Minarelli di A. Matteelli, I. El-Hamad, M.C. Raviglione Situazioni 67 71 Eventi Sala 1 - Viaggio in Burkina Faso, Aubervilliers portraits sensibles 73 Libri V.Y. Mudimbe, José Eduardo Agualusa, Fabrizio Gatti, Pedro F. Miguel Muxima, Jean-Philippe Stassen 76 DOSSIER Castel Sant’Angelo, Roma 2007. Foto di Sarah Klingeberg 2 Introduzione. Immigrazione e povertà: una risorsa per il Nord del Pianeta di Aldo Morrone Molti anni fa un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d’un operaio, andò da Genova in America, solo, per cercare sua madre. Sua madre era andata due anni prima a Buenos Aires, città capitale della Repubblica Argentina, per mettersi al servizio di qualche casa ricca, e guadagnare così in poco tempo tanto da rialzare la famiglia, la quale, per effetto di varie disgrazie, era caduta nella povertà e nei debiti. Non sono poche le donne coraggiose che fanno un così lungo viaggio con quello scopo, e che grazie alle grandi paghe che trova laggiù la gente di servizio, ritornano in patria a capo di pochi anni con qualche migliaio di lire. (Edmondo De Amicis, Cuore) Oggi l’esule incarna, modificandone il senso originario, l’ideale formulato nel XII secolo da Ugo di San Vittore: L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero (…). Io che sono un bulgaro che vive in Francia, prendo a prestito questa citazione da Edward Saïd, palestinese che vive negli Stati Uniti, il quale l’aveva trovata, a sua volta, in Erich Auerbach, tedesco esule in Turchia. (T. Todorov, La conquista dell’America) U no dei paradossi più complessi attualmente correlati al fenomeno immigratorio è la sua costante percezione come problema di sicurezza sociale, come paura dell’Altro, del diverso, la terribile sensazione che possano essere veicolate malattie infettive emergenti e riemergenti, apparentemente scomparse dai nostri territori. L’inquietudine legata alla presenza di “qualcuno” che non conosciamo, che non sappiamo bene cosa voglia fare “sul nostro territorio” e soprattutto cosa voglia portarci via e casa imporci, rimane una costante del nostro immaginario collettivo che, soprattutto in quest’ultimo periodo, alcune forze politiche tentano di manipolare, per imporre un clima di paura, di xenofobia se non di razzismo. Dall’altra parte la presenza di fasce di popolazioni immigrate sembra aver risvegliato in alcune coscienze una sorta di bisogno di prendersi cura dei fratelli minori e bisognosi di tutto, in nome di una solidarietà, troppe volte incentrata più sul donatore e sui suoi interessi che non sulla figura, peraltro nobile e portatrice di valori e non solo di necessità, che dovrebbe essere oggetto di questa benevolenza. Siamo quasi all’esaltazione, grazie all’immigrazione, di una bontà a volte ambigua, di una solidarietà disgiunta dalla giustizia. Ma sappiamo che non vi può essere pace e riconciliazione, senza giustizia. Superare l’emergenza L’immigrazione non è più un fenomeno emergenziale, ciònondimeno le novità legislative, economiche e culturali determinate da questa nuova realtà non sono sempre di alto profilo, né condivise da tutti. Infatti occorrerebbe oltrepassare il livello delle iniziative, dettate dall’emergenzialità e dalle politiche umanitarie in genere condannate ma nei fatti accettate perché foriere di fondi e contributi economici. Infatti essendo queste politiche attuate soprattutto con la giustificazione dell’emergenza, sono difficilmente controllabili e verificabili riguardo all’efficacia e alla validità. Si tratta di un “pantano” di iniziative che spesso non contribuiscono a migliorare il quadro sociale dell’immigrazione mentre consumano finanziamenti pubblici, pagati dai contribuenti. Inoltre si tratta di una ambigua gestione di fondi, talora concessi a pioggia, pur di evitare di scontentare qualche associazione o lobby pseudo-solidaristica. Oggi abbiamo di fronte una sfida alla quale eravamo fortemente impreparati, ma che dobbiamo affrontare in termini di analisi serie e di interventi altrettanto elaborati e competenti. Non è più il tempo per iniziative empiriche e prive di prospettive. Innanzitutto, nell’impegnarsi fortemente per gli immigrati, persone impoverite, è necessario chiedersi chi o che cosa, quale sistema economico o sociale, li abbia costretti alla perdita del lavoro, del sostegno economico, o addirittura del loro futuro e della loro dignità. Il fenomeno immigratorio inoltre si presenta sempre più diversificato, nel territorio, nel tempo e nelle sue caratteristiche. Si può disegnare una mappa delle presenze di immigrati alquanto fluttuante, con luoghi che si riempiono o si svuotano, spesso con frequenza stagionale. Non riusciamo ancora a comprendere l’inesistenza del contenuto della parola “immigrato”. Troppo diverse sono le realtà dei paesi da cui provengono queste persone, troppo diverse le stesse persone, donne, bambini, uomini, giovani, anziani, rifugiati, richiedenti asilo politico, vittime della tortura, vittime della tratta sessuale, migranti per lavoro, familiari ricongiunti, studenti stranieri. Cattolici, islamici, protestanti, ortodossi copti, indù, buddisti, solo per citare le principali religioni di appartenenza. Culture e colori della pelle innu- 3 AeM 64 nov. 08 merevoli non semplificabili con la parola “immigrati”. Portatori di valori, di concezioni della salute e della malattia così diversificate da non essere uniformabili da un minimo comune denominatore. Fortunatamente. 4 Disuguaglianza e salute Cosa significhi l’espressione “corpi migranti” ce lo spiega in questo dossier Stefano Allievi, che sottolinea il cambiamento del paesaggio dovuto all’immigrazione, gli effetti sistemici e i cambiamenti sia nel sapere medico che nelle sue pratiche, già particolarmente complesse prima dell’arrivo degli immigrati. La cultura della salute può migliorare grazie alla presenza di tante diversità o si trova prigioniera di un metodo clinico-sperimentale che non prevede modifiche da parte dei soggetti che lo dovrebbero applicare? In altre parole, può migliorare una medicina troppe volte attenta più ai profitti che può realizzare nella sua estensione pratica, che non alle persone malate, ormai comunemente definite “pazienti” o peggio ancora“utenti”, creando una nuova categoria di passivi consumatori di prestazioni sanitarie e farmacologiche, spesso inappropriate, inutili e talora dannose? Alcune malattie sembrano emergere, o meglio, riemergere, perché in effetti non erano mai state definitivamente eradicate, ma solo ridotte o scomparse tra le fasce alte della nostra popolazione. La tubercolosi è una di queste. Solo il nome richiama alla memoria dei medici più anziani immagini di sanatori, di corpi violati nella loro forza e giovinezza. Montagne di pagine di letteratura e di arte. Oggi, anche dinanzi a un sistematico armamentario diagnostico-terapeutico mai immaginabile nel passato, riesce a spaventare e a offrire lo spunto per rilanciare la “pericolosità” dell’altro, dello straniero. Eppure noi avevamo assistito a un forte aumento della presenza di questa malattia, ben prima dell’arrivo degli immigrati, quando scoprimmo che una nuova sindrome, chiamata poi AIDS, portava alla morte tante persone, proprio a causa della tubercolosi, che rappresentava l’evento fatale in soggetti colpiti da questa immunodeficienza acquisita che consentiva a batteri, a virus, presenti in forma parassitaria o saprofitica, di sviluppare la malattia di cui erano portatori. Alberto Matteelli, Issa El Hamad e Mario C. Raviglione ci offrono la descrizione clinica delle diverse forme di TB negli immigrati, gli aspetti legati alla loro cura in Italia e in Europa, dati scientifici sugli approcci intrapresi per incrementare e facilitare l’accesso alla diagnosi e alla cura della TB e sul rapporto costi-efficacia per la sua prevenzione e eradicazione. Strettamente legata a questo argomento è l’analisi condotta da Giovanna Dallari, Tommaso Paganelli e Pirchia Schildkraut sulle ineguaglianze dello stato di salute tra i diversi individui presenti nella nostra società. È noto che a parità di patologie acquisite, le persone con minore istruzione presentano un rischio di morire notevolmente maggiore, rispetto a soggetti laureati. Per i disoccupati, inoltre, il rischio di ammalarsi seriamente di patologie gravi e debilitanti è proporzionalmente legato al tempo di disoccupazione vissuto. Numerosi studi hanno documentato che la mortalità, in Italia come in altri stati, cresce con il crescere dello svantaggio sociale. Alcune ricerche mostrano che le diseguaglianze nella mortalità non si riducono nel tempo, anzi sembrano ampliarsi, almeno tra gli uomini adulti. Effetti diretti della povertà e dell’emarginazione sono misurabili sulla mortalità delle persone e delle famiglie assi- stite dai servizi sociali per problemi di esclusione (malattie mentali, dipendenze, povertà, disoccupazione), che in alcune zone presentano uno svantaggio nell’aspettativa di vita di 13 anni per gli uomini e 7 per le donne, rispetto al resto della popolazione. Altri studi epidemiologici sottolineano dati che coloro che lavorano tra i più poveri e gli emarginati ben conoscono: i disoccupati hanno una probabilità di morire tripla rispetto a quella degli studenti loro coetanei, e più che doppia rispetto a chi ha una occupazione (…). Da numerosi anni sono noti alla comunità scientifica questi dati. Ci si sarebbe aspettato un intervento forte di politica sanitaria di prevenzione e promozione della salute che cercasse negli anni di invertire questa tendenza, che invece in ogni ulteriore studio clinico-epidemiologico di settore ha sempre confermato l’aumento delle disparità tra ceti sociali differenti. Il bambino che nasce oggi in un Paese industrialmente sviluppato ha una prospettiva di vita media intorno ai 75-80 anni, mentre dai tempi greco-romani a tutto il XVIII secolo questa attesa di vita non eccedeva il trentennio. La stessa differenza corre, oggi, tra un bambino che nasce nei nostri Paesi industrializzati e un neonato dei Paesi in via di “ulteriore sottosviluppo”. Notizie di questo genere sono oggetto di costante e persino scolastica divulgazione: tutti le conoscono, ma nessuno agisce conseguentemente. Però non si sa che la vita media non usava distinguere per classi sociali, per livelli culturali, fino all’inizio della rivoluzione industriale: è in questo periodo che la vita, la morte e la malattia imparano a discriminare sempre più severamente e attentamente, entro una stessa collettività, tra ricchi e poveri, tra autoctoni e immigrati. Numerosi studi epidemiologici dimostrano questa semplice tesi: si vive, ci si ammala e si muore di classe, come sulla tragica tolda del Titanic.1 Anche la malattia, come la cultura, è diversamente percepita dalle diverse persone che la vivono. Il termine stesso di malattia esprime in realtà significati diversi rispetto a chi la subisce e a chi la cura. Il modello antropologico statunitense ha distinto due diversi concetti di malattia: disease e illness. Disease è la malattia intesa come realtà oggettiva, misurabile con metodi matematico-sperimentali, con visualizzazione dei diversi organi, separati dal contesto culturale. Illness esprime la malattia così come è vissuta e percepita dal paziente, con tutta la sua cultura, i suoi sentimenti e emozioni (Fabrega 1974). È stato affermato che illness è quello che vive e sente il paziente quando va dal medico, disease è quello che ha quando torna dall’ambulatorio (Cassel 1976). Se ciò accade nella stessa cultura immaginiamoci quanto diverse sono le percezioni tra persone appartenenti a culture diverse. Lo stesso può affermarsi per quanto riguarda il concetto di “salute”. Dare una definizione di malattia non è certamente facile. Esiste una fondamentale differenza tra “essere malato” e “avere una malattia”. Gli autori anglofoni contemporanei hanno introdotto una sottile e fondamentale distinzione con l’uso dei termini illness e disease, che si ritrova anche in autori di lingua tedesca (Erkrankung e Krankheit), mentre in francese, italiano e spagnolo è assente ogni distinzione. Il termine illness dovrebbe essere usato per designare l’esperienza diretta del malato, il “vissuto della malattia”, mentre disease dovrebbe essere riservato alla concettualizzazione della malattia da parte del medico. Esiste però anche una differenza fra “essere malato” (sentirsi tale) e “essere un malato” (e cioè essere riconosciuto come tale), da cui deriva la necessità di introdurre un terzo termine, sickness, per indicare la percezione della malattia da parte dell’ambiente non medico che circonda il soggetto. Vittime o cittadini? L’immigrazione è sempre stata e rimane un processo altamente differenziato. Vi possono prendere parte sia coloro che hanno un progetto migratorio definitivo, sia quelli con una mentalità solo conoscitiva e temporanea. In Europa, negli anni Settanta, gli immigrati si sono trasformati da “riserva di manodopera straniera” in comunità di immigrati o comunità etniche. Questo ha reso insufficienti i meccanismi di integrazione che avevano funzionato sino ad allora, comportando conflitti di livello nazionale e locale nei vari paesi dove l’immigrazione era maggiore. Fino ad allora gli immigrati erano stati considerati prevalentemente forza lavoro, un contingente relativamente strutturato la cui integrazione faceva automaticamente seguito all’impiego, mentre la forza propulsiva dell’immigrazione era l’elevata domanda di manodopera. Ora con la riunificazione familiare e la crescita della seconda generazione emergono in primo piano questioni quali alloggio, scuola, associazionismo e commercio. Le questioni relative all’integrazione non sono più rimaste confinate nei luoghi di lavoro e si sono considerevolmente ampliate le basi da cui formulare richieste. L’esperienza dimostra che l’integrazione è agevolata anche dalla promozione di associazioni e attività culturali. Si deve cercare di realizzare un’integrazione molto diversa da quella originariamente pensata in Francia, in Germania o nel Regno Unito alla quale gli immigrati dovevano adeguarsi. Alcuni articoli di questo dossier (Nathalie De Timmerman, Lucien Hounkpatin, Federica Stortoni e Anne Zountekpo, Silvia Festi e Paolo Ballarin, Marie Rose Moro) riportano alcune importanti esperienze nell’ambito dei servizi di salute mentale offerti ai cittadini di origine immigrata in una prospettiva etno-psichiatrica in Francia e in Italia. Certamente, la presenza di numerose donne e di intere famiglie ha cambiato notevolmente lo scenario immigratorio e su questo tema si sofferma l’articolo di Tatiana di Federico e Marco Minarelli. Di conseguenza, si sarebbe dovuto modificare anche il modello di assistenza sanitaria proposto dal nostro Servizio sanitario nazionale. Eppure, così non è stato. Invece di accettare la sfida rappresentata dalla realtà di persone provenienti da culture altre, e rimodellare una offerta di servizi socio-sanitari diversificati, elastici e soprattutto a misura umana, si è preferito cercare di rivolgere agli stranieri quegli stessi servizi che spesso non erano più attenti alle persone, ma solo alle malattie, o ancora meglio alla logica di produrre profitto dalle malattie. Si è travasato nella sanità una massa di persone straniere che hanno sostituito nelle fruibilità del servizio stesso gli italiani che ormai, ad eccezione dei servizi di emergenza e di alta tecnologia, si rivolgono al servizio sanitario privato, potendo detrarre dalla dichiarazione dei redditi le spese sostenute. Si tratta di una percentuale di oltre il 25-30 per cento dell’intera popolazione che utilizza i servizi pubblici. È ancora lontano lo sviluppo di una medicina attenta alle complesse problematiche delle persone, al rispetto delle diverse dignità e culture, al disagio esistenziale dei migranti economici (Rabih Chattat), alla condizione di trauma dei richiedenti asilo e dei rifugiati (Sarah Klingeberg). Tra gli immigrati infatti un ruolo particolare assume la presenza di richiedenti asilo politico e vittime di tortura. A livello mondiale e istituzionale la tortura è oggetto di una incondizionata condanna in tutti i documenti internazionali sui diritti umani eppure la sua pratica è stata denunciata in oltre cento Paesi. Il dibattito sulla tortura è molto antico, quasi quanto la storia del genere umano. Ne hanno discusso filosofi dell’antichità classica, dell’età moderna e del XX e XXI secolo. Oggi si lavora sapendo che le carte dei diritti e legislazioni internazionali, unanimemente e apparentemente, la condannano. È vero, la tortura è vietata, ma certamente non impedita e non passa giorno senza che venga messo al centro del dibattito internazionale il tema della sicurezza cui tutto si deve piegare, anche la tutela dei diritti umani. Quando le immagini dei corpi nudi, umiliati e accatastati della prigione di Abu Ghraib furono divulgate nel 2004, non si poteva più negare l’uso della tortura da parte delle forze armate statunitensi in Iraq, ma si cercò di sminuire e ridurre. Newsweek, nel 2004, intitolava una delle sue copertine: “Legittimare la tortura?”. Questo vuol dire che assistiamo a una regressione, in fatto di diritti umani, sul piano culturale prima che su quello giuridico, . Un altro elemento da sottolineare è il rischio di trasformare una popolazione, quella immigrata, considerata da tutti come una popolazione giovane, acculturata, sostanzialmente sana, in una massa di persone bisognose di tutto, quasi prive di dignità, di ricchezze culturali e professionalità diverse. Spesso un’errata percezione di questa popolazione, in una prospettiva di pseudo solidarietà, non riconosce la forza di innovazione, di arricchimento culturale e politico che deriva dalla loro presenza e anche il loro apporto in termini di rimodulazione dell’organizzazione dei servizi sociali, scolastici e sanitari. Importante è anche il loro contributo al mondo dell’economia, della finanza e del lavoro. Gli immigrati spesso vengono percepiti e rappresentati solo come passivi fruitori di servizi e non cittadini partecipi della complessità della vita delle nostre città e del nostro Paese. Osservato dall’esterno il mondo dei migranti appare come quello dei poveri: è tutto negatività. Chi vive invece all’interno del mondo dell’immigrazione conosce bene la sua vitalità e la sua creatività. Gli immigrati lottano per sopravvivere, sfidano la sorte e il destino contrario, pronti ad affrontare viaggi della disperazione: il mar Mediterraneo per molti di loro, per troppi di loro, rappresenta ormai la fine definitiva dei loro sogni. Gli immigrati hanno inventato lavori informali, si pensi solo ai lavavetri, ai venditori ambulanti agli incroci, alla nuova professione di “mediatore culturale”. Costruiscono comunità caratterizzate dalla solidarietà, da un forte anelito di giustizia. Le persone immigrate si riconoscono uguali nella diversità di origine, con proprie forme di espressione, comprese l’arte, la narrazione letteraria e la poesia. Credo che dovremmo imparare a riconoscere nel fenomeno immigratorio la grande sfida dei poveri all’intera società dei ricchi. Nella tradizione biblico-cristiana la salvezza per tutti viene solo dal mondo dei poveri. Per questo i portatori simbolici della salvezza sono il debole e il piccolo, l’orfano e la vedova, lo straniero e la vittima. Nel mondo dei poveri, quindi, c’è un principio dinamico di salvezza, che dà avvio a elementi e impulsi di salvezza. Noi riteniamo che questa prospettiva di cambiamento, tenendo al centro della società i più poveri, sia consegnata 5 AeM 64 nov. 08 dalla storia specificamente a loro, soprattutto nella loro dimensione di “umanizzazione”, nella loro capacità di prendersi cura dell’intera famiglia umana. Questa tesi è certamente controcorrente, poiché il mondo dell’abbondanza crede già di aver conseguito la salvezza o, per lo meno, di essere ben avviato sulla strada per raggiungerla. Di conseguenza il fatto che la salvezza venga dal basso è tanto alternativo quanto lo sono, nell’ambito della fede, le parole di D. Bonhoeffer «Solo un Dio che soffre può salvarci». Il nostro mondo è configurato da una civiltà della ricchezza che fa dell’accumulo di capitale il motore della storia e del suo possesso e sfruttamento il principio di umanizzazione. Questa civiltà non soddisfa, non civilizza. Pur essendoci eccedenze, essa non soddisfa le necessità basilari delle maggioranze del pianeta, il che mette in grave pericolo la specie umana e non favorisce le relazioni fraterne. Occorre quindi favorire una civiltà della povertà che abbia come principio dello sviluppo la soddisfazione delle necessità basilari e faccia della crescita della solidarietà condivisa e della giustizia il fondamento della umanizzazione. Perché una civiltà della povertà si realizzi è necessario il massimo contributo da parte di tutti, ma una simile civiltà scaturisce più naturalmente dal mondo dei poveri e degli esclusi. Dalla solidarietà ai diritti Ogni giorno veniamo bombardati da messaggi sulla necessità di essere solidali. Sembra quasi che l’interesse maggiore della nostra società sia la solidarietà. Ma è davvero così? È possibile che una società come la nostra, cinica, ipocrita e pronta alla guerra per esportare ovviamente la democrazia, sia sinceramente interessata alla solidarietà? Eppure apparentemente sembra così: la solidarietà ormai è un fatto di costume. Le sue manifestazioni esterne sono ogni giorno sotto i riflettori dei mass media. Ai poveri non viene lasciata più neanche la dignità della loro privacy. Dubitiamo fortemente che l’attenzione ai problemi che ci circondano possa essere praticata come se si sfilasse su una passerella cinematografica. Crediamo che l’assunzione di responsabilità storiche appartenga a tutti noi come esseri umani e che investire sulle creature più fragili sia l’unica scelta che possiamo fare se vogliamo un futuro per noi e per i nostri figli. Eppure la solidarietà rafforza la sua faccia “pubblicitaria”. Non c’è trasmissione televisiva in cui non venga declamata. Nessuno può permettersi di non dirsi solidale, senza pensare che cosa tale qualifica possa comportare nella sua vita, quale cambiamento. Occorre diffidare di tale inflazione, perché si rischia l’appiattimento, la negazione del conflitto. Giovanni Franzoni in uno straordinario libro dall’eloquente titolo La solitudine del samaritano ci ricorda che talvolta l’assistenza e la beneficenza sembrano ignorare le cause del bisogno e dell’impoverimento sistematico di alcune fasce sociali. È bene quindi interrogarci spesso sulla validità e sulla correttezza delle istituzioni della solidarietà e della carità, siano esse di ispirazione cristiana o laica. Siamo in presenza di poveri o di impoveriti? Gli immigrati clandestini: chi li ha resi clandestini? L’esperienza ci ha insegnato che spesso la carità è carica di pericoli. L’aiuto al prossimo tocca lati profondi della per- sonalità, segnati da ambiguità. L’amore si può trasformare in possessività e in potere. Il dono può liberare una persona dal bisogno immediato, ma può creare una dipendenza legata alla gratitudine che non è certo liberatoria. Telethon fa a gara per pubblicizzare i nomi dei benefattori assieme al loro potere. È ormai ampiamente noto quanto le varie forme di aiuto allo sviluppo dei Paesi cosiddetti in via di sviluppo possano essere in realtà forme di incremento della ricchezza dei Paesi donatori. Un’altra forma di ritorno oltre all’autogratificazione e al rendimento, è forse la più sottile: la solidarietà come forma di controllo sociale. Filippo Gentiloni, in un suo articolo, pur non proponendo ricette, indica alcuni percorsi. Evidenziare prima di tutto i conflitti. La solidarietà non li elimina, ma rischia di occultarli, se la si invoca quale terreno di incontro tra le parti, “valore” sul quale ci sarebbe accordo, anche se poi li divide il denaro, il colore della pelle, il sesso. Molti hanno interesse a far apparire la società “solidale”: dolce, cortese e affettuosa, preoccupata dell’Altro. Chi sta bene avrà anche la soddisfazione di sentirsi solidale: a posto con la coscienza, gratificato, buono. Chi sta male non avrà il diritto di protestare, beneficiato e schedato com’è. Attenzione dunque a non credere a una società senza dramma, scontro, tragedia, senza “peccato”. Nella parabola del samaritano, l’amore è un atto generativo che non controlla le risposte. L’amore del samaritano si esprime come vita che restituisce vita e non si consuma in un intreccio di amore reciproco. C’è il più assoluto disinteresse a sapere come reagirà l’altro, così come una madre nel dare alla luce non si pone il problema di come il figlio si orienterà sull’apprezzamento della vita. L’insegnamento di Gesù, nella parabola del samaritano, si conclude in una esortazione ad assumere come modello un gesto di compassione totalmente disinteressato e immotivato. Nella mia esperienza quotidiana di medico, ho potuto incontrare tante persone che in questi anni hanno reso possibile garantire il diritto alla tutela della salute agli immigrati clandestini presenti in Italia. Sono persone che con grande sacrificio e sofferenza personale testimoniano la loro fedeltà all’umanità sofferente, con discrezione e riservatezza, senza richiedere nulla in cambio, senza imporre nessuna onerosa gratitudine. Per quanto riguarda il grande tema della salute, l’immigrazione e la povertà potranno essere paradossalmente una spinta per favorire un nuovo modello di sanità più attento alla realtà delle persone che ai ricavi nell’erogazione di prestazioni sanitarie inappropriate. Il Sistema sanitario nazionale può rappresentare uno straordinario strumento di inclusione sociale e di integrazione, sempre che venga realizzato privilegiando la prevenzione e l’accesso appropriato ai servizi, senza “dopare” artificialmente la domanda di salute dei cittadini. Si tratta di impedire la realizzazione di un Sistema sanitario che imponga una sorta di “consumismo farmacologico” e di prestazioni sanitarie inappropriate e inutili. Negli ultimi anni sembra di assistere a un progressivo slittamento verso una gestione della sanità improntata a un forte economicismo, con il risultato di mettere in secondo piano la complessa strategia necessaria per promuovere e tutelare la salute dei cittadini: sembra emergere una riduzione impropria della tutela della salute al mero processo di erogazione di prestazioni sanitarie. In questo contesto spesso le regioni si sono limitate a erogare o “vendere” pre- stazioni sanitarie senza intervenire sulle cause delle malattie e senza promuovere un’adeguata prevenzione. Oggi siamo riusciti a rendere fruibili servizi alle donne e alle famiglie immigrate, ma senza che la medicina indagasse sulle cause di malattie dovute al lavoro nero; siamo capaci di praticare interruzioni volontarie di gravidanza nelle strutture pubbliche, ma non siamo ancora in grado di favorire la maternità responsabile per le donne immigrate, che percepiscono spesso la gravidanza come l’anticamera del licenziamento. Ci sembra di essere nella direzione giusta, ma occorre ancora fare molta strada affinché la promozione della salute e la prevenzione delle malattie siano assicurate alle fasce più povere della popolazione, e in particolare alle donne, siano esse straniere o italiane. Aldo Morrone è Direttore generale dell’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà (INMP) di Roma. Esperto di Medicina delle Migrazioni, delle patologie tropicali e della povertà, è docente in numerose università italiane e straniere e consulente dell’Ufficio dell’OMS di Venezia su Povertà, Salute e Sviluppo. È autore di oltre cinquecento articoli scientifici e di venti libri NOTE 1 - Quando il Titanic andò a cozzare contro un iceberg durante il viaggio inaugurale nel 1912, si ebbe la dimostrazione di quanto affermato. In quella catastrofe, la classe sociale di ciascun passeggero fu uno dei fattori che determinarono se egli sarebbe annegato o sopravvissuto. La lista ufficiale delle vittime dimostrò che, su un totale di 143 viaggiatrici di prima classe, solo 4 perirono (delle quali 3 avevano scelto volontariamente di rimanere sulla nave). Fra le viaggiatrici della seconda classe, le vittime furono 15 su 93 e nella terza classe 81 donne su 179 affondarono con la nave. I passeggeri della terza classe ricevettero l’ordine di rimanere sotto coperta e in alcuni casi l’ordine fu fatto eseguire sotto la minaccia delle armi. (W Lord, A Night to Remember, H. Holt & Co, New York 1955, p. 107, cit. da A.B. Hollingshead e F.C. Redlich, Classi sociali e malattie mentali, Einaudi, Torino 1965, p. 12). A pag. 6 dall’alto: Due immagini dell’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti. © INMP Permesso di soggiorno, Roma 2007. Foto di Sarah Klingeberg T he phenomenon of immigration and health: the solidarity and the right to health care; Aldo Morrone invites us to reflect on these fields through ideas develope during his long experience as General Director of the National Institute for Health, Migration and Poverty (INMP). Morrone tackles the issue of immigration as a process that requires services, but, at the same time, that offers modern medicine the possibility of revising its approach towards both illness and the patient. 7 AeM 64 nov. 08 DOSSIER Globalizzazione e culture della salute. Corpi migranti e società plurale di Stefano Allievi Yo llevo en el cuerpo un dolor Que no me deja respirar Llevo en el cuerpo una condena Que siempre me hecha a caminar (Manu Chao, Clandestino) I l paesaggio socio-culturale nel quale siamo inseriti sta cambiando in maniera radicale e con rapidità inaspettata. Non solo cambiano alcuni elementi della società, ma si sta producendo un nuovo tipo di società, e una nuova comprensione della medesima. Un cambiamento che include la comprensione della medicina, e delle idee che abbiamo di corpo e di salute.1 Globalizzazione e migrazioni hanno avuto l’effetto paradossale e non intenzionale di rendere “disponibili” su scala globale culture altre, lontane, sconosciute o misconosciute. Esse ci stanno ora, per così dire, rimbalzando addosso, proiettate su uno scenario globale e ri-localizzate altrove, in particolare proprio nell’Occidente da cui origina anche il macro-processo della globalizzazione. Un effetto, questo, che hanno osservato, forse prima e meglio di altri, alcuni antropologi, a diretto contatto con le culture altre e i loro cambiamenti. 8 Il caleidoscopio delle culture, ovvero l’importanza del fattore “C” È insomma in corso un processo di de-ri-territorializzazione delle culture che sta mostrando esiti di un certo interesse, per vie differenti, fondamentalmente riconducibili a due. La prima è la “scoperta” (da parte nostra), o la ri-scoperta di culture e saperi altrui, che troviamo in territori lontani, apprendiamo e riportiamo “a casa”, mettendoli a confronto con i saperi attuali (per esempio quelli prodotti dalla “ragione scientifica”), e anche con i nostri saperi “tradizionali”, sviluppando confronti diacronici che cominciano a dare frutti di qualche interesse. La presenza in Occidente di “rappresentanti” di questi saperi, ormai sempre più numerosi e ricercati dall’Occidente stesso, è un altro modo per far viaggiare mentalità, conoscenze, simboli, visioni del mondo. La seconda è l’arrivo, attraverso le migrazioni, di quelli che possiamo definire “saperi condivisi”: si tratta in questo caso non solo di conoscenze e idee sul mondo, ma di pratiche sociali e culturali diffuse e condivise all’interno di gruppi sociali (le comunità immigrate) sempre più ampi, in grado di viverle, di farle riprodurre, e anche di contaminarle con forme di conoscenza altre. L’effetto più immediato e evidente di questi processi è l’aumento del livello di pluralizzazione – non solo “teorica”, ma effettivamente, concretamente e immediatamente disponibile – dell’offerta culturale, che ha quindi potenziato le possibilità di scelta offerte nel concreto a ciascun individuo. Nel nostro caso, questo significa tra le altre cose riaprire la strada, accanto al sapere medico “ufficiale” e stabilito, anche a forme e credenze “tradizionali”, più o meno reinterpretate. Le migrazioni, soprattutto da paesi extraeuropei, hanno infatti favorito la presenza e la diffusione di modalità di credere “altre”, dato che i nuovi immigrati hanno portato con sé, come ovvio, anche il proprio bagaglio culturale. Tali processi non riguardano tuttavia solo le culture e le religioni: insieme a un discorso di “salvezza”, gli immigrati portano con sé anche un discorso di “salute”. Un discorso tanto più forte e convincente in quanto tali culture e religioni non sono rappresentate solo da individui e famiglie, che in qualche modo progressivamente si integrano, o al limite si incapsulano nella società di accoglienza. Esse trovano e assumono forme di radicamento collettivo e comunitario, che consentono di “trapiantare” anche forme e modalità di vissuto quotidiano e di appartenenza e identificazione culturale, concernenti anche l’idea di corpo, di malattia, di salute, di guarigione, di morte. Con queste modalità culturali di interrogare il corpo e l’idea di salute, ha sempre più possibilità di entrare in contatto anche l’autoctono: per via di “impollinazione” culturale (attraverso libri, viaggi o incontri personali); o per mezzo dell’incontro con le comunità immigrate che ne sono portatrici. Diventa o ridiventa dunque cruciale e strategico riflettere sulle implicazioni del “fattore C”: “C” come cultura. Non è un caso che si diffondano espressioni che fanno riferimento al “mosaico delle culture” o al patchwork religioso che si starebbe formando. Ma queste espressioni mettono in evidenza solo l’aspetto statico, rigido, di quanto sta succedendo, ovvero l’aumentata pluralizzazione culturale delle nostre società. In realtà, si tratta di un processo dinamico e alquanto complesso, che si lascia meglio descrivere dall’immagine, non statica ma dinamica, e in continua evoluzione, del caleidoscopio delle culture: i cui pezzi, sia quelli piccoli sia quelli più grandi (fuor di metafora, sia le nuove forme culturali, sia quelle vecchie, in passato monopolistiche e tuttora dominanti, o almeno maggiormente istituzionalizzate) sono in continuo movimento. Fuor di metafora, i vari pezzi in movimento del caleidoscopio potremmo chiamarli medicina Claudio Capanna, Due donne malate nell’ospedale di Ariwara. Repubblica Democratica del Congo, provincia dell’Ituri, 2007. © Claudio Capanna scientifica occidentale, cura d’anime e del corpo in chiave cristiana, medicine tradizionali, pratiche sociali e religiose legate alla vicinanza al paziente, al morente, allo stesso corpo cadavere, da parte di diversi soggetti ad esso deputati. Lo scambio culturale, come pure la presenza di immigrati, costituiscono alcuni tra i motori che muovono il caleidoscopio. E il sovrapporsi dei vari pezzi, quelli nuovi e quelli preesistenti, produce nuove forme e nuove sfumature di colore, ovvero produce fenomeni di “meticciato” e di sincretismo culturale. Ha effetti, insomma, anche “interni”, di peso tutt’altro che trascurabile. La tesi che qui sosterremo è che questo processo si manifesta – e forse anche in forma eminente – laddove sono in gioco gli elementi fondamentali dell’essere e del ben-essere: il corpo, e il sapere su di esso, con i molti richiami a valori ultimi e penultimi che esso comporta. Il caleidoscopio delle culture ha naturalmente effetti profondi anche sulle istituzioni sanitarie. Di fronte a questa situazione notevolmente più complessa, infatti, le istituzioni cui è demandata la cura del corpo nelle sue varie fasi, dalla nascita alla malattia alla morte, acquisiscono con fatica strumenti e chiavi di lettura utili a risolvere i problemi pratici che si pongono, che mettono in crisi le forme di funzionalità acquisite, e il significato stesso di queste istituzioni. Il mondo sanitario, tuttavia, insieme alla scuola (e anzi prima di essa, perché ad esso prima o poi si rivolge già la prima generazione di immigrati), è uno dei primi in cui la pluralità culturale e in particolare religiosa portata dagli immigrati – cui sempre fanno riferimento le idee di corpo, salute/salvezza e malattia, laddove non prevale la razionalità scientifica – si manifesta, si rende visibile, e può anche rendersi problematica. Ma questi cambiamenti, alla lunga, finiscono per coinvolgere anche le popolazioni autoctone, che a loro volta cominciano a includere forme di cura e idee di salute/ma- lattia che prendono in prestito e rielaborano elementi culturali importati dalle culture alloctone, dando vita a modalità espressive nuove, di fatto “autoctonizzate”. Inoltre i meccanismi di confronto e di scontro passano anche per altri canali, che non sono solo il confronto con pazienti che della diversità sono portatori. Effetti sistemici: la malattia declinata al plurale L’insistenza sul cambiamento del paesaggio sanitario dovuto all’immigrazione è doverosa, essendo l’elemento di novità per certi aspetti più dirompente per gli equilibri acquisiti, proprio perché si tratta di un’alterità più “altra”, nei confronti della quale c’è meno abitudine al confronto. Questo fattore è decisivo nel produrre trasformazioni tanto sul piano delle culture della salute, quanto su quello delle pratiche sociali e dei modelli di funzionamento delle istituzioni sanitarie, inducendo trasformazioni sia nel sapere medico che nelle sue pratiche. Ma la dimensione della pluralizzazione delle culture della salute è molto più ampia: e riguarda anche, e forse eminentemente, le popolazioni autoctone, coloro che non hanno vissuto l’avventura dell’emigrazione. Sono infatti in corso trasformazioni interne estremamente significative: e il cambiamento passa anche per gemmazione interna, non solo per innesto dall’esterno. Si pensi al successo sempre più ampio, e che coinvolge un numero sempre più alto di operatori e utenti, delle medicine dette in passato alternative: dall’omeopatia all’agopuntura, ad altre pratiche mediche “recuperate” nel sapere occidentale senza bisogno della presenza di comunità immigrate (sono immigrati tuttavia alcuni degli operatori del settore), come la medicina sciamanica, ayurvedica, tibetana, cinese, e più in generale le varie forme di medicina variamente definita naturale, olistica, non convenzionale, e in fondo la stessa maggiore enfasi sulla prevenzione, sullo stare bene, anziché solo sulla cura. 9 AeM 64 nov. 08 Claudio Capanna, Suora canossiana ugandese. Lweza, Kampala. Uganda, 2007. © Claudio Capanna 10 È utile a questo punto porsi una domanda: c’è un rapporto tra queste due modalità del cambiamento? Tra modalità interna e esterna, tra gemmazione e innesto? La risposta è certamente positiva. E insieme, questi due cambiamenti – non solo sommati ma, come si vedrà, “incrociati” – producono un cambiamento ulteriore: sul piano quantitativo, ma anche sul piano qualitativo. Le affinità con le trasformazioni nel paesaggio religioso d’Occidente sono sorprendenti. E tuttavia non devono stupire, perché sono entrambe parte di quel cambiamento più generale, figlio e compagno della globalizzazione e dei suoi effetti, cui abbiamo accennato. Anche in ambito religioso, come in ambito sanitario, sono presenti sia forme di cambiamento interne che esterne. Vale la pena a questo punto proseguire nel parallelo: non solo sul piano dell’offerta, in cui è evidente l’effetto di pluralizzazione, l’aumento del numero dei soggetti presenti sul mercato (dei beni sanitari come dei beni religiosi) e anche delle loro dimensioni, delle quote di mercato, per così dire, conquistate dai nuovi soggetti presenti. Il cambiamento avviene infatti anche sul piano della domanda, cioè dell’utente. Non solo sono a disposizione modelli diversi, alternativi o anche solo sovrapponibili e integrantisi reciprocamente. Si fanno evidenti forme diverse di fruizione. Non cambiano solo i soggetti in campo e le loro forme; si manifestano anche forme diverse di appropriazione del campo stesso, diverse modalità soggettive di viverlo. Nel mondo delle religioni la forma di appartenenza classica è quella per nascita: sono di una certa religione perché “ci sono nato”, perché vi appartenevano i miei genitori. Nel mondo della medicina, in qualche modo è lo stesso: seguo una certa modalità di cura, e di pensare il corpo, perché l’ho appresa socialmente, perché è quella dominante nella società in cui vivo, e da cui l’ho ereditata. Mi preesisteva, e mi ci sono per così dire incorporato. Ma il mondo delle religioni, oggi in una fase storica di progressiva soggettivizzazione e privatizzazione del rapporto con la sfera del sacro, produce anche comportamenti differenziati: che, in buona parte, troviamo anche nel campo della salute. Nella religione, oltre alla modalità di appartenenza religiosa classica – per nascita – sono variamente visibili almeno altre tre modalità di fruizione, tre tipi principali di comportamenti: che non è difficile applicare anche al mercato dei beni di salute, del resto parallelo piuttosto che alternativo al mercato dei beni di salvezza. 1) Il primo è quello del supermercato dei beni religiosi, o dell’“assortimento di significati ultimi”. Ci si “fa” la propria religione, la si costruisce, in qualche modo la si compra, in maniera individualizzata e personalizzata: a partire magari da qualche frammento di educazione religiosa, poniamo cristiana, ricevuta durante l’infanzia, cui si aggiunge il frutto di proprie esperienze, di letture, di amicizie, di corsi a cui si partecipa, e così via. È un modo di credere particolarmente visibile ad esempio nel mondo new age, ma non riguarda solo esso, e è più diffuso di quanto si creda. Quando viene condiviso con altre persone dà luogo a quello che si chiama sincretismo, che a sua volta può dare origine a una nuova religione: un processo che contribuisce a produrre ulteriore pluralizzazione sul lato dell’offerta. Anche nell’ambito della salute sono sempre più diffusi elementi di “supermercato”: ci si cura prendendo un po’ qui e un po’ là, secondo moda o convenienza, o sfruttando brandelli di sapere man mano acquisiti, spesso per canali informali – quello che gli anglosassoni chiamano shopping around; le medicine prescritte dal medico, ma con gli alimenti naturali al posto delle vitamine sintetiche, i consigli della nonna insieme a quelli della rivista di riferimento, il balsamo tigre e le tisane ayurvediche, l’agopuntura e il massaggio cinese, i consigli del medico insieme a quelli del pranoterapista e dello sciamano di turno. E anche in questo caso, se si forma uno “zoccolo duro” di condivisione delle pratiche in questione, da parte di piccoli gruppi che poi man mano si allargano e diventano scuole di pensiero, si può parlare di sincretismi in fieri, che con il tempo diventano scuole attestate e pratiche diffuse. 2) Il secondo tipo di fruizione soggettiva della religione potremmo chiamarlo inclusione. Significa che si parte dalle credenze tradizionali, e dalla propria appartenenza a una religione, integrandole però con nuove “sensibilità”, apprese altrove, o con altre credenze, anche contraddittorie con il sistema di appartenenza. Un esempio tipico, per chiarire, è la sempre più frequente credenza nella reincarnazione misurata da diverse ricerche tra praticanti cristiani. Nell’ambito della salute, sempre più spesso si includono elementi di medicina non convenzionale nelle proprie pratiche di cura, senza abbandonare tuttavia una preferenza istituzionale, diciamo per default, nei confronti della medicina ufficiale. Ricordiamo che non si tratta solo di pratiche (ad esempio curarsi anche con i fiori di Bach), ma anche di teorie: si può benissimo continuare a prendere antibiotici, ma includere nel proprio modo di pensare, e per così dire di “credere” la salute, anche un principio, ovvero una credenza – poniamo, nei chakras – perfettamente contraddittoria, o il meno che si possa dire irrilevante, rispetto al sistema medico ufficiale. 3) Il terzo tipo di comportamento, infine, è quello della conversione religiosa. In questo caso non si sceglie di “includere” una credenza, anche molto diversa, aggiungendola alle proprie. Ma si sceglie direttamente un’altra credenza e un’altra comunità religiosa di appartenenza. Si cambia, insomma. Anche se non bisogna credere che il cambiamento sia necessariamente solido e duraturo. Vi sono infatti anche conversioni temporanee, intermittenti, part-time, e figure di “convertiti professionali”. Nell’ambito della salute, ci si può convertire, e di fatto spesso accade, a un nuovo tipo di medicina: poniamo l’omeopatia. Anche se magari solo temporaneamente: fino a quando, eventualmente, il bisogno di un intervento più radicale non ci faccia tornare tra le braccia della medicina “scientifica”. Peraltro, a completare la similitudine, non sono spesso le conversioni interpretate da chi le vive come guarigioni? E talvolta lo sono di fatto, in termini di salute mentale, di ritrovato equilibrio, provocando quello che spesso, nei racconti dei convertiti, viene interpretato come un miglioramento della propria condizione psicologica generale. Queste tre modalità di fruizione soggettiva della religione, naturalmente, non sostituiscono l’appartenenza di default: quella per nascita. La integrano, corrono in parallelo ad essa, consentendo tuttavia margini di libertà e di scelta in passato (in presenza di una sola legittima ortodossia) semplicemente impensabili. Lo stesso avviene negli approcci alla salute. Cambiamenti sul piano dell’offerta, e cambiamenti sul piano della domanda, insieme, producono dunque un nuovo paesaggio. Che intacca anche i saperi “interni” delle varie discipline mediche. Già il sapere che il mercato è aperto, e modalità alternative di cura sono disponibili al consumatore, mette in concorrenza i vari soggetti in grado di offrire prodotti alternativi. Inoltre – per uscire dal semplice modello della rational choice, che non crediamo sia, da solo, convincente – vi sono forme di influenza (chiamiamola pure culturale) reciproca. E dalla conoscenza di concezioni diverse possono nascere nuove domande anche per quella cui facciamo riferimento: fino a integrarla, o abbandonarla, o a “mischiarla” sincreticamente con altre. È precisamente quanto avviene per le religioni: che, in situazione di pluralità, non possono più non tener conto dell’esistenza delle altre, continuando ad arroccarsi in un facile extra ecclesiam nulla salus, per il semplice fatto che l’argomento è sempre meno convincente agli occhi dei loro stessi utenti. Esse sono costrette dunque a cambiare (senza darlo troppo a vedere) le loro stesse teologie e i loro stessi criteri di statuizione della verità – fino ad accettare progressivamente nei propri orizzonti anche elementi di verità “altrui”. Non mancano ad esempio, in campo sanitario – come non mancano in campo religioso – gruppi (anche, in senso proprio, di pressione) e movimenti culturali che, come le religioni e le medicine tradizionali, pongono sempre più l’enfasi sull’aspetto collettivo, olistico appunto, della guarigione, combattendo l’enfasi tutta occidentale e moderna sulla salute (e la salvezza) individuale. Dall’ecologia profonda all’ipotesi Gaia, passando magari per la profezia di Celestino, e in generale per molte teorizzazioni in tema di ben-essere corporale e spirituale, l’interconnessione globale (almeno con la natura) viene esplicitamente teorizzata e ricercata, e si trasforma anche in un atteggiamento culturale favorevole alle medicine alternative e non convenzionali. Incidentalmente, crediamo che la diffusione di questi modi di pensare getti nuova luce su quella che il pensiero razionale occidentale definisce come l’ambiguità del termine “male”, che può intendersi sia in senso psico-biologico che morale. Conclusioni: feedback e meticciato culturale Uno schema idealtipico di feedback culturale nel campo della salute, dovuto alla presenza di immigrati, potrebbe essere descritto più o meno così: - il malato straniero si pone di fronte, con la sua diversità di intendere il corpo, la salute e la malattia, al - medico autoctono. Questi inizia una - riflessione sulla diversità culturale di fronte alla malattia, che, a sua volta, può arrivare ad una - nuova concettualizzazione, che include elementi eteroctoni (si pensi all’etnopsichiatria, ma anche a molte altre forme di sapere medico). Questa nuova concettualizzazione si manifesta dapprima nel medico stesso, come una sorta di “risonanza” interna (comincia a farsi domande nuove, inattese), ma può successivamente tradursi in una - riflessione collettiva, con colleghi e sodali impegnati nello stesso tipo di ricerca, che può arrivare fino alla - elaborazione di un nuovo paradigma interpretativo, sia in polemica/rottura con la classe medica e la scienza ufficiale in quanto tali, che cercando sintesi e mediazioni. L’esistenza di un mercato in crescita per le medicine non convenzionali (di una “soglia” culturale e economica che comincia ad essere appetibile, quindi)2 è naturalmente un aiuto potente nello svilupparsi di questo processo. Si tratta, come detto, di un modello idealtipico, che si presta quindi a molte varianti empiriche, fino all’inversione 11 AeM 64 nov. 08 12 stessa degli attori (malato autoctono/medico straniero), e alla produzione di questo stesso processo “dal basso” (il cambiamento culturale avviene in questo caso nel paziente e in generale tra i fruitori del sapere medico, prima ancora che tra i suoi produttori). Esempi di questo tipo sono rilevabili in varie forme di sapere medico, sia legato al corpo che alla mente. Un esempio più evidente di altri è quello dell’etnopsichiatria, che se non altro, il suo cambiamento di prospettiva, o più incisivamente di paradigma, ha il pregio di dichiararlo, anzi di teorizzarlo esplicitamente. In essa sono evidenti anche vari tipi di feedback e di forme di “creolizzazione” del sapere medico che sono visibili anche in altri ambiti. Ma, al di là dell’etnopsichiatria, possiamo trovare tanti altri esempi di feedback: ad esempio nella medicina islamica concretamente praticata da una parte delle popolazioni musulmane, ma che entra anche nelle pratiche di certo mondo new age come medicina sufi, e nell’incontro tra le due su internet o nella produzione e vendita di prodotti naturali, prodotti da musulmani in base a logiche culturali proprie, ma offerti ad un pubblico indistinto. Lo stesso si può dire di gruppi religiosi provenienti dall’oriente rispetto alle medicine tradizionali indiane e tibetane. E, ancora più comune, nell’acquisto da parte di autoctoni, in negozi etnici, di prodotti cinesi legati alla sfera della salute (magari non considerati propriamente medicinali dai cinesi stessi, ma “interpretati” come tali dagli autoctoni). Si delinea in definitiva un progressivo sfumare dei confini tra le une e le altre discipline, tra le une e le altre credenze. La nozione stessa di confine, anche culturale, la sua stessa esistenza, è del resto intrinsecamente ambigua, e sempre più comincia a venire messa in discussione. Confine è cumfinis: ciò che separa e nel contempo ciò che abbiamo in comune con l’altro. Dove c’è il confine c’è appunto anche chi lo transita: e questo vale anche nel nostro caso. Così come si può essere cattolici o miscredenti ma preferire tanto la medicina ufficiale quanto l’omeopatia, si può essere musulmani e scegliere la medicina occidentale. O più spesso, come sovente succede, si può essere l’una e molte altre cose, a seconda della situazione, e scegliere l’altra o le molte altre forme di medicina. Se la pluralità di opzioni e di possibilità è diventata un dato, anche la variabilità delle scelte, e la loro incostanza, lo diverrà necessariamente, e di fatto lo è già diventata. Inoltre sempre più il campo della salute diventa anche un campo non solo di concorrenza tra visioni diverse, ma anche di negoziazione, tra soggetti concorrenti presenti nello spazio pubblico, con le loro rispettive istituzioni e lobbies di rappresentanza, ma anche con i poteri pubblici (alla ricerca ad esempio di riconoscimenti anche legislativi e istituzionali, o al contrario di delegificazioni che legittimino attività e pratiche prima osteggiate). Si tratta di un processo che è peraltro più generale, e riguarda il campo scientifico nel suo complesso, in specie laddove si discutono temi rilevanti per il ben-essere dell’uomo, o temi limite dell’etica e della bioetica. Dire negoziazione, naturalmente, significa dire e nominare il conflitto tra visioni diverse, di cui la negoziazione non è che la forma “civilizzata”. Torna dunque prepotentemente in risalto l’immagine del caleidoscopio delle culture, con cui abbiamo aperto queste considerazioni. Il passaggio generazionale tra gli immigrati, per esempio, mescola ulteriormente le carte. E apre interrogativi sulle trasformazioni culturali nelle concezioni del corpo e della salute tra quelli che, dopo tutto, non sono più (anzi, non sono mai stati) immigrati. Le seconde generazioni non si sono mai mosse: sono di qui. Dovremmo semmai chiamarle, più correttamente, le prime generazioni di neo-autoctoni. E tra loro è più facile, rispetto ai loro padri, trovare forme di mixité culturale, e anche maggiore disponibilità alle medesime. Nello stesso tempo sono gli autoctoni a cambiare, nell’interazione con gli immigrati ma più in generale con la pluralità culturale. Pluralità che, sempre più, con il passare del tempo, diventa – per usare una terminologia di provenienza medica – fisiologia e non patologia. Essa stessa, insomma, condizione normale. Che tende, incidentalmente, a diventare anche norma, legge: le battaglie per l’accettazione, l’inserimento, la parificazione di medicine diverse da quella attestata (si pensi all’omeopatia, all’agopuntura, ecc.), ne sono degli evidenti esempi. La pluralità di “vie”, ancora una volta a somiglianza di quanto avviene nel paesaggio religioso, si afferma progressivamente. E l’esclusivismo monopolistico fatica a sostenersi, a giustificarsi, se non ricorrendo ad argomenti autoreferenziali, come il già citato extra ecclesiam nulla salus, o ad argomenti autoritativi, di difesa corporativa attraverso il mantenimento delle posizioni di potere (sul piano legislativo, istituzionale, accademico, economico). La similitudine tra mondo medicoscientifico e mondo religioso potrebbe in fondo legittimamente proseguire (accennando a dogmi, verità, chiese, chierici in concorrenza, ad esempio): la parola latina ce lo consente. Salus, dopo tutto, include tanto la dimensione della salute quanto quella della salvezza. Stefano Allievi è Professore di Sociologia all’Università di Padova; le sue ricerche si focalizzano sui cambiamenti culturali e religiosi in Occidente soprattutto a proposito dell’Islàm in Europa; su questi argomenti ha scritto numerosi libri pubblicati in Italia e all’estero BIBLIOGRAFIA AA.VV., Medicina e multiculturalismo. Dilemmi epistemologici e etici nelle politiche sanitarie, Apeiron, Bologna 2002 S. Allievi, L’ultimo tabù: individuo e società di fronte alla morte, in M. Bucchi, F. Neresini (a cura di), Sociologia della salute, Carocci, Roma 2001, pp. 295-324 S. Allievi (a cura di), Salute e salvezza. Le religioni di fronte alla nascita, alla malattia e alla morte, EDB, Bologna 2003 S. Allievi, Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi, Torino 2003 S. Allievi, G. Guizzardi, C. Prandi, Un Dio al plurale. Presenze religiose in Italia, EDB, Bologna 2001 J. Arpin, L. 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Yahyaoui (a cura di), Travail clinique et social en milieu maghrébin, La Pensée Sauvage, Paris 1987 NOTE 1 - Il presente testo è derivato, pur tra modifiche e integrazioni, dal mio più ampio saggio Corpi migranti. Culture, religioni, salute e malattia in una società plurale, pubblicato in G. Guizzardi (a cura di), Star bene. Benessere, salute, salvezza tra scienza, esperienza e rappresentazioni pubbliche, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 285-342, in cui si trova anche la necessaria bibliografia di riferimento. Di questioni correlate mi sono occupato anche in S. Allievi (a cura di), Salute e salvezza. Le religioni di fronte alla nascita, alla malattia e alla morte, EDB, Bologna 2003. L’interesse per i temi del pluralismo culturale e religioso è invece di lunga durata. Tra gli esiti più recenti S. Allievi, G. Guizzardi e C. Prandi, Un Dio al plurale. Presenze religiose in Italia, Bologna, EDB, 2001, e S. Allievi, Pluralismo, EMI, Bologna 2006. Con un’attenzione allo specifico islamico si vedano almeno S. Allievi, Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi, Torino 2003, e l’ultimo Le trappole dell’immaginario: islam e occidente, Forum, Udine 2007. 2 - Riprendiamo il concetto in voluta assonanza con quello di “soglia etnica”, che consente agli immigrati di riprodursi culturalmente, parlando una lingua comune, ecc. G lobalization and immigration have had the immediate effect of bringing different cultures closer to each other: this cultural exchange has also influence the health system, changing its culture and medical institutions. This process, which closely affects the local population, has create an integrationoriente medical culture: today’s traditional medical practices often mix with western science-base medicine. All this opens the doors to reciprocal exchange and continuous co-influence. 13 AeM 64 nov. 08 DOSSIER Occupazione Capannone Tiburtina, Roma 2004. Foto di Sarah Klingeberg 14 I paradigmi del diritto umanitario e delle politiche del trauma in Italia di Sarah Klingeberg O gni giorno, da tutte le parti del mondo, migliaia di persone fuggono senza meta e senza protezione, vittime di persecuzioni, di violenze, di torture, di conflitti interni e di guerre spesso sconosciute all’opinione pubblica. Le ragioni che costringono queste persone a fuggire dal loro paese sono, oltre ai già citati conflitti armati e alla violazione dei più elementari diritti umani, sempre più spesso le carestie e i disastri ecologici. Alla fine della seconda guerra mondiale, la presenza di migliaia di profughi, sfollati e esiliati in Europa portò la questione dell’asilo al centro dell’agenda politica della comunità internazionale. I drammatici eventi politici e sociali dell’epoca generarono un esteso senso di responsabilità fra gli Stati europei, che li portò ad affrontare con strumenti giuridici di protezione internazionale le conseguenze umanitarie delle atrocità commesse ai danni di milioni di persone vittime dei regimi nazifascisti. La definizione del termine “rifugiato” fu quindi influenzata dalla realtà politica e sociale del tempo, e dalle diverse categorie di persone che avevano sofferto la persecuzione. nenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trovi fuori dal paese di cui è cittadino e non può, o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra» (Convenzione relativa allo status di rifugiato 1951, Art. 1A). Quando è stata stipulata, la Convenzione poneva due limitazioni al riconoscimento dello status di rifugiato: una temporale – solo avvenimenti verificatisi anteriormente al 1951 potevano dare luogo alla richiesta e al riconoscimento – e una geografica (la cosiddetta riserva geografica) – con la quale veniva lasciata alla discrezionalità degli Stati contraenti di scegliere a chi applicare la Convenzione, quindi anche solo a richiedenti asilo di provenienza europea. Con lo scoppio di nuove crisi politiche e conflitti armati, alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, è divenuto però necessario ampliare il raggio d’azione della Convenzione. Di conseguenza, nel 1967 è stato elaborato e adottato un Protocollo alla Convenzione per eliminare tali limiti nella definizione di rifugiato data dalla Convenzione del 1951 (Protocollo di New York del 1967 relativo allo status dei rifugiati). L’Italia e la normativa sull’asilo L’adozione di una normativa nazionale sui rifugiati, basata su standard internazionali, costituisce la chiave per rafforzare il diritto d’asilo, rendere la protezione più efficace e fornire le basi per la ricerca di soluzioni al problema dei rifugiati. Incorporare il Diritto Internazionale nella normativa nazionale diventa particolarmente importante per quelle tematiche sulle quali la Convenzione relativa allo status di rifugiato del 1951 tace, quali ad esempio le procedure per la determinazione dello status di rifugiato. L’Italia ha ratificato la Convenzione di Ginevra nel 1954, adottando sia la limitazione geografica che quella temporale. In seguito alla ratifica del Protocollo di New York, avvenuta con la Legge n. 90 del 1970, per l’Italia è venuta meno la limitazione temporale, mentre la limitazione geografica è caduta solamente nel 1990 con la Legge n. 39. Fino ad allora i richiedenti asilo provenienti da Paesi extraeuropei, non potendo richiedere asilo allo Stato italiano, si rivolgevano alla delegazione dell’ACNUR, che aveva il mandato dell’Assemblea Generale dell’ONU per il riconoscimento dello status di rifugiato. Purtroppo, ad oggi, in Italia non esiste una legge organica in materia di asilo,3 né il sistema di protezione per i rifugiati vigente nel nostro paese (pur avendo già recepito una serie di Direttive europee) è sufficiente per rispondere alle esigenze di questa categoria di persone che si trova in una condizione di grave fragilità fisica e psicologica. I rifugiati nel diritto internazionale Lo strumento giuridico fondamentale per la protezione internazionale dei rifugiati e dei richiedenti asilo è la Convenzione relativa allo status di rifugiato, approvata a Ginevra nel 1951 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,1 poco dopo la creazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR/UNHCR). Secondo la Convenzione di Ginevra il termine “rifugiato” si applicherà a colui che, temendo a ragione di essere perseguitato «(…) per motivi di razza,2 religione, nazionalità, apparte- Il concetto di trauma e lo status di rifugiato La Convenzione di Ginevra, come spiegato in precedenza, è stata pensata in un momento storico in cui l’intolleranza e le persecuzioni erano prevalentemente espressione della repressione di regimi politici dispotici e autoritari verso individui politicamente dissidenti o appartenenti a gruppi considerati pericolosi per motivi di razza, religione, nazionalità o per credo politico. In tal senso, sono stati esclusi tutti coloro che si sono trovati in situazioni di conflitto generalizzato o di violazione sistematica dei diritti umani. 15 AeM 64 nov. 08 Nell’attuale scenario geopolitico mondiale, profondamente modificatosi rispetto agli anni Cinquanta, è questa la situazione in cui viene a trovarsi la maggioranza dei richiedenti asilo, per la quale la definizione di rifugiato, secondo la Convenzione del 1951, appare sempre più inadeguata. D’altronde, le possibilità di una revisione e di un aggiornamento del termine rifugiato appaiono nulle, visto l’inasprimento delle politiche europee in materia d’asilo, la chiusura delle frontiere legata al controllo delle politiche migratorie e la sempre maggiore selettività e rigidità nella concessione della protezione internazionale. Per risolvere la situazione gravissima dei gruppi perseguitati non contemplati nella Convenzione di Ginevra, l’Unione europea ha trovato l’escamotage della protezione temporanea o umanitaria. Una protezione internazionale e “temporanea”, cioè per gli sfollati e per quanti si trovino in una situazione di pericolo e di necessità simile a quella dei rifugiati, ma che non rientrano in questa definizione restrittiva. In tale quadro il concetto di “trauma” ha assunto una importanza predominante nella procedura del riconoscimento dello status di rifugiato da parte degli stati europei. Infatti, l’aumento esponenziale dei movimenti di popolazioni per cause umanitarie ha portato i Paesi riceventi a ri-definire le politiche di accettazione in senso restrittivo, scegliendo di privilegiare una prospettiva biomedica nella definizione dei parametri per il riconoscimento dell’idoneità. «In questo modo la storia “traumatica” costituisce il capitale simbolico del migrante, che esalta la sofferenza individuale del singolo a dispetto di qualunque altra cosa che la condizione di rifugiato e l’esperienza ad essa legata possa essere e rappresentare» (Vacchiano 2005, p. 92). 16 I paradigmi del diritto umanitario e delle politiche del trauma in Italia La nascita del concetto di “rifugiato” è inestricabilmente connessa a quella dell’aiuto umanitario, un rapporto di assistenza che si è trasformato in un’“industria dell’aiuto” (Summerfield 1996 e 2000). L’aiuto umanitario è diventato oggi una forma discorsiva dominante, ma, pur ponendosi come indipendente e neutrale, è gioco forza investito in progetti che sono inevitabilmente politici, poiché parte attiva nei rapporti di forza mondiali. La teoria antropologica ha un approccio spesso critico nei confronti delle organizzazioni umanitarie, avendo riscontrato nelle loro politiche assunti etnocentrici e una scarsa comprensione delle culture locali. La “cultura umanitaria” infatti sembra imputare la permanenza di manifestazioni di violenza nel mondo contemporaneo ad arretratezza e sottosviluppo, ciò richiama alla memoria i tentativi di dominazione e civilizzazione dell’Altro durante l’esperienza coloniale occidentale (Van Aken 2005). Nei progetti di sostegno umanitario, i rifugiati sono molto spesso categorizzati e concepiti unicamente come “vittime”: la perdita dei propri punti di riferimento viene infatti fatta coincidere con la perdita di proprie risorse di “resilienza”,4 di proprie reti di assistenza. Tale assenza presupposta può essere messa alla base dell’asimmetria e della passività forzata di molte relazioni d’aiuto (Van Aken 2005). Infatti, «coloro che offrono servizi sociali creano solitamente un’immagine del “rifugiato” tale per cui, in quanto “esperti”, se ne possono prendere cura. Gli individui sono trasformati in “clienti” attraverso un loro etichettamento impersonale. La linea di condotta è decisa in modo deduttivo e unilaterale, con pochi contributi da parte degli stessi rifugiati. Questo crea “un’epistemologia causale non-reciproca” tra professionisti, dove i rapporti di causa e effetto (…) sono ovvi, dove il fatto di essere rifugiati è costruito come problema sociale e dove esiste una prescrizione standardizzata di come gli esperti dovrebbero agire per assicurare la salvezza dei loro clienti» (Indra 1993, p. 234). Anche la studiosa Barbara Harrell Bond, nel suo lavoro sull’Esperienza dei rifugiati in quanto beneficiari di aiuto (2005), mette in evidenza come una delle principali cause del malessere debilitante dei rifugiati possa essere tale “struttura” del regime assistenziale. Questo perché i programmi d’assistenza per i rifugiati finiscono spesso per spersonalizzare gli stessi. L’aiuto umanitario è fondato, infatti, sull’assunto secondo cui la popolazione beneficiaria è una massa omogenea e indifferenziata e nel rapporto con gli operatori i rifugiati diventano il più delle volte numeri senza nome. Si può affermare, quindi, che nel quotidiano i lavoratori dell’umanitario si prendono cura della “nuda vita” (Agamben 1995) dei rifugiati, considerandoli come vittime assolute, spogliate di ogni forma di socialità. Sempre più oggetti di politiche e contese sull’assistenza, di interventi militari in loro nome e quindi sempre meno soggetti politici, oggi «essere rifugiati rimanda inevitabilmente a un “diventare rifugiati”. Non solo la fuga e il tentativo di ottenere un nuovo status, ma anche la relazione burocratica dell’assistenza definiscono nuove identità e ruoli: una relazione polarizzata tra vittime e agenti, tra riceventi di doni e di carità esterna e benefattori. Parlare quindi di rifugiati presuppone inevitabilmente il “paradigma dell’umanitario”, da cui dipendono e in cui vengono definiti coloro che scappano» (Van Aken 2005, p. 6). In Italia, e ancor prima in Francia, negli ultimi anni, il numero di persone cui è stato garantito il diritto d’asilo è diminuito notevolmente e ciò dipende principalmente da due fattori distinti ma collegati: il numero delle domande presentate è diminuito e la proporzione di quelle accettate si è più che dimezzata. Il significativo calo del numero dei rifugiati riconosciuti è il risultato dell’intensificazione della pratica del rimpatrio – pur essendo questa vietata dal principio di non refoulement nella Convenzione di Ginevra del 1951 – da parte degli stati europei, oltre che della severità di coloro che sono predisposti a valutare le domande di asilo. L’atteggiamento oramai consolidato da parte delle Commissioni Territoriali in Italia è quello di valutare le richieste con sospetto: tanto è vero che la tendenza è sempre più quella di riconoscere permessi di soggiorno per motivi umanitari, anziché lo status di rifugiato. La Convenzione di Ginevra viene dunque applicata in maniera sempre più restrittiva e le domande di asilo vengono sempre di più viste come “strumentali” a un ingresso “legale” nella “Fortezza Europa”. Non solo, «(…) oggi lo status di rifugiato è concesso primariamente in relazione alla possibilità – e talvolta persino alla capacità – di produrre, per se stessi, una “giustificata” storia traumatica. È la dimostrabilità di un pericolo strettamente individuale e non di un potenziale motivo di appartenenza – alle classi citate dalla Convenzione di Ginevra: razza, opinione politica, religione, nazionalità o appartenenza a un determinato gruppo sociale – a consentire il riconoscimento del rifugio. (…) Ciò che deve essere dimostrato è la possibilità di sperimentare la violenza direttamente, ossia individualmente, e l’unico modo possibile consiste non nell’argomentare i traumi potenziali, ma nel certificare quelli subiti; è solo grazie a una storia di violenza diretta, di cui la persona sia stata oggettivamente vittima, che la domanda di asilo viene oggi considerata attendibile dal paese di accoglienza» (Vacchiano 2005, p. 90). Ciò è dimostrato da un numero crescente di persone a cui viene riconosciuto lo status di rifugiato o un permesso per motivi umanitari sulla base di una certificazione medicolegale che attesti traumi o segni evidenti sul corpo di tortura o di trattamenti inumani e degradanti. Viene così, come spiega l’antropologo Didier Fassin per la Francia, «attribuita maggiore importanza al corpo sofferente rispetto al corpo minacciato, e il diritto alla vita viene spostato dall’ambito politico a quello umanitario. Per lo Stato è più accettabile bocciare una richiesta di aiuto, dichiarandola infondata, che rifiutare un’opinione medica» (Fassin 2006, p. 309). La studiosa Liisa Malkki ha utilizzato l’espressione evocativa di “umanitarismo clinico” per sottolineare questa propensione, sottolineando inoltre come «le ferite sono accettate come evidenze oggettive, in quanto fonti più affidabili di conoscenza rispetto alle parole delle persone sui cui corpi le ferite stesse si trovano» (Malkki 2002, p. 351). È come se il corpo prendesse il sopravvento a scapito del soggetto stesso, che resta il più delle volte inascoltato. È la ricognizione della “nuda vita”, archetipo contemporaneo che sostituisce il biologico al sociale, confermando il «primato della vita naturale sull’azione politica» (Agamben 1995, p. 6). Il “corpo sofferente” ha imposto, quindi, la propria legittimità laddove altre basi per il riconoscimento venivano progressivamente messe in questione (Fassin 2006). È inoltre importante sottolineare come questo statuto privilegiato, concesso al corpo nelle procedure di riconoscimento dello status di rifugiato, influisca sulla coscienza che i richiedenti asilo hanno della propria identità. Nel legittimare il trauma o i segni evidenti sul corpo della tortura, fino a renderli la sola giustificazione dello status di rifugiato, la società condanna molti stranieri a esistere ufficialmente solo in quanto traumatizzati o in quanto vittime. In questo senso Didier Fassin afferma che si può parlare di incorporazione delle condizioni sociali da parte del richiedente asilo: «il corpo sofferente viene presentato ai medici che devono decidere se garantire o meno lo status legale: l’immigrato/a cerca nella sua storia e nei suoi sintomi qualcosa che lo/a aiuterà a ottenere l’autorizzazione legale cui aspira, con il rischio di sentirsi rispondere che la patologia non “è abbastanza grave” per sostenere la richiesta. In questa interazione sociale, in cui l’immigrato deve dar prova della sua malattia, la distinzione tra manipolazione, che emerge quando i dati medici materiali provocano una malattia, è spesso tanto più difficile da discendere, quanto più gli immigrati vivono in situazioni precarie che producono effetti sia psicologici che fisici. (…) La vita quotidiana degli stranieri irregolari diventa quindi spesso un’esperienza sociale di sofferenza, dove il pathos esprime la durezza delle circostanze e simultaneamente serve da risorsa per giustificare la propria esistenza. La relazione narrativa con la propria storia e il proprio corpo, creata dalla ripetizione di racconti di autogiustificazione di fronte alle autorità statali, genera una patetica immagine di sé» (Fassin 2006, p. 311). Lo straniero finisce così per percepirsi come una vittima ridotta a dover suscitare compassione (Fassin 2006). Il corpo personifica quello che Giorgio Agamben chiama “nuda vita” (1995), un’esistenza cioè ridotta alla sua espressione fisica o, in questo caso, al riconoscimento dell’essere umano attraverso la sua patologia. Continuità della violenza nel contesto di asilo Nancy Scheper-Hughes, nel suo testo Questioni di coscienza. Antropologia e genocidio, sostiene che esista un continuum genocida tra la violenza di massa e le pratiche di controllo operate dallo Stato moderno. La studiosa si riferisce in particolare a quelle violenze quotidiane, nascoste e spesso autorizzate dall’autorità, che si praticano «negli spazi sociali normativi: nelle scuole pubbliche, nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle corsie d’ospedale, nelle case di cura, nei tribunali, nelle prigioni, nei riformatori e negli obitori pubblici» (Scheper-Hughes 2005, p. 282). Questo continuum di violenza rimanda alla capacità dell’uomo di ridurre l’Altro alla condizione di non-persone per mezzo di tutte quelle forme di esclusione sociale, disumanizzazione e spersonalizzazione sempre più praticate all’interno degli Stati. Alla base dell’analisi della Scheper-Hughes è la nozione di “crimini di pace” introdotta da Franco Basaglia (Basaglia, Ongaro Basaglia 1975) a proposito di tutte quelle forme quotidiane della violenza di Stato, di quelle pratiche repressive perpetuate dalle istituzioni totali, come le forme di disciplinamento dei corpi e delle menti che vertono alla cancellazione della dignità degli individui trattandoli come non-persone (Scheper-Hughes 2005). Quando parliamo di continuum di violenza in riferimento alla categoria dei rifugiati, ci si riferisce all’importanza di non perdere di vista la continuità che collega ciò che accade nei paesi di fuga e nei paesi di asilo. La continuità qui tratteggiata sta nella violenza strutturale5 insita nelle procedure di sorveglianza, accoglienza e regolamentazione che le istituzioni attuano nei confronti dei richiedenti asilo e rifugiati (Vacchiano 2005). Tali pratiche rimandano infatti a quelle forme di violenza quotidiana definite da Nancy Scheper-Hughes come «le piccole guerre e invisibili genocidi» (Scheper-Hughes 2005, p. 282). Si può affermare, quindi, che se quella del rifugiato non rappresenta in sé una condizione patologica, lo può diventare se il paese d’asilo non prevede un efficace sistema di accoglienza e di inserimento nella società d’arrivo. Il continuum di violenza può essere infatti riscontrato nel vuoto sociale, nell’assenza di prospettive e nell’insicurezza esistenziale in grado di influire patologicamente su tale categoria di persone. Questa situazione di “non accoglienza” espone, appunto, i richiedenti asilo e i rifugiati ad eventi che possono essere causa di continue traumatizzazioni. La letteratura bio-medica dimostra, infatti, che nella popolazione rifugiata fattori come la disoccupazione, la perdita di attività quotidiane costruttive e l’inadeguata padronanza della lingua del paese di accoglienza sono spesso correlati a depressione e altri disordini mentali (Saraceno, Safena, Maulik 2002). 17 AeM 64 nov. 08 Manifestazione richiedenti asilo, Roma 2007. Foto di Sarah Klingeberg 18 L’esperienza stessa dell’esilio, come spiega la psicoterapeuta Anna Sabatini Scalmati, e l’improvviso abbandono del proprio paese d’origine «(...) per una terra per latitudine e longitudine distante dalla propria – espone alla paura di perdere ciò che plasma, definisce la propria identità e tiene coesa la propria esperienza individuale e sociale; di perdere cioè gli affetti, le relazioni, i costumi, la cultura, la religione, la lingua, i riti, il cibo, i suoni, che gli sono propri e sono il cemento che tengono assieme il suo Io» (Sabatini Scalmati 2000, p. 175). A tale proposito Ernesto De Martino in La fine del mondo (2002), parlando dell’Italia degli anni Cinquanta, descrive in termini evocativi cosa significasse l’allontanamento dai propri punti di riferimento per un pastore calabrese di Marcellinara: «gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci fino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse un’insidia, e la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché ora dal finestrino, cui sempre guardava, aveva sperduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo fino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta, secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori dal finestrino, scrutando l’orizzonte, per rivedere riapparire il campanile di Marcellinara: finché, quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una “patria perduta”. Giunti al punto di incontro si precipitò fuori dall’auto senza neppure attendere che fosse completamente ferma. (…) Oramai (era) fuori della tragica avventura che lo aveva strappato dallo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara. (…) Certamente la presenza entra in rischio quando tocca il limite della sua patria esistenziale, quando perde “il campanile di Marcellinara”» (De Martino 2002, pp. 480-481). De Martino spiega come sia nelle pratiche quotidiane che sembrano automatiche, perché incorporate e elaborate dal corpo e quindi rese “naturali”, che avviene l’“appaesamento nel mondo”. Quindi, con la perdita di questo rapporto di “oggettivazione della realtà”, ha luogo una “crisi di presenza”. In tal senso, “la crisi della presenza” svela che il mondo non è già dato, ma è costruito, e che l’“appaesamento” è una continua produzione culturale data dalla nostra capacità di abitarlo e trasformarlo, essendone al tempo stesso abitati e trasformati. Per De Martino infatti: «(...) la “presenza” nel mondo è fondamentalmente la capacità di riunire nell’attualità della coscienza tutte le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situazione storica, inserendosi attivamente in essa mediante l’iniziativa personale, e andando oltre di essa mediante l’azione» (De Martino 2002, p. 480). Tale “crisi della presenza” è maggiormente decisiva nell’esperienza del rifugiato che, il più delle volte, ha subito traumi già prima della fuga. La vita post-traumatica infatti, come la definizione dello psicologo Pieron mette in luce, è caratterizzata da una ipersensibilità a successive esperienze traumatiche (traumi secondari). Si evince, quindi, che rischi di traumatizzazioni secondarie posso- no essere una diretta conseguenza patologica del trauma primario, che, determinando nella persona uno stato di estrema vulnerabilità, ne diminuisce le capacità adattive di fronte a ulteriori eventi stressanti. Sarah Ann Klingeberg è laureata in Teorie e pratiche dell’antropologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma con la tesi Il trauma fra richiedenti asilo e rifugiati in Italia. Ha svolto ricerche nell’ambito di progetti europei e ha partecipato, in qualità di relatrice, a numerose conferenze sul tema delle vittime d’immigrazione e dei rifugiati. Attualmente frequenta il Master in Antropologia presso l’École des Hautes tudes en Science Sociales di Parigi BIBLIOGRAFIA G. Agamben, Homo sacer. 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È formato dai rappresentanti di tutti gli stati aderenti alle Nazioni Unite, ad essere esclusi attualmente sono solo Taiwan e Città del Vaticano. 2 - Tale definizione del 1951, elaborata in un determinato contesto storico e politico, non è stata mai rivista, come si può notare dall’uso del termine obsoleto di razza. 3 - Il diritto di asilo è sancito dall’art. 10 comma 3 della Costituzione Italiana e la procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato è definita dalla Legge 286/1998 - il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, la c.d. Turco/Napolitano - così come modificato dalla Legge 189/2002 - Modifiche alla normativa in materia di immigrazione e di asilo, c.d. Bossi/Fini. 4 - Con il termine “resilienza” nelle Scienze Sociali si intende la capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rinforzato o, addirittura, trasformato. Roberto Beneduce spiega come, relativamente al concetto di resilienza, l’enfasi sulla categoria del PTSD e i suoi criteri patologici rischia di sopprimere o indebolire quei processi sociali e culturali che spontaneamente tendono a risolvere le conseguenze individuali delle esperienze traumatiche (Beneduce 1998). 5 - A tal proposito è importante ricordare il concetto di violenza strutturale, così come definito dal filosofo Jhoan Galtung, «come quella particolare forma di violenza che non richiede l’azione di un soggetto per essere compiuta, nella misura in cui a caratterizzarla è la sua natura processuale e indiretta. Nel parlare di violenza strutturale si vuole dirigere l’attenzione verso gli effetti iatrogeni dei rapporti sociali, in diretto riferimento al tema delle disuguaglianze, tanto locali quanto nazionali e internazionali, responsabili di creare ineguali speranze di vita per i soggetti in base alla loro posizione sociale» (Quaranta 2006; p. XXIII). I n this article the author deals with the international debate on the definition of trauma with reference to people who are given a refugee status. What is presente is a more in depth analysis of the term, using the tools of medical anthropology, and proposing a new concept of “the body” not only as a biological entity, but also as a strongly cultural, historical and political product. More specifically, the author focuses on the political, social and cultural implications of the concept’s use in the institutions dedicate to welcoming and assisting refugees and asylum-seekers. di Nathalie De Timmerman, Lucien Hounkpatin, Federica Stortoni, Anne Zountekpo DOSSIER Verso una clinica costituita da teorie molteplici Thierrie Collet, Le dispositif d’ethnopsychiatrie. 21 AeM 64 nov. 08 L e relazioni tra le caratteristiche della personalità e il contesto sociale e culturale in cui la stessa si sviluppa sono state oggetto di numerose teorizzazioni in ambito psicodinamico e psicosociale a partire dall’inizio del XX secolo. Le teorizzazioni più importanti sono state elaborate all’interno dell’antropologia culturale (Malinowski 1922; Benedict 1934; Mead 1931), dell’etnopsicoanalisi (Rohéim 1943), della psichiatria transculturale (Kleinmann 1985; Good 1985), dell’etnopsichiatria (Devereux 1961; Nathan 1996), della clinica della molteplicità (Hounkpatin 2006). Queste discipline situate nell’intersezione tra psiche e cultura hanno messo in evidenza problematiche diverse: l’esistenza ad esempio di sindromi culturalmente determinate in gruppi etnici specifici, la relazione tra i processi di non adattamento-integrazione-assimilazione e l’aumento della sofferenza psichica che può prendere la forma di veri e propri disturbi psicologici. In Francia le tradizionali scuole di psicoanalisi e di etnologia hanno contribuito allo sviluppo, nell’ambito dell’indirizzo teorico generale dell’etnopsichiatria (Devereux 1961, 1970). A questo proposito uno dei modelli clinici con pazienti provenienti da altre culture riconosciuto tra i più organici e ambiziosi è quello elaborato e fondato da T. Nathan (1993, Hounkpatin 2006) che accoglie i pazienti immigrati e le loro famiglie fin dagli anni ’80. Questo centro chiamato Georges Devereux è un centro clinico, di ricerca e anche di formazione per psicologi clinici e psicoterapeuti. 22 Psicoterapia e cultura Il disagio delle famiglie che riceviamo nel centro Georges Devereux può manifestarsi in diverse forme. Riscontriamo molte problematiche infantili (autismo, disturbi del sonno, insuccesso scolastico precoce…), problematiche legate ai “minori non accompagnati”, e adolescenti descolarizzati che commettono reati. Spesso il giudice dei minori ci sollecita per consulenze etno-psichiatriche per giovani nati in Francia da genitori immigrati da altri Paesi che hanno compiuto reati (leggeri o gravi). I giudici manifestano una mentalità di notevole apertura richiedendo un lavoro di consulenza per meglio saper “leggere” la situazione e prendere delle decisioni adatte che possano portare a uno sviluppo positivo della situazione problematica in corso. I pazienti e le loro famiglie sono sempre accompagnati dall’équipe con cui stanno svolgendo un lavoro in ambito istituzionale (medica, psicologica o giudiziaria). Le famiglie si trovano in uno stato di sofferenza e talvolta l’équipe si trova in difficoltà (incomprensioni, malintesi, mancanza di “alleanza”) nello svolgimento del proprio lavoro. La famiglia necessita di un aiuto etno-clinico (che prenda quindi in considerazione la complessità della situazione tenendo presente anche la dimensione di alterità culturale) e l’équipe necessita di allargare i propri strumenti per poter lavorare in modo costruttivo con le stesse. Il lavoro clinico con questi giovani nati in Francia i cui genitori provengono da altri universi culturali ci insegna a [co-] costruire in gruppo “un pensiero nuovo” che si adatti alle peculiari situazioni. Come se le parole d’ordine di queste sedute dovessero essere: non tradurre, non semplificare, “complessificare”, creare... Ma allora, come poter aiutare questi giovani e le loro famiglie? Come aiutare il lavoro delle équipe in difficoltà? Come poter costruire una clinica che prenda in conside- razione la molteplicità delle teorie, delle istituzioni e delle identità in gioco? Per meglio rispondere a questi interrogativi entriamo ora in un frammento di consultazione con Mamadou e la sua famiglia, per rendere più concreto il nostro modo di fare la clinica e di teorizzarla. Mamadou: dagli elementi distruttivi al lavoro di soggettivazione tenendo conto degli elementi identitari molteplici Mamadou ha 15 anni, il signore e la signora H, i genitori, sono originari del Senegal, di etnia bambara. In seguito ai reati commessi il giudice ha ordinato, due anni fa l’inserimento di Mamadou in un istituto educativo. Dopo che Mamadou ha commesso il reato, il giudice ha preso la decisione di allontanarlo dalla famiglia e ha ordinato a Mamadou di vivere in un istituto educativo. Lo sviluppo positivo dei comportamenti di Mamadou porterà il giudice a rivedere la sua decisione e a rimandare Mamadou in famiglia. Dopo poco tempo, Mamadou manifesta gli stessi problemi di comportamento, lo stesso tipo di atti delittuosi e il giudice decide di rimetterlo nell’istituto educativo. Questa volta però Mamadou si ribella alla decisione del giudice, entrando in conflitto costante con il suo educatore. Il giudice dei minori richiede allora l’intervento di un lavoro clinico con Mamadou e la richiesta di una perizia etnopsichiatrica al Centro Georges Devereux che chiarisca i problemi in atto. Durante la prima seduta la nostra équipe riunita in cerchio è costituita dallo psicoterapeuta principale che conduce la seduta e da un’insieme di co-terapeuti: psicoterapeuti, psicologi clinici, psichiatri, pediatri, etnologi e il mediatore “etnoclinico”. Accogliamo Mamadou, il suo educatore, l’assistente sociale, il padre, la madre e la sorella maggiore. Il mediatore etnoclinico è seduto vicino alla famiglia. Il mediatore è un traduttore “particolare” della stessa origine della famiglia. Non traduce infatti solo parola per parola ma ha una conoscenza approfondita di questo mondo e traduce da un sistema di riferimento a un altro. Aiuta il terapeuta principale a pensare a una clinica che implichi la presa in considerazione delle “teorie del mondo” da cui proviene il paziente, «l’involucro identitario costituito da luoghi, odori, suoni costituisce la superficie sensoriale e esperienziale che permette la costruzione della struttura e del funzionamento psichico» (Nathan 1996). Si potrebbe dire che il mediatore etnoclinico crea le “aperture essenziali” all’interno del discorso del paziente portando alla luce gli impliciti teorico-culturali. Egli partecipa quindi all’elaborazione di un nuovo discorso, alla produzione di un nuovo significato sulla situazione. In questo caso la presenza del mediatore bambara è necessaria per permetterci di trovare un senso “sulla situazione in atto” condivisibile dalla famiglia. In questo nuovo “setting”, chiamato dispositif d’ethnopsychiatrie (dispositivo etnopsichiatrico) (Nathan 1993), sono così rappresentate tutte le teorie che permettono ad ognuno di pensare la problematica di Mamadou che è all’origine di questa seduta. Emergono infatti diverse opinioni sulla situazione: quella della famiglia, quella dei rappresentanti dell’istituzione che sono invitati per primi a esporre la situazione e i loro interrogativi, e quella dei terapeuti e dei co-terapeuti. Il terapeuta principale e i suoi colleghi, con l’aiuto del mediatore etnoclinico, analizzano la situazione conflittuale in gioco. In questo caso i conflitti sono plurimi: tra l’educatore e la famiglia, tra la famiglia e Mamadou, tra i suoi genitori. Vediamo ora come queste professionalità lavorano durante la prima consultazione con Mamadou e la sua famiglia. Durante la seduta Mamadou è nervoso, il clima è teso. L’educatore prende subito la parola e inizia a sottolineare la gravità dei fatti compiuti da Mamadou, esprime le preoccupazioni sul suo gruppo di amici, che definisce come giovani delinquenti della zona. L’aggressività di Mamadou e i suoi atti violenti ci portano immediatamente ad affrontare in clinica la questione della distruttività. Infatti, ancora prima che l’educatore finisca di parlare e che si specifichi nei dettagli il senso di questo incontro e delle problematiche che riscontra l’educatore, la tensione del signor H ha già fatto irruzione. Il signor H alza la voce con l’educatore e esprime chiaramente il suo dissenso dicendo: «Je suis très fâché... Comment se fait-il qu’on s’attaque à mes enfants?» (Sono molto arrabbiato… com’è possibile attaccare in questo modo i miei figli?). L’educatore sottolinea allora la sua difficoltà a creare una relazione con la famiglia e la difficoltà che i genitori hanno nel capire la funzione del suo lavoro con Mamadou. Secondo lui i genitori sono aggressivi nei suoi confronti perché hanno vissuto come una punizione nei loro confronti la decisione del giudice d’aver allontanato Mamadou da casa mettendolo in un istituto: «Pendant six mois, j’ai eu des difficultés pour entrer dans la famille; les deux premiers mois, c’était impossible... Avec le père, la discussion était difficile. Il ne voyait pas ce que je faisais là...». (Durante i primi sei mesi, ho avuto delle difficoltà per entrare in famiglia, i primi due mesi è stato impossibile… con il padre di Mamadou era difficile discutere. Non capiva quello che facevo…). Il signor H vive la presenza dell’educatore nella sua famiglia come un rimprovero implicito, come se non avesse educato bene suo figlio, e per questo si sente “attaccato” dalla decisione presa dal giudice. Per lui suo figlio non è responsabile dei delitti che gli sono rimproverati. Mamadou è spinto, infatti, dalla forza di uno spirito, ch’egli identifica come uno “spirito della terra”. Il signor H esprime in questo modo le basi dell’eziologia del “Male” che colpisce suo figlio. Per essere il più vicino al pensiero della famiglia di Mamadou, il mediatore etnoclinico ha invitato il signor H ad esprimersi nella sua lingua d’origine. Il mediatore etnoclinico restituisce al gruppo il pensiero del padre «Mamadou, ce qui lui arrive, c’est la chose de la terre. Quand elle prend l’enfant, il peut faire pipì au lit, faire des cauchemars, mais l’enfant ne sait pas ce qui lui arrive... Les djinnas dont je parle ne sont pas de ceux avec lesquels on traite; ce sont des djinnas récalcitrants.» (Mamadou, quello che gli capita, viene dalla terra. Quando questo spirito entra nel bambino, può fargli fare pipi a letto, fargli fare degli incubi ma il bambino non sa quello che gli capita… i djinns di cui parlo sono difficili da mandare via, si tratta di djinns recalcitranti). I djiinns possono essere considerati in questo caso come dei “miti viventi” «(…) il mito permette di riconoscersi in quanto individuo e in quanto membro di un gruppo » (Green 1992). L’emergere dell’eziologia dei djinns è stata possibile grazie al mediatore. I sintomi di Mamadou sono quindi pensati dalla famiglia secondo un’eziologia culturale tradizionale specifica “possessione da djinns recalcitranti”. Vista la gravità della situazione il padre pensa che sia necessario inviarlo al Paese per guarirlo. In questo caso il terapeuta principale non può eliminare l’eziologia dei djinns portata dai genitori senza rischiare di inficiare la relazione terapeutica. È necessario quindi portare gli interrogativi della famiglia a un altro livello passando attraverso la mediazione del mondo in cui i djinns fanno parte delle possibilità per interrogare “il Male” in corso. L’essenziale non è di porre delle domande alla famiglia ma di portarla a porsi dei nuovi interrogativi sulla situazione in atto portando, in questo modo, gli interrogativi a livello dei “mondi”. In questo caso il mondo dei djiinns. La questione diventa allora perché i djinns hanno attaccato Mamadou? Perché sono entrati in questa famiglia? Talvolta i djinns attaccano un membro della famiglia quando si è compiuto un’effrazione grave… Durante la seduta emergono poco a poco profondi disaccordi tra i genitori che sembrano esistere da lunga data. La violenza di questi conflitti ha creato in Mamadou un’agitazione massiva che non gli permette di trovare una calma interna e lo porta a manifestare dei continui “passaggi all’atto”. La distanza nei discorsi tra Mamadou e suo padre è evidente, ci troviamo di fronte a due “quasi estranei”: Mamadou rivendicando le sue affiliazioni moderne e il padre sentendosi parte del suo mondo tradizionale. Mamadou è come molti dei ragazzi che incontriamo che sono costituiti da appartenenze molteplici: gli elementi del paese in cui sono cresciuti, gli elementi del paese d’origine di cui i loro genitori sono portatori e gli elementi della cultura d’origine che hanno assorbito anche a livello inconscio (e che possono essere analizzati solo in un contesto clinico). I genitori spesso si trovano in difficoltà a integrare questa molteplicità di appartenenze, venendosi così a creare delle tensioni e incomprensioni tra genitori e figli, in cui ciascuno riflette sulla propria identità. Si presenta in questo modo un sentimento di “familiarità-estranea” (Hounkpatin 2006). Mamadou e suo padre si conoscono poiché sono padre e figlio ma sono, allo stesso tempo, stranieri poiché essi non riconoscono le loro reciproche appartenenze. Il motivo di questo contrasto risiede nella complessità della posizione del padre di Mamadou che rende questo sentimento di “familiarità-estranea” ancora più accentuato. Nel corso delle consultazioni infatti, la problematica dei djiinns porta il signor H a un movimento interno di riflessione sulle sue trasgressioni e sulla sua storia. Mamadou, pur mantenendo una posizione di perplessità sull’eziologia dei djiinns, per la prima volta si mette in posizione d’ascolto nei confronti della storia paterna. Il signor H ha trasgredito alle regole tradizionali delle alleanze familiari, rompendo i contatti con la sua famiglia, fondando il proprio nucleo familiare al seguito della rottura con il suo, ponendosi come individuo solo, nella migrazione. Queste rotture sono alla base anche dei conflitti di lunga data con la signora H. La posizione paterna è complessa e particolare: egli è completamente affiliato al mondo culturale d’origine anche se in rottura, nei fatti, con esso. Di conseguenza, il mondo del signor H, anche se familiare, rimane enigmatico agli occhi di Mamadou. Il lavoro svolto nelle sedute successive ha permesso al padre di affrontare la sua storia personale attraversata da violente rotture e di cominciare lentamente a rimettere ordine nelle alleanze familiari. Si potrebbe dire che gli atti di trasgressione (della legge) di Mamadou hanno portato a interrogarsi nel corso del lavoro clinico su un altro tipo di trasgressione: 23 AeM 64 nov. 08 quella del padre rispetto alle regole del suo gruppo culturale. Infatti attraverso l’eziologia dei djiinns, è stato possibile arrivare alle trasgressioni paterne e permettere al signor H di elaborare le molteplici rotture familiari. Solo in seguito all’elaborazione paterna delle “fratture” e della gravi trasgressioni in atto Mamadou ha potuto iscriversi in una “collettività familiare”. Questo passaggio gli ha permesso di non sentirsi più attratto verso un’altra collettività, quella criminale. L’assenza del gruppo familiare paterno non aveva permesso a Mamadou di riconoscersi nei valori paterni e di conseguenza di costituirsi in modo sufficientemente compatto a livello identitario. Le consultazioni funzionano allora per Mamadou come luogo di ri-trasmissione e ri-elaborazione, della propria storia, dei propri miti, e come momento per confrontarsi con i suoi elementi costitutivi: elementi che fino ad ora gli erano “familiari-estranei” perché trasmessi in assenza del gruppo. Il terapeuta principale per essere più vicino al suo paziente ha costruito con l’aiuto del mediatore e del gruppo un pensiero formato dall’incontro di più pensieri, di più mondi, che permettono la co-costruzione di un senso pensabile per Mamadou e la sua famiglia che porterà a una progressiva modificazione della situazione. Il dispositif è quindi luogo di tensioni, in cui si incontrano e scontrano “mondi” e teorie, in cui emergono i malintesi, le incomprensioni teoriche delle parti in gioco che impediscono la costruzione di un lavoro comune. Le sedute funzionano come uno spazio terzo in cui i malintesi costituitisi anche con gli operatori, che accompagnano le famiglie, possono essere chiariti e in cui la dimensione d’aiuto clinico prende in considerazione anche le teorie formatesi in altri contesti culturali. Ora che Mamadou si sente parte di una collettività (di una famiglia, di un gruppo, di un mondo coerente) si pone la necessità di rafforzare la dimensione di individualità per arrivare a una posizione di soggettivazione dagli elementi molteplici della sua identità. Possiamo “provvisoriamente” concludere sottolineando che per poter trasformare l’agire di questi ragazzi in un pensiero pensabile bisogna saper ascoltare la loro “irriducibile singolarità” identitaria. Questi giovani ci insegnano a tener conto delle molteplici teorie che li abitano simultaneamente, ossia le teorie dei diversi mondi di cui fanno parte, quello francese e quello dei loro padri e dei loro avi che vorrebbero in parte rigettare e in parte trasmettere a loro volta ai loro figli. È necessario, allora, prendere in attenta considerazione le molteplici teorie dei mondi che abitano questi giovani per riconoscere la loro singolarità e aiutarli a costituirsi a livello identitario: abbiamo visto in questo modo che la distruttività di Mamadou ha effettivamente cominciato a trasformasi in un’elaborazione costruttiva, trama di nuove possibilità. Ecco alcuni dei nuovi quesiti che questi ragazzi ci insegnano ad affrontare e che ci portano sempre di più a parlare di una «nuova clinica della molteplicità» (Hounkpatin 2006). 24 Nathalie De Timmerman è psicologa e psicoterapeuta d’orientamento psicoanalitico. Lavora nel Centro medicopsicopedagogico di la Meuse e al Centro Georges Devereux. È attualmente dottoranda dell’Università di Paris 10 Lucien Hounkpatin è psicanalista. Dirige attualmente il Centro Georges Devereux. Insegna psicologia clinica all’Università di Paris 10. È l’autore del libro: Psicopatologie yoruba insieme al Prof. Tobie Nathan Federica Stortoni è psicologa e psicoterapeuta d’orientamento psicoanalitico. Lavora con le famiglie immigrate al Centro Georges Devereux. Ha svolto un dottorato di ricerca in etnopsichiatria all’Università di Paris 8 in cotutela con l’Università di Bologna sulle tematiche identitarie Anne Zountekpo è psicologa clinica, lavora al Centro Georges Devereux. I suoi lavori di ricerca si concentrano sulle tematiche adolescenziali nei figli degli immigrati nati in Francia BIBLIOGRAFIA R. Benedict, Patterns of culture, Mifflin Company, Boston, Houghton 1934 G. Devereux, (1961), Ethnopsychiatrie des Indiens Mohaves, Synthélabo, les Empêcheurs de penser en rond, Paris 1996 B. Good, Culture and depression, University of California Press, Berkeley 1985 A. Green, La Déliaison. Psychanalyse, anthropologie et littérature, Hachette Pluriel, Paris 1992 L. Hounkpatin, Coy, N. De Teillermann, C. Mesmin, Babar l’éléphant à la rencontre de l’enfant Léopard. «Je suis d’ici, mon grand-père de là-bas… et mon père alors?», 2006 A. Kleinman, B. Good, Culture and depression, University of California Press, Berkeley 1985 B. Malinowski, Argonauts of western Pacific, E.P. Dutton, New York 1922 M. Mead, Growiong up in New Guinea. A comparative study of primitive education, Morrow, New York 1931 T. Nathan, (1993), Principi di etnopsicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1996 G. Rohéim, (1930), L’animisme, la magie et le roi divin, Payot, Paris 2000 T he relation between individual personalities and the social and cultural context in which they live is very strong; in this framework, since the 1980s the clinic “George Devereux” in France has opene its doors to immigrant patients and their families. In this centre various experts act as clinical psychologists and cultural mediators, taking care of young immigrants that have gone through different problematic situations, mainly relate to their identity, which lies in between the cultural practices of their mother country and the ones of the country they inhabit. di Silvia Festi e Paolo Ballarin I l 10 ottobre 2008 presso l’Università di Bologna ha avuto luogo un convegno dedicato alla riflessione sui dati di attività del Dipartimento di Salute mentale di Bologna relativi alla cura di persone provenienti da altre culture, e due letture magistrali condotte rispettivamente da Marie Rose Moro e da Roberto Beneduce. Marie Rose Moro è psichiatra infantile, psicoanalista e docente all’Università di Parigi (Paris XIII), dirige il Servizio di psicopatologia del bambino e dell’adolescente dell’ospedale Avicenne a Bobigny, in cui ha organizzato e è responsabile di un consultorio di etnopsichiatria specificamente pensato per i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie. La sua cultura e esperienza clinica nell’ambito della psichiatria del bambino e dell’adolescente hanno origine nell’insegnamento di Serge Lebovici. La sua formazione in campo etnopsichiatrico ha preso l’avvio dalla scuola di Tobie Nathan presso il Centre Devereux di Parigi. Roberto Beneduce è etnopsichiatra, professore di Antropologia culturale presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino, presidente e psicoterapeuta del Centro Frantz Fanon di Torino (vedi box a p. 46), che si occupa di psicoterapia, supporto psicosociale e counselling per immigrati, rifugiati e vittime della tortura. Ha svolto varie attività di ricerca sul campo per conto dell’ONU, OMS, UNICEF e CNR presso vari paesi dell’Africa e dell’Europa Balcanica. Il convegno è stato promosso dall’Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna e patrocinato dall’Istituzione Gian Franco Minguzzi della Provincia di Bologna. I lavori della mattinata hanno visto al centro delle relazioni e degli interventi principalmente i bambini e le loro famiglie, mentre il pomeriggio è stato dedicato agli adulti. Il tema del convegno, evidenziato dal sottotitolo: “Dalla formazione degli operatori alla presa in cura di bambini, adolescenti e adulti di altre culture”, è parso suscitare molto interesse non solo negli operatori che si occupano direttamente di salute mentale, ma anche in insegnanti, ricercatori, operatori di cooperative e volontari di associazioni che lavorano con migranti. Negli ultimi anni stanno aumentando i momenti pubblici di analisi e di riflessione sul tema dell’accesso e della fruizione del sistema dei servizi da parte dei cittadini di origine straniera e sulla corrispondente capacità dei servizi e dei suoi operatori di comprendere e rispondere ai bisogni che questi nuovi cittadini esprimo- no. In particolare, le forme di disagio e sofferenza espresse attraverso quei canali che la nostra cultura definisce in termini psico-patologici stanno assumendo un rilievo sempre più significativo. Il Dipartimento di Salute mentale dell’ASL di Bologna, che da anni investe nella formazione del proprio personale alla presa in cura dei cittadini migranti, non si è sottratto a tale analisi, effettuando un’attività di monitoraggio che ha interessato buona parte del territorio provinciale e in occasione del convegno ha presentato i dati raccolti nell’arco di un anno di attività nelle aree della Neuropsichiatria infantile, della Psichiatria adulti e del Servizio per le tossicodipendenze. L’attività di monitoraggio e analisi quantitativa dei casi presi in carico mostra un’importante consapevolezza dei servizi di salute mentale relativa alla necessità di meglio conoscere DOSSIER Salute mentale e migranti. Il lavoro nel Dipartimento di Salute mentale di Bologna Laboratorio di espressione artistica. Calderara di Reno giugno 2008. Foto di Gail Pomare 25 AeM 64 nov. 08 Laboratorio di espressione artistica. Calderara di Reno giugno 2008. Foto di Gail Pomare 26 la realtà del fenomeno migratorio nell’impatto con i servizi stessi e, a partire da questa conoscenza e da un percorso formativo pluriennale che ha interessato gli operatori del dipartimento, porsi alla ricerca non solo di risposte innovative nell’ambito della cura, ma prima ancora di strumenti conoscitivi e prospettive di comprensione. Una prima sensazione che è emersa nel corso di questa giornata e che sembrava pervadere l’insieme dei partecipanti all’iniziativa era quella di trovarsi immersi in un clima di consapevolezza della complessità delle tematiche in gioco. Ci troviamo infatti di fronte alla necessità di assumere l’interdipendenza tra differenti livelli: sanitario, psicologico, sociologico, antropologico, sociale, politico e al tempo stesso tra il piano teorico e quello operativo. Ma non solo. La presa in carico di persone immigrate ci costringe a (e al tempo stesso ci permette di) assumere il relativismo nel nostro stesso modo di concepire non solo ogni “relazione d’aiuto” e non solo la concezione di salute e malattia, di adattamento e disadattamento, (ovvero la loro dimensione di costruzione sociale, culturalmente connotata), ma anche le premesse che sottendono la nostra visione della realtà. Pensiamo ad esempio alla centralità del soggetto, inteso come individuo singolo e separato, contrapposta a una concezione plurale e collettiva dell’identità, alla concezione del ruolo della tecnologia nell’esistenza umana e all’idea stessa di progresso e di sviluppo scientifico, sociale e culturale. Allo stesso modo, il concetto di persona come agente di scelte libere e responsabili non è certo la visione della natura umana prevalente in ogni contesto culturale, così come l’idea che il nostro benessere psicologico dipenda dalla qualità delle relazioni che abbiamo avuto con le “figure di accudimento”. Ci sembra quindi importante la riflessione sul contributo che la presenza di “altri” può offrire alla consapevolezza dei limiti del nostro modo di guardare all’essere umano e al mondo: l’esperienza dell’immigrato, che ha perso qualsiasi riferimento certo e che si ritrova all’incrocio di mondi diversi, sembra rispecchiare la condizione esistenziale stessa di noi occidentali, privati della illusoria certezza di una Ragione capace di spiegare tutto e di offrire certezze normative e classificatorie. «Se il modello di razionalità occidentale ha ormai fallito nella sua pretesa di universalità, è il momento di riconoscere l’esistenza di altre forme storicamente assunte dalla ragione in altre civiltà. (…) La psicologia, e più in generale le scienze dell’uomo, quindi anche la medicina, devono rendersi conto che stiamo balbettando e che la presenza qui da noi degli “altri” mette ancora più in risalto questo balbettio. Forse in epoche passate, quando era più semplice usare la nostra cultura come egemone e totalizzante, come unico punto di riferimento, non abbiamo prestato sufficiente attenzione alle razionalità e alle culture degli altri.» (N. Losi, 2000, pp. 16-17) Occorre mettersi in una posizione di reale apertura alla complessità e alla differenza, assumere e non negare queste dimensioni, sospendere il giudizio nei confronti dell’altro e delle sue convinzioni (a partire dalla necessità, per non dire ossessione, per le classificazioni diagnostiche), rendersi disponibili a mettersi in gioco in un percorso dove l’incontro diventi un momento creatore di senso sia per l’operatore che per il fruitore del servizio. Diventa allora necessario uscire dal proprio ambito di intervento, in un certo senso protetto e scontato, e leggere la società in cui siamo immersi, riconoscere il razzismo non solo nei fenomeni eclatanti riportati nella cronaca ma anche negli elementi legislativi che governano la vita dei migranti nei paesi di arrivo, per chiedersi finalmente, grazie all’incontro con uomini e donne migranti simili e diversi da noi, quanto siamo capaci di tutelare i diritti di coloro che, anche non migranti, portano una forma di diversità. E, spingendoci più oltre, possiamo prendere a prestito le parole di Benasayag (2003, pp. 84-85): «A nostro parere, sia l’integrazione che la cura devono passare attraverso il riconoscimento della molteplicità della persona. Riconoscimento che non dovrebbe riguardare solo le persone che hanno problemi, ma anche quelle che si considerano “normali”, affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di “normale”, per poter assumere e abitare le molteplici dimensioni della fragilità. Nella nostra società della durezza e delle passioni tristi ci interroghiamo sullo scacco di quelli che vengono definiti “deboli”, mentre dovremmo, ci pare, interrogarci un po’ di più su ciò che viene riconosciuto come “trionfo” e successo.» In questa prospettiva, lo sforzo di conoscere le peculiarità (o presunte tali) della cultura di provenienza del cliente/ paziente/utente può paradossalmente risultare fuorviante: un conto è se tale sforzo viene posto in subordine e al servizio della comprensione dell’altro secondo il suo proprio modo di costruire l’esperienza, un altro è se diventa una scorciatoia e una semplificazione della complessità di cui la persona è sempre portatrice. Nel secondo caso possiamo immaginare che l’operatore sia (magari inconsapevolmente) guidato dalla necessità di individuare una scorciatoia che serve probabilmente all’operatore per rassicurarsi di fronte a quella che rappresenta in un qualche modo una difficoltà aggiuntiva nella comprensione empatica, perché davvero può essere difficile comprendere in modo profondo l’esperienza di una persona che utilizza differenti parametri riguardo ad alcun valori e costrutti fondamentali (pensiamo ad esempio al significato della proprietà privata nella vita sociale, al peso che ha la comunità allargata nel definire il senso di identità, al ruolo del mondo degli spiriti nella vita quotidiana, ai valori legati alla tradizione nel rapporto tra generi e tra generazioni). Al tempo stesso dobbiamo tenere presente il fatto che la presunta facilità di comprensione del significato dell’esperienza personale di qualcuno con cui condividiamo la lingua, la nazionalità di provenienza e i riferimenti culturali possa rivelarsi una trappola dalla quale dovremmo guardarci e che proprio la pratica di relazioni d’aiuto con migranti può aiutarci a vedere. Un ulteriore elemento di riflessione deriva dai risultati delle ricerche che evidenziano l’assenza di qualsiasi specificità psicopatologica nelle persone di origine straniera e al tempo stesso significative differenze nelle modalità di richiesta di aiuto e di presa in carico. Come se la specificità risiedesse piuttosto in questioni di ordine socio-politico piuttosto che clinico e culturale. L’intervento di Marie Rose Moro ha sottolineato sin dal principio la necessità di considerare la migrazione come un fattore di rischio per la salute dei minori. Per questo motivo vanno considerati in egual modo numerosi fattori che intervengono nell’incontro transculturale, in cui nulla deve essere dato per scontato, tra i quali vengono indicati: l’importanza dello spazio interno (alla famiglia, 27 AeM 64 nov. 08 28 ai gruppi di appartenenza) e dello spazio esterno (istituzioni, cultura ospitante) per i migranti, la trasmissione transgenerazionale (come e che cosa si trasmette nel rapporto genitori/figli), il ruolo e il valore della lingua dei genitori per i giovani di seconda generazione. E anche in questo caso occorre avere il coraggio di porre domande evidenti: cosa significa prima generazione? È facile collegare l’appellativo all’atteggiamento generale di considerare il migrante senza una vita, una storia, un contesto, prima del suo arrivo in Italia. Una specie di improvviso qui e ora senza passato, una sorta di tabula rasa, perché il resto è ignoto…, un altro modo per sottolineare lo strappo tra il prima e il dopo. È importante inoltre partire dai processi di filiazione (essere figlio dei propri genitori, essere iscritto a una discendenza, in base a elementi consci e inconsci) e di affiliazione o meglio affiliazioni (i giovani di seconda generazione non scelgono un gruppo: devono mescolare, fare le proprie affiliazioni, definire i propri desideri e aspirazioni di somiglianza; gli aspetti dell’appartenenza, dell’identità e della creatività). È proprio nella dinamica filiazione/affiliazioni che avviene la costruzione della propria identità e nei bambini figli di migranti ciò avviene attraverso un continuo passaggio dal singolare al plurale e la capacità di integrare il concetto di molteplicità. I bambini hanno bisogno di fare continui passaggi tra dentro (rapporti tra genitori e figli, fratelli e sorelle, maschi e femmine) e fuori (nel contesto Paese/accoglienza), dove il dentro è dentro alla famiglia: la lingua, i rituali, l’educazione, le spiegazioni, il cibo, le relazioni famigliari, mentre il fuori è fuori dalla famiglia, la lingua del paese di arrivo, la scuola, il gruppo amicale, l’educazione, il cibo, i dottori, gli psicologi, gli ospedali, il modo di vedere il mondo, il razzismo. Nelle situazioni transculturali la trasmissione della propria filiazione dai genitori ai figli avviene senza il contesto del gruppo. Inoltre viene trasmesso anche l’eventuale trauma della migrazione e di eventi ad essa collegati: i bambini devono elaborare gli effetti che la migrazione ha avuto sui genitori. Per questo motivo, ci indica Moro, è importante lavorare sul racconto. La situazione transculturale rappresenta in realtà anche un elemento di creatività e di maggior resilienza, ma diversi studi indicano con evidenza come essa diventi un fattore di rischio per i bambini e le loro famiglie. È a partire da questo “maggiore rischio” che tutti gli operatori, non solo della salute mentale, ma anche della scuola o dei servizi sociali devono iniziare a porsi degli interrogativi ripensando non solo la pratica quotidiana, ma anche il sistema teorico di riferimento che la guida. Dobbiamo domandarci se la nostra cultura dà sufficiente spazio alla cultura di chi ci sta di fronte, essere consapevoli che nello scambio tra culture avviene una trasformazione costante, che la cultura è un sistema sempre dinamico che cambia con gli incroci intergenerazionali. Dobbiamo riconoscere che la domanda “da dove vengo” è il primo punto che tutti affrontiamo e che nella migrazione è una domanda costante. Dobbiamo considerare gli effetti della migrazione negli individui e nei gruppi: negli individui dobbiamo considerare la storia precedente alla migrazione, e tra gli effetti spesso troviamo la violenza, i traumi, le depressioni, l’ansietà. Nei gruppi gli effetti della migrazione sono spesso la mancan- za di supporto e legami, la mancanza di valori, linguaggi, religione. Inoltre dobbiamo considerare nella genitorialità la solitudine e il fatto che esistono altre modalità di essere genitori, altri modi di amare e di soffrire. “La migrazione è un atto individuale a valenza collettiva”. L’elemento collettivo dà luogo a trasformazioni anche di tipo religioso e di modi di fare. Nulla è quindi dato una volta per tutte: l’ambito in cui operiamo è dinamico, in trasformazione continua. Non ci sono certezze e ricette pre-costituite. Sono i figli delle famiglie che migrano che più degli altri bambini invitano noi operatori dei servizi a decentrarsi, a mettere in discussione le nostre pratiche e a riadattarle: anche se non c’è una psicopatologia specifica nel figlio dei migranti, vi è una differenza nelle modalità di accesso e nei risultati delle strategie che attiviamo. «Questi bambini sono costretti a gestire diversi registri, diversi mondi, talvolta diverse lingue. Il figlio di migranti, come tutti i bambini ma con una nitidezza maggiore che deriva dalla condizione di separazione tra l’interno della famiglia e l’esterno, si costruisce nel punto d’incrocio tra i due processi: un processo di filiazione “sono il figlio di…, la figlia di…” e un processo di affiliazione “appartengo a questo o quel gruppo”, generalmente secondo uno schema di appartenenze multiple che può modificarsi nel tempo. E questi due processi, per armonizzarsi, devono sostenersi a vicenda, mondo interno e mondo esterno». (Moro 2007) Per questo motivo occorre creare legami tra le diverse affiliazioni, occorre occuparsi ad esempio di entrambe le lingue che appartengono al bambino, quella di origine e quella ospitante, e anche del passaggio da una all’altra. Roberto Beneduce ha aperto il suo intervento esplicitando sin dal principio la forte e inevitabile connessione tra le attività rivolte agli immigrati e la dimensione politica: «trattare gli immigrati è di per sé un atto politico. Il bambino il cui nome non viene accettato all’anagrafe è una questione politica». Si rivolge quindi agli operatori invitandoli a riflettere sul proprio ruolo in riferimento all’attuale contesto socio-politico, caratterizzato da una sorta di “privatizzazione dello stato” e parallelamente di crescente arbitrarietà. Occorre quindi rigettare qualsiasi etichetta del buonismo e operare nei luoghi di lavoro ciascuno con le proprie competenze in maniera efficace con una forte attenzione al pluralismo della realtà. Quest’ultimo, sottolinea Beneduce, non è solo una questione con gli immigrati poiché il pluralismo delle appartenenze accomuna tutti. Si tratta dell’essere sospesi tra due mondi o tra più mondi. Allora è necessario contestualizzare le pratiche, le tecniche, il lavoro che si fa. Leggere, analizzare e riconoscere il sociale, l’economico, il culturale, la politica (ad esempio in relazione ai diritti di cittadinanza) nel lavoro che facciamo con i migranti. Le diseguaglianze sociali e l’esclusione sociale entrano anche nella relazione tra operatore e utente/paziente tanto che non può essere presente alcuna forma di riconoscenza da parte di quest’ultimo poiché si trova in una posizione di dipendenza, e la riconoscenza può avere luogo solo tra pari. Nel lavoro con i migranti non si può eludere la specificità dei percorsi di costruzione dell’identità. È necessario attrezzarsi per operare quotidianamente e con ciascun utente una “antropologia del sottosuolo”: di ciò che non si vede. Non bisogna perdere l’attenzione al globale, perché questo ha effetti sul locale e sul nostro modo di erogare i servizi, di adottare tecniche o stili di cura o determinate risposte ai bisogni. Ad esempio è importante riconoscere che attualmente in Africa stiamo assistendo a processi di de-filiazione e dis-affiliazione. «Siamo davanti ad una massa enorme di individui soli». Allora, dice Benduce, «la semiotica clinica deve essere anche politica. C’è un rapporto strettissimo tra sofferenza, attività degli operatori e contesto politico. I permessi di soggiorno sono violenza e arbitrarietà.» È necessario riconoscere il culturale che sta nella psichiatria, ma soprattutto avere la consapevolezza che «culturale non è sempre nell’altro»: anche le nostre stesse pratiche di «diagnosi e cura» si realizzano all’interno di una specifica cornice, che va vista e riconosciuta nelle sue specificità, punti di forza e limiti. Se partiamo dal fatto che non ci sono specificità etnopatologiche nella popolazione immigrata, come anche i dati presentati dal Dipartimento di Salute mentale di Bologna mettono in evidenza, dobbiamo domandarci se la semiotica che abbiamo adottato è adeguata. Cosa è culturale e cosa no? Nell’incontro con i migranti assistiamo a una nuova modalità delle figure del dono e dello scambio, del dentro e del fuori. A volte l’economico va riconosciuto in ciò che noi chiamiamo culturale. La nostra attenzione deve essere portata alla specificità della risposta. “Guarire” cosa significa? Curare le memorie? Incontrare chi è portatore di diversità cosa comporta? Non dobbiamo mai dimenticare che “ci definiamo a partire da ciò che non siamo”. La grande occasione che l’immigrazione ci offre è ripensare il nostro sistema dei servizi non più secondo un modello strutturato, dato una volta per tutte, valido allo stesso modo per tutte le persone che vi accedono, impersonale e “burocratico”, astratto. I migranti ci obbligano ad «ascoltare la singolarità, ad accettare di moltiplicare i riferimenti di lettura di un fatto e a cercare di co-costruire con l’altro una lettura possibile, la sua, attualizzata nella relazione, ci portano a vedere l’altro come un simile differente». I migranti ci obbligano ad alzare lo sguardo dal piccolo contesto locale e nazionale e a riconoscere le interdipendenze dei fatti, siano essi politici, economici, sociali e la loro ricaduta sul nostro incontro quotidiano con l’altro. Come mi ha sussurrato dal suo banco dietro di me un’assistente sociale: “ci si sente meno soli”. Forse proprio di questo, anche di questo abbiamo bisogno anche noi che lavoriamo in questo settore: di sentirci meno soli, di sentire il sostegno politico, istituzionale, sociale e anche di sentire il sostegno del pensiero, il sostegno delle idee che permettano di pensare alle nostre azioni come dotate di senso, iscritte in un disegno complessivo con i suoi obbiettivi, i contenuti, le metodologie di intervento, gli strumenti per verificarne gli effetti. Certo, è forte anche la tentazione di reclamare da questi momenti di incontro anche un maggior livello di operatività, indicazioni e guida per operare nel quotidiano. Ma probabilmente sono altri i luoghi e le modalità per trasferire riflessioni e prospettive generali nello specifico degli interventi. E allora è questo il nostro auspicio: che sempre più sia possibile rinnovare e rinforzare questo circolo virtuoso di riflessione e prassi, di considerazioni generali e enunciazione di principi e attivazione di risorse; che sempre più i livelli politico, istituzionale, organizzativo e operativo possano incontrarsi, convergere e integrarsi. Vorremmo concludere prendendo a prestito le parole di un’altra grande esperta del settore Cecilia Edelstein, psicologa, terapeuta familiare e sistemica, etnopsicologa e terapeuta transculturale, fondatrice di Shinui - Centro di consulenza sulla relazione (vedi box a p. 46) e Direttrice della Scuola triennale di counseling sistemico pluralista di Bergamo): «L’immigrazione ha effetti enormi sulla persona, il cambiamento è insito nel passaggio, dopo la migrazione la persona non è più la stessa. Allo stesso modo la società che accoglie l’immigrato cambia, anch’essa non è più la stessa. Nessun incontro è unidirezionale, siamo nel campo dei processi e i processi di integrazione partono dall’incontro personale. È quindi nell’ambito relazionale che si svolge il processo, qui le emozioni si mettono in gioco. Lo scambio emotivo coinvolge anche negli operatori la parte umana al di là del ruolo e quindi l’utilizzo del sé relazionale nella relazione d’aiuto. Vengono così coinvolti i diversi livelli del sé. Portare se stessi nella relazione d’aiuto è importantissimo e come farlo è un arte. Questo saper essere va completato con il sapere e il saper fare in una congiunzione di elementi volti alla co-costruzione delle risposte di cura. Il disagio è universale, la manifestazione è culturale e individuale. L’attenzione degli operatori deve essere posta nel non confondere il disagio con la patologia.» Silvia Festi, collaboratrice della Cooperativa Lai-momo, si occupa da anni di migrazioni e di progetti in favore delle popolazioni migranti Paolo Ballarin è psicologo psicoterapeuta esperto in tematiche interculturali, lavora come libero professionista a Bologna, collabora con la Cooperativa Lai-momo, con enti e pubbliche amministrazioni BIBLIOGRAFIA M. Benasayag, G. Schmit (2003), L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2004 C. Edelstein, Psicodiagnosi, salute mentale e immigrazione, in AA.VV., La parola e la cura, vol.1, 2004, pp. 45-48 N. Losi, Vite altrove, Feltrinelli, Milano 2000 M.R. Moro (2007), Maternità e Amore, Frassinelli. Torino 2008 M.R. Moro, Bambini di qui venuti da altrove, Franco Angeli, Milano 2005 O n the 10th of October 2008, in the University of Bologna, the department of Mental Health held a convention on the topic of people coming from other cultures. The convention, “Dalla formazione degli operatori alla presa in cura di bambini, adolescenti e adulti di altre culture”, highlighte that in order to take care of immigrant citizens it is necessary to have good knowledge of the phenomenon of immigration. In this context, the work needs to happen on different levels: health, psychological, sociological, anthropological, social, political, theoretical and operational. 29 AeM 64 nov. 08 ESPERIENZE Le service de psychopathologie de l’enfant et de l’adolescent de l’Hôpital Avicenne: les métissages au service des soins psychiques par Marie Rose Moro Quelques mots d’histoire C’est en 1978 que le Pr Serge Lebovici, pédopsychiatre et psychanalyste, a créé le service de psychopathologie de l’enfant et de l’adolescent de l’hôpital Avicenne pour développer la psychopathologie du bébé en partenariat avec en particulier la Protection Maternelle et Infantile, approche nouvelle en France. Serge Lebovici a rapidement compris la nécessité d’accueillir de manière adaptée les parents d’où qu’ils viennent et quelle que soit leur langue et les représentations qui les habitent. En 1983, il est remplacé par le Pr Philippe Mazet qui continue à développer l’étude des interactions mères-bébés en particulier entre les mères déprimées et leurs enfants. En 2000, le Pr Marie Rose Moro, ethnopsychiatre et psychanalyste, prendra en charge ce service en continuant à développer l’étude sur les interactions parents-bébés dans la tradition première de ce service. Cependant elle va développer les études transculturelles. De même dans l’accueil et la prise en charge des familles migrantes et leurs enfants. Les structures aujourd’hui Aujourd’hui, le service s’est diversifié avec une préoccupation d’accueil de toutes les familles en particulier celles qui sont le plus en difficultés sur le plan culturel pour mettre la psychothérapie au service de tous. 30 - La consultation transculturelle. Plus de vingt langues sont parlées tous les ans dans cette consultation qui se fait avec un groupe de psychothérapeutes polyglottes et cosmopolites. Des traducteurs participent aussi à ce dispositif spécifique qui permet d’expérimenter des manières de faire qui ensuite sont mises au service de l’ensemble du service, bébés, enfants, adolescents. - La consultation parents-bébés. - La consultation de pédopsychiatrie. - Le Centre référent langage, pour tous les enfants qui présentent des troubles du langage. - La Maison des adolescents d’Avicenne (Casita), qui accueille et soignent les adolescents et leurs parents. - La prise en charge des addictions (Le centre Boucebci et l’ECIMUD). - La Cellule d’Urgence Médico-Psychologique (CUMP 93) pour tous les traumas collectifs. - Les urgences psychiatriques. - La psychiatrie de liaison. Et aussi, des enseignements universitaires et aux professionnels dans le domaine des soins aux bébés, des adolescents et de la clinique transculturelle. Enfin, une équipe de recherche en clinique transculturelle. BIBLIOGRAPHIE Un film: J’ai rêvé d’une grande étendue d’eau. Réalisatrice: Laurence Petit-Jouvet, Abacaris Films ([email protected]), Producteur: Arnaud de Mezamat Un livre: M.R. Moro et coll., Avicenne, l’andalouse. Devenir psychothérapeute en situation transculturelle, La Pensée sauvage, Grenoble 2004 Marie Rose Moro est Professeur de Psychiatrie de l’enfant et de l’adolescent, Université de Paris 13, Chef de service au Centre Hospitalier Universitaire Avicenne (Bobigny, France), AP-HP. Dirige la revue transculturelle L’autre et le Centre de Recherche en clinique transculturelle de Paris 13 © aiep – 10 juin 2005 - www.clinique-transculturelle.org DOSSIER La salute delle persone in viaggio di Rabih Chattat A ffrontare un viaggio migratorio è un’operazione complessa e richiede, paradossalmente, la disponibilità di risorse che nella realtà sono assenti. In conseguenza di ciò il migrante si trova esposto a un numero significativo di eventi definibili come “stressanti” che hanno un impatto significativo sulla possibile relazione tra la “provenienza” e lo stato di salute attuale. In questo contributo si cercherà di delineare in maniera sintetica tre punti importanti al riguardo. Nella prima parte si adotterà una visione d’insieme del rapporto tra la provenienza e lo stato attuale elencando tutti i fattori che entrano in gioco e il loro contributo; la seconda parte prenderà in considerazione la prima fase della migrazione, quella fase di transizione tra i “due mondi” e la specificità di questa condizione rispetto ad altre fasi del viaggio; l’ultima parte tenderà, in relazione alla prima fase migratoria, a gettare uno sguardo sull’esperienza di una categoria speciale di migranti, quelli non assistiti dal servizio sanitario nazionale, con particolare riferimento all’esperienza di un ambulatorio che svolge una funzione di cerniera al riguardo. Prima di addentrarci nella descrizione è importante sottolineare che non verrà fatto un riferimento puntuale alla bibliografia utilizzata ma verranno citati alla fine dell’articolo alcuni testi o articoli utilizzati come fonte di dati a cui i lettori possono fare riferimento. Dalla partenza all’oggi Il tema della salute delle persone in viaggio può essere analizzato seguendo una prospettiva di tipo trasversale, collocando su di una linea retta ad un estremo il punto di partenza (provenienza in termini di appartenenza originaria) e all’altro estremo lo stato attuale di salute (benessere e malessere) in un dato momento nella nuova realtà (nuova appartenenza); si può procedere quindi con il collocare, lungo questa linea, tutti quei fattori che, avendo un certo impatto, giocano un ruolo nel modulare l’esito (la salute/ malattia della persona interessata). In quest’ottica si potrebbero considerare tre ordini di fattori: uno di tipo biologico/genetico, uno di tipo socio-culturale e un altro relativo alla condizione socioeconomica. Il primo esercita la sua influenza sia direttamente che indirettamente; la relazione diretta si può evidenziare prendendo in considerazione le suscettibilità di alcuni gruppi di popolazione per alcune malattie (ad esempio talassemia e Mediterraneo), mentre quella indiretta diventa evidente se si considera che l’avvio del viaggio della persona è l’esito di una selezione basata, in particolare nella prima generazione di migranti, principalmente sulla “salute” e sulla forza fisica intese come risorsa per compiere il viaggio. Estendendo questo concetto, la provenienza incide anche come elemento che può favorire la discriminazione; a questo riguardo sono ormai all’ordine del giorno micro e macro episodi che segnalano l’accentuazione del rischio per chi possiede lineamenti o colore della pelle diversi. A parte il rischio fisico diretto, tale discriminazione incide sulle possibilità di accesso e di fruizione dei servizi addetti alla salute; la discriminazione incide anche sulla disponibilità di alloggio e sulle condizioni lavorative oltre a essere essa stessa una fonte di stress e di disagio. Per cui sarebbe opportuno considerare la discriminazione, In cerca di accoglienzaVia Marsala, Roma 2006. Foto di Sarah Klingeberg 31 AeM 64 nov. 08 Partita a calcio, Roma 2007. Foto di Sarah Klingeberg 32 non solo nel più ampio aspetto politico-sociale, ma anche nelle sue ricadute sulle normali condizioni di vita quotidiana; in alcune situazioni essa è fonte di hassles (le piccole seccature quotidiane che hanno impatto significativo sulla salute quanto gli eventi stressanti significativi). Accanto alla dimensione “etnica” in senso stretto il secondo ordine di fattori fa riferimento agli elementi di ordine sociale e culturale; oltre alle differenze culturali che hanno il loro impatto sui comportamenti, sugli stili di vita, sulle rappresentazioni della salute e della malattia e sui linguaggi delle patologie (elementi ampiamente descritti dall’antropologia e dall’etno-medicina) in questa sede preme soprattutto mettere l’accento su alcune componenti, forse di ordine minore, ma importanti nella loro influenza sullo stato di benessere. Il primo di questi è la lingua, in particolare nelle prime fasi della migrazione oppure quando non si creano le condizioni per un apprendimento adeguato; potrebbe sembrare banale ma la conoscenza della lingua (italiana in questo caso) è un elemento importante di facilitazione della partecipazione e dell’accesso ai servizi e al miglioramento delle condizioni di lavoro oltre a essere un elemento fondamentale nell’interazione; d’altro canto alcune condizioni sociali di isolamento e ristretta interazione riducono ulteriormente le possibilità di acquisire le abilità linguistiche necessarie. Nella pratica quotidiana si osserva frequentemente l’importanza di tale dimensione e come essa può essere fonte di equivoci e di discriminazioni basate sostanzialmente su problematiche di ordine comunicativo. Il secondo fattore socioculturale interessa il tema della “partenza”; partire significa anche separarsi, distaccarsi, allontanarsi, abbandonare un luogo, uno spazio ma anche delle persone significative; certo, vi sono alcune determinanti (primariamente di ordine economico), in particolare quella di diventare la fonte di sostentamento degli altri rimasti. La dimensione e l’impatto di questa “separazione” finalizzata tendono a manifestare il loro effetto nel tempo in base alla legge “fisica” della risposta allo stress, secondo la quale all’inizio si mobilitano tutte le risorse per affrontare un determinato evento; questa mobilitazione permette l’acceso a energie utili la cui disponibilità temporale è però limitata, per cui se non avviene un processo di integrazione (recupero) delle energie utilizzate si rischia di procedere progressivamente verso uno stato di esaurimento, cioè di sofferenza e di disagio e in alcuni casi di malattia; a proposito di malattia fisica occorre considerare il rapporto tra cultura e linguaggio somatico in quanto il corpo (e il simbolo) in molte realtà è uno strumento molto più adatto a comunicare il proprio stato di malessere di quanto non possa essere la parola. Questa fase di possibile esaurimento avviene spesso a distanza di 2-4 anni dal momento di arrivo e esprime la distanza temporale massima tollerabile per una separazione. In questo processo di bisogno-necessità, di cui verrà illustrato un esempio in seguito, la separazione può essere ricomposta, se le condizioni lo permettono, attraverso un contatto diretto con il luogo e le persone che sono state abbandonate; questo può avvenire sia tramite la ricongiunzione sia tramite il rientro temporaneo o definitivo. Questa fase di ricomposizione ha un impatto anche sulla personalità delle persone e sul loro senso di identità e di ruolo; una signora, ad esempio, dopo tre anni di assenza dal paese di origine dove aveva lasciato il suo bambino ancora piccolo in custodia alla madre, doveva il suo stato di ansia e di timore all’esito di un possibile incontro con il figlio, adducendo preoccupazioni sul reciproco riconoscimento e sulle capacità di riprendere il ruolo di madre. È proprio durante questa fase che si osservano fenomeni di “ritorno” quasi “integralista” alle origini oppure di rinuncia altrettanto sostanziale. Sarebbe opportuno osservare che, dopo un certo periodo, questa dimensione di separazione e distacco diventa la condizione stessa del migrante, che avverte l’indebolimento dei legami con la realtà di origine e la difficoltà di sostituirli con nuovi legami significativi; questo lo porta ad essere particolarmente esposto a situazioni di sofferenza e disagio oppure di chiusura e isolamento. Questi elementi possono essere considerati anch’essi fonti di stress psicosociale e avere quindi un impatto anche sulla salute fisica della persona. Il terzo ordine di fattori, quello relativo allo status socioeconomico, fa riferimento ad aspetti inerenti il tipo di lavoro svolto, le mansioni, l’accesso e la disponibilità di risorse (retribuzione e potere di acquisito), di informazioni adeguate e di reti sociali. Tutti questi fattori, sebbene in maniera diversificata, possono essere fonti di stress psicosociale, condizionare l’accesso ai servizi, oppure interferire con la possibilità di acquisire comportamenti e stili di vita salutogeni ecc. La transizione tra “due mondi” Da quanto esposto sopra emerge chiaramente la complessità del modello che cerca di porre in relazione migrazione e salute; inoltre il processo di migrazione è lungo e coinvolge più di una generazione per cui si cercherà, come proposto all’inizio, di mettere ancora più in evidenza gli elementi connessi alla prima fase della “immigrazione” e il ruolo degli elementi connessi alla “emigrazione” nel determinare lo stato di benessere della persona in viaggio. Questa scelta è dettata anche dall’esperienza sul campo, a contatto con migranti arrivati da poco (in un arco di circa tre anni) e in condizioni particolari, cioè non assistibili normalmente dal servizio sanitario nazionale. La prima tappa del viaggio, in particolare per quanto concerne la realtà italiana, è spesso connotata da una condizione di estrema “precarietà” in termini legali; i numeri diffusi dalle diverse agenzie oppure emersi in occasione delle cosiddette “regolarizzazioni” sono degli indicatori importanti della dimensione della tendenza a trattare la questione solo nel suo aspetto di “sicurezza” e di “ordine pubblico” omettendo tutti gli altri aspetti correlati quali: la forza della “povertà” che spinge ad allontanarsi dalla propria terra e dai propri affetti; l’assorbimento da parte di un mercato del lavoro flessibile che cerca di risparmiare non solo per trarre vantaggio da certe forme di sfruttamento ma anche per l’inadeguatezza delle sue risorse in rapporto ai bisogni impellenti degli immigrati; la mancanza di percorsi chiari e guidati che possono regolare l’ingresso; la sproporzione tra un mercato della domanda alto e una disponibilità di posti “regolari” bassa. Tutti questi elementi, insieme alle loro reali conseguenze, contribuiscono a creare una categoria di persone piena di doveri ma alla quale manca del tutto qualsiasi forma di diritto, di tutela e di riconoscimento. L’unico “diritto” che viene riconosciuto a queste persone è quello delle “cure urgenti e essenziali”, che rappresenta una traduzione discutibile del dettato costituzionale che afferma il diritto alla salute delle persone presenti sul territorio italiano. Si crea quindi in questo ambito una significativa compressione delle possibilità di riuscita per una persona che intraprende il suo viaggio con lo scopo di fornire un supporto economico a quelli che restano e il viaggio dall’inizio si presenta carico di incognite e di pericoli. Già la traversata del deserto per entrare nell’“Europa senza frontiere” non è scevra da costrizioni e pericoli; alcuni riescono ad ottenere il visto turistico (che costa molto) ma altri devono affidarsi ai “corrieri”, con tutti i rischi e i costi del caso, per approdare in una realtà nella quale sono a rischio continuo di essere “espulsi”, rinchiusi e comunque considerati (quando ciò accade) solo come un problema di ordine. Nel frattempo, sulla base della nostra esperienza, molti di loro svolgono il loro lavoro nelle case delle persone anziane assistendole oppure badando alla casa. La loro condizione, oltre a comportare una fragilità estrema di negoziazione, per cui gli orari di lavoro possono diventare continui (il luogo del lavoro diventa una prigione ma anche un rifugio data la condizione di presenza), determina l’assenza o la riduzione di relazioni sociali e interpersonali, esasperando la distanza e il distacco dalle persone significative che può durare in media 2-3 anni e il contatto continuo con la sofferenza dell’altro; tutto con lo scopo di sostenere la sopravvivenza e di garantire il futuro a coloro che sono stati lasciati nel paese di origine. Questa descrizione è esemplificativa di molte delle condizioni che si riscontrano nell’ambulatorio della nostra associazione dove diverse persone si rivolgono ai nostri volontari chiedendo cura, ascolto, sollievo ma anche legittimazione e riconoscimento. Migrazione e salute: l’esperienza di Sokos La richiesta di cura a SOKOS riguarda nella maggiore parte dei casi problematiche di salute che sono la conseguenza delle condizioni di vita e di lavoro affrontate in Italia; raramente abbiamo riscontrato ciò che viene chiamato “patologia da importazione”, cara come categoria in quanto veicolo di suggestioni esotiche oltre che affascinanti. Le malattie che riscontriamo sono, in ordine di maggiore frequenza, a carico dell’apparato muscolo-scheletrico, dell’apparato digerente, dell’apparato respiratorio e le problematiche algiche (cefalea in particolare) seguite da quelle di tipo neurologico e psicopatologico; ciò conferma l’origine situazionale della problematica e il ruolo delle condizioni “socio-economiche” oltre che “socio-culturali” nel determinismo delle condizioni di salute. In una ricerca svolta all’interno della nostra Associazione, dal titolo “La cura delle donne che curano”, sostenuta da Coop Adriatica attraverso l’iniziativa “C’entro anch’io”, le badanti intervistate hanno riferito di percepire come dannosi per il loro benessere globale i ritmi di lavoro continui (24 ore su 24 per almeno 6 giorni a settimana), la pressione psicologica della relazione assistenziale, la fatica fisica del lavoro che viene svolto, l’alterazione del ritmo sonno-veglia dovuto alle richieste notturne di assistenza; tutti questi elementi, insieme ad altri ancora, sono considerati come causa di molti dei disturbi presentati. Una considerazione a parte merita la richiesta di visite di tipo ginecologiche in quanto esprimono l’esigenza di tutela e di prevenzione che le donne, indipendentemente dalla loro provenienza, cercano di mantenere e/o di riprendere; ciò può essere letto come una ricerca di continuità e di protezione di fronte a un’esistenza non solo precaria ma anche minacciata; si può affermare che le donne, attraverso un processo di normalizzazione, cercano di ridurre l’impatto di una condizione di sospensione. Nello stesso ordine di fattori può essere collocata l’assistenza pediatrica svolta dalla nostra associazione a favore di genitori e dei loro bambini, anch’essi influenzati dalla condizione dei genitori. Oltre alla cura svolta con le visite, gli approfondimenti di diagnosi e le terapie del caso, non va trascurata l’importanza dell’ascolto; in effetti rivolgersi a SOKOS rappresenta una delle poche “giustificate” assenze dal lavoro e offre la possibilità di raccontare qualcosa a qualcuno; dato il limitato spazio fisico e temporale utile allo sviluppo di relazioni, l’occasione di una visita diventa importante in quanto rappresenta un’opportunità anche se limitata e contenuta. In effetti i colleghi che svolgono l’attività di ambulatorio sono concordi nel segnalare la necessità di andare “oltre” la visita e di costruire le condizioni per dare “più tempo” alla visita, esprimendo in questo modo il valore relazionale del lavoro che viene svolto e l’importanza della dimensione dell’attenzione e dell’ascolto, percepiti come bisogno proprio ma che in realtà possono essere considerati il riflesso della richiesta dell’altro. In base a quanto esposto si potrebbe affermare che il servizio offerto da SOKOS svolge diverse funzioni, non solo di ordine “sanitario” ma più articolato e permette di rispondere a diversi bisogni. A questo punto potrebbe essere utile estrapolare alcuni aspetti dedotti da una serie di colloqui svolti con un’assistente domiciliare che si è rivolta a SOKOS per un problema di cefalea e che è stata successivamente indirizzata verso degli incontri di supporto al fine di mettere a fuoco i fattori di tipo psicosociale che possono avere giocato un 33 AeM 64 nov. 08 34 qualche ruolo nello sviluppo della sintomatologia. Il primo punto da considerare è l’estrema prudenza con la quale la signora ha affrontato i primi incontri; ciò può essere letto come necessità, da parte della persona, di essere rassicurata in merito al tipo di lavoro che verrà svolto e all’utilità e alla ricaduta che ciò può avere per lei. Ciò ha portato la persona a riportare le difficoltà incontrate nel lavoro di assistenza che sta svolgendo, difficoltà descritte nei termini di orari, di fatica fisica ma anche di tipo relazionale, sottolineando la sua percezione di “non esistenza” al di fuori del suo ruolo di aiuto; il concetto di “non esistenza” fa riferimento al vissuto di non essere considerata da parte della persona assistita nei propri bisogni e nelle proprie esigenze; dormire quando l’altro dorme, mangiare ciò che l’altro propone o permette, usare gli spazi concessi in una condizione in cui il luogo di lavoro è anche la casa della signora: sono tutti elementi che restringono lo spazio di una presenza («non vedo l’ora di avere una stanza per me anche se non ha la luce»). A questa significativa impossibilità di disporre del tempo, dello spazio e della quotidianità veniva attribuita una quota significativa del disagio e delle difficoltà vissute. Con il proseguire degli incontri, accanto alle difficoltà della quotidianità, sono emersi aspetti correlati al rapporto con la realtà di provenienza, in quanto la signora ha lasciato nel suo paese un figlio piccolo accudito dalla madre e dal padre di lei; il racconto al riguardo ha fatto emergere un altro aspetto della sua sofferenza, legato al suo ruolo di madre “distante”, alla quale viene richiesto da parte del figlio di indicare una data di rientro che lei non riesce a mantenere; questo a causa della condizione di sospensione in cui vive in attesa di una potenziale, futura e ipotetica regolarità oppure di un rientro dopo avere assicurato il proprio futuro, quello dei genitori e quello del figlio. Come si può intuire, questo rapporto con i familiari assenti è sotto certi aspetti lacerante per la sovrapposizione tra le cause e le soluzioni della propria sofferenza. A ciò si aggiunge il rapporto con i genitori che sollecitano la figlia a “resistere” all’estero ma nello stesso momento le chiedono risorse per completare alcuni progetti (migliorare la casa o ingrandirla). Sembra quindi una situazione bloccata e senza via di uscita; le uniche alternative possono essere rinunciare al progetto migratorio e rientrare nel paese di origine oppure sperare in una regolarizzazione che permetta un movimento libero in grado di favorire il ricongiungimento con i familiari o quantomeno la ricomposizione periodica delle relazioni. Da quanto descritto si evidenzia l’alto prezzo che pagano queste persone, esponendosi continuamente al rischio (minaccia) di vedere distrutto o interrotto il loro progetto; a ciò si può attribuire la loro prudenza relazionale, il loro timore di esporsi ma anche il bisogno di raccontare la propria esperienza a qualcuno che sia disponibile ad ascoltare le rotture relazionali che devono affrontare. Per il momento alla signora dell’esempio citato non rimane che cercare di “corrompere” il figlio inviando, con i corrieri che fanno la spola, molti regali e oggetti nella speranza di colmare la distanza, sostenere i propri genitori non solo per la loro sussistenza ma anche per i propri progetti; per affrontare tutto ciò non rimane che rimandare di mese in mese la soluzione, nella speranza che succeda qualcosa. Questa “quasi illusione” riesce a sostenere il loro sforzo finché il dolore della distanza non supera certi limiti; a quel punto non rimane altro che rientrare. In conclusione è opportuno richiamare l’attenzione sull’effetto della migrazione in sé e sul diverso impatto sulla salute, a seconda delle fasi e delle condizioni in cui viene affrontata. Inoltre il viaggio delle persone che migrano è carico di elementi che possono avere un effetto sulla loro condizione di salute e di benessere in generale, per cui si potrebbe sottolineare l’importanza di una attenta valutazione della complessità del rapporto tra migrazione e salute, sia nella sua dimensione trasversale (aggregazione temporanea di diversi fattori) sia nella sua dimensione verticale (successione di elementi che condizionano la salute), al fine di costruire delle risposte adeguate ai bisogni espressi e attuali, senza trasformare una dinamica complessa in una schematizzazione facile da comprendere ma difficile da applicare nella pratica. Rabih Chattat è Professore associato di Psicologia Clinica presso l’Università di Bologna e Responsabile Ricerca e Aggiornamento presso il SOKOS, associazione per l’assistenza a emarginati e immigrati di Bologna www.sokos.it BIBLIOGRAFIA E. Baken, A. Bazzocchi, N. Bertozzi, C. Celeste, R. Chattat, V. D’Augello, L. Marchetti, M. Palazzi, E. Prati, C. Reali, C. Ranieri, F. Righi, E. Sukaj, P. Vitali, La salute maternoinfantile degli stranieri e l’accesso ai servizi. Analisi qualiquantitativa nel territorio cesenate, in «Quaderni acp», vol. 14, n. 2, 2007, pp. 56-60 R. Chattat, La lunga transizione dei migranti, in «Animazione sociale», n. 2, 2007, pp. 27-34 A.M. Kamperman, I.H. Komproe, J.T.V.M. de Jong, Migrant mental health: a model for indicators of mental health and health care consumption, in «Health Psychology», n. 26, vol. 1, 2007, pp. 96-104 N. Leduc, M. Proulx, Patterns of health services utilization by recent immigrants, in «Journal of immigrant health», vol. 1, n. 6, 2004, pp. 15-27 A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002 H.P. Uniken Venema, H.F.L. Garretsen, P.J. Van der Maas, Health of migrants and health policy, the Nederlands as an example, in «Social Science and Medicine», n. 6, vol. 41, 1995, pp. 809-818 I n this article the author highlights the relationship between health and immigration, in reference to the concepts of a transversal viewpoint (which involves biological-genetic, cultural, social and economic factors) and a vertical viewpoint (psychological stress). In this framework the association SOKOS gives medical and psychological support to immigrants living precariously; these activities have their foundation in the belief that social, cultural and economic conditions have a big influence on the health of immigrants. Fondazione europea per la Genetica di Serena Paterlini L a Fondazione europea per la Genetica è una ONLUS creata nel 1995 da un gruppo di ricercatori già coinvolti nello sviluppo di attività legate alla European School of Genetic Medicine, scuola nata nel 1988 per iniziativa dei professori Victor A. McKusick e Giovanni Romeo, e considerata fonte scientifica e ideologica della fondazione. Sin dalla sua nascita, l’obiettivo primario della fondazione è la promozione scientifica e professionale di giovani genetisti europei con particolare attenzione alle applicazioni nel campo della medicina preventiva. I corsi della European School of Genetic Medicine, gestiti dalla fondazione, offrono a giovani scienziati provenienti da tutto il mondo la possibilità di acquisire nuove competenze in un contesto multiculturale e di grande spessore scientifico. Sin dal 2002, con l’assegnazione da parte della Commissione europea di fondi nell’ambito del progetto EUMEDIS, la fondazione, mettendo a disposizione il proprio bagaglio culturale-scientifico e la sua expertise, ha creato un ampio network (laboratori, ospedali, centri di ricerca, dipartimenti universitari) nell’area Mediterranea del mondo e, al contempo, ha dato il via a un progetto triennale di formazione a distanza rivolto a medici e ricercatori mediorientali specializzati in genetica medica, impossibilitati per varie ragioni a partecipare a dei corsi organizzati in Italia. Di fatto, la peculiarità di questi corsi denominati “ibridi” consiste nella possibilità di poter seguire via internet da un laboratorio, da un centro di ricerca, dal dipartimento di un ospedale (remote training centres) un corso che è realizzato presso uno dei due centri di formazione (main training centres) di cui la fondazione dispone (il Centro universitario euromediterraneo sito a Ronzano (Bologna), e il Centro universitario sito a Bertinoro di Romagna). La denominazione “ibrido” è strettamente legata alla natura stessa del corso, un mélange perfetto tra formazione frontale e e-learning. Di fatto, i corsisti di un corso ibrido, pur non essendo fisicamente in Italia, possono, grazie ad un semplice collegamento internet, partecipare alle sessioni didattiche previste dal corso residenziale, interagire online con i docenti per eventuali chiarimenti e approfondimenti durante la “questions and answers session” prevista alla fine di ogni sessione mattutina, e allo stesso tempo prendere parte ai laboratori pratici che il direttore del RTC, ha organizzato in loco. Dal 2004, dunque, la fondazione ha attivato una vera e propria rete di remote training centres in varie aree del Mediteranneo e del Mediorente (Tunisia, Iran, Egitto, Marocco, Algeria, Slovenia, Spagna, ecc.) e la partecipazione media ad ogni corso ibrido è di 3 RTC e più di 70 studenti. La scelta della fondazione di creare partenariati con l’area mediterranea e dei Paesi ACP nasce dalla volontà di incoraggiare, attraverso il dialogo scientifico, l’analisi delle implicazioni sociali, etiche e legali legate alle scoperte genetiche. La creazione di un network di RTC dislocati in vari Paesi mediterranei offre la possibilità a moltissimi ricercatori e soprattutto ricercatrici, di usufruire di corsi altamente professionalizzanti e utili nella loro attività di ricerca. La fondazione ha inoltre in attivo, accanto ai partenariati legati all’Educazione allo Sviluppo, una serie di progetti di cooperazione internazionale finanziati dall’Unione europea e dal Ministero degli affari esteri, volti a rafforzare la comunità euromediterranea dei ricercatori nell’ambito della ricerca clinica e molecolare rivolta alla talassemia e alle emoglobinopatie correlate e alla oncogenetica. Grazie ai progetti avviati e al network legato ai corsi ibridi, più di 800 studenti e ricercatori di vari Paesi mediterranei hanno potuto accedere a una formazione elevata e specifica, senza dover abbandonare il proprio Paese continuando a fare ricerca. La Fondazione europea per la Genetica ha dunque fondato sul dialogo interculturale scientifico la sua specificità, operando non solo nell’ambito dell’educazione frontale e in quella a distanza e nella progettualità internazionale, ma anche attraverso la realizzazione di eventi destinati a un pubblico non solo di formazione scientifica. Il public under standing è di fatto uno dei nuovi fronti di azione della Fondazione; attraverso l’organizzazione di festival, dibattiti, conferenze concernenti le malattie genetiche, si cerca un contatto con la cittadinanza. L’importanza di tali iniziative è senza dubbio legata alla necessità di sensibilizzare i non addetti ai lavori, di renderli partecipi delle scoperte scientifiche, di rendere fruibile e accessibile una materia complessa e articolata, di creare un ponte concreto tra scienza e società, tra cittadinanza e ricerca. ESPERIENZE 13 anni di ricerca scientifica, formazione e cooperazione internazionale 35 AeM 64 nov. 08 DOSSIER Una sfida per il futuro 36 l’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà Sintesi della presentazione ufficiale di Aldo Morrone e Ottavio Latini a cura della redazione L a visione particolare del mondo e la percezione di salute e della malattia sono definite dalla cultura, dalla scienza e dalla conoscenza. Il singolo interpreta la propria situazione nelle forme basate sulle conoscenze della propria cultura, trasmessa e derivante dalla vita di tutti i giorni, con riti e riti e modi differenti. Da questa conoscenza, ogni gruppo sviluppa ciò che sembra essere più utile per il proprio benessere e lo trasforma in tradizione. Le diverse classificazioni sono fatte secondo conoscenze diverse e l’unione della medicina complementare e di quella convenzionale produce situazioni complesse. Oggi, abbiamo l’affascinante compito di leggere e sviluppare queste conoscenze, per il nostro futuro e quello dei nostri bambini. Nei prossimi 25-30 anni, la popolazione del nostro pianeta crescerà enormemente. Secondo la maggior parte delle stime, la popolazione mondiale aumenterà di più di 2,7 miliardi di persone, pari a quasi il 50 per cento della popolazione attuale. Entro 25-30 anni, la produzione alimentare mondiale dovrà raddoppiare, con energia e produzione industriale da triplicare. Nei Paesi in via di sviluppo, queste risorse dovranno essere quadruplicate per adeguarsi all’aumento della popolazione. Secondo le tendenze attuali, questo sviluppo economico condurrà a un ulteriore degrado ambientale e delle risorse: con un progressivo aumento dell’inquinamento dell’atmosfera, e il conseguente deterioramento dello strato di ozono e l’intensificazione dell’effetto serra. Aumenteranno inquinamento dell’acqua, disboscamento, impoverimento del terreno e perdita della biodiversità. In questo quadro, i rischi di danno alla salute aumenteranno drammaticamente, in particolare nei paesi tropicali e in quelli in via di sviluppo. Le malattie, particolarmente quelle correlate alla distruzione dell’ambiente, si trasmetteranno più facilmente in una popolazione di più di 8,5 miliardi, fra cui più di 7 miliardi vivranno nelle zone meno sviluppate del mondo. Che cosa si può fare di fronte a queste prospettive? Lo squilibrio fra i paesi sviluppati e quelli così chiamati “in via di sviluppo” può essere visto a tutti i livelli, compresi quelli sanitari e scientifici. A livello internazionale, l’unica alternativa possibile è offerta dallo lo sviluppo sostenibile. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) già aveva cominciato, a metà degli anni Settanta, la campagna “l’anno 2000, salute per tutti”. Avendo superato tale data, l’impossibilità di realizzare gli obiettivi inizialmente definiti, malgrado l’impegno delle organizzazioni internazionali, è stata provata. Sarà necessario introdurre miglioramenti culturali e scientifici se realmente vogliamo universalmente “la salute per tutti”. Il Sistema sanitario nazionale e l’immigrazione in Italia Il Sistema sanitario nazionale (SSN) italiano è stato istituito nel 1978 (legge n. 833 23 dicembre, 1978) per garantire l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini senza distinzioni di sesso, residenza, età, reddito e lavoro. È fondato su due principi di universalità (tutti i cittadini sono uguali e hanno gli stessi diritti) e di accessibilità. Dall’inizio degli anni Novanta il SSN ha subito un processo della decentralizzazione, conferendo una progressiva maggior autonomia alle regioni. Di conseguenza, attualmente il SSN funziona su un livello centrale e uno regionale, con diverse responsabilità. A livello centrale lo Stato ha la responsabilità di assicurare il diritto alla salute a tutti i cittadini attraverso un sistema di garanzie costituzionali e attraverso la fornitura dei Livelli essenziali di assistenza (LEA). A livello regionale, le regioni hanno la responsabilità diretta sul loro territorio di rendere possibili gli obiettivi di salute del paese. Le regioni hanno competenza esclusiva nell’applicazione, nella regolazione e nell’organizzazione dei servizi e delle attività, tese alla salvaguardia della sanità pubblica. L’accesso al SSN per gli stranieri è regolato dal Decreto legislativo del il 25 luglio 1998 - Testo Unico sull’Immigrazione, così come dalle modifiche relative, quali il Decreto presidenziale 394/1999 di DPR 334/04 e di DPR 394/88. La circolare 5 del Ministero della Salute completa la riforma e l’aggiornamento delle regole permettendo l’accesso normale ai servizi preventivi, curativi e rieducativi nazionali del sistema sanitario da parte dei cittadini stranieri, presenti regolarmente o irregolarmente in Italia. Il DPR 334/04 art. 42 del Testo Unico sull’Immigrazione specifica che il SSN è garantito nel caso in cui il permesso di soggiorno sia estinto ma in fase di rinnovo, prima dell’introduzione di tale modifica il migrante con il permesso di soggiorno scaduto non aveva più diritto al SSN. In particolare, gli articoli 34 e 35 sottolineano che tutti gli stranieri iscritti e non al SSN hanno il diritto alla salute. - Articolo 34: “Assistenza sanitaria per gli stranieri iscritti al SSN”. Gli stranieri hanno l’obbligo di registrarsi al SSN con la conseguenza di avere parità di trattamento e gli stessi diritti e funzioni di qualunque altro cittadino italiano. - Articolo 35: “Assistenza sanitaria per gli stranieri non iscritti al SSN” che vivono sul territorio nazionale ma che non sono in regola con le leggi relative all’entrata e alla residenza legale, possono usufruire del trattamento urgente in ospedale o di tutti i trattamenti urgenti di base, comprendenti anche le lunghe degenze in ospedale per malattie o lesioni accidentali o come applicazione di protocolli di medicina preventiva volti a salvaguardare la salute dell’individuo e della collettività. Secondo la legislazione attuale, dunque, tutti gli italiani e gli immigrati regolari possono avere libero accesso ai servizi forniti dal SSN, qualunque sia la loro situazione economica. Un contributo di spesa può essere chiesto per l’elargizione di determinati servizi e farmaci. Gli immigranti illegalmente presenti sul territorio nazionale possono ottenere l’assistenza medica da un centro del SSN, se vengono identificati e forniti di un codice STP (Straniero Temporaneamente Presente). Secondo la norma vigente, uno straniero privo di documento di identificazione deve fornire soltanto il suo nome, la data di nascita e la nazionalità per ricevere un numero STP. Il documento STP permette, in questo modo, il libero accesso ai servizi e alle medicine essenziali quando il paziente si reca a un centro del SSN. Il documento STP deve essere rinnovato ogni sei mesi. INMP. Persone migranti e impoverite al centro: una rete nazionale per assistenza, ricerca e formazione Le persone migranti e impoverite sono i protagonisti, troppo spesso trascurati dalle Istituzioni, a cui vuole rivolgersi l’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà (INMP). Esso eredita l’esperienza e rappresenta il consolidamento dell’attività della Struttura complessa di Medicina preventiva delle Migrazioni, del Turismo e di Dermatologia tropicale dell’Istituto dermosifilopatico Santa Maria e San Gallicano, operante dal 1985 nel quartiere Trastevere a Roma, ma affonda le sue radici nel lontano 1725, quando papa Benedetto XIII fondò un ospedale, per accogliere e curare i malati di Roma e i pellegrini che giungevano nella città da tutta Europa, specialmente i poveri e gli esclusi affetti da malattie della pelle, in particolare la lebbra e la scabbia. In linea con l’ispirazione originaria, e in risposta a concreti principi etici, è iniziata negli anni Ottanta un’attività di accoglienza e cure gratuite dedicate alle persone più deboli ed emarginate, italiani e immigrati, a rischio di essere escluse dall’accesso alle cure sanitarie a causa della povertà, dell’ignoranza, o a causa di problemi con la legge. Oltre alla specifica attività clinico-scientifico-epidemiologica, l’opera professionale è stata offerta, con un approccio rispettoso e accogliente, avvalendosi della preziosa esperienza di mediatori linguistico-culturali. Il percorso formale per la costituzione dell’INMP parte dall’adozione di un protocollo d’intesa, il 7 settembre 2006, fra il Ministero della Salute, la Regione Lazio, la Regione Puglia, la Regione Sicilia, e gli Istituti Fisioterapici Ospitalieri per la costituzione del “Centro di Riferimento nazionale per la Promozione della Salute delle Popolazioni migranti e il Contrasto delle Malattie della Povertà”, che dava mandato al prof. Aldo Morrone, Direttore della struttura di Medicina Preventiva delle Migrazioni, del Turismo e di Dermatologia Tropicale dell’IRCCS Istituto dermosifilopatico Santa Maria e San Gallicano di Roma, di promuovere e avviare tutte le procedure necessarie alla realizzazione del Centro. L’INMP si propone di costruire in breve tempo una rete L’INMP è articolato in: Una sede nazionale a Roma, in via di San Gallicano 25/a (www.inmp.it) Tre Centri Regionali, riconosciuti con provvedimento del Ministero della Salute: - Regione Lazio, la Struttura di Medicina Preventiva delle Migrazioni, del Turismo e di Dermatologia Tropicale dell’IRCCS Istituto Dermosifilopatico Santa Maria e San Gallicano di Roma; - Regione Puglia, parte dell’Azienda Ospedaliera Civile “Tatarella “ di Cerignola (FG); - Regione Sicilia, parte dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni di Dio di Agrigento. nazionale, sviluppando un rapporto di collaborazione con altri sistemi sanitari regionali interessati a promuovere la salute delle popolazioni migranti presenti sul loro territorio e a contrastare l’insorgenza delle malattie correlate alla povertà, che affliggono le persone a rischio di emarginazione sociale. Le strutture socio-sanitarie regionali dovranno lavorare in stretta collaborazione con i servizi territoriali, le ASL, i centri di ricerca scientifica e le associazioni del terzo settore e dovranno venire incontro alle esigenze sanitarie degli operatori del turismo, dei missionari, dei viaggiatori da e per i Paesi tropicali, fornendo visite specialistiche e informazioni sanitarie aggiornate per la prevenzione delle malattie più comuni delle regioni tropicali, le patologie della povertà, le persone a rischio di esclusione sociale e gli immigrati. In questi ambiti, dovrà essere perseguita l’eccellenza nella prevenzione, la diagnosi, l’assistenza, la ricerca e la formazione riguardo alle malattie prevalenti nelle popolazioni target dell’azione dell’istituto, in un’ottica di inclusione e di integrazione. Altro obiettivo è colmare il gap di formazione specialistica degli operatori socio-sanitari che vengono a contatto con la popolazione migrante finalizzata all’approccio interculturale, nella tutela della salute degli immigrati, richiedenti asilo, vittime della tratta, senza fissa dimora e nomadi, e per il contrasto delle patologie della povertà, individuando modelli di intervento per il corretto e tempestivo accesso ai servizi sanitari regionali, con rispetto delle diverse identità culturali, con accreditamento ECM. Si tratta di costruire un intervento di sostegno formativo che si avvalga del contributo di esperti nel settore della medicina delle migrazioni e del contrasto alle patologie della povertà, al fine di costruire con gli operatori socio-sanitari locali un percorso di educazione, prevenzione, diagnosi e cura adattato a un contesto multiculturale. È infatti necessario definire un percorso per la ricostruzione della storia clinica di persone in condizioni di criticità, dei possibili interventi a breve e medio periodo, avvalendosi anche del contributo di staff multiculturali in cui inserire mediatori linguistico-culturali. Tali figure professionali devono essere formate ad hoc al fine di poter interagire positivamente con gli operatori sanitari e le strutture sanitarie locali. Inoltre occorre curare la formazione degli operatori socio-sanitari locali nel ricono- 37 AeM 64 nov. 08 scimento delle condizioni delle persone vittime di tortura, che possono richiedere lo status di rifugiati, utilizzando una adeguata metodologia di raccolta dei dati anamnestici. Lo scopo fondamentale dell’INMP per i prossimi anni sarà inquadrare in un’esperienza interdisciplinare, che non risponda solo ai bisogni, ma sia capace di anticiparli in questi tre obiettivi: ricerca clinica, formazione, ricerca. 1. Ricerca clinica e promozione della salute - L’attività di ricerca clinica dell’INMP è strettamente connessa e integrata con l’attività di assistenza svolta dai Centri Regionali di Riferimento. - Interventi di promozione, diagnosi precoce, cura e follow up dei pazienti migranti, richiedenti asilo, vittime della tratta, senza fissa dimora e nomadi per le patologie dermatologiche tropicali, le principali malattie sessualmente trasmissibili, le patologie polmonari, gastroenterologiche, dismetaboliche, urologiche, odontoiatriche, oculistiche e oncologiche con visite preventive nelle diverse specialità. - Varo di uno specifico programma di prevenzione del cervico-carcinoma, vista l’accertata correlazione fra alcuni ceppi del virus HPV e il cancro della cervice uterina. - Esecuzione previo consenso informato della sierologia per HIV e MST e delle analisi ematologiche per le anemie carenziali. - Inserimento temporaneo nel SSR degli stranieri non in regola mediante l’attribuzione di un codice STP e percorso guidato per gli stranieri ascrivibili al SSR. Ma anche sostegno psicologico, antropologico e di educazione sanitaria con rispetto delle diverse culture nei confronti di migranti, richiedenti asilo, ecc. 2. Formazione - Nel concreto, l’INMP si avvarrà del contributo di esperti nel settore della medicina delle migrazioni e del contrasto alle patologie della povertà, al fine di costruire con gli operatori socio-sanitari locali un percorso di educazione, prevenzione, diagnosi e cura, adattato a un contesto multiculturale. Punto centrale del modello di intervento sanitario proposto dall’INMP è definire un percorso per la ricostruzione della storia sanitaria di queste persone, delle loro condizioni di criticità, dei possibili interventi a breve e medio periodo, avvalendosi anche del contributo di staff multiculturali, con l’inserimento di figure specifiche, quali i mediatori linguistico-culturali. - Corso internazionale di medicina transculturale, consistente in 6 seminari di un giorno e con cadenza mensile. Medici, ricercatori, antropologi, sociologi, rappresentanti di amministrazioni pubbliche, scuola, volontariato, enti locali, associazioni italiane e straniere, si confrontano su percorsi di ricerca e di formazione nell’ambito della promozione della salute e dell’integrazione sociale. - Attivazione di uno staff multidisciplinare e interculturale per la realizzazione dell’attività di accoglienza, orientamento, educazione sanitaria e il sostegno durante l’iter diagnostico-terapeutico. Nella sede nazionale dell’Istituto sono previsti 25 mediatori linguistico-culturali impegnati a rotazione nel corso dell’anno; si procederà alla progettazione del percorso formativo dello staff di mediazione anche presso le sedi regionali di Sicilia e Puglia. 38 3. Ricerca - Terzo settore di eccellenza dell’Istituto è quello della ricerca. In quest’ambito, spicca la collaborazione avviata con l’OMS – in particolare con l’Ufficio europeo per gli Investimenti per la Salute e lo Sviluppo, con sede a Venezia – focalizzata sul tema “salute e povertà”. Sono, inoltre, già attivi progetti come la promozione di una linea di ricerca multicentrica con l’International centre for migration and Health/OMS di Ginevra sul diabete delle popolazioni migranti in Europa, una piattaforma congiunta con il Centro nazionale AIDS (Istituto superiore di sanità), specificamente dedicata ad attività di prevenzione, assistenza, sperimentazione a elevata tecnologia nella lotta contro le principali malattie della povertà (AIDS, tubercolosi e malaria) secondo un approccio multidisciplinare che coniuga scienze biomediche e scienze sociali in un contesto multietnico e multiculturale. Inoltre, con Italian Dermatological Centre, fondato e gestito dall’Istituto internazionale di Scienze mediche antropologiche e Sociali, (IISMAS), è stata realizzata una convenzione per il supporto scientifico e formativo nel settore della dermatologia delle popolazioni mobili e delle malattie infettive e diffusive. Le attività in questo campo dovrebbero prevedere: sperimentazione e validazione di una serie di strumenti sistematici di riconoscimento, monitoraggio e valutazione dei bisogni di salute delle comunità di migranti e di popolazioni a rischio di povertà. Sperimentazione di modelli organizzativi e gestionali per la tutela e l’assistenza delle comunità e delle fasce fragili della popolazione italiana, con l’obiettivo di favorire la tempestività nel ricorso ai servizi e la compatibilità con l’identità culturale di tali comunità. Tra i progetti di ricerca attivati dall’INMP sono inoltre presenti l’osservazione epidemiologica per rilevare la tipologia e la frequenza della patologia riscontrabile (sia quella più comune, che quella di rara osservazione), i principali fattori condizionanti le manifestazioni patologiche e lo sviluppo di un’attività di cooperazione scientifica nazionale e internazionale, di consulenza clinica, sperimentale e di cooperazione formativa, che si attivi tramite una rete di riferimento con centri specializzati. Infine è in corso la realizzazione di pubblicazioni scientifiche che raccolgano i risultati dell’attività di ricerca e li mettano a disposizione della comunità scientifica. T he INMP (National Institute for Health Migration and Poverty) works in a multi-cultural context. Since 1985, through the help of linguistic-cultural mediators, the INMP has supported and offered medical open-source care for people in financial need and immigrants. Through its regional “office” the INMP has three main goals for the future: 1) clinical (scientific) research and the promotion of health; 2) training (professional); 3) scientific research. Chi cura la salute dei cittadini stranieri? di Giovanna Dallari, Tommaso Paganelli, Pirchia Schildkraut Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri (Don Lorenzo Milani) L a rappresentazione dello stato di salute della popolazione straniera presente in un Paese deve prendere le mosse dall’analisi e dalla valutazione delle oggettive condizioni socio-ambientali che la caratterizzano e descrivere poi il rapporto fra essa e il sistema socio-sanitario. In letteratura numerose ricerche evidenziano come le disparità di salute rappresentino una costante della nostra società. Indagare il peso dello svantaggio sociale sulla salute degli immigrati è utile per comprendere gli effetti del disagio sullo stato di salute di tutte le popolazioni che vivono in una condizione di precarietà socio-economica. Studiare la condizione di queste persone, diverse da noi ma anche fra loro, e i fattori che la determinano, significa porsi nell’ottica di possibili cambiamenti da introdurre nel sistema, per renderlo più accogliente e capace di rispondere adeguatamente alle nuove sfide poste da ciascun fruitore. La presenza dei nuovi venuti va considerata infatti come un’opportunità per riflettere sui contenuti, i metodi e le modalità organizzative abitualmente utilizzati per rispondere ai bisogni di tutti i “clienti” vecchi e nuovi; porta inoltre a ripensare le strategie di igiene e prevenzione pubblica, i programmi di educazione alla salute, le strategie vaccinali, i controlli sanitari alle frontiere e nei luoghi di aggregazione sociale. Troppo presto, forse, i Paesi occidentali hanno distolto l’attenzione dalle malattie della povertà, considerandole debellate, e ora, con altrettanta facilità, si tende a imputare ai migranti la colpa della loro recrudescenza, generando allarmismo, il diffondersi della “paura dell’untore” atteggiamenti neo-razzisti. Si parla di “Sindrome di Salgari” per indicare quell’erronea propensione dei clinici a diagnosticare, di fronte a un paziente straniero, patologie inusuali, tropicali, esotiche e mai viste prima. A questa fa da contraltare la “Sindrome da General Hospital”, che si riferisce invece alle fantasie che talvolta i pazienti stranieri hanno riguardo alle presunte qualità miracolistiche dell’ipertecnologica medicina occidentale. La medicina transculturale, invece, si pone l’obiettivo di realizzare interventi efficaci in un contesto che tenga con- to, nella relazione operatore sanitario-paziente, dei diversi substrati culturali presenti. I lavoratori immigrati sono generalmente occupati nei cosiddetti lavori “delle 5 P”: pesanti, pericolosi, precari, poco pagati, penalizzati socialmente; svolgono attività per le quali non possiedono un bagaglio professionale, assai diverse dai mestieri praticati in precedenza, quasi sempre non coerenti con i titoli di studio acquisiti; sviluppano la loro esperienza direttamente sul campo: tutto ciò spesso avviene a scapito della salute. Un ulteriore fattore di rischio è costituito dal lavoro stagionale: le aziende agricole del Sud e del Nord-Est tendono ormai ad utilizzare esclusivamente stranieri, perlopiù in condizione di irregolarità giuridica, i quali, al Sud in particolare, vengono sottopagati, costretti a vivere nei campi dove lavorano, in condizioni disumane. Corrono maggiori rischi per la salute le “assistenti famigliari” e non vanno dimenticate le vittime di tratta, persone “quasi invisibili” a tutti i servizi, oggetto di un racket transnazionale di esseri umani, il cui stato di salute si deteriora velocemente e coinvolge la cittadinanza tutta. I servizi socio-sanitari pubblici devono dunque confrontarsi con un quadro estremamente complesso, sia sul piano giuridico-amministrativo (diritto/accesso ai servizi), sia su quello sanitario e sociale (diagnosi e cura/accessibilità) e adottare un nuovo approccio, onde evitare di creare disparità a genesi istituzionale, che si vanno a sommare alle tradizionali disuguaglianze di salute. Le norme sull’assistenza sanitaria per gli stranieri Il D. L. 25 luglio 1998, n. 286 (artt. 34, 35, 36), il relativo Regolamento d’attuazione, DPR del 31 agosto 1999, n. 394 (artt. 42, 43 e 44) e la Circolare n. 5 del 24 marzo 2000, pur assicurando tutela e accesso di immigrati regolari e non ai servizi esistenti, peccano di frammentarietà e disorganicità, fondandosi su una filosofia improntata ad una visione globalmente negativa del fenomeno, identificando l’immigrato come mera forza lavoro. I decreti flusso degli ultimi anni, lungi dall’essere strumenti funzionali ad un auspicabile processo di costituzione di una società armonicamente ibrida, hanno causato un aumento di irregolarità e di nuovi ingressi di lavoratori “in nero”, mentre la mancanza del permesso di soggiorno, l’attesa del rinnovo o di ricongiungimento famigliare, spesso rilasciati già scaduti, determinano una sorta di “precarietà giuridica” che ha ri- DOSSIER Attualità e prospettive per l’inclusione dei cittadini stranieri nei servizi socio-sanitari 39 AeM 64 nov. 08 Castel Sant’Angelo, Roma 2007. Foto di Sarah Klingeberg 40 percussioni profonde su vari ambiti della vita delle persone straniere, inclusi l’accesso al lavoro e alla salute. Le date di rilascio, infatti, possono interferire con il rinnovo del contratto di lavoro o dell’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, con conseguente perdita del proprio medico di Medicina generale, producendo effetti diretti sulla salute della persona, in termini di ansia e insicurezza, ma anche ostacolando l’accesso ai servizi, la continuità assistenziale e quindi l’effettiva autotutela della salute. Fermo restando che a tutti gli stranieri presenti sul nostro territorio sono garantiti i ricoveri urgenti, si distinguono gli stranieri regolarmente presenti dagli stranieri privi di titolo di soggiorno (Straniero temporaneamente presente - STP). Le criticità nell’accesso ai servizi dei neocomunitari (rumeni, bulgari) sono sostanzialmente sovrapponibili a quelle degli utenti extracomunitari; anzi, il recente cambiamento del loro status giuridico ha paradossalmente determinato alcune difficoltà interpretative che li hanno penalizzati, come nel caso della Bulgaria e della Romania. La cittadinanza italiana è fondata sul principio dello jus sanguinis e può essere concessa ai nati in Italia dopo il compimento del diciottesimo anno, nel caso ricorrano i requisiti. Ciò ha riflessi diretti sulla salute dei minori, che usufruiscono del Servizio sanitario solo in quanto “figli di lavoratori, pensionati o disoccupati” e, a 18 anni, possono restare in Italia solo se lavorano o studiano. I minori stranieri non accompagnati hanno diritto di ricevere protezione, assistenza e prestazioni sanitarie, di essere iscritti a scuola, di non essere espulsi, di ottenere un permesso di soggiorno. Infine anche il complicato iter per il riconoscimento dei titoli di studio, che limita fortemente la mobilità sociale, e l’impossibilità di partecipare attivamente alla vita politica locale attraverso il voto alle elezioni amministrative, costituiscono altrettanti fattori di disagio, che favoriscono una perdita di salute. La salute dei migranti: alcun dati Le persone che giungono nel nostro paese sono, in misura importante, già selezionate dalla famiglia e dalla comunità nel paese di origine per le loro caratteristiche positive. Si tratta perlopiù di persone giovani, determinate, dotate di capacità organizzative e di adattamento, preparate ad affrontare anche situazioni di forte disagio, in possesso dunque di un rilevante patrimonio di salute sia sul piano strettamente fisico, che su quello psichico; questo fenomeno prende il nome di “effetto migrante sano”. Non va tuttavia sottovalutata l’importanza del “bagaglio di malattia” che gli immigrati portano con sé; ogni intervento sanitario infatti, sia esso di carattere individuale che collettivo, non può prescindere dalla conoscenza, e conseguente valutazione, di una storia clinica e culturale, che costituisce un altro importante determinante di salute. Le patologie endemiche; le condizioni socio-sanitarie e lo stato vaccinale dei paesi di provenienza; le concezioni, sia collettive che individuali, relative alla salute e alla sua salvaguardia; l’offerta, spesso assai diversa, di servizi sanitari e il conseguente rapporto che le persone sono use ad avere con essi, connotato da sentimenti di subalternità piuttosto che da fiduciosa richiesta di un servizio dovuto, gli esiti di eventuali interventi rituali invalidanti, vissuti come identitari, considerati invece in Occidente in maniera assai critica e negativa costituiscono un importante ambito da indagare e valutare prima di mettere in campo azioni sulla salute collettiva o individuale.1 Altro dato recentemente condiviso è l’arrivo di persone affette da lebbra in fase florida (si tratta perlopiù di emigrati italiani che rientrano da paesi del Sud America), che non viene diagnosticata, perché ormai scomparsa e quindi non più studiata dai medici nel nostro paese, così come non viene considerato il fatto che giungono persone dalla Nigeria dove è diffusa la poliomielite, ma non altrettanto la vaccinazione, e per- tanto questi potrebbero essere serbatoi di virus da strada, potenzialmente infettanti. Studi recenti dimostrano come, dopo un intervallo di benessere che va da 3 a 6 mesi, il patrimonio di salute venga rapidamente dilapidato a causa delle inadeguate condizioni socio-lavorative. Il viaggio e il primo insediamento avvengono, quasi sempre, in estrema scarsità di risorse e tutele e determinano a volte l’insorgenza di quadri patologici più o meno gravi. I più comuni sono le malattie respiratorie, quali bronchiti ricorrenti, asma e broncopolmoniti, dovute al dormire spesso all’aperto; le malattie infettive e parassitarie, quali scabbia e diarrea; le patologie dell’apparato osteo-articolare, dovute a lavori pesanti e mancanza di un letto per dormire e infine patologie più subdole e gravi come la TBC, nei soggetti geneticamente predisposti. Nell’ambito lavorativo, i motivi culturali, la spinta economica e la volontà di compiacere colleghi e datore di lavoro portano la gran parte degli stranieri a sottovalutare e non applicare i dispositivi per la sicurezza. L’irregolarità di presenza poi, costringe al lavoro nero e corrisponde a una invisibilità per i servizi di formazione, di controllo e di prevenzione e porta spesso anche a un mancato accesso ai servizi sanitari in caso di infortuni. Tutte le condizioni suesposte concorrono a determinare le capacità di valutazione della propria condizione reale di salute, la consapevolezza del diritto ad essa attestato dalle normative, ma soprattutto le aspettative e la reale attitudine a tutelare la propria salute come unico bene e patrimonio. Solo da qualche anno si sono raccolti elementi utili a descrivere il profilo di salute della popolazione immigrata in Italia; i primi dati, molto simili a livello nazionale e delle diverse realtà indagate, hanno evidenziato una forte tendenza a sviluppare affezioni conseguenti a regimi e stili di vita poco salutari. Analizzando i dati riguardanti gli accessi degli immigrati ai servizi sanitari, emerge una forte richiesta di cure per affezioni acute, ma una scarsa adesione agli interventi di base, alla prevenzione e alle cure a lungo termine. Si rileva ovunque un ricorso ai servizi di emergenza-urgenza per patologie non gravi – comportamento comune anche a molti italiani – anche perché sono servizi più conosciuti rispetto ai servizi territoriali; questi ultimi comprendono sia la medicina di base, sia i servizi consultoriali che, soprattutto in città, sono in molti casi difficilmente accessibili per la scarsa compatibilità in termini di orario di apertura. Da studi recenti effettuati in Emilia-Romagna, emerge come siano le donne immigrate ad aderire meno ai vari programmi di prevenzione proposti dalle AUSL – mammografie o PAP-test per la prevenzione dei tumori della sfera femminile – ai quali aderisce il 50-60% delle donne Italiane e solo il 30-35% delle donne immigrate, percentuale questa sicuramente ancor più bassa, se si considerano le donne presenti ma non residenti e perciò non conosciute dai servizi; risulta specificamente esclusa da questo tipo di interventi una popolazione particolarmente a rischio per l’età: la grande coorte delle assistenti famigliari, sia regolari che irregolari. Gli studi sulla applicazione dei diritti di tutela della maternità evidenziano come siano le donne precarie immigrate, impiegate in lavori stagionali e pesanti, ad essere meno tutelate, fino a dovere scegliere fra la dimissione volontaria dal lavoro e la interruzione volontaria della gravidanza. Stanno fra l’altro emergendo anche questioni relativamente inedite, quali il ricorso ripetuto all’IVG (interruzione volontaria di gravidanza)2 e la violenza intra-familiare – da intendersi sia in termini di abuso vero e proprio, che di impedimento alla realizzazione di sé al di fuori della famiglia. Nell’anno 2004 a Bologna, tra le prime venti cause di dimissione dai reparti ospedalieri il 35,3% faceva riferimento all’evento nascita e alla salute riproduttiva della donna. Al primo posto si trovavano le interruzioni di gravidanza (15%), episodi legati al parto fisiologico (10%) e al parto con taglio cesareo (3%); seguivano, al quarto posto, le patologie legate alla salute mentale. Ad Arezzo il 54% delle straniere si ricovera in ostetricia e ginecologia, contro il 15% delle italiane. Al secondo posto nella domanda si posiziona la chirurgia generale con il 13% di ricoveri per le straniere e il 18% per le italiane. Confrontando i primi 20 DRG,3 riferiti ai ricoveri di minori, le malattie da raffreddamento (polmonite semplice e pleurite, bronchite e asma) si trovano al secondo e terzo posto nei ricoveri di minori provenienti da Paesi in via di sviluppo, che sono invece solo al nono e decimo posto per gli italiani; i neonati a termine con affezioni maggiori e quelli con affezioni significative si trovano tra i primi sei DRG se stranieri, mentre sono al tredicesimo e sedicesimo posto se autoctoni; le malattie dell’apparato digerente, caratteristiche della popolazione immigrata, occupano il primo posto tra i ricoveri dei minori stranieri e il secondo tra quelli degli italiani. È ben dimostrata la tendenza a sviluppare obesità e ipertensione delle minoranze etniche e degli immigrati,4 con un conseguente alto tributo di malattie cardiovascolari, in contrasto con la bassa prevalenza al paese di origine. Queste patologie sono talmente estese, che si possono spiegare per tutte le provenienze con il cambiamento nel regime alimentare che avviene con la migrazione e con l’adozione di stili di vita poco salutari all’arrivo, oltre che ai diversi fattori di discriminazione socio-culturali.5 In uno studio di recente pubblicazione (Dallari, Gualdi et al. 2008), condotto fra i membri di varie comunità di immigrati presenti nei comuni di Bologna e Palermo, si è valutato il rapporto fra obesità e esposizione al rischio di affezioni cardiovascolari, riscontrando che le percentuali di sovrappeso/obesità sono simili a quelle della popolazione italiana6 per i maschi, ma più alte nelle donne straniere (43,2% vs 45,8% maschi; 59,1% vs 33,6% femmine); le varie nazionalità presentano prevalenze e profili diversi e, in ogni caso, tutti i gruppi hanno una prevalenza – e quindi un rischio – più alta che nel paese nativo. Kossovari e Rom presentano la maggiore prevalenza e il maggior rischio e anche la popolazione senegalese mostra un brusco aumento dell’incidenza di obesità nelle donne, che si spiega anche per la valenza positiva attribuita al sovrappeso, simbolo di prosperità economica. Per quanto riguarda poi le malattie croniche, che necessitano di un’assistenza e di un follow-up continuo e accurato, come ad esempio asma e diabete, è stata dimostrata una maggiore gravità dei quadri sintomatologici, nonché una ridotta percezione e un minor controllo della malattia da parte del paziente immigrato. I programmi di gestione della malattia o di riabilitazione, che tentano di accentuare la sicurezza e il senso di responsabilità personale nei pazienti che si occupano della propria malattia, potrebbero risultare importanti nella riduzione del rischio di morte. Nel caso dell’asma è documentato un aumento del rischio 41 AeM 64 nov. 08 42 di mortalità nei soggetti adulti, che sono affetti dalle forme asmatiche più onerose. I pazienti afroamericani vanno incontro ad esiti peggiori; non è accertato se per via di un minor accesso all’assistenza o per ragioni genetiche (risposta insufficiente ai farmaci). Molti ceppi sono più a rischio dei caucasici di sviluppare diabete e pertanto grande attenzione va posta nel monitorare la possibile insorgenza di alterazioni glicemiche. La malattia diabetica è di difficile controllo per motivi culturali, religiosi e, persino, organizzativi; benché le cure siano gratuite indipendentemente dalla regolarità di presenza in Italia, è difficile ottenere la compliance dei pazienti al calendario dei controlli e al rigore per la dieta, spesso incongrua anche per motivi religiosi.7 Inoltre molte attività lavorative subalterne impediscono un accurato controllo della glicemia e l’assunzione di una razione alimentare congruente con i valori glicemici accertati al momento del pasto, nel caso del diabete insulino-dipendente. Con l’obiettivo di fare rete per far scomparire la circoncisione8 clandestina e le mutilazioni genitali femminili in Italia, è stato siglato nel 2008 un protocollo d’intesa tra il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali e la Federazione italiana medici pediatri (FIMP) che definisce i punti chiave di un network per la protezione dei bambini da questo rischio emergente, che sarà anche uno strumento per conoscere un fenomeno ad oggi poco tracciabile. Numerose leggi e direttive obbligano i datori di lavoro a fornire informazioni, formazione e mezzi adeguati agli standard di sicurezza sui luoghi di lavoro, ma la realtà delle morti bianche dimostra come sia ancora un processo formale, soprattutto per i lavoratori “in nero”, che devono anche sottrarsi ai controlli, seppur talvolta più convenzionali che formativi, che le aziende sanitarie mettono in essere e all’azione educativa del Responsabile della sicurezza. Il 9,8 % degli infortuni denunciati all’INAIL riguarda lavoratori stranieri, benché siano il 3,4% della forza-lavoro: un rischio triplo rispetto agli italiani. Ogni giorno si verificano tre morti sul lavoro: 1200 l’anno; ogni due giorni avviene un caso di infortunio mortale fra i cittadini stranieri. I decessi nel 2007 sono stati 174, con una crescita del 4% rispetto al 2006. Tra i più colpiti romeni (41), marocchini (23 morti), e albanesi (18). Questi dati non considerano una quota di sommerso non valutabile relativa ai lavoratori “in nero” e agli irregolari, agli incidenti sul lavoro che vengono passati sotto silenzio o, se gravi, denunciati come infortuni domestici al Pronto Soccorso, per evitare problemi al datore di lavoro. La migrazione non aumenta di per sé il rischio di sviluppare disturbi mentali, sono piuttosto le circostanze e le condizioni di vita che creano un contesto favorente l’insorgenza di tali disturbi; sono stati descritti invece diversi fattori esogeni di “fragilizzazione” della salute mentale nei migranti. Se la maggioranza di essi supera le difficoltà incontrate grazie alla forte motivazione del “progetto migratorio”, una parte non trascurabile va incontro a disturbi psichici. La letteratura scientifica internazionale riporta che i migranti, sia nelle prime che nelle seconde generazioni, presentano un rischio di disturbi mentali da 3 a 5 volte più elevato rispetto ai nativi.9 Sta inoltre emergendo una nuova area di dipendenze patologiche da considerare con attenzione, soprattutto tra le assistenti familiari e le seconde generazioni. Servizi generali e dedicati Nel nostro Paese vige un sistema di salute pubblico e universalistico, deputato ad assicurare le cure necessarie a tutti i cittadini residenti e presenti sul suolo nazionale; per gli immigrati l’accesso ai servizi, anche dove essi sono disponibili, è reso complesso, se non impossibile, da pastoie burocratiche e muri invalicabili di incomprensione linguistica e culturale. Il volontariato da sempre rappresenta la cartina di tornasole dei fenomeni emergenti e si pone come primo intercettatore e interlocutore delle esigenze delle popolazioni deboli. Numerose esperienze italiane riguardano l’apertura di ambulatori per stranieri irregolarmente presenti: alcuni gestiti da organizzazioni di volontariato – eventualmente convenzionati con le ASL – altri direttamente dalle aziende USL, strutture completamente indipendenti e autofinanziate. La prima risposta del sistema politico e dei servizi sanitari pubblici è stata la creazione di “Servizi dedicati”, realizzati principalmente in ambito materno-infantile, i quali ben presto si sono dotati di strumenti di supporto, quali interpretariato, mediazione linguistica e culturale, hanno prodotto molti strumenti informativi cartacei e strutturato programmi di formazione per diversi target. Sono stati creati ad esempio il Numero Verde 80663366, che risponde in sei lingue su problemi socio sanitari da diverse postazioni all’interno dell’Azienda USL di Bologna; si sono raccolti e pubblicati sul sito della medesima USL esperienze, strumenti informativi, progetti e fonti di finanziamento, addirittura moduli e altro materiale utile al miglioramento dei servizi. Si sono inoltre sperimentate modalità di formazione e comunicazione interculturale utili per cambiare l’approccio dei professionisti nei confronti dei nuovi cittadini e il reengeneering dei servizi. Da anni il settore manageriale dei servizi sanitari sta cercando di mettere a punto strumenti organizzativi idonei a rispondere in maniera univoca e esaustiva ai bisogni di una popolazione così eterogenea, riconducendo questa popolazione all’interno del sistema dei servizi generali. Nel caso specifico dell’AUSL di Bologna si è rivelata vincente la creazione di una Unità operativa semplice, cui è stato affidato il compito di promuovere, favorire, supportare, coordinare e verificare tutto il processo di cambiamento. Questa scelta ha determinato l’opportunità di lavorare in rete aziendale interprofessionale prima e interistituzionale poi. Si sono così realizzati diversi progetti di ricerca/intervento sulla salute piuttosto estesi, che hanno fatto sedere al tavolo della progettazione diversi interlocutori (professionisti e dirigenti di Comune, ULS, Volontariato, Università, Provincia, ecc.) con condivisione di obiettivi, programmi e risorse, a partire dalle fasi iniziali. È proprio il lavoro in rete la strategia principale che consente di avere una visione olistica del fenomeno e delle persone, mettere in atto attività veramente rispondenti ai bisogni, dare una risposta basata sulla condivisione delle informazioni, delle risorse e dei know-how. I professionisti di ciascuna istituzione mantengono il compito di lavorare su parti o ambiti peculiari, ma, al contempo, hanno l’opportunità di avere una visione su tutti gli aspetti e le sfaccettature del fenomeno, di individuare e colmare lacune nelle aree di competenza, come pure le sovrapposizioni, di ottenere infine finanziamenti e riconoscimenti dalla comunità scientifica e dai ministeri preposti. In questo modo si possono raggiungere risultati riguardanti il percorso nel suo insie- Castel Sant’Angelo, Roma 2007. Foto di Sarah Klingeberg 43 AeM 64 nov. 08 me: dallo studio e analisi dei determinanti, alla promozione della salute, alla diagnosi, alla cura e riabilitazione. 44 Comprensione reciproca e comunicazione con i pazienti Nella relazione medico-paziente la comprensione da parte dei pazienti stranieri è sovente ostacolata da motivi linguistici, culturali, di concezione della salute e di priorità, ma anche dalle scarse competenze dei professionisti, sia dal punto di vista linguistico, che nell’approccio relazionale. Gli strumenti per facilitare questi momenti e l’accesso ai servizi socio-sanitari generali si sono spesso rivelati scarsamente efficaci. Si tratta perlopiù di materiale informativo cartaceo non tarato sul target – che invece legge attentamente la pubblicità sui mezzi pubblici e sui giornali gratuiti – e di interventi di semplice interpretariato, spesso denominati “di mediazione interculturale”. Per comunicare, comprendere e incoraggiare l’attiva partecipazione del paziente nel processo decisionale sul trattamento da impostare, è importante assumere un atteggiamento non giudicante e esplorare con alcune domande le opinioni del paziente, solo allora il medico può fornire informazioni esaustive sulla malattia in questione e le opzioni terapeutiche disponibili, aiutando il paziente a confrontare i suoi valori e le sue preferenze con le opzioni disponibili. Comportamento questo peraltro assolutamente utile anche nei confronti dei pazienti nativi.10 Nell’ambito delle politiche locali di integrazione sociale dei migranti i mediatori interculturali esercitano la funzione di “ponte” tra diverse culture contribuendo a garantire pari opportunità e la non discriminazione.11 Si tratta, secondo la definizione formulata dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), di un «agente attivo nel processo di integrazione» che si pone «fra gli stranieri e le istituzioni, i servizi pubblici e le strutture private, senza sostituirsi né agli uni né alle altre, per favorire invece il raccordo fra soggetti di culture diverse».12 Il mediatore interculturale è un operatore sociale che facilita la comunicazione tra individuo, famiglia e comunità, favorendo la rimozione delle barriere culturali e linguistiche, la valorizzazione della cultura di appartenenza, la cultura dell’accoglienza, l’integrazione socio-economica, la fruizione dei diritti e l’osservanza dei doveri. Il mediatore opera presso istituzioni e organismi pubblici e privati, collaborando con gli operatori dei medesimi, affiancandoli nello svolgimento delle loro attività per individuare i bisogni dell’utente, negoziare le prestazioni, collaborare alla formazione di professionisti e utenti e partecipare alla programmazione, progettazione, realizzazione e valutazione degli interventi. La varietà dei contesti in cui opera e dei compiti richiedono spiccate doti personali ed elevate competenze professionali (con eventuali specializzazioni attinenti allo specifico ambito di lavoro): sono essenziali un’adeguata conoscenza della lingua italiana, della lingua madre e dei codici culturali del gruppo di riferimento, come pure il possesso di capacità comunicative, di relazione e di gestione dei conflitti. Le disposizioni sanitarie fanno riferimento al ruolo dei mediatori sia ai fini dell’educazione e prevenzione sanitaria, sia nell’ambito della loro formazione.15 Ad oggi non è ancora possibile accedere ad un servizio di mediazione “certificato” per la mancanza del riconoscimento della figura professionale del mediatore/della mediatrice interculturale a livello nazionale. Conclusioni Le disuguaglianze sociali nella salute sono dimostrate, e sono altamente costose per gli individui e per la società tutta; l’immigrazione spinge la società a ripensare se stessa, il proprio sistema di servizi e il proprio network di relazioni con vantaggi per la cittadinanza tutta; i servizi socio-sanitari e del volontariato, che si trovano in prima linea, sono gli antesignani di questo processo. La salute non migliora con l’apertura di servizi dedicati, ma piuttosto attraverso un approccio empatico, di accoglienza verso ciascun paziente, e la formazione dei professionisti; i quali affianchino ad una competenza professionale rinnovata una visione di insieme, acquisita operando all’interno di una rete interprofessionale e interistituzionale. Attori della rete devono essere tutti gli stakeholder: gli enti pubblici locali, le associazioni di volontariato e, soprattutto, i rappresentanti e i portavoce delle popolazioni target. La partecipazione dei cittadini alla progettazione sanitaria deve essere allargata agli stranieri, per creare le condizioni affinché le comunità abbiano in sé la conoscenza, le risorse e il potenziale organizzativo e di leadership per realizzare un cambiamento. La logica di costruzione del Piano per la Salute deve essere ricondotta al processo di sviluppo della “comunità competente”, secondo il quale, dietro alle dimensioni di “contesto e cultura”, è sottesa una visione del territorio come comunità di condivisione della salute nell’accezione di “bene comune relazionale” e cioè un fenomeno emergente da un’azione collettiva intesa non come somma di individui, ma delle loro interazioni. L’impegno che si prospetta ora al sistema sanitario, che si richiama ai valori propalati dall’Organizzazione mondiale della sanità come sistema di “Ospedale e Servizi Sanitari promotori di salute”, è quello di interrompere questa spirale per invertire le tendenze attuali. Giovanna Vittoria Dallari, già medico responsabile del Progetto salute migranti e indigenti dell’Azienda USL di Bologna e coordinatrice del gruppo Ospedale interculturale dell’Emilia-Romagna, membro della SIMM (Società italiana di medicina delle migrazioni), di UCODEP e di ELFO HEALTH-LAB. È docente al Master di I livello transculturale-multietnico, nel campo della salute del sociale e del welfare presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia della Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Tommaso Paganelli, sociologo, è laureato in scienze politiche e ha conseguito un Master universitario di II livello relativo al diritto d’immigrazione e alla comunicazione interculturale Pirchia Schildkraut, medico-chirurgo, esperta di medicina delle migrazioni opera presso l’Ambulatorio Biavati di Bologna per l’assistenza medica a stranieri irregolari BIBLIOGRAFIA M. Affronti, D. Carrillo, G.V. Dallari (a cura di), Modelli sperimentali per combattere le disuguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari, Medical Books, Palermo 2005 F. Balsamo, Famiglie di migranti. Trasformazioni dei ruoli e mediazione culturale, Carocci, Roma 2003 F. Bracci, G. Cardamone (a cura di), Presenze, Migranti e accesso ai servizi socio-sanitari, FrancoAngeli, Milano 2005 G. 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Manuale sui principali elementi della normativa su immigrazione, asilo e cittadinanza con elementi e riferimenti linkati - versione aggiornata al 31 agosto 2008 NOTE 1 - Una recente analisi effettuata dal Centro di malattie sessualmente trasmesse, presso il Policlinico Umberto I di Roma, evidenzia che, in seguito ad una regressione pressoché totale della sifilide in Italia, si è fortemente ridotta la reperibilità della penicillina a dosaggio per adulti; il forte aumento dei casi di sifilide fra le persone provenienti dall’Europa dell’Est, ove tale affezione è ancora endemica, pone seri problemi organizzativi per il suo trattamento. 2 - Nel 2004 su 4.682 IVG effettuate presso i presidi sanitari di Bologna, il 71,7% erano a carico di italiane, il 28,3% di straniere (di cui il 27,4% da donne provenienti da PVS). Per quanto riguarda le provenienze da PVS: Europa dell’Est: Romania (21,8%), Marocco (12,6%), Moldavia (8,6%), Cina (6,8%), Albania (4,9%), Ucraina (4,7%). I dati trovano riscontro con quelli relativi ai recenti flussi migratori che fanno registrare un incremento delle presenze di donne provenienti dall’Est Europa che diventano ancora più evidenti se si confrontano con il 2002 a ridosso della regolarizzazione. 3 - Diagnosis Relate Groups: si tratta di un sistema di classificazione dei ricoveri che fa riferimento al costo di produzione, che viene definito a livello nazionale e consente di effettuare conteggi a livello interaziendale e interregionale. 4 - Kurian and Cardarelli, 2007. 5 - Frisbie et al. 2001; è inoltre dimostrata la tendenza a consumare cibi poco salutari (es. Coca Cola, merendine, ecc.) che divengono una sorta di status simbol particolarmente economico e vengono falsamente percepiti come indicatori di integrazione. 6 - Gallus et al. 2006. 7 - Il corano non prescrive l’osservanza delle regole del Ramadan per le donne gravide, ma molte di loro ritengono importante la stretta osservanza o temono il giudizio negativo dei famigliari e si espongono al coma ipoglicemico per il prolungato digiuno. 8 - L’accordo prevede un monitoraggio attraverso una adeguata informazione nei punti nascita, negli ambulatori dei pediatri e in ogni altra struttura interessata e si accompagna a campagne di comunicazione e counselling alle famiglie che sono orientate all’intervento. I pediatri di famiglia e i pediatri dei pronto soccorso esporranno un poster che fornisca alle persone interessate informazioni circa le corrette procedure chirurgiche e le indicazioni delle strutture del servizio sanitario a cui rivolgersi. 9 - Le indagini condotte in Italia dalla Caritas e da Medici senza Frontiere mostrano come anche queste problematiche di salute siano lega- 45 AeM 64 nov. 08 te alla fragilità sociale, allo scadente status socio-economico e al basso livello di integrazione nella società di accoglienza. In aumento sono i casi di disagio mentale connesso alle difficoltà e agli insuccessi della migrazione, alla solitudine, alla nostalgia di casa; nel breve e medio periodo si rivelano anche casi di persone con “traumi da sbarco”. 10 - Numerosi studi indicano infatti con chiarezza che i medici dovrebbero aumentare le loro capacità di riconoscimento dei propri stereotipi inconsci anche nei riguardi dei pazienti autoctoni. Alcune strategie possono essere utilizzate per ridurre l’impatto di questi “errori di giudizio”: è compito fondamentale degli operatori riconoscere e fare proprie le modalità di comunicazione dei loro assistiti per evitare che essi si sentano “interrogati” o offesi, fino a contrapporre un atteggiamento di chiusura nei confronti del medico. 11 - “Mediatore culturale”, “mediatore linguistico-culturale”, “mediatore di madrelingua”, “tecnico esperto in mediazione”…: la varietà delle definizioni, la frammentazione e disomogeneità delle diverse proposte di profilo formulate da Enti territoriali e Enti locali per la stessa figura professionale. La dizione “mediatore interculturale” risponde maggiormente al profilo personale e professionale affermatosi in questi ultimi anni, che sottolinea la via italiana all’integrazione che - ai diversi livelli educativo, lavorativo, giuridico-amministrativo e a quello socio-sanitario si è progressivamente definita nella prospettiva interculturale, ovvero nella promozione del dialogo e del confronto tra le diverse culture, secondo le indicazioni formulate dall’UNESCO sin dal 1980 (UNESCO, Introduction aux études interculturelles, Paris 1980). 12 - CNEL, Organismo Nazionale di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri, Gruppo di lavoro “Politi- che per la mediazione culturale. Formazione e impiego dei mediatori culturali”, 03.04.2000, www.portalecnel.it. 13 - il Progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario, Conferenza unificata Ministero della sanità - Regioni - Aziende Sanitarie locali, al punto 7.2, contiene indicazioni alle Regioni in merito alla formazione dei mediatori e al loro utilizzo al fine di superare le difficoltà nei rapporti con i detenuti provenienti da paesi stranieri. Centro Frantz Fanon Centro di consulenza sulla relazione Associazione Shinui ESPERIENZE a cura di Silvia Festi 46 T he majority of people who reach our country pursue a precise migratory project. It is a healthy and somewhat selecte population who immigrate, but the quality of their health rapidly declines. Health problems frequently derive from a complex interaction of factors (legal barriers, social and cultural inequality...). Clinical problems are more frequently the outcome of social difficulties; they are not due to lack of health-care services but to cultural and social barriers, denying access to existing facilities. In order to study the health status of immigrants we must start by studying the medical reality of the countries they come from and their individual migratory route, avoiding the temptation to consider immigrants as “plague carriers” and bearers of “new diseases”. Il Centro Frantz Fanon con sedi a Torino, accoglie utenti immigrati, rifugiati, vittime di tortura, nomadi e richiedenti asilo che, in ragione di motivi di disagio psicologico, esprimono una domanda di ascolto, di counselling o di psicoterapia. Un lavoro intensivo è stato condotto nel corso degli anni con donne vittime della tratta, bambini immigrati e adolescenti stranieri non accompagnati e con richiedenti asilo e rifugiati vittime di violenza o tortura. In molti casi, in alternativa ad una presa in carico diretta dell’utente e/o della famiglia, si è privilegiato un intervento di collaborazione e di supervisione con le équipe curanti. Al Centro possono rivolgersi migranti indipendentemente dalla residenza o dal permesso di soggiorno. Le attività cliniche si ispirano a un approccio etnopsichiatrico che ha tratto molti dei suoi presupposti dall’esperienza del Centre Devereux Parigi e, grazie a incontri con altri centri e gruppi di lavoro (Centre Minkowska di Parigi e Ospedale di Bobigny, Naga-Har di Milano), ha elaborato modelli di lavoro e di ricerca autonomi. Il Centro di consulenza sulla relazione – Associazione Shinui con sede a Bergamo offre interventi di psicoterapia e counseling, mediazione familiare, terapie interculturali a individui (adulti e adolescenti), coppie (coppie miste e non), famiglie (migranti e non, adottive e affidatarie). Particolare attenzione è dedicata alle variabili culturali del disagio psichico, agli aspetti psicologici dei processi migratori, alle relazioni transgenerazionali, alla mediazione, all’integrazione. Il centro svolge inoltre attività di ricerca, progetti psicosociali sul territorio, supervisione e consulenze a professionisti ed équipe di lavoro, seminari e convegni con esperti di fama nazionale e internazionale. Inoltre realizza attività di formazione (Scuola di counseling sistemico pluralista di Bergamo, perfezionamento in counseling interculturale, corso di mediazione familiare, percorsi formativi e seminari anche in altre sedi su temi quali: relazione, comunicazione, conflitti, famiglia, affido, adozioni, intercultura, narrazioni, autobiografia). Il Centro intende offrire un modello pluralista considerando e intrecciando i diversi approcci delle scuole sistemiche: milanese (Boscolo, Cecchin), strutturale (Minuchin), narrativo (postmoderno) e comunicativo-umanista (Satir). Centro Frantz Fanon presso ASL 2 di Torino via Vassalli Eandi 18 - 10138 Torino e via Monginevro 130 - 10141 Torino (tel. 01170954214 – www.associazionefanon.org) Centro di consulenza sulla relazione – Associazione Shinui via Divisione Tridentina, 5 – 24121 Bergamo (tel. 035241039 – www.shinui.it) di Tatiana Di Federico e Marco Minarelli DOSSIER La salute delle donne migranti: un viaggio tra diversi mondi e modi culturali di cura del corpo P arlare della salute dei migranti pone la questione fondamentale della salute delle migranti, in quanto da sempre e in ogni società le donne hanno la funzione naturale di dare alla luce i nuovi membri e la funzione sociale di curare i corpi, attraverso pratiche e saperi tramandati di generazione in generazione. La natura sociale della cura del corpo, intesa in senso olistico come benessere interno e esterno, e dei saperi che ad essa sottendono pongono in primo luogo la necessità di analizzare da un punto di vista antropologico i concetti di cultura, corpo e cura del corpo. Cultura - Edward B. Taylor definì la cultura un insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società. Tale definizione è rimasta per anni un punto di riferimento, ma oggi ormai è messa in crisi dalla globalizzazione che impone un nuovo concetto di cultura, intesa come relazione e stratificazione di significati. La cultura diventa un percorso in continua trasformazione e ciò provoca un indebolimento dell’autorevolezza e dell’importanza degli antropologi nell’affrontare tale concetto (Parodi da Passano 2006). Corpo - Il corpo è ciò che permette all’uomo di essere un soggetto costruito sulle relazioni e sui simboli. Ciascuna cultura ha costruito un sapere specifico del corpo. Malgrado la base biologica uguale possiamo ipotizzare tanti corpi quante sono le culture: esiste una pluralità di corpi proprio perché esiste una pluralità di culture che se ne occupano, ognuna a modo proprio (Destro 2001). Le Breton (1999) afferma che l’esistenza dell’uomo è corporale e il trattamento sociale e culturale di cui esso è fatto oggetto, le sue immagini e i suoi valori ci parlano sia della persona che delle variazioni che la sua definizione e i suoi modi d’esistenza conoscono passando da una struttura sociale all’altra. Cura del corpo come sistema culturale - Tra le conoscenze tipiche di ciascuna cultura vi sono anche quelle riguardanti la cura del corpo, intesa qui in un senso olistico, ovvero non solo dal punto di vista medico, ma di un equilibrio tra benessere esterno e interno. Un ramo dell’antropolo- gia, definito antropologia medica, si avvale degli apporti dell’antropologia sociale, culturale, biologica e linguistica per comprendere meglio i fattori che influenzano la salute e il benessere, l’esperienza e la diffusione della malattia, la prevenzione e il trattamento della malattia, i processi di guarigione, le relazioni sociali di gestione della terapia e l’importanza culturale e l’uso di sistemi medici pluralistici. L’antropologia medica considera i sistemi medici dei sistemi culturali, in cui la conoscenza e le politiche scientifiche sono socialmente costruite. Nella società multietnica, in cui ogni giorno ciascuno di noi si confronta e agisce, la prassi medica deve tener conto, più di ogni altro periodo storico, di tali visioni antropologiche di cultura, corpo e cura del corpo, in quanto si relaziona con comportamenti culturali diversi da quelli locali e che condizionano i vissuti di una parte in costante crescita della popolazione italiana. Attualmente nel nostro paese sono presenti circa 3.400.000 migranti; calcolando gli irregolari è presumibile che si raggiungano (e forse si superino) i 4 milioni. La distribuzione geografica di questa popolazione coincide abbastanza fedelmente con la geografia dello sviluppo economico: 55% al nord; 30% al centro e solo il 15% al sud. Di questi nuovi cittadini circa la metà è rappresentata da Kohl o kajal, prodotto per il trucco degli occhi, tipico dei paesi africani e asiatici. Foto di Tatiana Di Federico 47 AeM 64 nov. 08 donne in prevalenza in giovane età e tradizionalmente portate a una prolificità che costituisce un elemento nuovo e rilevante per il nostro paese. Questo ha fatto sì che da alcuni anni sia diventato positivo il saldo tra nascite e morti e ciò, unito a un altrettanto positivo saldo migratorio, ha permesso la ripresa dell’incremento della popolazione che ora sfiora i 60 milioni. La società italiana è multietnica (sono infatti più di 150 i paesi da cui giungono i nuovi connazionali) e multiculturale (di seconda e ormai terza generazione), con le seguenti caratteristiche che ne derivano: “etereogenicità” dei paesi e delle culture di provenienza; “dinamicità”: se negli ultimi dieci anni i migranti sono nel complesso raddoppiati i minori sono aumentati di ben dieci volte; “strutturalità”: quella migrante è una popolazione che si sta stabilizzando. Prevalgono infatti i coniugati sui non coniugati (e ciò è indice di “progetti di vita”) e, proporzionalmente, i matrimoni misti: una delle conseguenze è il già ricordato saldo positivo delle nascite. Di particolare significato in questo scenario, e elemento imprescindibile nel determinarlo, è stato il progressivo aumento della quota attribuibile alle donne che, come ricordato, sono ormai numericamente alla pari con gli uomini e tra un po’ probabilmente li supereranno. Il ricongiungimento famigliare non è l’unica ragione di tale fenomeno, perché particolari aspetti di impiego lavorativo giocano un ruolo fondamentale: ad esempio la progressiva prevalenza degli anziani nella nostra società si è tradotta in un continuo aumento delle necessità assistenziali e in un sempre più imponente ricorso alle badanti, 5 su 6 delle quali sono attualmente straniere. Gli aspetti più significativi della cura del corpo femminile migrante A una tale complessità culturale il sistema sanitario è tenuto ad adeguarsi dando risposte articolate, che tengano conto delle diverse provenienze dei e delle pazienti, e non generiche; in particolare meritano attenzione gli aspetti di frequente pregiudizio che si ritrovano nel vissuto e nelle condizioni delle donne e dei loro bambini quali quelli riferibili alla procreazione, al controllo della fertilità e al disagio mentale. 48 La gestazione, il parto, la nascita Numericamente le bimbe e i bimbi nati da genitori di provenienza straniera superano il 10% del totale dei nati. Si tratta quindi di un numero tutt’altro che esiguo e tuttavia ancora oggi l’evento “nascita” in questi casi è caratterizzato da un’elevata esposizione a malattie e conseguenze legate alla gravidanza e al parto e dovute a una serie di fattori spesso interdipendenti: - marginalità sociale della famiglia e disagio della donna che risente della mancanza del fattore di protezione costituito dalla rete parentale del Paese d’origine; - frequente giovane età e/o multiparità della madre; - compromissioni cliniche quali anemia (per incongrua alimentazione) o infezione dell’apparato genito-urinario (spesso per mutilazioni materne); - ridotto accesso ai servizi durante la gravidanza (una recente indagine nella Regione Lazio ha evidenziato l’alta percentuale di straniere incinte in cui la prima visita avveniva dopo la 12a settimana di gravidanza). Ne risultano percentuali elevate di nati pre-termine e con basso peso neo-natale, prevalenza aumentata di nati con asfissia neo-natale, elevati tassi di mortalità alla nascita e di mortalità neo-natale precoce, nonché maggiori complicanze nel post-partum a carico della puerpera. Anche se negli ultimi tempi tali conseguenze sembrano avviarsi, almeno in alcune regioni, a un progressivo ridimensionamento, i dati generali rimangono tuttora preoccupanti e richiedono ulteriori e più appropriati provvedimenti. Interruzione volontaria della gravidanza In controtendenza rispetto a quanto si osserva in generale nella popolazione femminile del nostro paese (in pratica un calo del 40% dal 1982 al 2004) il ricorso alla IVG (interruzione volontaria di gravidanza) è in crescita tra le migranti raggiungendo ormai un 33-35% del totale; di pari passo la pluri-abortività (ossia gli aborti ripetuti) si situa per le donne migranti al 35% contro il 22% della popolazione in generale. Dalle non poche indagini svolte al riguardo è emerso che tra le prime cause comportanti il ricorso alla IVG vi sono problemi economici e l’aver già raggiunto il numero ottimale di figli. Pertanto risulta molto chiaramente come l’aborto sia considerato l’ultima ratio come conseguenza del fallimento dei metodi adottati per evitare gravidanze indesiderate e quindi dipenda della scarsa conoscenza dei mezzi per programmare la pianificazione famigliare. A questo riguardo occorre tenere presente le seguenti realtà: - nel determinare le scelte, o non scelte, di controllo della fertilità sono fondamentali le abitudini riproduttive del paese d’origine (mentre accade che praticamente in tutte le nazionalità la pillola predomini quale mezzo contraccettivo – seguono profilattico e spirale – nelle donne dell’est prevale ancora il coito interrotto); - la conoscenza dei metodi contraccettivi è, in generale, scarsa e superficiale e ciò ne comporta un uso poco frequente e spesso errato; - è gravemente carente la conoscenza della legge che disciplina in materia di controllo delle nascite (e sui diritti di cui la coppia gode al riguardo) e delle strutture in cui questa si esplica attraverso il lavoro degli operatori (circa 1/3 delle donne non conosce la regolamentazione sulla IVG). Questi rilievi, ampiamente documentati e verificabili, rischiano di essere di ben poca utilità se ad essi non faranno seguito opportuni provvedimenti, non particolarmente impegnativi ma in cui tutti credano: - diffondendo la consapevolezza nelle coppie provenienti da altri paesi della possibilità di programmare la pianificazione famigliare facendo conoscere leggi e strutture (consultori famigliari in primo luogo); - utilizzando gli “spazi giovani” per una continua attività di informazione e educazione ad una sessualità responsabile; - proponendo consulenza con specialisti a chi si rivolge al consultorio con richieste specifiche, ma anche a chi si presenti con richieste generiche; - offrendo colloqui con équipe specificatamente qualificate in occasione della richiesta di certificazione, e in particolare sui metodi anticoncezionali usati in caso di aborto ripetuto. Il disagio psicologico Benché considerati diffusi, disagio e depressione sono dif- ficilmente valutabili nella realtà perché di difficile espressione sottendendo sia sofferenze personali, sia critiche più o meno aperte alla società di accoglienza. Eradicazione, perdita della rete amicale e parentale, senso di solitudine e di inadeguatezza, difficoltà di comunicazione attraverso il linguaggio che aggrava la difficoltà ad intendersi non solo semanticamente con l’altro, povertà e marginalità sociale sono condizioni riconosciute quali cause del disagio mentale, più o meno comuni a tutti coloro che intraprendono un progetto migratorio. Le più pesantemente colpite sono soprattutto le donne che hanno conosciuto terribili esperienze di violenza e costrizione, ma anche chi, come le rifugiate politiche, non trova, a differenza di quanto accade in occasione dei ricongiungimenti famigliari, una già avviata forma di convivenza con la società di accoglienza e deve intraprendere un viaggio nel viaggio, spesso senza compagni e riferimenti certi, ma con davanti a sé un precario progetto di vita. Non sfugge al problema nemmeno chi gode di un lavoro se questo è per sua natura mentalmente usurante: in particolare disagio e depressione sembrano avere una incidenza ragguardevole tra le badanti, categoria tra le più benemerite per le famiglie italiane alla quale non si presta probabilmente la dovuta attenzione. Nel complesso il capitolo che riguarda la salute psichica della persona immigrata, di fondamentale importanza non solo per il singolo ma per la società intera e campo di applicazione dell’Etnopsichiatria, appare in una fase di impostazione metodologica ancora in cerca di una definizione più completa. Sperimentare l’ascolto per conoscere altri sistemi culturali di cura dei corpi Una buona pratica per iniziare la conoscenza di altri sistemi culturali è indubbiamente l’ascolto e la costruzione di relazioni, ovvero il porsi in una condizione di scambio con “l’altra”, ascoltandola e lasciandosi attraversare dall’alterità, sospendendo il giudizio e il pre-giuduzio. Solo in tal modo è possibile avviare uno scambio e un confronto conoscitivo sui saperi e sulle usanze che caratterizzano altre culture e modi di agire. Un esperimento in tale prospettiva è stato compiuto in un comune della Provincia di Bologna, Crevalcore, appartenente al distretto socio-sanitario definito “Pianura Ovest” e composto da altri cinque comuni (Anzola dell’Emilia, Calderara di Reno, Sala Bolognese, San Giovanni in Persiceto e Sant’Agata Bolognese). L’iniziativa ha fatto parte del progetto denominato “Intercultura ad Ovest”, realizzato dalla Cooperativa Lai-momo e consistente in una serie di azioni integrate volte a facilitare la costruzione di relazioni positive tra popolazione autoctona e popolazione migrante presente nei territori del Distretto “Pianura Ovest” e a migliorare l’accesso ai servizi e alle risorse presenti da parte dei cittadini migranti. Tra le azioni svolte, alcune sono state declinate unicamente al femminile, con l’obiettivo di coinvolgere donne migranti e native in attività di gruppo che da un lato hanno favorito l’espressione e la valorizzazione della propria identità e della cultura di appartenenza in una logica dialettica e di confronto reciproco, e dall’altro hanno gettato le basi o rafforzato le metodologie di un agire insieme verso obiettivi comuni. A Crevalcore un gruppo di circa 30 donne migranti, coor- dinato da un’operatrice italiana e da una mediatrice marocchina, è stato attivato un laboratorio di auto-narrazione sulla cura del corpo, svoltosi in 7 incontri della durata di due ore ciascuno. Il laboratorio è stato uno spazio di incontro e ascolto vissuto da donne di diverse provenienze: Marocco, Tunisia, Pakistan, Moldavia e Sudan. Al suo interno le partecipanti hanno avuto l’opportunità, attraverso la narrazione, di riappropriarsi della propria storia personale, diventandone protagoniste, e contemporaneamente di condividerla e intrecciarla con le altre. I temi trattati riguardavano la cura del corpo in senso molto generale, dai rimedi popolari per curare influenze e disturbi lievi dell’apparato respiratorio, ai metodi di cura e di bellezza collettivi in occasione di eventi importanti come la nascita e il matrimonio. Il primo elemento emerso dai racconti delle donne marocchine, tunisine, sudanesi e moldave è l’importanza centrale della rete di relazioni amicali e parentali intessuta attorno ai corpi sociali, una rete capace di aver cura e contemporaneamente di insegnare e tramandare le pratiche di cura. La presenza di una comunità allargata che non solo agisce sui corpi, per il loro benessere e la loro preparazione in momenti speciali, ma si tramanda come eredità genealogica nelle relazioni tra donne, è la differenza più evidente rispetto alla dimensione individuale della nostra società e alla spersonalizzazione dell’esperienza di cura in strutture come gli ospedali o centri per i trattamenti estetici. Si pensi ad esempio a ciò che rappresenta l’hammam (bagno turco) nei paesi musulmani, ovvero il luogo tradizionale dell’intimità, della purificazione del corpo e delle confidenze femminili, il luogo di condivisione della cura di sé (Trevisani 2006). L’hammam è qualcosa di molto diverso dai luoghi di bellezza europei e occidentali, è prima di tutto un luogo dove si celebra la sacralità del corpo e uno spazio delle possibilità di condivisione, che permette alla donna di vivere con altre passaggi emotivamente impegnativi e le offre aiuto e sostegno insostituibili (Trevisani 2006). Il secondo elemento è il legame molto stretto e il profondo rispetto per il mondo naturale, del quale le donne hanno dimostrato nei loro racconti una conoscenza approfondita delle sue proprietà e delle possibilità di usare erbe, fiori e alimenti come rimedi ai più diversi problemi. L’hennè, il latte di mucca, i fiori, l’olio di hargan, il miele, lo zucchero sono gli ingredienti delle “ricette” per la cura del corpo narrate dalle donne durante il laboratorio. Come afferma Ivana Trevisani (2006) soprattutto per le donne islamiche il primo luogo in cui si trovano gli ingredienti base per i loro prodotti è la cucina. I prodotti per trattare il corpo, in vita e nella morte, e per trattare gli spazi che i corpi abitano sono preparati naturali e tradizionali, ma sapientemente combinati e mescolati con una conoscenza empirica che ha caratteristiche di scientificità. Iniziare dalla narrazione e dall’ascolto è una buona pratica per costruire ponti tra mondi culturali diversi, ponendosi nei confronti dell’altra con curiosità e voglia di capire i suoi sistemi di pensiero e di organizzazione della realtà che la circonda. Conclusioni La società in cui viviamo evolve assumendo sempre più le caratteristiche di una società multietnica, assecondando dinamiche, da sempre esistite, che fanno sì che le popola- 49 AeM 64 nov. 08 zioni si spostino dal luogo originario in un “altrove” in cui trovare condizioni di vita migliori; obbedendo, in definitiva, ai versi di un celebre nostro conterraneo, Giovanni Pascoli, che, più o meno un secolo fa, cantava da buon romagnolo inurbatosi a Bologna «or la mia patria è là dove si vive». La presenza di migranti rappresenta, al momento, più del 6% della popolazione totale in Italia e è destinata a salire; forse è una presenza ormai irrinunciabile per la nostra economia, anche se oggetto di pulsioni, spesso alimentate ad arte, irrazionalmente ostili. La componente femminile è ormai numerosissima; soprattutto su di essa occorre fare affidamento per sviluppare una convivenza civile, rispettosa delle diversità e unita nelle affinità, considerando le prime opportunità per un reciproco arricchimento, e le seconde conferma di una dignità comune; soprattutto attraverso di essa si può cogliere il già ricordato carattere strutturale dell’immigrazione nel nostro paese. Purtroppo l’attuale legislazione non prende nella debita considerazione questo aspetto perché considera la precarietà dell’immigrato “istituzionale”; l’acquisizione della cittadinanza rimane infatti un percorso ostico e accidentato, che crea una precarietà “voluta” che interessa la ricerca di un alloggio stabile, la tutela sul lavoro, l’accesso ai servizi e si accompagna a povertà e emarginazione sociale. A patire maggiormente questa condizione sono prevalentemente le donne, e sulle donne che vengono da altri paesi deve esercitarsi, per l’ambito di competenza prevalentemente, ma non solo in quello, l’attività degli operatori sanitari e degli amministratori delle risorse. Si è già accennato a qualche intervento raccomandabile par favorire una serena pianificazione famigliare; più in generale si possono individuare i seguenti snodi problematici e ricorrenti che possono definirsi prioritari e sui quali sarebbe bene concentrare i propri sforzi: - accoglienza e facilitazione dell’accesso ai servizi: occorre formare tutti gli operatori, non solo quelli di specifiche strutture, ma tutti coloro che possono venire in contatto, come interfaccia di servizi pubblici, con le persone migranti su come dare informazioni esaurienti su diritti e doveri previsti dalla attuale legislazione e sulla strada più semplice per ottenere l’assistenza necessaria, anche decrittando se occorre le richieste formulate; - mediazione linguistica e culturale: costituisce una risorsa fondamentale a cui, per ovvi motivi, è quasi impossibile rinunciare ma nello stesso tempo è un atteggiamento di apertura e di disponibilità all’incontro che dovrebbe appartenere a tutti perché tutti siamo chiamati a mediare tra principi identitari e innovazioni, tra conosciuto e conoscibile, tra radicamenti e nuove appartenenze; - capacità d’ascolto: è un certo modo di ascoltare che provoca il narrare di sé, delle proprie vicende e dei sentimenti che quelle vicende hanno generato e se c’è dolore nel raccontarsi l’ascolto è già una prima riparazione, dare voce è già rafforzamento della dignità dell’altro che trova in chi lo ascolta un forse inaspettato compagno di strada. Forse dovrebbero essere le donne migranti a parlare più spesso e più a lungo di sé e della loro salute: quando accadrà apprenderemo quello che numeri e tabelle, pur utilissime, non sono in grado di dirci e verrà anche a noi voglia di parlare. 50 Marco Minarelli è Medico pediatra e responsabile del Consultorio famigliare del Comune di San Giovanni in Persiceto – Distretto Pianura Ovest della Provincia di Bologna Tatiana Di Federico è esperta di genere e lavora come progettista, coordinatrice e operatrice in progetti interculturali presso la Cooperativa Lai-momo BIBLIOGRAFIA A. Destro, Complessità dei mondi culturali, Patron Editore, Bologna 2001 A. Destro, Donne e microcosmi culturali, Patron Editore, Bologna 1997 A. Morrone, L’altra faccia di Gaia: salute, migrazione e ambiente tra Nord e Sud del pianeta, Armando Editore, Roma 1999 A. Morrone e P. Vulpiani, Corpi e simboli: immigrazione, sessualità e mutilazioni genitali femminili in Europa, Armando Editore, Roma 2004 A. Morrone, F. Alichino, G. Di Cristofaro Longo, Cultura, salute, immigrazione: una analisi interculturale, Armando Editore, Roma 1995 G. Parodi da Passano, Cultura-esperienza e cultura-conoscenza, in S. Federici, A. Marchesini Reggiani, Interculture map Piemonte e Liguria, Lai-momo, Sasso Marconi (BO) 2007 G. Devereux, Saggi di Etnopsichiatria generale, Armando Editore, Roma 2007 I. Trevisani, Il velo e lo specchio. Pratiche di bellezza come forme di resistenza agli integralismi, Baldini e Castoldi Dalai 2006 J-L. Amselle, Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Bollati – Boringhieri editore, Torino 2001 L. Attenasio, La cura degli altri. Seminari di etnopsichiatria, Armando Editore, Roma 2005 L. Attenasio, Fuori norma: la diversità come valore e sapere, Armando Editore, Roma 2001 R. El Khayat, Il mio maestro Georges Devereux, Armando Editore, Roma 2008 U. Fabietti, Storia dell’antropologia, Zanichelli, Bologna 2001 I n these last few years Italian society has became multi-ethnic and multicultural; therefore it is beginning to pay particular attention to the health of immigrants, particularly to women, because in several cultures the care of body and of children are mainly associate with women. In this framework it becomes necessary to create adequate relationships between different cultural systems on the basis of reciprocal listening and understanding. Tubercolosi e immigrazione N el 2006 sono stati stimati dall’OMS a livello mondiale 9.2 milioni di nuovi casi di tubercolosi (TB) (139 per 100 000 abitanti), inclusi 4.1 milioni di nuovi casi con espettorato positivo (44% del totale) e oltre 700.000 casi di TB in persone co-infettate con il virus dell’immunodeficienza umana (HIV) (8% del totale). L’83% del totale delle notifiche proviene dall’Africa, SudEst Asiatico e regioni del Pacifico Occidentale. Nel 2006, sono stati inoltre stimati quasi mezzo milione di casi di tubercolosi multiresistente (resistenza contemporanea a isoniazide e rifampicina -TB-MDR), di cui 23.353 notificati, più di metà dei quali dalla Regione Europea. La tubercolosi tra gli immigrati nell’Europa occidentale Nell’Europa occidentale l’incidenza della TB è in riduzione, seppur lentamente, e la malattia è oggi legata ad alcuni fattori di rischio specifici, tra i quali è ben documentato il ruolo dei flussi migratori (fig. 1). L’esempio dell’Italia è paradigmatico: dal 1999 al 2006, i casi di TB registrati in “cittadini non italiani” nel nostro Paese sono infatti passati dal 22% del 1999 al 46,2% del 2006 (Ministero della Salute 2008) (fig. 2, p. 52). Nell’ultimo quinquennio il valore medio dell’incidenza della TB in persone straniere si attesta intorno a 70 nuovi casi per 100.000 persone-anno, sostanzialmente superiore a quello medio nazionale (7.5 casi per 100,000). Malgrado l’aumento del numero dei casi di TB tra gli immigrati (dovuto al parallelo incremento nel numero totale degli immigrati in Italia), vi è una sostanziale stabilità dell’incidenza in questa popolazione. Si osservano fluttuazioni annuali presumibilmente legate all’imprecisione nella stima dei denominatori (fig. 3, p. 52); tali fluttuazioni, peraltro, si attenuano quando ai denominatori viene aggiunta la quota stimata di immigrati irregolari. È importante sottolineare che, nello stesso periodo, non vi è alcun segnale di ripresa della tubercolosi nella popolazione generale: l’incidenza di tubercolosi in Italia è in progressiva lentissima diminuzione (da 9,1 casi per 100.000 abitanti nel 1995 a 7,5 casi per 100.000 abitanti nel 2006) per effetto del progressivo trend in diminuzione (-33%) tra i soggetti italiani (Ministero della salute 2008). Gli immigrati in Italia provengono generalmente da Paesi in cui l’incidenza tubercolare è molto superiore a quella DOSSIER di Alberto Matteelli, Issa El-Hamad, Mario C. Raviglione Figura 1 Proporzione di casi di TB in persone straniere in Europa (fonte: Eurosurveillance) 51 AeM 64 nov. 08 italiana (tab. 1, p. 53). Tra i Paesi di provenienza degli immigrati in Italia quelli con una incidenza più elevata di TB sono le Filippine (287/100.000) e il Senegal (270/100.000). Otto tra i paesi di provenienza degli immigrati hanno un’incidenza di TB più elevata di 100 casi per 100.000 abitanti (valore oltre al quale un Paese o un gruppo di popolazione viene convenzionalmente considerato ad alto rischio di TB); inoltre, in questi stessi paesi è talvolta molto aumentata la frequenza di casi di TB sostenuta da ceppi multiresistenti pari per esempio al 19,4% e 16% rispettivamente in Moldavia e Ucraina. Caratteristiche cliniche della tubercolosi negli immigrati Figura 2 Numero di casi di TB in immigrati e in italiani, 1999-2006 Figura 3 Incidenza di TB nella popolazione immigrata, 1999-2005. Fonte: Ministero della salute 52 I casi di tubercolosi in cittadini stranieri si concentrano nelle classi di età giovani e adulte. Nella fascia di età 15-24 anni e 25-34 anni più del 70% dei casi di TB nel 2006 era in persone immigrate da altri Paesi, mentre gli immigrati rappresentano una quota quasi inesistente dei casi di TB tra gli ultra-sessantacinquenni. Mentre nella letteratura scientifica il rischio maggiore di sviluppare la tubercolosi si verifica durante i primi due anni dalla data di immigrazione (CDC 1998), in Italia nel periodo 1999-2004 solo il 12% e 32% circa dei casi di TB in soggetti stranieri si è manifestato entro il primo anno di arrivo e tra il primo e il secondo anno di arrivo rispettivamente. A livello clinico, non vi è evidenza che le caratteristiche della TB negli immigrati siano differenti da quelle in soggetti autoctoni. La sola differenza documentata è una maggior prevalenza di resistenze primarie all’isoniazide (Migliori 2002). L’impatto sul successo terapeutico della monoresistenza all’isoniazide è marginale. Ben diverse sarebbero le conseguenze di un incremento del rischio di forme multi resistenti: tale fenomeno, di cui vi è qualche evidenza in Germania (Eker 2008), non è stato documentato in Italia. Non vi è altresì alcuna evidenza di una associazione tra TB e co-infezione con il virus HIV in soggetti immigrati. In effetti, la probabilità di co-infezione con HIV è quattro volte maggiore in soggetti italiani con TB rispetto agli stranieri (De Iaco 2005). Controllo della tubercolosi in soggetti immigrati: diagnosi e cura dei casi sintomatici. Le strategie di controllo della tubercolosi non differiscono negli immigrati rispetto alla popolazione autoctona: la diagnosi precoce e la terapia efficace dei malati ne rappresentano l’elemento centrale. Oltre a garantire il beneficio individuale, il trattamento dei malati interrompe la circolazione del micobattere nella collettività dopo circa 3-4 settimane dall’inizio della terapia e previene il rischio di selezione di ceppi resistenti ai farmaci antitubercolari. Le linee guida italiane sulla lotta alla TB aderiscono a questo principio, stabilendo, per quanto concerne gli immigrati, «l’esigenza di garantire la diagnosi tempestiva, il trattamento efficace e la ricerca dei contatti dei casi, in quanto questi interventi rappresentano, anche tra gli immigrati, le misure più efficaci a contrastare la diffusione della tubercolosi» (Ministero della Salute 1998). La strategia globale promossa dall’OMS, sia nella prima versione, emessa nel 1994 (WHO 1994), che nella sua ampia revisione del 2006 (WHO 2006), garantisce un ruolo centrale al trattamento a breve termine (regime di 6 mesi) con terapia standardizzata direttamente supervisionata almeno nella fase iniziale. L’acronimo DOT (Directly observe treatment) identifica una serie di interventi attraverso i quali i servizi sanitari o gli agenti comunitari supportano il paziente durante il periodo di trattamento con l’obiettivo comune del completamento della terapia stessa. L’assunzione supervisionata della terapia è uno di questi strumenti, con il ruolo di supervisore che può essere affidato a membri del servizio sanitario, ovvero a personale non sanitario, secondo ragioni di convenienza. L’adozione di misure di trattamento supervisionato è di importanza cruciale in paesi a risorse basse o intermedie. Nei paesi a risorse avanzate, in cui la TB non rappresenta un problema prioritario e i tassi di completamento della terapia sono comunque elevati, queste misure sono a volte impiegate meno rigidamente. Ad esempio le linee guida statunitensi del 2005 (CDC 2005) e le linee guida britanniche del NICE del 2006 (NICE 2006) raccomandano l’adozione della DOT solo in particolari gruppi di pazienti, soprattutto se presentano fattori di rischio di non adesione al trattamento. In Italia lo smantellamento dei servizi dedicati al controllo della tubercolosi, innescato dalla riduzione dell’incidenza della malattia, ha privato la salute pubblica degli strumenti per l’attuazione della terapia supervisionata nella maggior parte dei casi. L’obiettivo dichiarato dei programmi di controllo della TB è il trattamento con successo di almeno l’85% dei casi di tubercolosi polmonare escreato positivi (WHO 1991) identificati e l’identificazione di un minimo del 70% dei casi stimati. Questi obbiettivi sono stati introdotti poiché a questi livelli di identificazione e di guarigione il processo di riduzione dell’incidenza accelera. Il documento Stop Paese N° immigrati residenti in Italia Incidenza stimata di casi di TBC/100.000§ Prevalenza di HIV (%) nei casi di TBC§ Stima % di TB-MDR sul totale dei casi di TBC (LC 95%)^ Nuovi casi Ri-trattamenti Albania 375.947 19 - 1,5 (0,3-10) 10 Romania 342.200 128 0.3 2,8 (1,8-4,2) 11 Marocco 343.228 93 0.4 0,5 (0,2-1,1) 12 Cina 144.885 99 0.3 5,0 (4,6-5,5) 26 Ucraina 120.070 106 5.8 16,0 (13,7-18,4) 44 Filippine 101.337 287 0.1 4,0 (2,9-5,5) 21 Tunisia 88.932 25 0.2 2,7 (0,4-15) 36 Polonia 72.457 25 0.4 0,3 (0,1-0,6) 8.2 India 69.504 168 1.2 2,8 (2,3-3,4) 17 Ecuador 68.880 128 1.1 4,9 (3,5-6,6) 24 Perù 66.506 162 2 5,3 (4,3-6,4) 24 Egitto 65.667 24 0.1 2,2 (1,2-3,7) 38 Serbia e Montenegro 64.411 32 0.7 0,4 (0,1-0,9) 4.1 Senegal 59.857 270 2.7 2,1 (0,7-4,9) 17 Sri Lanka 56.745 60 0.2 0,2 (0-1) 0.0 Moldavia 55.803 141 0.4 19,4 (16,7-22,3) 51 Tabella 1 Incidenza di tubercolosi nei 16 Paesi con la frequenza più elevata (in ordine discendente) di immigrati in Italia § WHO TB global report 2008 ^ WHO 4th Report antimicrobial resistance, 2008 (Annex 8) alla TB in Italia, approvato dalla Commissione Salute nel maggio 2007 (Ministero della Salute 2007), ha definito come obiettivo dei programmi di controllo, per quanto concerne il trattamento, il trattamento con successo dell’85% dei casi in persone con meno di 65 anni di età, e, globalmente, non più dell’8% di persone in trattamento perse al follow-up. Vi sono dati, tuttavia aneddotici, che indicano che i tassi di completamento della terapia antitubercolare siano inferiori negli immigrati rispetto agli italiani. Presso il più grande centro antitubercolare di Milano nel periodo 1999-2003 avevano abbandonato il trattamento antitubercolare il 10% degli italiani, l’8.8% degli stranieri con regolare permesso di soggiorno, e il 22.4% degli stranieri irregolari (Luigi Codecasa, comunicazione personale). Questi dati suggeriscono che almeno per alcune frange della popolazione immigrata vi sia la necessità di adottare specifici programmi per il supporto dell’aderenza al trattamento antitubercolare. Aspetti legali della cura degli immigrati in Italia e in Europa Tra i fattori che condizionano una maggiore suscettibilità degli immigrati alla TB vi è la capacità di accoglienza della società nel Paese ospite, condizionata e in parte anche condizionante lo status giuridico, e il grado di accessibilità e fruibilità dei servizi socio-assistenziali. L’elemento giuridico-normativo passa attraverso il riconoscimento del diritto all’assistenza socio-sanitaria. Lo spirito del legislatore è improntato a regole e modalità di equità e universalità. Dal punto di vista sanitario il diritto all’accesso trova giustificazioni tanto nei vantaggi che offre alle strategie di sanità pubblica, quanto negli obblighi deontologici della professione sanitaria (FNOMCeO 2007). L’offerta di servizi socio-sanitari alle persone straniere, indipendentemente dalla regolarità del permesso di residenza, promuove il benessere di tutti e può facilitare l’integrazione e la partecipazione dei migranti all’interno dei Paesi ospitanti promuovendo 53 AeM 64 nov. 08 l’inclusione e la comprensione, contribuendo alla coesione, aumentando lo sviluppo (Consiglio d’Europa 2007). In quest’ottica l’Assemblea del Parlamento europeo, con la risoluzione n. 1059 del 2006, ha esortato a «eliminare qualunque obbligo riservato al personale sanitario (...) di fare rapporto ai poteri pubblici della presenza di immigrati irregolari» (Assemblea del Parlamento europeo 2007) e l’Italia ha ratificato la risoluzione fin dal 1995 con una specifica normativa di tutela (Decreto Legge n. b489 del 1995, alcune ordinanze ministeriali, poi consolidatesi nel Decreto Legislativo n. 286 del 1998 e in altre norme collegate). Accesso alla diagnosi e alla cura della TB L’elemento della “permeabilità” dei servizi è determinante per garantire percorsi di tutela sanitaria specifici nell’ambito di una più generale funzione di contrasto alle diseguaglianze da parte dei Servizi per la Salute Pubblica. Gli interventi per ridurre le barriere di accesso e favorire la fruibilità dei percorsi assistenziali, di prevenzione e di cura, si articolano attorno a due strategie. Il primo elemento è costituito dall’informazione sui diritti (e doveri) e sui percorsi assistenziali per le popolazioni immigrate. Tale processo prevede il coinvolgimento, la responsabilizzazione e il protagonismo delle comunità di immigrati (intese come organizzazioni, singoli leader, associazioni specifiche, mediatori organizzati ecc.), fino a che esse stesse non ne diventino i principali promotori e attori. L’organizzazione istituzionale, in collaborazione con l’associazionismo e il terzo settore, deve favorire e supportare tale processo fornendo competenze, conoscenze, mezzi e strumenti, in una logica di forte integrazione con le competenze comunitarie e tradizionali. Il secondo elemento è rappresentato dalla sensibilizzazione dell’intero servizio sanitario al problema dell’accesso ai servizi per gli immigrati. Tale processo prevede varie azioni che vanno dalla formazione degli operatori, al lavoro multidisciplinare, al lavoro di rete intra-aziendale, interistituzionale e con l’associazionismo (autoctono e di immigrati), al modellamento dei servizi in chiave transculturale (accesso equo e leggibile per tutti) e interculturale (attenzione specifica per alcuni contesti linguistici e culturali). Uno studio sull’entità e le cause del ritardo diagnostico in casi di TB condotto in Emilia-Romagna fornisce importanti spunti di riflessione (Gagliotti 2006). Innanzitutto il ritardo diagnostico, sulla popolazione totale di malati di TB, risulta di circa 3 mesi, inaccettabilmente elevato e potenziale causa della persistente circolazione del micobattere nella popolazione. Il ritardo è risultato di entità simile in italiani e stranieri. Tuttavia, mentre negli italiani il ritardo è imputabile quasi interamente al basso tasso di sospetto della malattia nel personale sanitario, tra gli immigrati il fattore predominante è la tardiva consultazione dei servizi sanitari, a testimonianza dell’esistenza, nel mondo reale, del problema della fruibilità dei servizi per le persone straniere. 54 Programmi di screening per la malattia tubercolare Sotto il termine di screening si raggruppano le attività svolte a identificare i casi di malattia tubercolare in persone con sintomi minimi o assenti, anticipando l’afferenza ai servizi sanitari e quindi la diagnosi. Programmi di screening per i soggetti italiani sono limitati ai soggetti a contatto di pazienti con TB contagiosa. Tuttavia, l’elevata incidenza di TB tra gli immigrati rende questa popolazione potenziale target per interventi di screening allargati. Nel 2004 sono stati pubblicati i risultati di una indagine condotta a livello europeo sui programmi di screening esistenti nei diversi paesi, che ha coinvolto 26 dei 51 paesi europei (Coker 2004). Emerge come nella maggior parte dei casi lo screening venga effettuato al momento dell’ingresso nel paese e prevalentemente su rifugiati e richiedenti asilo. I pochi paesi che conducono programmi di screening anche di immigrati diversi dai rifugiati, in genere li svolgono attraverso servizi di comunità e non al momento dell’ingresso nel paese. Per lo screening viene utilizzato prevalentemente l’esame radiografico del torace; in bambini e adolescenti (anche se la soglia di età è molto variabile da paese a paese) e nelle donne in gravidanza viene eseguito il test cutaneo alla tubercolina secondo Mantoux. Le linee guida italiane (Ministero della Salute 1998) propongono di «eseguire lo screening con esame radiologico e test di Mantoux: a) nelle persone provenienti da paesi ad alta endemia tubercolare (incidenza di tubercolosi stimata dall’OMS > 100 casi/100.000) recentemente immigrati (meno di due anni), il più presto possibile dopo l’ingresso in Italia (operativamente utile sfruttare l’occasione del rilascio del permesso di soggiorno); b) nelle persone provenienti da paesi ad alta endemia che, successivamente ai primi due anni, permangono per condizioni di vita e socioeconomiche ad alto rischio per la tubercolosi.». Le linee guida promuovono inoltre lo screening in tutte le occasioni di contatto con le strutture sanitarie, quali, ad esempio, l’accesso alle strutture ambulatoriali, il ricovero ospedaliero, il rilascio di certificazioni sanitarie. Poiché non è stato contestualmente creato alcun sistema informativo per la registrazione delle attività di screening realmente effettuate, non sono disponibili dati per stimare l’entità delle attività di screening della malattia tubercolare attuate in Italia negli ultimi anni su soggetti immigrati. Sono stati identificati 14 studi pubblicati negli ultimi 10 anni in paesi europei, mirati a valutare la resa (yield: numero di casi di tubercolosi diagnosticati/numero di persone sottoposte a screening) di programmi di screening mirati a diagnosticare tempestivamente la malattia tubercolare o l’infezione tubercolare latente. Gli studi condotti in paesi che eseguono programmi di screening all’ingresso, sono stati indirizzati prevalentemente ai rifugiati, ma sono stati inclusi anche immigrati che non richiedono asilo politico. La media dello yield per TB attiva nei 9 studi che riportano questa informazione è pari a 272,3 casi per 100.000 abitanti (range 100-555 casi per 100.000 abitanti). Se si aggiungono anche gli esiti fibrotici di TB (3 studi) lo yield è mediamente pari a 618 casi per 100.000 abitanti (range 218-1189 casi). Diagnosi e trattamento dell’infezione tubercolare latente Le basi patogenetiche che giustificano gli alti tassi di incidenza della tubercolosi negli immigrati sono sostanzialmente due: da una parte l’incremento della probabilità di progressione da infezione a malattia tubercolare per fattori legati al processo migratorio, dall’altra una maggiore circolazione di M.tuberculosis, nelle comunità di immigrati nel paese ospite. L’importanza relativa dei due fattori non è nota. Mentre la diagnosi precoce e terapia efficace dei casi sintomatici è una strategia adeguata per limitare la diffusione di M.tuberculosis, la prevenzione della progressione da infezione a malattia tubercolare richiede una strategia per la diagnosi e trattamento dell’infezione tubercolare latente. A interventi di quest’ultimo genere si attribuisce di norma importanza molto limitata, tuttavia in determinate popolazioni ad elevato rischio – quali ad esempio i soggetti con co-infezione da HIV – ne è universalmente riconosciuta la rilevanza. Le linee guida italiane (Ministero della Salute 1998) stabiliscono che è «opportuno lo screening periodico annuale dei cutinegativi e uno screening della malattia nei cutipositivi, che non si sono sottoposti a chemioterapia preventiva o non hanno completato il ciclo previsto». Tuttavia, non specificano direttamente che la diagnosi di infezione tubercolare latente è giustificata soltanto se inserita nell’ambito di un programma di trattamento dei soggetti identificati. Anche in questo caso, la mancanza di un sistema informativo dedicato preclude l’esistenza di dati sul numero delle persone immigrate sottoposte a screening per infezione tubercolare latente e sulla proporzione dei soggetti infetti per cui sia stato iniziato e completato lo screening. Nel complesso, il limite più importante per l’esecuzione dei programmi di screening all’ingresso e di follow-up successivo, è rappresentato dalla bassa copertura. In parte, perché spesso selettivamente indirizzata a particolari categorie di immigrati (ad esempio rifugiati) o perché per definizione alcune categorie di immigrati non sono identificabili all’ingresso nel paese (immigrati illegali), in parte perché per problemi organizzativi non si riesce a raggiungere tutta la popolazione bersaglio. La diagosi e cura dell’infezione tubercolare latente ha tuttavia ulteriori limiti, rappresentati da una parte dalle difficoltà di completamento delle pratiche di screening e dall’altra dai bassi tassi di completamento dei regimi di trattamento dell’infezione tubercolare latente. Sul versante dello screening vi è ampio range nel tasso di completamento, tra il 33% e l’80% (El-Hamad 2001, Carvalho 2004); i tassi possono essere migliorati quando vengano attuate attività di supporto tra le quali, ad esempio, l’offerta del test nella lingua di appartenenza dello straniero (Carvalho 2004). In uno studio condotto in Italia su immigrati clandestini, il tasso di completamento di un regime di terapia dell’infezione tubercolare latente con isoniazide 300 mg (o 5 mg/kg) assunta quotidianamente per 6 mesi non superava il 40%; nello stesso studio, la supervisione attuata presso il centro di cura di un regime bisettimanale di isoniazide addirittura riduceva i tassi di completamento al di sotto del 10% (Matteelli 2000). Uno studio successivo ha dimostrato che, nella stessa categoria di soggetti, i tassi di completamento potevano essere incrementati fino al 50% per mezzo della Immagine tratta dal fumetto Luís Figo and the World tuberculosis cup di Rod Espinosa, vincitore del concorso promosso dall’Organizzazione mondiale della sanità in collaborazione con Luís Figo 55 AeM 64 nov. 08 supervisione al domicilio del paziente e l’impiego di regimi brevi (rifampicina e pirazinamide per 2 mesi) (Anna Cristina Carvalho, comunicazione personale). Costo-efficacia degli interventi negli immigrati Sono stati identificati tre studi di costo-efficacia di programmi di screening della malattia o dell’infezione tubercolare, tutti condotti in Canada. Dasgupta nel 2005 ha pubblicato una revisione degli articoli pubblicati prima del 2003 che dimostra che il costo totale per caso di TB attiva diagnosticato è pari a 12.407 $ per il TST, 9.898 $ per la radiografia del torace, da 6.757 $ a 17.284 $ per la coltura (1 coltura o 3 colture) e conclude: «gli attuali programmi di screening con esame radiografico del torace hanno uno scarso impatto e non sono costoefficaci. L’esecuzione dello screening con l’esame diretto dell’espettorato aumenterebbe il costo-efficacia solo marginalmente. In paesi a bassa incidenza, lo screening degli immigrati all’ingresso ha un impatto limitato e non è costoefficace» (Dasgupta 2005). Un secondo studio di Dasgupta del 2000 conclude nuovamente che lo screening degli immigrati al momento della richiesta del permesso di soggiorno e i programmi di sorveglianza successivi sono poco costo-efficaci, soprattutto per problemi di natura organizzativa. Schwartzmann nel 2000 confrontava il rapporto costoefficacia di programmi di screening all’ingresso basati sull’esame radiografico del torace (per la ricerca della malattia attiva) con quelli basati su test tubercolinico (per la ricerca dell’infezione tubercolare) (Schwartzmann 2000). In tre coorti simulate di immigrati di 20 anni di età (diversa prevalenza di LTBI e di infezioni HIV), seguite per 20 anni, rispetto all’assenza di screening, lo screening radiografico previene il 4,3% dei casi di TB attiva attesi nella coorte a maggior rischio (LTBI 50% e HIV 10%) e 8% nella coorte a rischio più basso (LTBI 5%, HIV 1%). Lo screening con TST riduce ulteriormente l’incidenza attesa dell’8% e 4% rispettivamente. Il costo dello screening radiografico è di 3943 $ per caso prevenuto nella coorte più a rischio e 236.494 $ in quella a rischio più basso. Il costo del TST è 32.601 $ per caso prevenuto nella coorte più a rischio e 68.799 $ in quella a rischio più basso. Gli autori così concludono: «Nei giovani immigrati da paesi ad alto rischio, lo screening radiografico è relativamente poco costoso, mentre lo screening con test tubercolinico è molto più costoso». 56 Conclusioni Un programma che si prefigga una riduzione della morbilità tubercolare nella popolazione immigrata in un paese a sviluppo avanzato come l’Italia non può prescindere dall’ampliamento della fruibilità dei servizi sanitari e sociali. Ne è prerequisito il diritto legale all’accesso ai servizi sanitari che deve essere assicurata a tutti gli immigrati indipendentemente dal possesso di permesso di soggiorno e senza alcun obbligo di segnalazione all’autorità di polizia. L’informazione esaustiva della popolazione sui diritti/ doveri e sui percorsi sanitari deve essere considerata una priorità d’intervento. La progettazione, possibilmente concertata tra i vari “attori” sanitari e sociali, istituzionali e non (servizi di programmazione, servizi territoriali, associazionismo e terzo settore), dovrebbe prevedere il coinvolgimento diretto e partecipato degli immigrati – associazioni, leader o gruppi di aggregazione religiosi o politici, singoli interessati, mediatori. La garanzia di accessibilità ai servizi richiede necessariamente anche interventi di riorientamento del sistema sanitario. Vi è necessità di interventi per migliorare il coordinamento dei diversi ambiti assistenziali ospedalieri e territoriali, per formare gli operatori sanitari ad un approccio transculturale, per ridefinire i percorsi assistenziali in modo da tener conto dei bisogni specifici della popolazione immigrata (apertura pomeridiana o serale, servizi decentrati, ecc.), per valorizzare il ruolo del medico di medicina generale e del pediatra di libera scelta, nella presa in carico di immigrati. L’elemento essenziale di ogni intervento per il controllo della tubercolosi è rappresentato dalla diagnosi e trattamento dei casi di malattia. I responsabili delle politiche sociali e sanitarie dovrebbero considerare il case-holding come una misura centrale di salute pubblica. Per assicurare una elevata adesione al trattamento, è essenziale, laddove necessario, che i servizi sociali contribuiscano alla presa in carico dei pazienti con TB, anche prevedendo, in fase di trattamento, forme di accoglienza e accompagnamento sociale. Per il miglioramento del case-holding appare essenziale che i centri per il trattamento della tubercolosi in persone immigrate si avvalgano di servizi di traduzione e soprattutto di mediazione culturale. L’aderenza al trattamento deve avvalersi del counseling e consegna di materiale informativo nella lingua adeguata, della chiara definizione e compartecipazione iniziale del piano terapeutico, della semplificazione della terapia attraverso l’uso delle associazioni di farmaci e della consegna diretta gratuita dei farmaci. In particolari gruppi di pazienti (scarsa aderenza in precedente trattamento, soggetti senza fissa dimora, tubercolosi multiresistente) oppure qualora non siano stati efficaci gli interventi sopra elencati, è raccomandata la terapia direttamente osservata e attuata, ove possibile, a domicilio del paziente o comunque in luoghi facilmente accessibili dal paziente. La promozione e l’offerta di una diagnosi precoce di malattia tubercolare dovrebbe essere affidata in primo luogo ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta. Per ogni nuova persona iscritta proveniente da un paese ad alto rischio (incidenza stimata dall’OMS >100 casi/100.000) queste figure sanitarie dovrebbero garantire l’informazione sanitaria, raccogliere l’anamnesi tubercolare, indagare sulla eventuale presenza di sintomi suggestivi di tubercolosi e se presenti proporre una radiografia del torace. Le raccomandazioni sopra riportate valgono anche per tutti gli operatori che lavorano in centri di assistenza sanitaria dedicati agli immigrati anche irregolari e che visitano persone immigrate recentemente da paesi ad alto rischio (>100 casi/100.000). Lo screening e trattamento dell’infezione tubercolare latente è raccomandato per i bambini immigrati. La vaccinazione con BCG può essere proposta a bambini di età inferiore a 5 anni appartenenti ad una comunità ad elevato rischio di TB. A priorità inferiore, ma comunque consigliato laddove le condizioni lo rendano fattibile, è lo screening dell’infezione tubercolare latente e la terapia dell’infezione tubercolare latente in soggetti provenienti da paesi a incidenza di tubercolosi >100/100,000 e residenti in Italia da <5 anni, oppure provenienti dalle stesse aree e che vivono in condizioni socio-sanitarie di emarginazione indipendentemente dall’epoca di soggiorno. Alberto Matteelli e Issa El-Hamad lavorano presso l’Istituto Malattie Infettive e tropicali dell’Università degli studi di Brescia Mario C. Raviglione, lavora presso lo STOP TB Department dello World Health Organisation, di Ginevra BIBLIOGRAFIA American Thoracic Society, Controlling TB in the Unite States. Recommendations from the American Thoracic Society, in «MMWR», n. 54 (RR 12), 2005, CDC and the Infectious Diseases Society of America Assemblea del Parlamento europeo, Dichiarazione di Bratislava sulla salute, i diritti umani e le migrazioni, 8a Conferenza dei Ministri Europei della Salute A.C.C. Carvalho, N. Saleri, I. El Hamad, S. Tedoldi, S. Capone, M.C. Pezzoli, M. Zaccaria, C. Pizzoccolo, C. Scarcella, A. Matteelli, Completion of screening for latent tuberculosis infection among immigrants, In «Epidemiology and infection», vol. 133, n. 1, 2005, pp. 179-185 Centers for Diseases Prevention and Control, Recommendations for prevention and control of tuberculosis among foreign-born persons, in «MMWR», n. 47 (RR 16), 1998, pp. 2-29 R.J. Coker, A. Bell, R. Pitman, A. Hayward, J. Watson, Screening programmes for tuberculosis in new entrance across Europe, in «The International Journal of Tuberculosis and Lung Disease», n. 8 (8), pp. 1022-1026, 2004 K. Dasgupta, et al., Comparison of cost-effectiveness of tuberculosis screening of close contacts and foreign-born populations, in «American Journal of Respiratory and Critical Care Medicine», vol. 162, n. 6, 2000, pp. 2079-2086 K. Dasgupta, D. Menzies, Cost-effectiveness of tuberculosis control strategies among immigrants and refugees, in «European Respiratory Journal», vol. 25, n. 6, 2005, pp. 1107-16 G. De Iaco, A. Matteelli, A. Pini, A.C.C. Carvalho, M. Manfrin, N. Saleri, S. Capone, S. Caligaris, F. Castelli, G. Carosi, Tasso di mortalità legato alla tubercolosi (TB) in pazienti con infezione da HIV (HIV+) in Italia, XIX Convegno Nazionale AIDS e Sindromi Correlate, Vibo Valentia, 21-23 ottobre 2005 I. El-Hamad, C. Casalini, A. Matteelli, S. Casari, M. Bugiani, M. Caputo, E. Bombana, C. Scolari, R. Moioli, C. Scarcella, G. Carosi, Screening for tuberculosis and latent tuberculosis infection among undocumente immigrants at an unspecialise health service unit, in «The International Journal of Tuberculosis and Lung Disease», vol. 5, n. 8, 2001, pp. 712-716 B. Eker, J. Ortmann, G.B. Migliori, et al., Multidrug- and extensively-drug resistant tuberculosis: a TBNET survey in Germany, in «Emerging Infectious Diseases», in corso di stampa, 2008 FNOMCeO, Manifesto di Padova sul multiculturalismo in medicina e sanità, FNOMCeO, 2007 C. Gagliotti, D. Resi, M.L. Moro, Delay in the treatment of pulmonary TB in a changing demographic scenario, in «The International Journal of Tuberculosis and Lung Disease», n. 10, 2006, pp. 305-309 A. Matteelli, C. Casalini, M.C. Raviglione, I. El-Hamad, C. Scolari, E. Bombana, M. Bugiani, M. Caputo, C. Scarcella, G.P. Carosi, Supervise preventive therapy for latent tuberculosis infection in illegal immigrants in Italy, in «Ameri- can Journal of Respiratory and Critical Care Medicine», n. 162, 2000; pp. 53-1655 G.B. Migliori, L. Fattorini, P. Vaccarino, G. Besozzi, C. Saltini, G. Orefici, E. Iona, A. Matteelli, F. Fiorentini, L.R. Codecasa, L. Casali, A. Cassone; SMIRA (Italian Multicentre Study on Resistance to Anti-tuberculosis drugs) Study Group, Prevalence of resistance to anti-tuberculosis drugs: results of the 1998/99 national survey in Italy, in «The International Journal of Tuberculosis and Lung Disease», n. 6, 2002, pp. 32-8 Ministero della Salute, Linee Guida per il controllo della malattia tubercolare, su proposta del Ministro della Sanità, ai sensi dell’art. 115, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 Ministero della Salute, Documento Stop alla TB in Italia 2007 http://www.ministerosalute.it/imgs/C_17_pagineAree_831_listaFile_item Name_0_file.pdf Ministero della Salute - DG della Prevenzione Sanitaria – Ufficio V – Malattie Infettive e Profilassi Internazionale 2008 NICE, Tuberculosis. Clinical diagnosis and management of tuberculosis, and measures for its prevention and control, 2006 Presidenza del Consiglio d’Europa, Conclusioni e Raccomandazioni della Conferenza Europea “Health and Migration in the UE. Better Health for all in an inclusive society”, Lisbona, 27 e 28 settembre 2007 K. Schwartzman, D. Menzies, Tuberculosis screening of immigrants to low-prevalence countries. A cost-effectiveness analysis, in «American Journal of Respiratory and Critical Care Medicine», 2000 Mar;161(3 Pt 1), pp. 780-789 World Health Organisation, The stop TB strategy, Building on and enhancing DOTS to meet the TB-relate millennium development goals, Report n. WHO/ HTM/STB/2006.37, Geneva 2006 World Health Organisation, WHO Tuberculosis Programme: framework for effective tuberculosis control, Report n. WHO/TB/94.179 World Health Organisation, The global plan to stop TB 2006-2015, Available at: http://www.stoptb.org/globalplan/plan_main.asp Accesse 10 October 2008 P eople born abroad represent a disproportionately high percentage of tuberculosis (TB) cases in Europe. They account for almost half of the total TB burden in Italy; however, the incidence of TB in immigrants is stable and that in Italian citizens has been slowly decreasing over the last few years. Specific strategies are neede to reduce the burden of the disease in the immigrant population, including granting legal access to equitable and culturally sensitive health services. Early diagnosis and effective treatment of infectious cases is the basis of any TB strategy: people born abroad may require additional specific services to ensure they follow the treatment and programmes for diagnosis, and to ensure treatment of latent TB infection. 57 AeM 64 nov. 08 ESPERIENZE Alimentazione e immigrazione: problemi aperti di Nicola Villanova D 58 al 1980 l’Italia si è trasformata in Paese di immigrazione, con problemi di integrazione culturale: oggi si contano nel nostro paese 190 nazionalità diverse, con 80 lingue e 18 religioni. Alcune tradizioni alimentari dei paesi d’origine possono comportare problemi sanitari significativi, in particolare nei bambini immigrati: lo svezzamento più tardivo e l’allattamento al seno esclusivo fino a oltre il 1° anno; l’assunzione precoce e protratta di latte senza integrazione con frutta, verdure e carne possono favorire situazioni carenziali, quali il ritardo di crescita, il rachitismo, l’anemia ferropriva, ecc. Il rischio di questi stati disnutrizionali appare correlato a un’immigrazione recente della famiglia e allo stato di povertà che spesso si accompagna alle fasi iniziali dell’esperienza migratoria. Un’indagine ha rilevato un’elevata frequenza di bambini immigrati con malattia celiaca: il rischio di sviluppare questa malattia non è da correlare alle diversità tipologiche, ma alle abitudini alimentari che sono state acquisite a seguito del fenomeno migratorio. A partire dalla 2° e 3° infanzia la scolarità favorisce una più facile integrazione degli immigrati con gli stili di vita del mondo occidentale, tra cui anche le usanze alimentari. Queste sono frequentemente caratterizzate da un’esagerata assunzione di zuccheri a rapido assorbimento, di proteine animali e di grassi saturi con conseguente maggior rischio nell’età adulta di stati morbosi tipici della civiltà moderna: malattie cardiovascolari, obesità, ipertensione, diabete. Una delle prossime sfide sarà quella di evitare, per mezzo di corretti interventi di educazione alimentare, che i ragazzi immigrati assumano gli stessi comportamenti dietetici errati dei loro coetanei italiani. Un possibile traguardo ulteriore potrà essere quello di far conoscere qualche vantaggio proprio dello stile alimentare degli immigrati. Tra le popolazioni islamiche adulte, la tradizione alimentare più seguita è il divieto di assumere carne suina e l’ob- bligo di consumare carne purificata secondo un rituale religioso ben codificato. Questa procedura è obbligatoria anche tra gli ebrei, che parlano di carne kasher, cioè idonea. I musulmani inoltre non possono assumere alcolici e durante il mese lunare di digiuno (Ramadan), non possono assumere cibo e bevande se non dopo il tramonto. Per chi pratica l’induismo la vacca è sacra e quindi non commestibile perché connessa alla dottrina della trasfigurazione; altri indiani sono vegetariani, perché secondo la loro religione tutti gli esseri viventi, compresi gli animali, debbono essere rispettati. L’Italia è ormai divenuta una nazione multietnica e multiculturale. Ciò comporta problemi anche nell’alimentazione, perché questa è differente in ogni cultura. Per non trovarci spiazzati, dobbiamo imparare a conoscerle. Per altro, le popolazioni immigrate tendono ad acquisire le abitudini alimentari del mondo occidentale, con i possibili rischi sanitari che queste comportano (allergie e intolleranze alimentari, malattie dismetaboliche, proprie dei Paesi industrializzati). Uno dei problemi emergenti relativi alla immigrazione è quindi quello dell’alimentazione infantile e degli stati morbosi a essa correlati. Potrà essere di grande utilità una sana pedagogia alimentare, unitamente all’implementazione di un rigoroso protocollo di attività fisica. In questa ottica si pongono gli studi volti a verificare la prevalenza di obesità e soprappeso, particolarmente nella popolazione infantile. Il Centro Salute “G.C. Croce” di Sasso Marconi ha attivato recentemente un’analisi dello stato nutrizionale dei bambini in alcune classi di IV elementare nel territorio della montagna bolognese, unitamente ad un protocollo di implementazione dell’attività fisica per contrastare il fenomeno dell’obesità. È una sfida nuova di fronte ad una popolazione che cambia, alla forte immigrazione presente in queste aree e ad abitudini alimentari ben diverse da quelle alle quali erano abituati i nostri genitori. Note a margine del sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani di Elisa Pelizzari Un importante anniversario Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva e proclama la Dichiarazione universale dei diritti umani. Si celebra dunque quest’anno il sessantesimo anniversario di tale solenne delibera, nella quale, all’art. 2, leggiamo: «Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere...» e, all’art. 21: «Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti». Che ne è di tali impegnative affermazioni rispetto agli stati africani? Inevitabile, qui, è il riferimento alla maggiore organizzazione su scala continentale: l’Unione africana (UA), creata nel 2002, e volta a sostituire l’Organizzazione dell’unione africana (OUA). Ne sono membri tutti i Paesi del continente, ad eccezione del Marocco. In effetti, fra gli scopi dell’UA vi è la promozione della democrazia, dei diritti umani e dello sviluppo. Nel suo atto costitutivo, al punto E, notiamo un preciso riferimento alla Carta delle Nazioni e alla Dichiarazione universale dei diritti umani, mentre, al punto H, si garantisce la protezione delle prerogative sancite dalla Carta africana dei diritti umani e dei popoli. Almeno sul piano formale, l’importanza e il valore inalienabile dei diritti umani vengono dunque riconosciuti dalla pressoché totalità dei governi africani. Differente la prospettiva su un piano reale. Risulta però impossibile, se non si vuole correre il rischio di sottoporre all’attenzione dei lettori solo qualche dato generico e superficiale, tracciare, in poche righe, il quadro della situazione dei diritti umani in ogni Stato del continente. Per verificare in cosa si traduca l’applicazione (o il non rispetto) SITUAZIONI La crisi somala e la partecipazione delle donne alla ricostruzione dello Stato Magdy El Shafee Wa’il Saad, That’s mine, pubblicata in Africa Comics 2005-2006, Lai-momo 2006 59 AeM 64 nov. 08 dei principi sopra enunciati, preferiamo – nel presente articolo – optare per una riflessione di ambito più ristretto e riguardante un caso di sicura attualità: quello della Somalia. In maniera ancora più specifica, tenteremo di offrire una descrizione dei “diritti al femminile” in tale nazione, terra da tanti additata quale drammatico caso di faile state. 60 Un caso di studio: la Somalia Nonostante la lunga crisi e la cruenta guerra intestina ancora in corso, un inedito modello di ricomposizione del tessuto collettivo sembra germinare in Somalia. Protagonista del processo è la Somali Women’s Agenda (SWA), piattaforma di riflessione e d’azione sul futuro assetto del paese, nata nel 2007 e formata da donne, molte delle quali leader di associazioni di volontariato, attive in loco o nella diaspora. Il lavoro e gli obiettivi della SWA sono stati esposti in un seminario internazionale, tenutosi a Torino nel maggio 2008, promosso dalla Provincia e da varie organizzazioni (IIDA, ACSP, SDW, Zonafranca, SCI, IXème Ciel). Un’ulteriore conferenza ha avuto luogo a Nairobi nel luglio 2008, e ha rappresentato un passo decisivo per quanto concerne l’inclusione delle donne somale nel percorso di decision making a tutti i livelli della società locale. Ne sono stati organizzatori le ONG COSPE e IIDA, sostenute da UNIFEM, DFID e Commissione europea. Per comprendere da dove emerga la necessità delle donne di levare la voce in difesa dei loro diritti e di quelli della società civile in generale, è opportuno ripercorrere alcuni momenti della lunga crisi somala. Dopo la fuga del dittatore Siad Barre, il paese piomba in un tunnel di violenza e terrore che, seppure attraverso fasi alterne, rimane senza soluzione. I primi scontri nella capitale, senza governo dal 1991, hanno per protagonisti i signori della guerra, con le loro milizie a base clanica, ciascuno alla ricerca di un’impossibile supremazia. L’emergenza umanitaria da loro generata induce le Nazioni Unite ad organizzare due missioni, Unosom I e Unosom II (1992-1995), tristemente fallite. Le difficoltà che si susseguono favoriscono il rapido smembrasi del paese, un tempo citato quale esempio di omogeneità etnica e culturale in Africa. Si assiste così alle scissioni unilaterali delle regioni del Somaliland (1991) e del Puntland (1997-98). Una fase diversa sembra aprirsi con la salita al potere delle corti islamiche, nei territori centrali e a Mogadiscio, dal luglio 2006; i movimenti religiosi tentano di ristabilire ordine e sicurezza appoggiandosi alla sharia. Ma il loro predominio è contestato dal governo federale di transizione (GFT), istituzione sorta da una serie di conferenze di pace tenutesi all’estero, a Gibuti (2000) e a Nairobi (2004) in particolare. Per appoggiare tale struttura, che pretende di superare le barriere fra i clan, intervengono le truppe etiopi, le quali – nel dicembre del 2006 – finiscono per occupare militarmente Mogadiscio, col tacito assenso degli Stati Uniti (inquieti di fronte al possibile rafforzarsi, nel Corno d’Africa, di un regime musulmano, etichettato come radicale, e all’emergere di una fantomatica base per terroristi vicini ad Al-Qaida). La resistenza armata (muqawamada) all’invasione straniera non tarda ad organizzarsi, anche perché, tradizionalmente, il governo di Addis Abeba è percepito come una minaccia per l’integrità territoriale somala; scaramucce lungo i confini – nell’Ogaden soprattutto – hanno in effetti scandito l’esistenza dei vari regimi nei due paesi. Di fronte alle violenze che sconvolgono Mogadiscio, nel febbraio 2007, le Nazioni Unite autorizzano l’Unione africana ad inviare forze d’interposizione. Gli scontri non cessano: in un paese in pieno caos e alla fame, le armi circolano in abbondanza. È questo l’ambito in cui si profila un fragile patto fra le varie forze contrarie alla presenza etiope. Ne sono artefici alcuni partiti autonomisti d’oltre frontiera invisi al presidente Meles Zenawi, l’Eritrea (che gioca la carta del sostegno militare e logistico alla neonata alleanza per la liberazione della Somalia), gli ex signori della guerra (appartenenti alla confederazione clanica degli hawiye), il COSIC o consiglio delle corti islamiche. Quest’ultimo si articola in correnti, ciascuna delle quali guidata da personaggi carismatici; fra i segmenti più conosciuti, possiamo citare, da un lato, quello di Aden Xashi Cayrow Sheikh Muktar e del suo portavoce Robo Abu Mansur, entrambi a capo del movimento clandestino Shabab, dall’altro lato, il gruppo di Sheikh Hassan Dahir Aweys, l’ex dirigente del partito radicale At-Itihad AlIslaami, assassinato nel 2008 e sostituito da Sheikh Sharif Sheikh Ahmed. I soprusi dell’esercito etiope e dei soldati somali agli ordini del GFT – che ha come presidente ad interim Abdullahi Yusuf Ahme e primo ministro (dimissionario) Ali Mohame Gedi – spingono la gente alla fuga in massa, sia con spostamenti nel paese, sia con l’emigrazione al di fuori dei confini nazionali. Si parla di 1 milione di rifugiati interni, accampati alla meno peggio sotto gli alberi e quasi privi di aiuto dalle agenzie internazionali, impossibilitate ad operare a causa dell’insicurezza diffusa. La migrazione verso il Kenya è poi pesantemente frenata dal governo di Nairobi, che accoglie ufficialmente già 180.000 rifugiati e non ne vuole altri, mentre quella via mare, diretta alle coste dello Yemen, avviene in condizioni di enorme pericolo per i profughi, e senza reali prospettive d’inserimento per loro nel luogo di arrivo. Il fardello della guerra sulle spalle delle donne Il peso dell’emergenza umanitaria di cui è vittima la popolazione ricade, in gran parte, sulle spalle delle donne; sono queste, come vogliono i costumi autoctoni, a essere incaricate del mantenimento della famiglia. Nonostante la guerra civile, continuano perciò a gestire un’economia informale, volta alla mera sopravvivenza, dedicandosi alla coltivazione (laddove l’attività agricola è ancora possibile), al piccolo commercio e all’esercizio di micro-imprese. Un importante aiuto è poi fornito dai parenti installati da anni all’estero, che non cessano di spedire denaro e beni di consumo. Le vedove o le mogli separate di mariti che combattono devono provvedere alla cura dei figli e rischiano di continuo di essere oggetto di stupri e aggressioni. Ne è un esempio il caso di Zamzan Abdinoor (AFRICA.COM, sett. 2007). Data in sposa ad un miliziano del centro portuale di Kisimayo, Zamzam rimane vedova, in seguito a uno scontro tra fazioni. Uno zio le trova un secondo marito, anche lui membro di un gruppo armato, poi ucciso in un agguato. La giovane, con bambini piccoli e incinta, si ritrova abbandonata a se stessa e priva di mezzi per sopravvivere. Nel tentativo di scampare alla guerra civile, nei primi mesi del 2007, oltrepassa la frontiera e si sistema nel campo profughi allestito nella cittadina kenyana di Garissa. Qui lavora ancora oggi in un baracchino dove prepara il tè, vende ge- neri di prima necessità e foglie di khat (sostanza allucinogena da consumare masticandola, molto apprezzata nella regione). Il suo destino ricorda quello di tante somale, cedute dalle famiglie più povere ai miliziani, magari contro la loro volontà, e poi costrette a vagare da un luogo all’altro per sfuggire agli scontri. All’impegno femminile sul fronte domestico e lavorativo, non corrisponde purtroppo una presa di posizione in campo politico. Le numerose (e, non di rado, inutili o pretestuose) conferenze per la pacificazione della Somalia emarginano le donne, relegandole in secondo piano. Interpretazioni scorrette, ma di comodo, della religione musulmana, fanno sì che la componente femminile della società sia esclusa dall’arena pubblica, per venire adibita solamente a compiti domestici. Insomma, al momento di decidere, a molti non pare importante implicare le donne: d’altronde, queste, dovrebbero sentirsi già rappresentate dai leader dei clan (patrilineari) di appartenenza... A ciò la Somali Women’s Agenda ha deciso di porre un freno, lottando per assicurare alle donne pari opportunità di accesso e piena partecipazione alle strutture di potere. Certo, l’entità del conflitto in corso non lascia grande spazio al dibattito, mentre l’assenza d’istituzioni politiche stabili (e legittimamente elette) rende impossibile la messa in opera di un piano strategico efficace. Malgrado questo, la SWA ha già raggiunto uno scopo fondamentale: mettere insieme donne di regioni e di etnie differenti, esponenti di 16 associazioni femminili, per dare vita a quanto è stato chiamato, forse con una certa ironia, il “sesto clan”. Alla consueta distinzione fra le confederazioni claniche (tol) discendenti dal mitico antenato capostipite Samaale (dir, hawiye, darood) o da Sab (digil e raxanweyn), così come ai raggruppamenti più eterogenei formati dalle minoranze etniche (bantu e khoisan, rispettivamente chiamate in somalo jareer e boon), le donne hanno voluto contrapporre una loro esclusiva realtà rappresentativa che non guarda al passato, ma si rapporta alle necessità del presente, il “sesto clan” appunto. Il “sesto clan” Col proposito di chiarire il significato del suo impegno politico, in Somalia come nella diaspora, il 12 e il 13 maggio scorsi la SWA ha accolto l’invito delle autorità e delle associazioni torinesi a riunirsi, per un seminario di studi, nel capoluogo del Piemonte. Il programma delle due giornate è stato inserito in un ciclo d’incontri sui diritti delle donne nel mondo, realizzato dal Museo diffuso della resistenza, a sessant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Relatrici e relatori si sono alternati per offrire un contributo, a partire dalle specifiche competenze, sul tema della ricostruzione della società somala. Figure istituzionali, quali l’assessore alle Pari opportunità e alle relazioni internazionali della Provincia di Torino, Aurora Tesio, o il ministro del governo federale somalo di transizione, Mohame Ibrahim Xabsade, hanno ascoltato intellettuali da anni in esilio, come Mohame Aden Sheikh, universitari, quali l’antropologo Alberto Antoniotto e, soprattutto, esponenti delle associazioni femminili: Hibo Yassin (COSPE), Mariam Yassin (IIDA), Hawa Ugas (WAMO), Sahra Omar Mallim (ALLA MAGAN). Hanno poi preso la parola varie rappresentanti della diaspora in Europa, fra cui Jawahir Cumar e Batulo Essak, che lavorano per portare avanti progetti di cooperazione sociosanitaria nel paese d’origine. Nuradin Dirie, consigliere speciale del responsabile UNICEF per la Somalia, ha quindi spiegato come incide sulle generazioni più giovani il perdurare dell’emergenza e la mancanza di strutture educative adeguate. L’analisi del quadro politico ha sottolineato il valore storico della pastoral democracy, tipica della realtà nomade prima del colonialismo e ha condotto a interrogarsi sul senso, oggigiorno, di un’identità costruita unicamente sui legami agnatici. Quanto al ruolo delle donne, si è ricordato come, da un punto di vista formale, i loro diritti siano stati riconosciuti già dagli anni ’60, all’indomani cioè dell’indipendenza nazionale, senza però che venissero tradotte nella pratica quotidiana le norme sull’uguaglianza. Il problema di fondo rimane quello della formazione e dell’istruzione, non solo in ambito scolastico, bensì in campo sociopolitico: il dialogo, il rispetto reciproco e la costruzione di una cultura di riconciliazione esigono la partecipazione di tutti i cittadini, uomini e donne in prima linea, insieme. Proprio le questioni della good governance sono al centro di progetti di cooperazione fra l’Italia e la Somalia, rivolti al sesso femminile. La collaborazione fra le ong COSPE e IIDA (sigla che in somalo significa “ragazza nata in un giorno di festa”) scommette sul potenziamento (empowerment) della società civile, attraverso il riconoscimento del contributo delle donne, le più disponibili a muoversi per la pace e a sormontare le faziosità. I tradizionali spazi decisionali, gestiti dagli anziani delle comunità, vengono troppo spesso strumentalizzati: un soprannome attribuito ai membri maschili di tali consigli lo conferma in modo sarcastico. L’espressione fadhi ku dirir (coloro che rimangono seduti a sorseggiare il tè, discutendo di guerra, ma facendo combattere gli altri) designa ormai i “saggi” dei villaggi e dei quartieri, i quali sembrano trovare nel mantenimento dello status quo la sola ragione d’essere del loro potere. A quando la svolta radicale? Elisa Pelizzari è dottore di ricerca in antropologia e etnologia all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi; specialista del Corno d’Africa, lavora attualmente come responsabile della casa editrice L’Harmattan Italia T he Universal Declaration of Human Rights (10th December 1948) established, at least formally, the importance and value of human life by stating its most important rights. But what value and effectiveness do these principles have in Africa? This article analyses the case of post-civil war Somalia, where women have tried to “reform” their country through the Somali Women’s Agenda (SWA), an organization aiming to involve women in the decision making process of the local community. 61 AeM 64 nov. 08 MUSEI READ-ME. Musei etnografici e diaspora Museo Luigi Pigorini, Roma, 5-7 giugno 2008 di Anna Maria Pecci Mathilde Monnier, en collaboration avec Karim Zeriahen, Dans tes cheveux, 2007, installation vidéo, 10 min. 59 sec. © Musée du quai Branly/Marc Coudrais 62 N elle giornate del 5, 6 e 7 giugno il Museo nazionale preistorico etnografico (MNEP) “Luigi Pigorini” di Roma ha ospitato la prima di una serie di iniziative organizzate nell’ambito del progetto READ-ME (Réseau européen des associations de diasporas et musées ethnographiques) a cui l’istituzione italiana prende parte insieme a tre dei più importanti musei etnografici europei: il Musée Royal de l’Afrique Centrale di Tervuren (Bruxelles), l’Etnografiska Museet di Stoccolma e il Musée du quai Branly di Parigi. Il progetto si inserisce in quel processo di ripensamento delle poetiche e politiche della rappresentazione museale (Karp e Lavine 1995) che sta recentemente coinvolgendo alcune delle principali istituzioni museali europee, dopo essere stato avviato e promosso, già negli anni ’80 e ’90 del Novecento, in quei Paesi anglosassoni e francofoni (ricordiamo in particolare gli Stati Uniti, l’Australia e il Canada) dove maggiori sono state le rivendicazioni dei diritti di rappresentazione e autorappresentazione culturale da parte delle minoranze o “comunità” etniche depositarie del sapere e del saper fare insiti nelle testimonianze materiali e immateriali “altre” – ovvero “loro” – conservate nei musei. READ-ME intende principalmente ridefinire e promuovere il rapporto tra i musei etnografici che vi prendono parte e le culture della diaspora che reclamano nuova visibilità sociale in un’ottica di inclusione culturale e di cittadinanza attiva. A tal fine, risulta di cruciale importanza l’elaborazione partecipata (o collaborativa) di una nuova visione museologica e museografica che assuma i patrimoni e i musei come terreno di connessione e di confronto interculturale su cui elaborare e sperimentare attività di valorizzazione e riappropriazione identitarie. Il progetto, per quanto riguarda la restituzione pubblica dei lavori interistituzionali, è strutturato in un ciclo di atelier scientifici caratterizzati dalla presenza congiunta di referenti museali e rappresentanti delle associazioni o comunità delle diaspore dei Paesi partecipanti. Ogni evento intende costituire un’occasione di dibattito e riflessione per/tra antropologi, etnologi, sociologi, storici dell’arte, museologi, museografi e studenti, ponendo al centro del confronto non soltanto il tema della diaspora ma anche quello della maschera che, essendo presente in tutte le culture, è intesa come “oggetto museale transculturale” e mezzo per incentivare il dialogo tra le diverse comunità diasporiche. Ogni atelier prefigura inoltre l’esercizio e l’espressione di uno sguardo critico da parte dei rappresentanti delle diaspore tanto nei confronti dei musei e delle loro strategie rappresentative quanto dei rapporti tra i Paesi europei e le ex colonie in una prospettiva postcoloniale. L’atelier di Roma, dal titolo “Museo e diaspora. Maschere e identità plurali”, è stato articolato in tre giornate tematiche – Il Museo etnografico, la maschera, le diaspore; Io, l’altro, la maschera; Scritture della diaspora e maschere dell’identità – a cui hanno preso parte, in qualità di relatori, i referenti del MNEP “L. Pigorini”, i rappresentanti di alcune associazioni e comunità delle diaspore presenti a Roma (tra cui AssoCina, Federazione della diaspora africana di Roma e del Lazio, ATM onlus, Comunità della diaspora peruviana), antropologi culturali e museali, docenti di lingue e letterature straniere, giornalisti e artisti “migranti”, di prima e seconda generazione. Tra il pubblico erano presenti diversi “addetti ai lavori” e studenti, oltre ai referenti dei musei europei e ai rappresentanti delle diaspore provenienti dal Belgio e dalla Svezia. Da segnalare la significativa assenza dei rappresentanti delle associazioni delle diaspore in Francia. I lavori hanno ruotato attorno al tema della maschera, intesa in senso sia metaforico che materiale; una scelta che, come illustrato nel programma, raddoppiando le possibilità di riflessione, ha inteso evitare il rischio di «limitare il campo di interesse alla maschera in quanto oggetto etnografico connotato da specifiche valenze culturali» e innescare conseguenti «meccanismi di esclusione» per cui «le comunità coinvolte avrebbero potuto non riconoscere nell’oggetto-maschera un elemento rappresentativo del proprio patrimonio culturale». A partire da tali premesse, e con il contributo dei rappresentanti delle associazioni delle diaspore, la maschera è stata assunta come «dispositivo simbolico polisemantico e inclusivo, un metadiscorso sui processi di costruzione dell’identità in contesti di immigrazione». Gli interventi hanno pertanto proposto diverse chiavi di lettura, prevalentemente antropologiche, del “mascheramento” e della trasformazione delle identità in contesti di adattamento e di integrazione culturale, illustrando molteplici declinazioni del tema a partire da resoconti di fieldworks condotti nella prospettiva di un’antropologia “rimpatriata” (Marcus e Fischer 1998; Clifford 1993) e dislocata tra il percorso diasporico e musealizzante della maschera Jurupari conservata al MNEP “L. Pigorini”, le comunità diasporiche presenti al centro e ai margini di Roma e le produzioni artistiche dei giovani migranti di seconda generazione, per citare soltanto qualcuno dei casi discussi. Nel corso delle tre giornate la dialettica tra musei e culture delle diaspore è stata vivace e costruttivamente “tesa”, nel senso che la riflessione sui concetti in uso (identità, etnicità, maschera, diaspora, patrimonio) e sulle modalità di rappresentazione delle culture (in particolare il metodo etnografico di ricerca sul campo, quale incontro “asimmetrico” con l’altro; il linguaggio museografico o “vetrinizzazione”; la scrittura dell’altro) è stata oggetto di un confronto e di un dibattito avviati, in maniera critica, dai rappresentanti delle comunità delle diaspore, in particolare dai belgi che in più occasioni hanno sollecitato gli antropologi presenti a ripensare ancora, “qui e ora”, alcuni degli strumenti in dotazione con la loro “cassetta degli attrezzi”. Non è possibile sintetizzare qui il programma degli interventi – numerosi, molto diversi tra loro per contenuti e approcci disciplinari, e particolarmente densi di significati – ma appare opportuno riassumere il senso dell’iniziativa parafrasando uno dei sottotitoli secondo il quale “il museo etnografico esce dai depositi” e getta la maschera, ovvero apre le porte a uno sguardo esterno che, in quanto diasporico, può risultare anche estraniato e gli disvela parte (siamo soltanto agli inizi…) dei dispositivi discorsivi che, tradotti in linguaggio museografico, hanno storicamente “camuffato” le identità tangibili e intangibili degli oggetti altri, occultando i processi culturali di etichettamento e definizione a cui sono stati sottoposti. Come sostiene James Clifford, «tutti i siti di raccolta cominciano ad assomigliare a posti d’incontro e passaggio. Visti in questo modo, gli oggetti attualmente nei grandi musei sono viaggiatori, attraversatori: alcuni fortemente “diasporici” con forti legami altrove, ancora molto significativi. (…) Questa riconsiderazione di collezioni e esposizioni come processi storici incompiuti di viaggio, di attraversamento e riattraversamento, modifica le concezioni di patrimonio e pubblico» (Clifford 1999, p. 264). READ-ME, con modalità finalmente collaborative, ne sta prospettando alcune. READ-ME proseguirà con altre tre iniziative in programma: - un atelier e un festival del film antropologico presso l’Etnografiska Museet di Stoccolma (ottobre 2008); - un Colloquio internazionale sul tema della diaspora al Musée du quai Branly di Parigi (marzo 2009); - una mostra sulle maschere contemporanee africane e sui rispettivi rituali al Musée Royal de l’Afrique Centrale di Tervuren (maggio 2009). Anna Maria Pecci, antropologa museale, svolge attività di ricerca, consulenza e collaborazione nell’ambito della progettazione culturale applicata a musei e patrimoni BIBLIOGRAFIA J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 1993 J. Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 1999 G.E. Marcus, M.M. J. Fischer, Antropologia come critica culturale, Meltemi, Roma 1998 I. Karp, S. D Lavine (a cura di), Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, CLUEB, Bologna 1995 F rom the 5th to the 7th of June the Museo nazionale preistorico etnografico (MNEP) “Luigi Pigorini” in Rome hosted the first conference of the project “READ-ME” (Réseau européen des associations de diaspora et musées ethnographiques). Participating in the project are some of the most important European ethnographic museums (Musée Royal de l’Afrique Centrale of Tervuren, Brussels, Etnografiska Museet of Stockholm, Musée du quai Branly of Paris). “READ-ME” aims at redefining and facilitating the links between ethnographic museums and cultures of the diaspora. 63 AeM 64 nov. 08 Femmes dans les arts d’Afrique MUSEI Musée Dapper, Paris, 10 ottobre 2008 - 12 luglio 2009 64 di Francesca Fattori F igure centrali delle società tribali africane, fondate spesso su un sistema matrilineare, le donne sono le protagoniste assolute della grande mostra temporanea inaugurata dal Musée Dapper – la cui fondazione opera da oltre vent’anni per promuovere le arti africane – per celebrare il ruolo riservato alla figura femminile nella rappresentazione scultorea africana. Ciò che colpisce in questa esposizione, curata da Christiane Falgayrette Leveau, oltre alla grande quantità di opere esposte (circa centocinquanta, provenienti da diverse importanti collezioni museali e private, europee e africane), è l’estrema varietà delle forme artistiche e dei supporti e materiali utilizzati. In funzione dell’uso privato o pubblico, quotidiano o ritosacrale degli oggetti, il corpo femminile è sublimato nel legno, nell’avorio o nei metalli preziosi, e interviene nei riti di iniziazione, sepoltura, protezione o risoluzione dei conflitti... I tratti del corpo femminile possono essere – secondo l’epoca o la localizzazione geografica – geometricamente e grossolanamente abbozzati o esaltati nelle forme piene della fertilità, simboleggianti il ruolo della donna come nutrice della famiglia e del mondo, ma infondono in ogni caso un’impressione di equilibrio atemporale e di grande modernità plastica. Comune denominatore alla grande diversità di forme e usi, la celebrazione dei cicli e dei momenti forti della vita, del passaggio dall’infanzia all’adolescenza e all’età adulta, dove è la maternità, più visibile dell’evento del parto, ad essere esaltata. Dall’Antico Egitto ai regni e gruppi dell’Africa occidentale ed equatoriale (Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Mali, Camerun, Nigeria, Egitto, Gabon, Tanzania, Ghana), non si tratta unicamente di esplorare l’estetica della rappresentazione del corpo femminile, ma anche il ruolo rivestito dalle donne nella vita sociale, politica, economica e religiosa delle rispettive comunità. La prima impressione è quella di una grande ambivalenza, in una sorta di presenza/assenza che vede la donna come figura predominante e fondamentale all’interno della cerchia familiare – dotata del ruolo fondamentale di trasmissione della memoria e dei valori – ma, al tempo stesso, apparentemente più defilata nella sfera politica e rituale delle comunità africane. Un’impressione confermata dalla pratica: la rappresentazione della figura femminile è principalmente affare degli uomini del gruppo, artefici e destinatari degli oggetti scolpiti a effige femminile, come la straordinaria “maschera da ventre” di legno, indossata dagli officianti per riprodurre in particolari rituali le fattezze del corpo trasformato dalla gravidanza. Ciò che risalta maggiormente è la celebrazione del ruolo di moglie e di madre, custode e garante dell’ordine della famiglia, cellula primordiale del gruppo e dell’intero cosmo. Gli oggetti esposti hanno valenza di ricompensa, come preziosi cucchiai di legno scolpiti che premiano presso alcune popolazioni della Costa d’Avorio le arti culinarie femminili, e vengono utilizzati per trasmettere specifici messaggi educativi alle giovani generazioni e in particolare alle giovani donne. Ogni tappa della vita femminle è presente, dall’adolescenza alla gravidanza, magnificata come segno di fertilità dell’intera comunità e della terra. Le maschere di legno e le statue corrispondono all’ideale di bellezza e sensualità dei diversi gruppi e epoche, e testimoniano delle esperienze vissute dalle donne nella propria corporeità, come le scarificazioni rituali o le pratiche invasive e violente delle mutilazioni sessuali, segno di iniziazione e di passaggio all’età adulta. Il rapporto di coppia è egualmente presente, e la donna è spesso presentata come controparte di un essere maschile, nella maggior parte dei casi divino. La statuaria funeraria – che richiama le reminiscenze delle lezioni di storia sull’Antico Egitto – celebra “coppie eterne” che simboleggiano la perennità della struttura familiare e la perfetta complementarità delle figure maschile e femminile. La celebrazione del ruolo “privato” e della sfera intima della donna non deve trarre in inganno sull’apparente relegazione a tali funzioni, e la mostra rivela abilmente la celebrazione artistica riservata al ruolo politico e sacrale rivestito dalla donna in specifici contesti. Maternità rima infatti con regalità, come illustrano le maschere e i copricapi destinati a trasmettere alla comunità l’esempio di madri-regine illustri. Costante di numerose culture sparse per il mondo, il gruppo scultoreo della donna con il bambino fornisce nelle arti africane un’immagine YAKA / SUKU, Statuette, République Démocratique du Congo, Bois et pigments, H: 32 cm. Musée royal de l’Afrique centrale, Tervuren. Photo Jean-Marc Vandyck, © MRAC Tervuren 65 AeM 64 nov. 08 Angèle Etoundi Essamba, Série «Noirs», Les Amazones, 2002. Photographie argentique noir et blanc. © Angèle Etoundi Essamba ideale tendente verso il mondo sovrannaturale. Iniziate alle pratiche rituali e terapeutiche in alcune comunità, come in Mali, le donne hanno l’occasione di partecipare direttamente alle cerimonie, prerogativa usualmente riservata agli uomini. Considerata un nodo fondamentale nella relazione al divino e all’aldilà, la donna è quindi presente anche quando la sua presenza è proibita fisicamente, grazie a statue e oggetti che, riproducendone le forme, ne attestano l’importanza primordiale all’interno delle dinamiche sociali e religiose. In apertura all’esposizione, spazio dedicato per antonomasia alle opere di giovani artisti originari dell’Africa o della diaspora africana, il Musée Dapper propone le immagini dell’artista camerunese Angèle Etoundi Essamba. Nelle sue fotografie di grande formato, un uso sapiente del bianco e nero e di alcuni dosati colori permette di sottolineare i volumi dei corpi femminili e l’intensità degli sguardi, nella potenza evocatrice di una femminilità che è incarnata nei diversi volti dell’Africa, dal Maghreb al sud del Sahara. Mostrando corpi “esaltati, tormentati, in rivolta, finalmente liberati”, il ritratto femminile è utilizzato per interrogare le appartenenze multiculturali e il ruolo che la società africana riconosce alla donna, immortalata nelle diverse tappe della vita. Anche in questo caso, il medium utilizzato e le figure rappresentate contribuiscono a unire modernità e tradizione, concretezza e misticismo, dando vita a uno spazio senza tempo nel quale la donna si vede riconosciuta nel ruolo di protagonista e regina. Una ricca programmazione culturale (proiezioni cinematografiche e conferenze) completa la mostra, esplorando l’evoluzione contemporanea della rappresentazione femminile nelle forme artistiche africane e toccando temi controversi e attuali come il ruolo della donna nella migrazione o nei conflitti. F emmes dans les arts d’Afrique, held at the Dapper Museum (Musée Dapper), is dedicated, as the title suggests, to African women. Women in African art are represented through various mediums such as clay and wood sculptures that show the different stages in a woman’s life: childhood, adolescence, adulthood and mainly motherhood. The exhibition highlights the private and public aspects of women and their political function in society. In particular in the works of the African artist Angle Etoundi Essamba he reinforces this concept by showing women that embody the many faces of Africa. I “luoghi comuni” dell’intercultura C ultura, culture, multicultura, intercultura, pluralismo culturale, dialogo interculturale, identità sono alcune espressioni ricorrenti di un vasto dibattito che negli ultimi anni attraversa le discipline e la società; un dibattito caratterizzato da eccessi e retoriche, semplificazioni e distorsioni, parzialità e interessi, confusioni. Il termine “interculturale”, assieme a “multiculturale”, è divenuto una sorta di chiave universale buona per qualsiasi evento che coinvolga in modo più o meno determinante individui o aspetti di cultura diversa. Tutto oggi pare interculturale, e si fregia di tale attributo o di uno dei tanti lemmi derivanti da questa matrice lessicale, con il rischio di svuotare e banalizzare un’idea e una pratica con profonde implicazioni politiche, pedagogiche, etiche. Vista da lontano l’interculturalità sembra dunque evocare grandi consensi. Molti si pregiano di interpretarla correttamente e di praticarla con coerenza. Il panorama si complica se lo sguardo si avvicina. L’interculturalità esaltata e protetta – e la sua versione transitiva, il dialogo interculturale – è soltanto la propria, con i propri parametri interpretativi, con le proprie ideologie, sottomessa alla propria paternità. Ma un conto è consentire al principio astratto, un conto è misurarsi sul concreto. Un maestro dell’interculturalità come Raimond Panikkar (2002) ha affermato coraggiosamente che «l’apertura all’interculturalità è veramente sovversiva. Ci destabilizza, contesta convinzioni profondamente radicate che diamo per scontate, perché mai messe in discussione. Ci dice che la nostra visione del mondo, quindi il nostro stesso mondo, non è l’unico». Che sia così, a dircelo, è la prospettiva storica. Il dialogo interculturale (e quello interreligioso di cui è parte integrante) non appartiene alla prassi comune delle relazioni internazionali, né a quelle più feriali e tuttavia non meno importanti dei rapporti quotidiani tra persone appartenenti a culture e a religioni diverse. Intanto perché le esperienze storiche prevalenti, nelle relazioni tra gli stati e tra i popoli, non sono state e non sono di dialogo, di riconoscimento reciproco, ma piuttosto di dominio se non addirittura di sopraffazione. L’altro, il diverso, nella cultura storica più diffusa che poi si è affermata come mentalità prevalente, va tenuto sotto controllo, va dominato o quanto meno messo in condizioni di non turbare l’ordine costituito, di non mettere in discussione gli atteggiamenti condivisi dalla maggioranza omogenea. Un quadro sintetico sul dialogo interculturale deve quindi partire da questi due poli: da un lato l’apparente pressoché generale successo dell’idea, e dall’altro il sotterraneo pro- blematico scontro di visioni, interpretazioni e interessi in cui si fabbrica il senso quotidiano del dialogo interculturale nel mondo globalizzato. Va dunque compreso leggendo le grandi proclamazioni e le facili convergenze alla luce dei reali termini problematici. Le matrici dell’intercultura Che cos’è dunque “intercultura”? In quale contesto ha luogo? Qual è la prospettiva di un processo interculturale? Per rispondere a queste domande si possono sommariamente individuare alcuni assi a partire da altrettanti semplicistici luoghi comuni. L’interculturalità non insiste sulle “culture”, ma è attenta alla relazioni tra le persone. L’idea che le culture siano identità rigide e univoche, non multiple, e che i loro confini siano difficilmente modificabili, è ormai minoritaria negli studi e nel dibattito scientifico, ma non ancora nel più diffuso senso comune. È su quest’idea che affondano le loro radici le visioni di tipo differenzialista, che possono andare da un multiculturalismo tollerante, ma poco incline allo scambio culturale, fino a vere e proprie forme di “neorazzismo culturale”, cioè fondato sulla diversità delle culture. È questo, per esempio, lo scenario che potrebbe dar vita a quello che è stato chiamato “scontro di civiltà”. La ricerca antropologica ha mostrato tuttavia che la questione è molto più complessa. Le culture non sono organiche e chiuse, ma passano attraverso processi di trasformazione e di adattamento. Le contraddizioni interne, mosse dalle dinamiche sociali, inducono cambiamenti; e il contatto con altre culture può influenzare l’evoluzione in un certo modo, piuttosto che in un altro, può attivare meccanismi di apertura e cambiamento, oppure meccanismi difensivi di rafforzamento identitario. In ogni caso le culture non orientano in maniera deterministica il contatto tra gli individui. Cultura e identità sono quindi concetti “in divenire”, non dati una volta per tutte, continuamente aggiornabili e permeabili ad influenze “esterne”. Sono costituzionalmente entità relazionali. Ciò non significa che non sia essenziale cercare di capire chi si è, a cosa si crede, come si vuole vivere; significa non accontentarsi di etichette preconfezionate e affrontare la propria esistenza consapevoli di essere sempre “in ricerca”. Pertanto, quando utilizziamo la parola cultura in un contesto di interculturalità, osserva giustamente Marco Aime (2004), non è corretto parlare di culture che si incontrano, INTERCULTURA di Lorenzo Luatti 67 AeM 64 nov. 08 ma di persone che veicolano una certa cultura e che si incontrano. L’intercultura insiste, non sui due poli – “le culture” – che sono in gioco e sulle supposte differenze degli altri, ma sul prefisso inter, sullo spazio che sta nel mezzo, che si colloca nel territorio dell’incontro e delle possibilità di interazione. Ciò nonostante la reificazione delle culture (e delle identità) continua ad essere una tentazione molto diffusa nelle pratiche quotidiane (e in quelle scolastiche), sostanzialmente perché le idee semplici e semplicistiche sono più popolari delle idee complesse. Un’intercultura intenta a scoprire le culture e a cercare di afferrarle ignora questo rischio, non accorgendosi peraltro che compie un tentativo vano. L’obiettivo dell’approccio interculturale è dunque imparare come svolgere l’incontro e non imparare la cultura dell’altro. Una nuova prospettiva del dialogo richiede una comprensione interculturale che permetta di cogliere l’altro come singolo e allo stesso tempo, come inserito nel gruppo, libero – se lo desidera – dalla sua prigione culturale. Una simile visione dinamica e non reificata delle culture assume un relativismo moderato come base per cercare il difficile equilibrio tra rispetto delle specificità e affermazione dei principi universali (Santerini 2003). Su questo “pericolo” insiste il documento di indirizzo ministeriale dell’ottobre 2007 sulla “via italiana” alla scuola interculturale, il quale pone l’accento su una formazione (iniziale) degli insegnanti che adotta un approccio multidisciplinare: antropologico, pedagogico-didattico, sociologico, psicologico e artistico. Lo sguardo antropologico è espressione di un curriculum formativo che si nutre di sano “relativismo”, ovvero antidogmatismo, apertura, autocritica, disponibilità al dialogo, capacità di uscire da sé, di disporsi all’alterità, di cogliere i propri confini anche come limiti, di non giudicare a priori. Occorre portare questo sguardo, questa grande lezione dell’antropologia culturale nell’intercultura, nella scuola plurale: formare e educare ad una mente multiculturale, ad una forma mentis interculturale, versatile, aperta all’ascolto e all’incontro, complessa, dialogica, al plurale in grado di esprimere nuove forme culturali più fluide e composite (Anolli 2006, p. 164; Cambi 2006). 68 L’intercultura non è un’esclusiva del fenomeno migratorio Da quando significativi flussi migratori hanno sempre più interessato l’Italia, cambiando il paesaggio delle città e della società, abbiamo iniziato a definirci multiculturali. A ben vedere, più che parlare di pluralismo culturale come un aspetto nuovo che interessa l’Italia è più indicato parlare di una sua maggiore visibilità e articolazione. Il pluralismo culturale, come quello religioso, da sempre caratterizza ogni società nel mondo, non c’è nulla di nuovo in questo. Per cui, come è stato opportunamente osservato, «il multiculturalismo è un assunto che si basa quantomeno su un doppio errore: che un individuo sia per così dire completamente o ampiamente sovradeterminato da una cultura, e che le nostre società fossero (o che le società in generale possano mai essere) monoculturali prima dell’arrivo dei migranti» (Zoletto 2000). Semmai la presenza degli immigrati ci ha costretto a prendere atto di un pluralismo culturale interno, così come ad esempio la presenza dell’islam ci ha costretto a prendere atto di un pluralismo religioso preesistente alle migrazioni internazionali. L’Italia si scopre plurale e questo non è senza conseguenze. Oggi, in questa fase, parlare di intercultura spinge a calare questo concetto ben dentro il contesto migratorio. Per molti l’intercultura è semplicemente delegata all’incontro tra persone provenienti da contesti geografico-statuali diversi. Del resto l’educazione interculturale, soprattutto in Italia, è nata sotto la spinta del fenomeno dell’immigrazione. Difficile negarlo. A favorire questo “equivoco” hanno contribuito numerosi documenti statali di indirizzo (del Ministero della Pubblica Istruzione e del Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione usciti dal 1989 in poi) che hanno unito i due temi, intercultura e inserimento degli alunni stranieri. Tuttavia il procedere congiunto e talvolta confuso dei due termini può considerarsi, come è stato osservato, un punto di forza italiano, in quanto «l’orizzonte interculturale ha contribuito, almeno in parte, a dare senso alle pratiche quotidiane per l’integrazione e queste sono state, a loro volta, collocate al centro di un progetto più ampio e inclusivo» (Favaro 2007, p. 25) Nondimeno il metodo interculturale considera la molteplicità degli stili, dei modelli, degli atteggiamenti, delle sfumature che le componenti della società esprimono in modo differenziato. Differenziato per classe, per genere, per generazione, per appartenenza geografica, per appartenenza urbana o rurale, per potere contrattuale, per letture del presente e concezioni sul futuro. L’intercultura può fare emergere le dinamiche delle relazioni fra diverse soggettività che interpretano i propri modelli di appartenenza in modo differenziato secondo le loro esperienze. Fornisce abilità, conoscenze, atteggiamenti necessari a risolvere i conflitti, a lavorare in una società plurale, ad analizzare i propri valori culturali, promuovendo la tolleranza, il rispetto e la comprensione reciproca, l’apertura verso gli altri. Dunque, intercultura non solo a scuola e nel mondo dell’educazione, ma sfida professionale e umana da vivere e rendere pratica quotidiana nei luoghi di vita e di prossimità, nei servizi per tutti, nei territori comuni, nei modi e tempi dell’abitare insieme (Favaro 2001). Sul piano pratico, significa passare da una concezione “compensativa” e specialistica riservata agli stranieri, ad una concezione ordinaria e pervasiva. Occorre assumere e praticare l’interculturalità come normalità e, come viene spesso ripetuto, sfondo integratore. L’intercultura non è mai rinuncia, censura, negazione, impoverimento L’impulso all’interculturalità non deve far paura perché questa prospettiva non comporta mai una perdita di aspetti identitari importanti, in quanto la conoscenza non deve mai significare necessariamente né adesione né condivisione di ciò che viene conosciuto. E è importante segnalare che dove nascono conflitti, fortemente mediatizzati e dibattuti, sono spesso gli stessi autoctoni ad innescarli, erigendosi a difensori della “diversità”, come nel caso della questione della presenza del crocefisso o del presepe in classe. Esempi, questi ultimi, di infauste iniziative di singoli insegnanti italiani, del tutto ignari che il pluralismo e l’intercultura non funzionano per sottrazione, ma semmai per addizione e per sintesi. Non c’è intercultura senza dialogo, non c’è dialogo che non sia interculturale I due termini, per quanto sempre più abusati, presentano un’evidente correlazione. Nella sua accezione l’intercultu- ralità è un concetto che si lega a quello di dialogo, pace, convivenza possibile e si contrappone ad altri concetti come scontro di civiltà, integralismo, guerre etniche, razzismo e xenofobia etc. Il dialogo è interculturale o non è. Affinché esso sia fecondo e autentico occorrono tuttavia alcune condizioni preliminari: la centralità dell’alterità e della relazione, che comportano come portati ineliminabili la disposizione interiore all’accoglienza della differenza, la reciprocità, l’interiorizzazione della proprio non-assolutezza e della non indiscutibilità delle proprie istanze, dando luogo a atteggiamenti di accoglienza, empatia, apertura, tolleranza, rispetto. Il dialogo quindi prevede una sana posizione di relativismo e laicità, che passa attraverso il riconoscimento di valori fondamentali, quali il pluralismo, la libertà e la democrazia, condizione propedeutica per la costruzione di un dialogo interculturale. Elementi costitutivi e strutturali sono l’intenzionalità, il prefisso inter- di intercultura, l’empatia, il decentramento, la transitività cognitiva e una intrinseca politicità. In questo senso, concordiamo con Franco Cambi quando considera l’intercultura una “sfida” della pedagogia odierna: «L’unione dei principi del pluralismo, della differenza e del dialogo viene a produrre così una frontiera avanzata del pedagogico, che è anche una frontiera in movimento e che costituisce l’elemento chiave della sfida dell’intercultura, anche in pedagogia”» (Cambi 2001). La dimensione politica del dialogo interculturale Come si è detto la cultura è plurale in quanto presenta molteplici voci e non è una neanche nel singolo individuo (multiculturale lui stesso). E’ multiculturale nel senso che contiene in sé diversi frammenti provenienti da altri contesti. Ma è altresì interculturale perché questi frammenti fanno sì che individui appartenenti agli stessi contesti possano agire secondo diverse modalità. La multiculturalità è un dato di fatto, è l’insieme delle parti che compongono il mosaico; intercultura è il metodo per prendere coscienza di tale multiculturalità. Le relazioni per loro natura sono dialogiche e ogni relazione dialettica presume una serie di aggiustamenti. L’interagire produce compromessi perché la relazione significa anche la ricerca di un’accettazione reciproca. Allora diviene interessante capire come avvengono questi aggiustamenti o questi compromessi, come avviene questa ricerca dell’accettazione reciproca, vale a dire in modo negoziato, conflittuale, dialettico. Avviene con grande difficoltà quando le soggettività interagiscono all’interno di una relazione asimmetrica. E di fatto, l’intercultura non può trascurare che i rapporti avvengono spesso in forma asimmetrica tra i soggetti della relazione. In questo senso, l’intercultura è espressione di rapporti di potere e il carattere politico diventa parte del dialogo interculturale nel suo essere necessariamente dialogo tra persone che si incontrano e si mettono in discussione. Si pensi ad esempio ai rapporti tra immigrati e società di approdo, dove i primi occupano una posizione in netto svantaggio e hanno minori possibilità di incidere nella relazione stessa. La retorica dell’interculturalità basata sulla valorizzazione delle differenze, che parte dall’idea che ci sono culture che entrano in contatto, non è sostenibile all’interno di un sistema concreto di relazioni asimmetriche. Ma è anche un approccio complessivo e trasversale ad ogni aspetto della società, dalle relazioni interpersonali agli assetti di potere. Laboratorio di espressione artistica. Calderara di Reno giugno 2008. Foto di Gail Pomare 69 AeM 64 nov. 08 Vincent Rioux, Aubervilliers vu d’un vèlo, “Aubervilliers, portraits sensibles”, agosto 2008 © Michel Pichon Dal dialogo proclamato al dialogo praticato Per un corretto dialogo interculturale occorrerà dunque evitare letture ideologiche e metafisiche dell’altro. In primo luogo bisognerà riconoscere che a dialogare non sono entità astratte (le culture), ma uomini e donne con storie, vissuti, sofferenze, speranze proprie, peculiari e irripetibili. Creare e favorire occasioni di incontro in luoghi e spazi che favoriscano il contatto effettivo, l’ascolto reciproco, la narrazione altrui, ma anche valorizzare esperienze e testimonianze vissute in un dialogo fecondo possono aiutare senz’altro il percorso. Così partire dagli elementi che ci accomunano piuttosto che da quelli che ci dividono è una buona indicazione di metodo. Il dialogo interculturale non è un’attività riservata agli specialisti, ma coinvolge tutti, e tutti sono chiamati a praticarlo. Ognuno ne è protagonista e non può limitarsi a ricoprire il semplice ruolo di teorizzatore. Certo è che per una reciproca conoscenza ci vuole del tempo. Il cammino potrà rivelarsi complesso e accidentato. Occorrono umiltà e mitezza nell’affrontare il dialogo interculturale: l’umiltà di chi sa che non ha mai tutta la verità e la mitezza di chi cerca di capire quanto di positivo c’è negli altri prima di condannare senza appello quello che ancora ci divide. E, se è vero che la chiarezza evita tristi malintesi, va fatto uno sforzo per spiegarsi meglio, raccontarsi reciprocamente, per conoscere e evitare la paura dell’ignoto, per conoscersi e stupirsi con piacere del valore altrui, per unire l’impegno e contribuire ad una coesistenza, oltre che pacifica, anche produttiva di benessere e umanità. 70 Lorenzo Luatti è ricercatore dei processi migratori e delle relazioni interculturali. Collabora con il Centro di Documentazione Città di Arezzo e con la Ong Ucodep. È assegnista di ricerca presso l’Università di Firenze. Tra le sue recenti pubblicazioni: Atlante della mediazione linguistico culturale (FrancoAngeli, 2006), La città plurale. Trasformazioni urbane e servizi interculturali (EMI, 2006), Voci migranti nella letteratura italiana per ragazzi, in «Scritture migranti. Rivista di scambi interculturali», n. 1/2007 BIBLIOGRAFIA M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004 L. Anolli, La mente multiculturale, Laterza, Roma-Bari 2006 F. Cambi, Incontro e dialogo. Prospettive della pedagogia interculturale, Carocci, Roma 2006 F. Cambi, Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma 2001 D. Demetrio, G. Favaro, Didattica interculturale, FrancoAngeli, Milano 2002 G. Favaro, L. Luatti, L’intercultura dalla A alla Z, FrancoAngeli, Milano 2004 G. Favaro, La “via italiana” all’integrazione interculturale, in «Animazione sociale», n. 5, 2007, pp. 21-32 R. Panikkar, Pace e interculturalità, Jaca Book, Milano 2002 F. Pinto Minerva, L’intercultura, Laterza, Roma-Bari 2002 M. Santerini, Intercultura, La Scuola, Brescia 2003 G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei, Rizzoli, Milano 2000 D. Zoletto, Gli equivoci del multiculturalismo, in «Aut Aut», n. 312, 2000 D. Zoletto, Straniero in classe. Una pedagogia dell’ospitalità, Cortina, Milano 2007 Interacció 2008: politiche locali per l’intercultura di Sandra Federici I ntellettuali di spicco impegnati in poetiche legate al dialogo interculturale, come lo scrittore spagnolo residente tra Parigi e Marrakech Juan Goytisolo, lo scrittore e animatore teatrale polacco Krzysztof Czyzewski, e lo studioso di teatro Dragan Klaic, originario di Belgrado e attivo ad Amsterdam, sono stati convocati dalla Provincia di Barcellona per l’edizione 2008 di Interacció. Dal 29 al 31 ottobre più di 500 funzionari pubblici e assessori delle istituzioni della Catalogna ma anche del resto della Spagna hanno partecipato a questa iniziativa biennale di aggiornamento e dibattito sulle politiche interculturali locali che si tiene dal 1984. Quest’anno era organizzata negli spazi del CERC (Centre d’Estudis i Recursos Culturales) e del CCBAI (Centre de cultura contemporània de Barcelona). Accanto agli artisti, erano presenti studiosi delle politiche interculturali messe in campo nelle città europee, come Bhikhu Parek, professore di teoria politica alla London School of Economics e Alfons Martinell, direttore della cattedra UNESCO per le Politiche culturali e la Cooperazione dell’Università di Girona. Multi, inter, intra: ogni giorno si tenevano sessioni di presentazioni di progetti e esperienze culturali messe in campo nei comuni e dalle associazioni, nell’ambito delle quali Africa e Mediterraneo è stata invitata a presentare il progetto di ricerca Interculture Map, realizzato nel 2005-2006 per creare una mappatura delle buone pratiche europee suddivisa in cinque settori di intervento: Arti, Educazione, Qualità della vita, Media, Università. Scopo dell’iniziativa di Barcellona era riaprire il dibattito sulla diversità e l’interculturalità, nella convinzione che la nuova dimensione del fenomeno richiede una risposta dalle autorità locali, per le quali è tempo di costruire un quadro teorico e pratico che permetta di confrontare la creazione di politiche interculturali a partire dal settore culturale degli enti pubblici. In un approccio che, trovandoci nella regione che ha fortemente difeso la propria identità catalana nell’ambito nazionale e europeo, non riguarda solo gli immigrati ma anche gli autoctoni. E il dibattito nelle diverse sessioni, soprattutto quelle più informali e ristrette dei progetti, costantemente documen- INTERCULTURA Barcellona 28-31 ottobre 2008 Momenti di dialogo a Interacció 2008, Barcellona © L’ Altrange 71 AeM 64 nov. 08 Momenti di dialogo a Interacció 2008, Barcellona © L’ Altrange 72 tate dalle specialissime inquadrature fotografiche dell’artista spagnolo L’Altrange, ha fatto emergere come sia ormai grande l’esperienza e l’impegno da parte delle autorità locali, che sono state le prime ad affrontare nella pratica il bisogno di integrazione espresso dalle piccole società territoriali che sempre più andavano modificandosi. Nelle discussioni è emerso spesso un forte bisogno da parte dei funzionari di migliorare le proprie performance nella organizzazione di eventi culturali e sociali e il senso di frustrazione per quando, nonostante l’impegno la partecipazione del pubblico, e in particolare dei migranti, è scarsa. Guy Saëz, direttore di ricerca a Grenoble, ha ripercorso l’evoluzione del modello francese di cultura moderna, a partire dalla prima fase in cui la cultura è stata chiamata a essere protagonista delle tappe della costruzione nazionale, ad assicurare il prestigio della Francia all’estero e la coerenza della sua immagine. Poi c’è stata la fase della mondializzazione delle industrie culturali, evento scioccante per l’enormità e diversità dell’offerta da parte di queste industrie. Infine, si è arrivati alla sfida del pluralismo territoriale, con la crescita del “locale”, della sensibilità al patrimonio e alla memoria regionali, con le città che sono diventati i luoghi per eccellenza della gestione della differenza, creando reti tra territori e stimolando la partecipazione dal basso. Franco Bianchini, professore di Politica e pianificazione culturale alla Leeds University, ha raccontato gli elementi strutturali delle nuove città interculturali, nelle quali sono ormai cambiati i linguaggi e le immagini, e dove sono necessarie nuove professionalità, come il cultural cartographer, l’intercultural mediator e il cultural planner. Molto interessante la relazione di Ali MoussaIye, Direttore della sezione dialogo interculturale dell’UNESCO, che ha tracciato la storia di come questa istituzione ha affrontato questo concetto. È partito dalla fase delle lotte per l’indipendenza (1950-1970), quando all’UNESCO si doveva soprattutto rompere la gerarchia tra le “razze” e favorire l’apporto di ogni popolo alla cultura mondiale (da qui i progetti della Storia dell’Africa, dell’America Latina, ecc.) Ha proseguito con il periodo dagli anni ’80 al 2000, con la fine della divisione in due del mondo e un grande lavoro dell’UNESCO per fare comprendere le radici comuni delle diverse culture e per proteggere il patrimonio dell’umanità. E negli anni ’90 sono stati lanciati grandi progetti come “La route de l’esclave”. Poi, l’11 settembre 2001, che ha portato a esaltare i tratti distintivi delle culture in generalizzazioni pericolose. Si è allora voluto evidenziare che nessuna cultura può esistere da sola, ma tutte si definiscono nel confronto reciproco, e il dialogo culturale non è conoscenza dell’Altro ma soprattutto costruzione di una relazione. E il prodotto principale di questo periodo è stata la Dichiarazione sulla diversià culturale, per promuovere un pluralismo che deve necessariamente accompagnare la democrazia. Viaggio in Burkina Faso L’esperienza della cultura africana con Sala 1 Viaggi si confronta con una nuova sfida: quella di visitare un Paese fuori dal comune, il Burkina Faso (ex-Alto Volta), il cui nome significa “terra degli uomini d’onore”. Sarà l’occasione per assistere all’incontro culturale più importante per il cinema africano, la biennale FESPACO. Creata nel 1969, questa manifestazione di rilievo internazionale anima la capitale Ouagadougou (Ouaga) di mille iniziative. Partner nell’organizzazione del viaggio è FITIL, un’associazione onlus italiana, che da anni porta avanti progetti a Ouagadougou. Tramite FITIL si potranno incontrare artisti e registi, assistere alle proiezioni dei film e visitare luoghi interessanti nella capitale. Il programma prevede una visita al villaggio di Sakouli (4 marzo), dove opera FITIL. A Ouagadougou, invece, si potrà partecipare ai festeggiamenti dell’apertura del Festival, oltre a visitare il Museo Nazionale, la Grande Mosquée, il quartiere di Paspanga, con i suoi bar e cabaret rinomati per la musica, uno dei maggiori vanti del Burkina, e il Grande Mercato, uno dei più importanti dell’Africa Occidentale e che attualmente è in fase di ristrutturazione, dopo l’incendio che lo colpì qualche anno fa. Ovviamente da programma è prevista una tappa al quartiere “in” di Ouagadougou, caratteristico per le sue ville e per i suoi incontri di moda e di arte, soprattutto durante il FESPACO. Una giornata sarà dedicata a una visita nel cuore della terra dei Gourounsi, a Tiébélé (5 marzo), città che vanta una mirabile architettura, arricchita da complesse decorazioni pittoriche. Durante gli ultimi giorni del viaggio (6 e 7 marzo) ci si sposterà nel Sud-Ovest per visitare Bobo-Dioulasso (e le zone vicine di Dafra e Banfa), seconda città più importante del Burkina Faso, il cui contesto geografico è particolarmente ricco di vegetazione e di bellezze naturali: dalle cascate alle stupefacenti formazioni rocciose. Il ritorno a Ouagadougou per gli ultimi appuntamenti e per lo shopping prima di ripartire per l’Italia è previsto per l’8 marzo. Per la musica sono previsti parecchi appuntamenti serali. Ouagadougou ospita persone provenienti da tutti gli angoli del Paese e questo fa sì che ci sia un forte métissage culturale, che emerge anche dall’offerta musicale. Questo viaggio promette un’esperienza unica in un paese poco conosciuto, con una cultura lontana dalla nostra, importante e affascinante. Per info e pernottamenti: Mary Angela Schroth Sala 1, tel. 06-7008601; [email protected] EVENTI in occasione della Biennale del CInema africano “Fespaco” a Ouagadougou Sala 1 Viaggi in collaborazione con Nuove Esperienze e FITIL onlus, 27 febbraio – 8 marzo 2009 Timpous (Burkina Faso), Senza titolo, pubblicata in Africa Comics 2005-2006, Lai-momo 2006 73 AeM 64 nov. 08 Aubervilliers, portraits sensibles 6 settembre 2008, Aubervilliers, Villa Mais d’Ici Una macchina fotografica per raccontare la città e un gruppo di persone intenzionate ad andare oltre gli stereotipi. Questi i due ingredienti principali di Aubervilliers, portraits sensibles, un laboratorio di fotografia, ideato e organizzato da Afriphoto (www.afriphoto.com), progetto di Africultures, che da tempo si muove verso la promozione di fotografi di origine africana, perché possano esprimere liberamente la loro creatività, facendosi conoscere. Come ci suggerisce lo stesso titolo il luogo d’azione è Aubervilliers, periferia di Parigi, alla fine della linea 7 della metropolitana, a un passo dalla cintura che delimita il centro urbano parigino, aldilà della linea che segna il confine con la banlieue. Le banlieue sono solitamente identificate attraverso immagini stereotipate che focalizzano l’attenzione unicamente sulla violenza, sulla problematicità, sul degrado. La parola banlieue, composta da “ban”(bando) e “lieue” (luogo) contiene in sé una connotazione negativa che in realtà è essa stessa frutto di un’etimologia contrastante, giocata sul significato di “ban”: se nel Medioevo esso indicava la giurisdizione, l’autorità del Signore, a partire dal XVI secolo la parola “ban” ha assunto il significato di esilio, e dunque come conseguenza la banlieue è diventata da luogo di giurisdizione del Signore a spazio di esclusione, fuori dal bando. Aubervilliers, portraits sensibles è un progetto partito proprio dall’idea di lavorare con gli abitanti di uno di questi luoghi liminali perché nella loro quotidianità immortalassero immagini aldilà degli stereotipi, offrendo la loro rapPagina a fianco: Michel Pichon, Mboka Bisenso (“I paesi in movimento” in lingua Lingala), “Aubervilliers, portraits sensibles”, agosto 2008 © Michel Pichon 74 presentazione “sensibile” della vita della loro città. Lungi dalle intenzioni degli organizzatori quella di voler negare tutte le difficoltà che possono sussistere in una realtà periferica, dall’alta percentuale di disoccupazione, alle questioni legate allo stato di abbandono da parte delle politiche municipali. Tutto questo purtroppo esiste e persiste. L’obiettivo del laboratorio è stato, invece, quello di spostare per un momento i riflettori. Il progetto si è svolto durante le ultime tre settimane di agosto: sette giorni di formazione, nove partecipanti di età diverse, quasi tutti alle prime armi, nove macchine fotografiche tra Reflex, digitali e usa e getta. La preparazione di base sulle tecniche della fotografia è stata affidata a Harandane Dicko, fotografo maliano, assistente tecnico al CFP di Bamako (Cadre de promotion pour la Formation en Photographie) in residenza a Parigi all’interno di un progetto di Cultures France. Una volta acquisite le competenze basilari, ognuno degli aspiranti fotografi ha identificato il soggetto del proprio reportage e ha delineato i punti su cui intendeva concentrare il proprio lavoro di indagine “sensibile”. Ultimata anche questa fase, i partecipanti si sono gettati nelle strade di Aubervilliers, dilettandosi in scatti a volti, architetture, spazi, oggetti, colori e animali. Le foto scattate venivano poi puntualmente discusse insieme in classe insieme a Harandane Dicko e alla responsabile di Afriphoto, Marian Nur Goni: attraverso il confronto venivano messi in luce i punti forti e quelli deboli, i dettagli da conservare e quelli da scartare, da un punto di visto sia tecnico che contenutistico. Al termine dei sette incontri ognuno di loro è stato in grado di realizzare un montaggio delle immagini, con musiche e parole scelte in modo da rafforzare il messaggio alla base del loro lavoro. Il risultato: 9 diaporama che affrontano diversi temi attraverso altrettanti diversi approcci. C’è chi si è concentrato sulla vitalità di Aubervilliers ritraendo i volti della gente per strada, chi ha privilegiato i colori dei mercati e dei negozi “afro-francesi”, chi ha immortalato le architetture più svariate, chi si è concentrato sui movimenti della gente attorno a un incrocio di 2 strade, in una visione bergsoniana dell’esistenza. Stando ai commenti degli organizzatori dell’evento il punto saliente dell’esperienza è stato il valore umano dell’esperienza, tanto per la partecipazione attiva e coinvolgente degli aspiranti fotografi, tanto per l’impatto che ha avuto sul pubblico e sull’amministrazione locale di Aubervilliers. Realizzato in partenariato con Ethnoart, Achromatik e la Villa Mais d’Ici, con il sostegno di Via le monde e della Préfecture de la Seine-Saint-Denis il progetto Aubervilliers, portraits sensibles ha restituito la parola, anzi l’obiettivo, a chi la realtà della periferia la vive ogni giorno, con le sue difficoltà, ma anche con tutti i suoi aspetti positivi e umani. Elisabetta Degli Esposti Merli 75 AeM 64 nov. 08 LIBRI 76 V.Y. Mudimbe, Cheminements. Carnets de Berlin (Avril-Juin 1999), Humanitas, Québec 2006, pp. 223 Voici un livre qui, pour plus d’une raison, ne manquera d’intéresser ceux qui suivent le déploiement de l’œuvre et de la pensée de V.Y. Mudimbe. En effet, Cheminements. Carnets de Berlin a d’abord ceci de particulier: c’est le troisième livre écrit en français depuis l’établissement de V.Y. Mudimbe aux États-Unis, le premier étant Shaba deux. Les carnets de Mère Marie-Gertrude (1989) et le deuxième, son autobiographie intellectuelle, Les corps glorieux des mots et des êtres (1994). On peut ainsi noter que les trois ouvrages francophones de la période américaine de Mudimbe exploitent, chacun à sa manière, le principe du carnet ou du journal personnel, lequel traverse, de part en part, l’œuvre de l’écrivain et penseur congolais. On le retrouve, en effet, au cœur de l’écriture de Entre les eaux (1973), de L’écart (1979) et, dans une moindre mesure du Bel immonde (1976), sans oublier Carnets d’Amérique (1976). La permanence de ce fil témoigne du fait que l’œuvre de V.Y. Mudimbe est sous-tendue par une quête jamais achevée, toujours recommencée: la quête de l’être qui semble avoir trouvé dans la littérature, mieux encore, dans l’écriture, son lieu par excellence d’épreuve ou d’approfondissement. L’écriture, dont le propre est d’être une traversée dévorante et jubilante des cultures et des territoires, est véritablement ici le lieu d’attache tant désiré – celui où l’on fait racine, où l’on met pousses, où l’on creuse ses tombes, ses visages, ses origines, ses légendes, ses angoisses et ses déchirements intérieurs, pour s’ouvrir à tous les courants culturels du monde, c’est-à-dire à l’universel. Car, comme il l’écrit dans L’Autre face du Royaume, «l’universalité ne peut exister qu’à partir d’une expérience critique et permanente d’une authenticité singulière » (1973, p. 136). Cette dynamique était déjà annoncée dans Réflexions sur la vie quotidienne où Mudimbe écrit: «J’ai voulu naguère m’établir dans la grâce de la pensée et, depuis lors, m’enroule dans une fascination permanente dont l’insanité essentielle est la prétention à tout démontrer, à tout comprendre en déstructurant, à tout ramener au tribunal de l’esprit. Mais les banalités comme les mystères les plus profonds de la vie sont des énigmes. De s’y appesantir ne les change pas, peut-être en éclaire-t-on la complexité!» (1971, p. 5) Éclairer la complexité des situations apparemment les plus simples, les plus banales de la vie quotidienne, ces situations à travers lesquelles l’être humain se révèle à soi-même à la fois comme liberté et comme produit d’un temps, d’une époque donnée, c’està-dire comme produit-producteur de son époque, telle est justement la tâche à laquelle s’atèle Mudimbe dans ses carnets berlinois dont le ton, le style alerte et l’érudition ne sont pas sans rappeler les Carnets d’Amérique (1975). L’autre intérêt de Cheminements. Carnets de Berlin réside dans le fait qu’il nous fait entrer dans la fabrique mudimbienne des idées pour prendre la mesure de la patience, de l’ascèse et de la solitude nécessaires au jaillissement de la parole ou du discours. Pour parodier un titre de Martin Heidegger, je dirai que Cheminements. Carnets de Berlin nous donne à suivre, en certaines de ses modulations, l’acheminement mudimbien vers la parole ou le discours public. On voit en effet comment, dans la solitude qui est ici figure de l’écart, le philosophe prépare ses conférences ou ses séminaires sur des thèmes aussi divers que Les règles de perfection de saint Benoît de Nursie, Saint Bernard de Clairvaux et Saint Ignace de Loyola (pp. 24-25), «les conflits d’interprétation dans un monde interculturaliste » (pp. 67-69), sur le paradoxe des études subalternes en leur générosité politique et contradictions logiques (pp. 190-195), ou encore, sur les paradoxes de la globalisation économique et technologique (pp. 215-216). Bref, en ce livre à la fois dense et léger se révèle la manière dont la pensée mudimbienne se nourrit de la lecture du monde comme texte soumis à notre jugement et responsabilité, et de l’étonnement face à l’apparente banalité du quotidien, pour s’élever dans les cimes de la méditation la plus pointue sur le destin de l’homme et le devenir du monde, mettant au grand jour des liens inattendus entre des univers de pensée apparemment inconciliables. Ainsi ce passage, caractéristique du style de pensée de V.Y. Mudimbe, où le philosophe allemand Martin Heidegger semble tendre la main à Saint Benoît: «Avant de m’arrêter, une note sur mon état mental: malgré l’exigence de mon attention soutenue pour cette lecture [de In Shadow of Hegel: Complementarity, history, and the unconscious d’Arkady Plotnitsky], impression d’avoir vécu et compris enfin un point de Heidegger : la pensée attente. Elle est négation de toute irruption. En fait, elle n’attend rien. Me dire, ce soir et peut-être le reste de ma vie, je n’attends rien, absolument rien. La négation absolue. Saint Benoît l’avait comprise, avant le philosophe allemand. Heureux, cependant, d’en vivre en mon cheminement. Quels aigles, ces hommes! Voilà, je les confonds : Benedetto et Heidegger. Qui l’aurait cru?» (2006, p. 79) Ainsi va ce livre, ouvrant ici et là des chemins qui, tout en évoquant, peutêtre ironiquement, les Howledge heideggeriens, font aussi penser à la belle métaphore cartésienne du voyageur égaré dans une forêt, celle des livres et des idées, mais aussi celle d’un monde où l’hybris démoniaque nous fait ériger des murs des séparations culturelles, linguistiques, raciales, entre des humains qui sont pourtant, en ce qui constitue leur humanité, fondamentalement solidaires. Ce qui s’impose à ce voyageur, c’est le cheminement, la patience ou l’endurance dans le questionnement de soi et du monde, et dans la recherche des liens ou des ponts entre les choses, les êtres, les mondes, les cultures et les races; la tentative en somme de reconfigurer le monde dans son interculturalité. Dans l’impossibilité de faire un résumé de ce livre, qui est véritablement une bibliothèque où de multiples entrées renvoient à tous les savoirs marginaux et institués, et offrent au lecteur la possibilité d’un cheminement personnel, je peux, au moins, attirer l’attention sur une leçon qui s’en dégage, avec des résonances insidieusement politiques en notre monde où sévit l’évidence banale de la tragédie des frontières. Cette leçon profondément LIBRI humaniste s’exprime en une phrase qui clôt une conversation de l’auteur avec deux intellectuels de Brazzaville sur les frontières coloniales: «Il n’y a pas de frontière qui vaille une vie humaine, quelle qu’elle soit» (p. 167). Et en une autre phrase qu’on peut lire comme un complément, Mudimbe ajoute: «Réussir en histoire, pour le bien ou pour le mal, semble toujours avoir eu une constante, un préalable: “manger” les frontières» (p. 171). De là une conviction qui pourrait laisser d’aucuns pantois: «Conviction: que comme entité politique, le Congo se désintègre demain me laisse, au total, relativement froid, si son éclatement est condition d’une constitution progressive d’un plus grand ensemble.» Et il ajoute: «On a ri du rêve de Cheikh Anta Diop pour la création d’un État fédéral en Afrique. L’on avait tort. Il n’avait peut-être pas un bon sens de mesure en beaucoup de choses, mais on ne peut lui dénier un sens aigu, une saine vision pour un avenir plus raisonnable, en tout cas plus viable pour les républiques d’Afrique noire. Ouvrir, donc, les frontières à une libre circulation des biens et des personnes; vouloir une cité nouvelle, démocratique, et surtout plus fraternelle.» (p. 170) Dans ce même registre de remise en question des frontières, Mudimbe montre «l’incohérence des adjectifs des classifications raciales et ethniques» aux États-Unis et dénonce ce qu’ils «disent à propos de la culture et de la société américaine» (p. 120), à savoir son incapacité d’assumer sa diversité et de se défaire des «préconceptions, préjugés et intolérances des chapelles» qui favorisent ce que certains, incapables de voir les liens entre les peuples et les cultures, on a appelé «le choc des cultures». C’est en fin de compte la vision d’un monde sans frontière, un monde dans lequel le sujet pourrait se dire citoyen du monde, c’est-à-dire irréductible ni à une race ou une nation, ni même à une classe, que réfléchissent son écriture et sa pensée transversale, en constant exil des repères de la raison grammairienne ou classificatrice héritée des Lumières. En effet, Cheminements, Carnets de Berlin crée un univers où la lecture comme figure de l’activité intellectuelle consiste à établir des liens, à chercher des lieux de jonction entre des réalités apparemment sans rapport comme le capitalisme et le multiculturalisme. N’est-ce pas en ce sens même que Mudimbe peut s’approprier les vers de Chavez: «Los que están mirando (leyendo) / (…) Nos dicen el camino [ceux qui regardent (lisent)/ indiquent le chemin] (p. 129), celui d’un monde plus vivable, plus fraternel. Ou encore ce court poème de Gina Valdés suggérant que les frontières ne devraient jamais avoir le dernier mot: Freddy Tsimba, Elles viennent de loin, Dak’art 2008 Afrique: mirroir? Photo by Iside Ceroni Somos una gente Hay tantisimas fronteras Que dividen a la gente, Pero por cada frontera Existe también un puente (p. 123) Nous sommes un peuple Il y a tant de frontières Qui divisent le peuple Mais pour chaque frontière Il y a un pont. Somme toute, en ce livre dense et léger, se réfléchit l’état de notre monde avec ses blessures et ses absurdités (le nazi- 77 AeM 64 nov. 08 sme, l’esclavage, le racisme, les guerres), ses craintes, mais aussi ses espoirs et ses promesses. C’est l’ouvrage d’un homme profondément à l’écoute de son époque et des mouvements intellectuels, culturels et spirituels qui la constituent, et essayant d’en éclairer la complexité par la lecture/écriture et la méditation. En fait une manière toute personnelle de répondre à la question kantienne: Comment s’orienter dans la pensée?, ou, sous sa reformulation heideggerienne: Qu’appelle-t-on penser? Dans notre monde d’aujourd’hui, semble-t-il nous dire, penser c’est moins classifier, hiérarchiser, séparer en enfermant les êtres et choses dans des catégories réductrices, que jeter des ponts entre l’Afrique, l’Amérique, l’Asie et l’Europe. Après la chute du Mur de Berlin, qu’il faut éviter de déplacer en l’érigeant ailleurs (entre l’Occident et l’Afrique, par exemple), notre survie dépend, comme le suggère Edward Said à la fin de Culture et impérialisme, de la conscience des liaisons entre les choses. Kasereka Kavwahirehi Université d’Ottawa Bibliographie V.Y. Mudimbe, Réflexions sur la vie quotidienne, Mont Noir, Kinshasa 1971 V.Y. Mudimbe, Entre les eaux, Présence Africaine, Paris 1973 V.Y. Mudimbe, L’Autre face du Royaume. Une introduction à la critique des langages en folie, L’Âge d’homme, Lausanne 1973 V.Y. Mudimbe, Carnets d’Amérique, Saint-Germain-des-Prés, Paris 1976 V.Y. Mudimbe, Le bel immonde, Présence africaine, Paris 1976 V.Y. Mudimbe, L’écart, Présence africaine, Paris 1979 V.Y. Mudimbe, Les corps glorieux des mots et des êtres. Esquisse d’un jardin africain à la bénédictine, Humanitas/ Présence africaine, Montréal/Paris 1994 José Eduardo Agualusa, Il venditore di passati, LaNuovaFrontiera, Roma 2008 pp. 137, euro 15,00 78 Quante persone dal passato tormentato o infangato da vicende oscure vorrebbero mettere tutto nel dimenticatoio per poter riscrivere la propria storia? Certo una soluzione potrebbe essere quella di fuggire in un altro Paese per ricominciare da capo, ma cosa raccontare a chi pone domande su ciò che si è stati? Il rimedio ce lo propone José Eduardo Agualusa. Nel suo romanzo Il venditore di passati avere un passato nuovo di zecca è molto facile: basta incontrare Felix Ventura, un uomo che ha fatto dell’invenzione del passato un mestiere. «Assicuri ai suoi figli un passato migliore», dice in tono accattivante il suo biglietto da visita, una frase che attira nella casa di questo particolare genealogista numerosi personaggi alla ricerca di un nuovo albero genealogico dal quale trarre una nuova linfa vitale. Ventura offre ai suoi avventori passati strepitosi, sensazionali, costellati di antenati nella maggior parte dei casi illustri. Con una scrittura fluida e arricchita da sprizzi di humor sottile Agualusa ci fa riflettere sul concetto di passato sotto diversi punti di vista, attraverso diversi personaggi di un Angola contemporanea. In primis attraverso il tema della reincarnazione, fenomeno che nel passaggio da una vita all’altra lascia ricordi e reminescenze velate, anche se si tratta di una transazione da un’esistenza umana a una animale. Il passato poi viene rappresentato come un qualcosa che porta con sé conti da regolare, situazioni mai chiarite e che, lasciate in sospeso, incombono sulla quotidianità dell’esistenza. Messo sotto un’altra luce ancora, il passato poi veste i panni della consolazione, di una sorta di rifugio fatto di momenti che alleviano le ansie quotidiane: questo aspetto però non sempre si attiene alla realtà, ma è il frutto della trasposizione di ciò che è stato detto e raccontato da altri. In questo modo diventa ricordo pur non essendo mai stato vissuto, ma non per questo risulta meno efficace il suo effetto su un animo in cerca di conforto. E da questo spunto Agualusa sviluppa il concetto di passato come invenzione, che può diventare realtà, se chi se ne impossessa ci crede così tanto da farlo diventare vero. Autore di numerosi romanzi molto amati dal pubblico di lingua portoghese, Josè Eduardo Agualusa è giornalista e editore. Nato in Angola, oggi vive tra il Portogallo, il Brasile e la sua terra natale. Il venditore di passati di recente ha vinto l’Independent Foreign Fiction prize, un importante premio che viene assegnato ogni anno al migliore romanzo straniero pubblicato in Inghilterra. Elisabetta Degli Esposti Merli Fabrizio Gatti, Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi, Rizzoli, RCS Libri Milano 2007, pp. 504, euro 18,50 Il rischio che il clima di tensione alimentato dalla preoccupazione per quella che a livello mediatico viene definita “emergenza immigrazione” scateni reazioni preoccupanti diventa ogni giorno più reale. E è per questa ragione che si fa strada la necessità di confrontarsi, di capire, di riflettere, perché il processo che porta a elaborare idee al limite della xenofobia si nutre di emozioni e pregiudizi che si insinuano con pericolosa facilità tra le pieghe delle insicurezze della società moderna. Fortuna vuole che esistano diverse persone che nel quotidiano si battono per far circolare informazioni che si basano su un’analisi dello stato delle cose che va oltre l’istituzionalità. Tra questi il giornalista e inviato del settimanale «L’Espresso» Fabrizio Gatti, conosciuto per aver fatto numerose indagini “sotto copertura”. Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi concentra in poco più di 500 pagine il frutto delle indagini che il giornalista ha affrontato, con la ferma intenzione di scoprire cosa avviene lungo l’iter che migliaia di individui percorrono dal continente africano fino alle coste italiane. Ha seguito i “candidati all’immigrazione”, questi nuovi schiavi di una tratta che è gestita da una intricata e corrotta rete di mediatori, contrabbandieri, forze dell’ordine, trafficanti ed esercito. Ma non solo: la sua indagine si è spinta oltre all’arrivo in Europa, proseguendo fino ai luoghi di lavoro in cui i nuovi immigrati vengono reclutati e denunciando una serie di situazioni in cui il rispetto dei minimi diritti umani è un optional. Un viaggio dall’interno, raccontato con quell’agghiacciante schiettezza che può scaturire solo da chi quell’esperienza l’ha provata in prima persona, anche se sotto mentite spoglie. Gatti, partendo dal Senegal, è arrivato fino in Libia, attraversando con i migranti il deserto del Niger su camion carichi al limite del sostenibile e subendo con loro controlli e violenze da parte di polizia e militari. Il reporter inizia il suo viaggio come semplice turista italiano intenzionato ad affrontare il deserto, all’avventura, su rotte e con mezzi che nessuna agenzia di viaggio metterebbe mai nel proprio pacchetto. Bloccato sul confine con la Libia (le cose che avrebbe visto sarebbero state troppo scomode per il governo del colonnello Gheddafi) e non potendo da lì imbarcarsi per l’Italia, Gatti si è fatto ripescare a pochi metri dalle coste di Lampedusa. E da qui prende via la se- conda parte della testimonianza: il corpo tratto in salvo assume le generalità di Bilal, clandestino di origine curda. Bilal è uno degli immigrati che riescono a superare il calvario della traversata, per i quali tuttavia le sofferenze e le ingiustizie non conoscono ancora tregua. Prima i Centri di permanenza temporanea, luoghi di detenzione al di fuori del diritto e di ogni concezione di umanità e, poi risparmiati dal rimpatrio, attraverso un foglio di via, ecco che al di fuori del CPT li aspetta la clandestinità e il lavoro in nero, nei cantieri o nei campi. Una condizione che difficilmente si può chiamare vita: costretti a nascondersi, ad accettare condizioni di lavoro lontano anni luce da ciò che si definisce diritto del lavoratore e costantemente in bilico tra l’espulsione e la permanenza sul territorio. Attraverso gli occhi di Gatti/Bilal, attraverso i racconti delle persone che incontra lungo il viaggio ci viene dipinta una situazione che va oltre le informazioni dei notiziari. Ci svela trame politiche e giochi di potere che tanto in Africa quanto in Italia continuano ad alimentare i processi di immigrazione clandestina. Il libro è stato insignito del Premio letterario Tiziano Terzani, proprio per la sua propensione a far riflettere il lettore aldilà di quali siano le sue opinioni riguardo all’immigrazione e oltre l’attribuzione di colpe e responsabilità. Non si può trovare una soluzione al dramma dell’immigrazione clandestina, nemmeno dopo aver letto un libro del genere. Ma se non altro si può attribuire a Bilal il merito di suscitare il dibattito e la discussione. Elisabetta Degli Esposti Merli Pedro F. Miguel, Muxima, Sintesi epistemologica di filosofia africana, Edizioni Associate, Roma 2002, pp. 143, euro 12 “C’è uno scultore africano che si diverte a fare delle marionette in cui il nero viene rappresentato con le orecchie grandi e la bocca piccola, mentre il bianco appare con la bocca grande e le orecchie piccole…”. Sono parole dell’autore di questo libro e il senso delle quali ci viene raccontato anche da Karen Blixen nel suo romanzo autobiografico La mia Africa, così: «Si è perduta l’arte dell’ascoltare in Europa. Gli africani la posseggono ancora perché non sanno leggere. Appena principi a dire: - un tale camminava nella pianura e incontrò un altro -, subito pendono dalle tue labbra, subito la loro fantasia insegue con slancio la pista sconosciuta dei due uomini sulla pianura. Ma i bianchi non son più capaci di prestare orecchio a un racconto, nemmeno se sentono che è loro dovere. Divengono irrequieti, si ricordano di mille incombenze da sbrigare proprio in quel momento. Le stesse persone, invece, son capaci (…) di trascorrere tutta la sera immersi nella lettura di un qualsiasi pezzo di carta stampata (…) È l’abitudine di cogliere le cose solo con gli occhi». Dunque l’Africa ascolta. Volentieri. Questo è a mio avviso il contesto o il sottofondo in cui si muove Miguel in Muxima. Un utile strumento che ci guida nella lettura di questo libro è l’espressione Mwa lemba che significa: (andare) verso il Dio della vita. In particolare è la preposizione Mwa che dobbiamo portare con noi per leggere Muxima. Mwa che significa “verso”, è usata per indicare l’andare verso qualcosa di già conosciuto, con il quale si ha già una relazione. Continuando a riempire la nostra cassetta degli attrezzi, Miguel ci obbliga a metterci anche la parola “frugare”, toccare a tastoni nel buio. Dico ci obbliga perché è un termine ricorrente nel suo libro. E poi ancora il termine 79 AeM 64 nov. 08 80 “passare”, nel senso di muoversi verso la Parola Madre. E per finire con gli strumenti è bene leggere Muxima con un attenzione particolare alla struttura della lingua, quella di Miguel è il Bantu Kimbundu. Il linguaggio infatti è, proprio per la sua struttura, rivelatore del pensiero. Per fare solo qualche esempio: per dire “io mentre taglio la legna”, il Bantu Kimbundu utilizza due volte il soggetto, la prima volta per indicarne l’esistenza, la seconda volta, la sua modificazione e diluizione nell’azione; il nostro “io ho una casa” nelle lingue bantu diventa “io sto con una casa” e dunque anche la casa sta con me, espressione che evoca “l’Essere che sta là”, il quale mette in rapporto l’essere della casa con il mio essere. In altre parole è la stessa struttura della lingua che ci porge insieme il significato e un pensiero, cioè un modo di intendere le cose della vita. Una filosofia, dunque. Pochi strumenti per ascoltare il racconto che Miguel ci propone di quella che secondo lui è filosofia a tutti gli effetti. Una narrazione che diventa anche confronto, in certi punti serrato, con alcuni concetti fondamentali della filosofia occidentale. Ricorrente è il riferimento al principio di non contraddizione nella sua formulazione aristotelica, e alla filosofia hegeliana di cui viene sottolineato il forte astrattismo, un astrattismo che per Miguel diventa una specie di sguardo malato sul mondo perché la realtà anziché essere ascoltata è in ultima analisi raccolta nelle sue contraddizioni attraverso la verità del concetto, l’unico elemento qualificato per raggiungere la verità: è il razionale a essere reale. In questa visione non ascoltare il mondo fa tutt’uno con l’impossibilità di incontrarlo, almeno secondo il pensiero bantu. Certamente dentro queste maglie esso non riesce ad entrare, e se la Filosofia ha necessariamente questa struttura allora il frugare, il passare e il rispondere all’appello di gla, che è il principio di continua creazione, diventano tutt’al più materiale etnologico o antropologico. Ma Miguel non si arrende e in modo determinato porta avanti l’idea che Muxima sia il cuore del filosofare. Questo termine che ricorda il lev biblico, lo traduciamo con cuore. Cuore inteso come mente, come luogo dove risiedono i pensieri e le percezioni, dove vengono elaborate domande, risposte, riflessioni e decisioni. È il cuore di cui ci ha parlato lo stesso Agostino, africano pure lui. Dunque una filosofia che mettendo al centro l’ascolto e il simbolo, in qualche misura “giudica” l’astrazione e il principio di non contraddizione. Non per bandire la ragione da questo frugare l’arcano, ma per ridarle il suo compito, che anche per Miguel è quello di partire non da se stessa ma dalla realtà, e della realtà mettere in luce alcune delle infinite sfaccettature, consapevole che il suo dire è sempre e solo una preziosa ma piccola scoperta della Verità. Miguel non ci nasconde una sua profonda convinzione, e cioè che l’Occidente abbia profondamente bisogno di questo sguardo sul mondo, di questo pensare che mettendosi in ascolto della realtà, dunque anche della realtà economica e politica, con più difficoltà volge lo sguardo da un’altra parte. Certo è una provocazione forte e dunque da raccogliere, ma alla quale verrebbe già quasi voglia di rispondere che questo approccio alla realtà non ci è completamente estraneo, che forse addirittura Kant con la Critica della ragion pura, quando afferma che il noumeno è un concetto problematico e un concetto limite e che tale concetto è necessario per limitare la validità oggettiva della conoscenza sensibile, in qualche misura era su una strada simile. Sara Belotti Jean-Philippe Stassen Deogratias, racconto a fumetti dal Ruanda, Stampa Alternativa Nuovi Equilibri, Pavona 2005, pp. 78, euro 12,00 Jean Philippe Stassen, autore belga di spiccata sensibilità narrativa, nella sua vita ha viaggiato molto e l’Africa l’ha conosciuta con la lucidità di un fotoreporter, munito, al contempo, di uno sguardo radicalmente intimista. Deogratias può considerarsi il risultato di entrambi gli approcci narrativi: fra il documentario e il diario personale, questa graphic novel è ambientata in Ruanda, subito prima e subito dopo il genocidio del 1994 e narra la storia di Deogratias, un ragazzino hutu che si innamora di una ragazza tutsi. Una vicenda d’amore adolescenziale, una storia di guerra, una pagina di storia africana che ha visto sparire più di 800.000 persone nel giro di un centinaio di giorni, lasciandone altre in balia di un totale nonsense esistenziale consumato nella quotidianità. Deogratias da questa guerra esce pazzo, privato di ogni forza in grado di liberarlo dalla rete dei sensi di colpa e atrocità che il conflitto etnico ha creato attorno alla sua persona e alla sua terra. Creatura ormai al limite tra l’umano e il bestiale, nella sua mente i ricordi si susseguono veloci e ci raccontano di una vita fatta di affetti e curiosità, ma anche di profonde contraddizioni, tali da preannunciare la catastrofe del genocidio. La presenza disarmante dell’istituto ecclesiastico, più che mai influente e corrotto, la prostituzione come unico mezzo di sopravvivenza, la stonata curiosità del mondo occidentale, e la sua violenza, agìta più o meno consapevolmente. E ancora, il razzismo; radicato “da lontano”, entrato nelle scuole, insegnato e subìto. L’interagire complicato con l’altro sesso, l’identità difficile da trovare e da perdere. Il passato di Deogratias che lo accompagna in flashback, la rottura estrema che il genocidio porta nella sua vita, fino all’ultimo viaggio autodistruttivo in nome di una vendetta inutile, si mescolano in questo fumetto bellissimo e buio. Come buia e marcata è la scenografia del paesaggio magico e allo stesso modo inquietante, che fa da sfondo a un disegno di uomini deformati, quasi eccessivi, di cui i contorni tendono paradossalmente a sfumare in un’oscurità totalizzante. Sembrano emergere solo gli occhi, spesso sconvolti. E il cielo, quando è giorno, e le stelle. Giulia Frattini