SI SCRIVE MUSICA, SI LEGGE PASSIONE DI E NRICO C OGNO Parliamo di musica, in particolare di jazz e di musica d’autore, ma anche di creatività, di come nasce un’idea musicale, di come il jazz può influenzare la scrittura, oltre ad avere influenzato, dai primi del 900, quasi tutta la musica attuale e l’arte in senso generale, con particolari riferimenti alla letteratura e alla pittura. Ricordate l’incipit di Il giro del giorno in ottanta mondi di Julio Cortàzar? “Una sera in cui Lester Young riempiva di fumo e pioggia la melodia di Three Little Words, sentii più che mai cosa rende tali i grandi del jazz: quella invenzione che rimane fedele al tema mentre lo combatte, lo trasforma e li irida….. un andirivieni di pezzi di stelle, di anagrammi e palindromi”. Ricordate, ancora, Henri Matisse e la sua opera JAZZ, pubblicata nel 1947 dall’editore Terrier? Quelle venti tavole dagli accesi cromatismi (come era logico attendersi dal caposcuola dei Fauves) che cercavano, nell’improvvisazione con la quale Matisse sempre produceva le sue opere (prive di prospettiva ma cariche di umanità, di senso del ritmo e di colore) di cogliere l’attimo creativo con forbici, colla, ispirazione e passione, nei suoi gauches decoupè. E ricordate, più recentemente, la geniale opera di uno dei nostri autori musicali più creativi, Paolo Conte, che in Ratmataz ha fuso mirabilmente jazz e arte visiva? Da quasi cinquanta anni porto avanti, con le debite differenze rispetto a questi maestri, una ricerca che analizzi l’intrecciarsi della musica con le parole e la stimolazione che queste sanno dare alla musica. Ho un’idea fissa: indagare su cosa genera questo intreccio dell’idea con l’arte, in particolare per cercare di capire come nasce un’idea, sapere cosa fa sorgere l’esatto attimo creativo. Anche un personaggio di Alessandro Baricco cercava sempre, per tutta la vita, di capire dove finiva il mare. Un'altra mia idea fissa è cercare di dare swing alla scrittura. Nel 1971 pubblicai per Cappelli Editore “Jazz Inchiesta Italia”, un testo che cercava di “scrivere in modo jazz”. Qualcuno colse questa intenzione. Francesco Forti su Spettacolo scrisse: “Non è facile resistere all’intensa suggestione che emana dal libro per come è stato montato e per la sua scrittura rapida e swingante”. Perfetta sintesi di quello che avevo cercato di fare. Nell’introduzione cercavo di spiegare questo approccio: Feeling: tocco, sensibilità, sentimento. E’ scritto sui dizionari, ma la gente del jazz non usa tradurlo. Dice: il jazz è feeling (o è swing, è blues) come chiave di un codice che sconfina in campi semantici che un dizionario non riporta. Parlando (o scrivendo) di jazz, è importante far rivivere un tratto spontaneo, non mediato, che proceda sul piano dell’emotività più pura (pulsazione, fremito, mixage di sentimenti tra il lirico e il disincantato), un modo di rendere jazz le parole, di usare un segno in sintonia con i problemi degli uomini che del feeling ne hanno fatto un modo di vivere. Il jazz è compromissione e comprensione: per parlarne serve compromettersi con chi lo produce e capirne il perché. Le biografie da sole non servono a questo. Per sensibilizzare anche il fruitore meno attento serve scoprire la seconda parte di ogni musicista. Si sa qualcosa sempre e soltanto della prima, quella che va dallo strumento in avanti, mentre dell’altra (quella che tira fuori dall’ oggetto le note, le idee, i suoni della rabbia, dell’amore, la poesia, la vita) l’uomo, insomma, la gente, l’uomo, lo conosce sempre troppo poco o troppo tardi. Il jazz in Italia, ha avuto molti giudici e pochi testimoni. Ora che serve affermarlo (a fianco dei fenomeni della cultura ufficiale) come musica di poesia e non di consumo, serve, paradossalmente, la tecnica del consumo, non quella della poesia: una inchiesta rivolta a scoprire l’ambiente e la problematica di chi produce il jazz, di chi lo giudica e di chi lo ascolta. Il tutto impregnato di feeling, fatto con discorsi grintosi, diretti a stimolare oltre che a informare. Negli anni ’70 una storia (in senso tradizionale) del jazz soddisferebbe chi infila i libri sugli scafali con amore feticistico e lascerebbe insensibili quelli che, di una musica viscerale come il jazz, vogliono un documento che ne analizzi la sfera sociale ed umana. Vivere il jazz al di fuori di questo contesto significherebbe esaminarlo spogliato della sua caratteristica più importante. Così l’uomo del sassofono sarà del fianco del vigile urbano, il critico di fronte alla fioraia, lo studente con il programmatore RAI: un collage che tenderà a creare un habitat in cui le testimonianze (non i giudizi) cercheranno di distinguere i buoni poeti dai buoni artigiani, sul piano dello stimolo emozionale. Nel jazz la saggistica, caricata di feeling (denominatore comune per questo dialogo) può sconfinare e fondersi con la narrativa, può vivere di ricordi e da questi, operando per sintesi, trasformarsi in ricerca. Non potrebbe, trattandosi di jazz, non essere racconto di vita. In altra parte del sito si può rileggere l’intero testo (Jazz Inchiesta Italia 1971) tenendo però conto di due indicazioni: la prima è che il libro è stato scritto nell’estate del 1970 e che oggi pertanto mostra tutte le incompletezze derivanti da ciò. E’ solo una testimonianza sullo spaccato di quel periodo, visto che il testo è introvabile e forse a qualcuno potrebbe far piacere rileggerlo o leggerlo per la prima volta. La seconda è che manca delle immagini, fondamentali, mi pare, per dare quello swing che il testo intendeva avere e che nella versione originale, ancorché in bianco e nero e su carta povera, invece includeva. La passione per la musica e per le parole L’ho succhiata nel latte, la passione per le parole, per la musica e per l’arte in una Torino del dopoguerra: macerie, fame, ma anche l’allegria di chi dalla guerra era uscito vivo. Cantavamo sempre, in casa. Mio padre, che si era formato artisticamente a Parigi, era un bravissimo pittore e appassionato melomane. Mia madre era nata nei pressi di Buenos Aires, cantava, suonava la chitarra e dipingeva anche lei; si era poi trasferita in Inghilterra, per arrivare in Italia verso i trent’anni. Così le milonghe, le arie verdiane, le ballate celtiche, le ceramiche d’arte e la pittura mi sono entrate nel sangue, mischiate come un frullato di dolce follia. L’ambiente era creativo, anche se il fatto che in famiglia fossero tutti dotati di una grande abilità nel disegno, fuorché me, mi spinse verso un’espressività basata sulle parole, parlate e scritte. Sono sempre stato attratto dalle parole. Mio padre, a volte, se le inventava, quando quelle del dizionario erano inadeguate: nel nostro lessico familiare, ad esempio, bastava che mio padre, rientrando in casa e volendo dire “Questa sera mangiamo in fretta, poi andiamo al cinema” usava una sola parola, inventata e quasi magica: “Tringhesvai”. E, tutti felici, capivamo perfettamente. Mia madre, per via della sua lunga presenza in Inghilterra, aggiungeva alle parole inventate da mio padre i suoi termini italo-ispano-anglosassoni. Qualche volta i miei amici avevano difficoltà a capirmi: solo dopo molti anni mi resi conto che, certe parole che usavo, non esistevano in italiano, anche se erano più efficaci di quelle previste dallo Zingarelli. Alla sera, la radio alternava radiodrammi a musiche dal mondo: mi piaceva il suono delle chitarre, nel folklore internazionale, i quartetti vocali, il suono del trombone, i gospel, la musica country. Il jazz lo scoprii qualche anno più tardi. Così mi nutrivo del Trio Los Calaveras, del Golden Gate Quartet, di Les Paul e le sue 100 chitarre, delle arie d’opera, delle orchestre italiane dell’epoca: Cinico Angelini, Pippo Barzizza, la stupenda band di Ferrari. E c’era poi il Discobolo, la hit parade di quel tempo. Scoprii il jazz nel 1954, quando acquistai una antologia discografica per corrispondenza: vi era di tutto, in quel disco, da Sidney Bechet a Louis Armsgrong, da Benny Goodman a Charlie Parker, da Chet Baker a Dave Brubeck. Fu un vantaggio, perché, da quel momento in poi, mi piacque ogni genere di jazz, senza cadere nel tormentone dell’epoca che usava distinguere, con una sorta di definizione demenziale, tra jazz caldo e jazz freddo. Un Natale ricevetti in regalo una chitarra e passai giorni interi a cercar di cavare un suono che non fosse solo un Mi basso ostinato, con il quale accompagnavo tutto: tanto, sosteneva un mio amico, prima o poi i giri armonici “passavano di lì”. La cosa migliorò quando mia sorella decise di prendere delle lezioni di chitarra e il mio compito di bravo fratello era accompagnarla tutte le volte dal maestro, perché all’epoca, a Torino, le ragazze per bene non andavano da sole da un giovane musicista, per di più in un borgo periferico: insomma, il fratellino sempre dietro, tipo “Io Mammeta e tu”. Mi annoiavo da morire. Il maestro mi fece una proposta: con poche lire in più avrebbe insegnato anche a me. Un affare, almeno mi sarei annoiato di meno. Così studiai solfeggio e armonia (cosa che in realtà apprezzai solo in seguito) e una volta scoperto che la musica e la chitarra non erano poi così difficili, dilagai. Aggiunsi l’uso del banjio tenore a sei corde, più agevole per me del classico quattro corde. Amavo esplorare più le parti armoniche che quelle melodiche. Mi nutrivo di Tiny Grimes, Django Reinhardt, Bib Bill Broonzy e vari bluesmen. Poi, attratto dai suoni pastosi del trombone a coulisse (divertenti nel dixieland e adattissimi anche a stili più moderni) comprai per duemila lire un vecchio Orsi al Balòn, pagavo le lezioni ad uno squattrinato allievo del conservatorio di Torino sotto forma di due pacchetti di Giubek, mi vennero due labbra gonfie come un canotto (non avevo idea che esistesse il sistema no-pressure: al conservatorio all’epoca il bocchino si schiacciava sino a far sgorgare il sangue) e incrinai definitivamente il rapporto con i vicini che pensavano che avessimo una mucca in casa, tanti erano i muggiti che producevo all’inizio con quel coso metallico. Poi, non pago, tentai di fare del jazz con il corno francese (anche quello acquistato di seconda mano da un amico) ma smisi subito, essendo uno strumento troppo ostico per il be-bop. Però eseguivo il Tannhauser niente male. Nel frattempo, colpito da Stan Kenton e Woody Herman, iniziai a comporre dei brani che arrangiavo a 16 voci: solo che non trovai mai tanti amici in grado di leggere la musica per eseguirli, per cui non ho mai saputo se facessero davvero pena come ora temo. Infine, incominciai a muovere i primi passi come giornalista specializzato in quella che veniva definitiva musica extra-colta, facendo incetta di articoli firmati (anche se pagati quasi niente) per poter prendere la tessera da pubblicista, che ottenni poi qualche anno dopo. I gruppi musicali dell’epoca Avevo attivato diversi combos: un quintetto con due tromboni, stile Jay & Kay, qualche gruppo in stile swing-era, con il giovane Paolo Dutto al clarinetto e io alla chitarra, più una ritmica raccogliticcia con il classico bassista-finto (era un imbianchino che faceva boom-boom a corde libere, del tutto indipendenti dalla tonalità del brano) e un batterista che oggi fa il carrozziere, di cui non ricordo il nome, ma so che lo chiamavamo Cucciolo. Poi avevo qualche formazione in stile east coast con un organico molto elastico: dipendeva da quanti amici erano disposti a venire alle prove. Alcuni compagni d’avventura (non li cito per tenerezza) erano talmente “squadrati” che, una volta esposto il tema che leggevano rigidamente, non riuscivano a capire quando, finite le improvvisazioni, dovevano riprendere il chorus finale: ricorrevo quindi a degli espedienti strani, tipo battere il palmo della mano sul bocchino del trombone quattro battute prima della ripresa, oppure facendo dello scat urlando Minus four, three, two, one… Uno di questi musicisti-da-ridere era il mio giovane portalettere (che mi sentiva suonare quando mi portava la corrispondenza) e che, quando mio padre un Natale gli volle dare la mancia, come un tempo si usava alla consegna del Calendario del Portalettere, si schernì dicendo..”No, no, mi basterebbe solo poter suonare con suo figlio…”. L’altro era l’idraulico di casa, anche lui appassionato suonatore di sax tenore che aveva imparato a suonare nella banda del paese. Non tutti erano così semplici: alcuni, per la verità, erano già bravi. Mi ricordo tra questi Enrico Rava, che aveva appena abbandonato il trombone a coulisse (strumento con il quale aveva iniziato, per pochissimo tempo, a suonare nei gruppi dixieland) per passare alla tromba, sulla quale stava impostando il metodo no-pressure, imitando alla meglio Miles Davis, con interminabili cascate di note per nascondere una tecnica allora molto rozza. Adesso Enrico, diventato giustamente una grande star del jazz, confessa, nel suo interessantissimo libro “Note necessarie”, che impiegò molti anni a disfarsi di quel vizio e ci riuscì solo quando, sentendolo suonare, Joao Gilberto gli disse: “Sei bravo, ma fai troppe note inutili. Suona solo le note necessarie”. Veniva spesso anche Gianni Negro (e poiché, da chitarrista, non avevo in casa un pianoforte, Gianni suonava la fisarmonica alla Gorni Kramer) e nei concerti esterni qualche volta ci raggiungeva Paolo Conte. Quando al piano c’era Ennio Vitanza (un innamorato di Monk che all’epoca aveva vinto un concorso nelle ferrovie come Capo Stazione Aggiunto alla stazione di Porta Nuova e che poi si trasferì a Milano a fare il cronista sportivo in Rai), Paolo passava al vibrafono, sul quale è sempre stato molto bravo. Sempre come vibrafonista, Paolo Conte e il fratello Giorgio alla batteria, diversi anni dopo, nel 1962, incisero per la RCA Victor un extended play dal titolo “The Italian Way to Swing” sotto il nome, americanizzato, di Paul Conte Quartet. E’ un disco purtroppo introvabile. Il rapporto jazz-canzoni Va ricordato che negli anni 50, in mezzo a poche canzoni interessanti, vi era molta robaccia. I cantautori (termine creato alcuni anni dopo) non esistevano ancora in Italia: si doveva ascoltare Georges Brassens per sentire qualcosa di serio. Chi componeva la musica, tranne pochissimi casi, non la eseguiva e soprattutto non scriveva i testi. Per questo c’erano i “parolieri”. Per scrivere una canzone si mettevano quindi insieme un gruppo di persone, a volte con qualche nome in più al solo scopo di poter depositare il pezzo alla SIAE, che rilasciava il titolo di autore solo dopo esami che all’epoca erano piuttosto complessi. A quel tempo, in genere, chi suonava jazz non amava la musica leggera: si atteggiava, aveva un po’ la puzza sotto al naso e cercava di stare alla larga dalle canzoni. Ricordo un amico che per far colpo sulle ragazze diceva di “fare be-bop” e siccome loro non sapevano cosa fosse ma non osavano chiederlo, lui riusciva ad ottenere un alone di mistero e rimorchiava facilmente. In realtà suonava da schifo. Paolo Conte, senza dirlo a nessuno di noi, si divertiva, con suo fratello Giorgio (altro bravissimo autore che meriterebbe molta più notorietà in Italia) a scrivere canzoni che proponeva ai gruppi e ai cantanti di successo dell’epoca. Molti di questi brani sono adesso dei successi mondiali: si pensi a "La coppia più bella del mondo" e "Azzurro" per Adriano Cementano, "Insieme a te non ci sto più" per Caterina Caselli, "Tripoli '69" per Patty Pravo, "Messico e nuvole" per Enzo Jannacci, "Genova per noi" e "Onda su onda" per Bruno Lauzi, ecc. . Solo in un secondo tempo, come Paolo ha affermato in una recente intervista, incominciò a tenere nel cassetto le sue composizioni senza offrirle più a nessuno, perché, sono parole sue, dette con la consueta e inimitabile sintesi: “L’interpretazione di un brano da parte di un cantante di successo è un onore quanto una profanazione”. Anni dopo decise quindi di cantare le sue canzoni in prima persona. Direi che “Sotto le stelle del jazz” è la perfetta descrizione di quella epoca - tanto cara anche al regista-clarinettista Pupi Avati - dove tutte le ragazze si chiamavano Marisa, il jazz a loro non piaceva perché “non si capisce il motivo”, i ragazzi avevano le cravatte sbagliate e giravano i preziosi 78 giri sui grammofoni a manovella, cercando di ballare con le più belle: il ballo era l’unico modo in cui all’epoca si poteva stare vicino, a volte molto vicino, ad una ragazza. Il meritato successo internazionale di Paolo Conte, e in parte anche quello di Giorgio Conte, è oggi sotto gli occhi di tutti. Un episodio curioso a proposito di Paolo Conte accadde a Roma: da molti anni non ci vedevamo, dopo che lui si era laureato in legge e curava lo studio professionale del padre ad Asti. Io vivevo ormai da tempo a Roma e mi occupavo, collateralmente, di critica jazz, come poi vedremo. Non avevo ricollegato che un certo P.Conte, autore di diverse canzoni di successo, era il mio mitico pianista-vibrafonista di quando eravamo ragazzi: può sembrare strano ma davvero non avevo ricollegato i nomi. Una sera, durante un concerto di Art Farmer al Music Inn, vidi un elegante signorotto baffuto, sornione, che sembrava aspettare da me un cenno di riconoscimento: dopo molti anni le persone cambiano e non mi resi conto di chi fosse quel gentiluomo con l’aria da gattone. Solo quando, con accento piemontese, mi rimproverò dicendo “Oh, basta là, ma non si salutano neanche più gli amici…” mi resi conto, dalla voce e dallo sguardo, che era Paolo Conte. Aveva appena inciso il suo primo LP per la RCA, solo piano e voce, e, obbligato dalla casa discografica, lo stava presentando in giro per l’Italia, con grande ritrosia perché detestava cantare in pubblico. M’invitò ad andarlo ad ascoltare in un piccolissimo locale di via Garibaldi, il Folk Rosso (da non confondere con il ben più importante Folkstudio) un locale, scomparso pochi anni dopo, che era letteralmente una topaia: penso che le poltrone fossero state raccattate nelle discariche, quelle abbandonate dai cittadini. Bisognava stare attenti a non prendersi il tetano, ma Paolo fu una rivelazione. Allora nessuno conosceva la sua musica surreale, cosicchè Bartali, La giarrettiera Rosa, La Topolino Amaranto, Wanda e le storie del Caffè Mocambo mi colpirono molto. Per altro, lui allora non cantava mai le sue Onda su Onda, Una giornata al mare, Azzurro e i successi che altri avevano lanciato. Era realmente un nuovo modo, geniale, di interpretare delle canzoni. Di tanto in tanto accompagnava il canto con swinganti boogy woogy o afferrava il suo kazoo (che a New Orleans era lo strumento dei negretti poveri) per fare la linea melodica nella ripresa del refrain. Ne scrissi su Il Tempo una recensione entusiasta. E la cosa finì lì, per almeno un anno e mezzo. La sua affermazione avvenne per gradi: lenta ma inesorabile, sino al grande successo, soprattutto all’estero. Quando lo rividi al suo secondo concerto a Roma già c’era una folla ad ascoltarlo. Nel camerino, dopo le spettacolo, mi confessò che il mio articolo aveva finalmente convinto sua madre (quattro colonne su un quotidiano della capitale avevano impressionato favorevolmente quella gentile signora di provincia, a quanto pare) che dopo anni di disapprovazione della mania di quei due figli a perdere tempo con la musica, aveva ammesso le loro ragioni nel non dedicarsi solo all’attività legale. E poiché questo riconoscimento la madre glielo confessò poco prima della sua morte, Paolo ne fu molto toccato e me lo confessò con commozione. Il successo di Paolo Conte, all’estero, partì dalla Francia: il critico musicale del Figarò seguì la sua tournèe italiana sommergendo i francesi di elogi su questo avvocato poeta che cantava in modo sghembo storie di gente che invecchiava triste nei tinelli marron. Siccome il critico del Figarò era un giovane free lance pagato a borderò (cioè per ogni pezzo che scriveva) era costretto a scrivere un sacco di articoli per pagarsi le spese del viaggio in Italia. Così la Francia su sommersa di articoli su Conte, tanto che lo chiamarono a Parigi e Paolo si chiese come i francesi avrebbero potuto capire i racconti di uno che vive in mezzo alla campagna, dove il sole è un lampo giallo al parabrise. Avrebbero capito soltanto parabrise. Cercò allora di tradurre in francese le sue canzoni: incominciò da “La ricostruzione del Mocambo” e quando cercò di tradurre la frase “tinello marron”, si arrese, capì che era un’impresa impossibile, decise di non tradurre nulla, di cantare tutto in italiano e si preparò al fiasco più totale. Fu un’apoteosi, invece, e il commento (assolutamente geniale) di Paolo Conte fu: “Ancora una volta i francesi sono stati vittime della loro presunzione di capire sempre tutto”. Sempre sulla linea del rapporto jazz-arte, Paolo Conte ha prodotto nel 2000 un progetto che sognava da venti anni: "Razmataz", un’opera musicale che narra della Parigi degli anni ’20. E’ la fusione dei suoi due amori, il jazz e l’arte visiva. Conte vede nella Parigi degli anni Venti il punto d'incontro e di fermento culturale di tutte le avanguardie del ventesimo secolo. La storia, che nello specifico narra l'incontro tra la vecchia Europa e la nuova musica nera, è stata illustrata da 1800 suoi disegni e trasformata in un'opera video su DVD, accompagnata da musica e dialoghi. L'album contiene stralci di musica d'atmosfera del passato oltre ad una serie di canzoni in un'interessante carrellata di stili in francese, italiano e inglese, e riflette le eccitanti innovazioni e fusioni di questo incrocio culturale della Parigi degli anni Venti. Tutti i musicisti amano il jazz? A proposito del rapporto jazz-musica leggera, è curioso notare che alcuni artisti, che in seguito raggiunsero grande notorietà nel campo della canzone e in altri settori della cultura, avessero con il jazz un rapporto molto diversificato: alcuni d’amore, altri di totale disinteresse. Un rapporto d’amore è stato certamente quello di Fred Buscagione, Bruno Martino, Armando Trovajoli, Ugo Calise, Nicola Arigliano, Renzo Arbore, Lucio Dalla, Piergiorgio Farina, Tullio De Piscopo, poi, più tardi, Pino Daniele, Sergio Cammariere e tanti altri. In cima alla lista, per la verità, andrebbero messi Luigi Tenco e Bruno Lauzi che, negli anni 50, il primo al clarinetto e il secondo al banjo, formarono la Jelly Roll Morton Boys Band a Genova, con Danilo Degipo alla batteria e Alfred Gerard alla chitarra. Molto più recentemente, un altro notevole cantautore, Gianmaria Testa, appassionato di jazz, è stato chiamato ad inaugurare l'edizione 2002 di Umbria Jazz, il maggior evento legato al genere in Italia. A proposito di Umbria Jazz, ho già prima citato il bravissimo Pupi Avati, celebre regista che condivide com’è noto con l’altro grande cineasta, Woody Allen, la passione per il clarinetto. A proposito di questa passione comune per il clarinetto, ricordo che molti anni dopo Alberto Alberti e Carlo Pagnotta si fecero venire la voglia di riunire ad Umbria Jazz (la loro creatura che tanto successo ha portato alla cultura e al turismo umbro) alcune celebrità per una magic riunion di clarinettisti, da far esibire in gruppo con una sezione ritmica: Woody Allen, Hengel Gualdi, Pupi Avati, Lucio Dalla e Renzo Arbore. Ero presente al concerto, al quale dette forfait (ma c’era da giurarlo) soltanto Woody Allen. Pupi Avati, dietro le quinte (che poi non erano davvero delle quinte, perché il concerto si teneva sulla piazza maggiore di Perugia, en plain air, era terrorizzato: “Ma perché cavolo ho accettato una simile follia, non suono da anni, sarà una catastrofe”. Invece andò benissimo. Suonarono tutti splendidamente, con molto swing e sembravano un gruppo vero che suonasse insieme da anni. Pochi conoscono la storia di un ventenne, certo Ferdinando da tutti chiamato Nando, che aveva scoperto, nella portineria di Piazza Cavour a Torino dove abitava con la madre, un pacco di dischi di jazz a settantotto giri dimenticati dall’inquilino precedente. Se li era imparati a memoria sul vecchio grammofono a manovella e quando conobbe lo scatenato fisarmonicista e trombettista Renato Germonio, tra i due nacque un’amicizia immediata. Germonio, con maggiori possibilità economiche, noleggiò subito un contrabbasso per Nando, che aveva frequentato per sei mesi il corso di violino al Conservatorio Giuseppe Verdi, facendosi poi buttare fuori per il suo carattere focoso. Le corde erano più spesse, la tastiera molto più grande, ma grosso modo Nando seppe arrangiarsi a suonare quel violone enorme. Nacque così il primo duo jazzistico torinese, fisarmonica e contrabbasso, che per ore swingavano sulle note di The Sheik of Araby, la loro sigla musicale: il giovanotto era Ferdinando Buscaglione, che poi cambiò il suo nome popolare di Nando in quello di Fred, con cui divenne a tutti noto. Invece non aveva un buon rapporto con il jazz Lucio Battisti, che dall’età di 18 anni era il chitarrista del gruppo I Campioni, nel quale si era fatto le ossa Tony Dall’ara, un gruppo reso celebre dal loro successo Tintarella di Luna, ripreso poi da Mina. Ricordano i colleghi che una volta Battisti venne condotto a forza ad ascoltare al Lirico di Milano il gruppo di Charlie Mingus e per tutto il tempo sbuffò: “Ma che palle, annammo via, ma che è ‘sta robba” Anche rifacendosi alle origini del jazz, il rapporto tra questo linguaggio e la musica leggera, in particolare proprio al genere “song”, è molto più stretto di quanto solitamente si pensi. Una infinità di jazzmen hanno dedicato moltissimi album alla rivisitazione in chiave jazzistica di canzoni di tutti i tipi, i cosiddetti “standard” Lo standard altro non è che un song, una canzone, in origine spesso presente nelle commedie musicali. Il legame tra standard e jazz i indissolubile: si pensi a tutte le registrazioni dei vocalist e singers vari, da Billie Holiday a Ella Fitzgerald, da Sarah Vaughan a Mel Tormè, da Louis Armstrong a Bestie Smith. Gli standard Una cosa che colpisce sempre chi pratica poco l’ambiente del jazz è il fatto che i musicisti, quando si incontrano per la prima volta, riescono a suonare insieme senza difficoltà, senza leggere spartiti, senza aver mai provato prima. Questo che sembra, agli occhi dei profani, un piccolo miracolo, è per jazzmen una normalità, basata sulla conoscenza dei cosiddetti “standard”, quei brani evergreen che si suonano da sempre. Conoscere gli standard è fondamentale, diversamente non sarebbe possibile nessuna attività senza settimane di prove e di studio specifico del repertorio. Si ritiene che i brani di comune conoscenza nel mondo jazzistico siano almeno un migliaio. Questo è la lista dei 100 standard, redatta da Nino De Rose, che si devono tassativamente conoscere per fare del jazz, oltre al più tradizionale di tutti: un giro di blues di 12 battute, in Sibemolle. Titolo Autore 1) Ain't Misbehavin' Fats Waller 2) AII Blues Miles Davis 3) AII The Things You Are Jerome Kern 4) AII Of You Cole Porter 5) Ad Infinitum Carla Bley 6) Autumn Leaves Joseph Kosma 7) BeautifuI Love Victor Young 8) Black Orpheus Luiz Bonfà 9) Blue Bossa Kenny Dorham 10) Blusette Toots Thielmans 11) Body And Soul John Green 12) Bye Bye Blackbird Ray Anderson 13) Cantaloupe Island Herbie Hancock 14) Cherokee Ray Noble 15) Corcovado A.C. Jobim 16) Days Of Wine And Roses Henry mancini 17) Doxy Sonny Rollins 18) ExactIy Like You Jimmy McHugh 19) Fly MeToThe Moon Burt Howard 20) Foggy Day George Gerswin 21) Footprints Wayne Shorter 22) Four Miles Davis 23) Georgia On My Mind Hoagy Carmichael 24) Giant Steps John Coltrane 25) Goodbye Pork Pie Hat Charlie Mingus 26) Have You Met Miss Jones Richard Rogers 27) Here's That Rainy Day Jimmy van Heusen 28) How Deep Is The Ocean Irvin Berlin 29) How High The Moon Morgan Lewis 30) How insensitive A.C. Jobim 31) It Don't Mean A Thing Duke Ellington 32) I Fall In Love Too Easily Jule Styne 33) I Got Rhythm George Gershwin 34) I Love You Cole Porter 35) I Remember You Victor Schertzinger 36) l'II Remember April Raye De Paul 37) If I Should Lose You Ralph Rainger 38) Impressions / So What Davis J. Coltrane/Miles Davis 39) In A Mellow Tone Duke Ellington 40) In A Sentimental Mood Duke Ellington 41) In Walked Bud (Blue Skies) Thelonious Monk 42) In Your Own Sweet Way Dave Brubeck 43) Jucy Luicy/ Confirmation H. Silver/Charlie Parker 44) Just Friends Klemmer/Lewis 45) Lady Be Good George Gershwin 46) Lady Bird Tedd Dameron 47) Laura David Raskin 48) Like Someone In Love Jimmy van Hausen 49) Lover Man Ram ramirez 50) Left Alone Mal Waldron 51) LuIlaby Of BirdIand George Shearing 52) Maiden Voyage Herbie Hancock 53) Man I Love George Gershwin 54) Memories Of You Eubie Blake 55) Milestones (modale) Miles Davis 56) Minority Gigi Gryce 57) Misty Errol Garner 58) Moments' Notice Kohn Coltrane 59) My Favorite Things Richard Rogers 60) My Funny Valentine Richard Rogers 61) My Romance Richard Rogers 62) Naima John Coltrane 63) Nardis Miles Davis 64) Night And Day Cole Porter 65) Night In Tunisia Dizzy Gillespie 66) On Green Dolphin Street Bronislau Caper 67) On The Sunny Side Jimmy McHugh 68) One Note Samba A.C. Jobim 69) Out of Nowhere John Green 70) Over The Rainbow Harold Arlen 71) Recordame Joe Henderson 72) Round Midnight Thelonious Monk 73) Ruby, My Dear Thelonious Monk 74) Satin Doll Duke Ellington 75) Serenade To A Cuckoo Roland Kirk 76) Shadow Of Your Smile Johnny Mandel 77) Softly As In A Morning Sigmund Romberg 78) Solar Miles Davis 79) Someday My Prince will Come Frank Churchill 80) Sophisticated Lady Duke Ellington 81) Soul Eyes Mal Waldron 82) Speak Low Kurt Weil 83) St. Thomas Sonny Rollins 84) Star Eyes Raye DePaul 85) Stella By Starlight Victor Young 86) Summer Night Harry Warren 87) Summertime George Gershwin 88) Take Five Paul Desmond 89) Take The "A" Train Billy Strayhorn 90) Tenderly Walter Gross 91) There’ll Never Be Another You Harry Warren 92) Waltz For Debbie Bill Evans 93) What Is This Things Called Love Cole Porter 94) Whisper Not Benny Golson 95) Windows Chick Corea 96) Woody ‘n’ You Dizzy Gillespie 97) Yardbird Suite Charlie Parker 98) Yesterday Jerome Kern 99) You Don't Know What Love Is Raye - DePaul 100) You Stepped Out Of A Dream N.H. Brown Per questo, parallelamente all’amore per il jazz, ho sempre maturato un parallelo interesse per la canzone d’autore, diretta discendente della canzone popolare. Come nasce una canzone Probabilmente una canzone nasce nello stesso modo in cui nasce un brano di jazz. Non credo vi sia molta differenza, in termini di processo di genesi creativa, tra comporre Night in Tunisia oppure Estate. La differenza tra i brani strumentali e le canzoni è solo data dalla presenza del testo. Quando poi il jazz attinge dal genere song, qualunque canzone diventa uno standard jazzistico. Dice Lucio Dalla che “Guardando la vita nasce una canzone” e ricorda che, incontrando a Bologna una prostituta e chiacchierando con lei del più e del meno, si sentì chiedere, per prima cosa: “Ma lo sai che domani arriva Sartre?” Commenta Dalla: “Io ci rimasi di sasso, e l’indomani composi Disperato Erotico Stomp”. Lui si dice solo “narratore di fatti di vita”. Quando nel 1982 il discografico Vincenzo Micocci (che si autodefinisce l’inventore del termine cantautore, anche se la versione è da altri contestata) con Tullio De Mauro organizzò il corso Mestiere della Musica, invitando come docenti il fior fiore degli autori musicali, Venditti, Battiato, Morricone e altri, Lucio Dalla tenne una lezione proprio su come nasce una canzone, facendo distribuire agli studenti una fotocopia in cui c’era scritto: “Cari allievi, le mie canzoni più belle le avete scritte voi, senza saperlo. Quanta gente canta, se sa cantare, ma quanta canta anche se non sa farlo. Perché uno canta? Se è felice? Se ha qualcosa da dire? O se soffre e se gli piace soffrire, o se ha fantasia e non ama il “normale” delle cose. Forse si canta da sempre perché cantare è come raccontare, stare vicino alle cose, a un passo dal mondo. Anch’io canto a un passo dal mondo, scrivo canzoni e ricevo nastrini e cassette a milioni. La gente mi manda le sue parole, non vuole solo autografi o foto firmate, non mi chiede chi amo, ma se amo, mi chiede a cosa penso quando scrivo una canzone e dov’era questa canzone prima di essere scritta, su quali spiagge o cimiteri volava prima di essere inventata, in quali occhi a mandorla di strega o in quali mani di porco o di fata era avanti di essere scovata. Io ho cominciato così: in piedi su di un tavolo, sotto ad un neon, nella cucina di casa. Oggi mi sveglio la notte con questo sogno sempre in mente e mi butto anni e anni avanti, sbaraglio gli occhi sulla canzone che scriverò domani, un sogno difficile da raccontare, più facile da suonare. Quanta gente sarà seduta davanti a me ad aspettare qualcosa di speciale su un argomento che mi sembra del tutto normale? Mi crederanno quando dirò che ogni fatto ha un suo suono, che questa notte a casa mia ho già visto le loro facce, so già chi sono, che potrei parlare duecento ore in fila e non stancarmi mai o stare zitto a contare sino a duemila e dirti tutto quello che dirai? Chissà se crederanno che ognuno è mago, è carta da canzone, è padrone di due tasche, che la gioia è come la disperazione, che tutte le note stanno tranquillamente in una mano sola, che anche i muli possono cantare in un coro e, soprattutto, che le mie canzoni più belle le hanno scritte loro?” A volte gli autori svelano cosa ha generato il “momento magico”, ma in molti casi rimane un mistero. Alcuni spunti sembrano essere comuni, come nel caso dell’ispirazione più diffusa al mondo, l’amore, ma questa non è certo l’unica fonte di creatività. In un testo del compianto Giorgio Lo Cascio, “Diventare Cantautori” (Lato Side Editore), vengono riportate le otto tipologie che, nello studio della metrica classica, servono a classificare i generi testuali. Naturalmente questa classificazione vale prevalentemente per i brani classici, ma con una piccola forzatura può essere adattata anche alle canzoni: Il Carme (potrebbe essere il caso di Eppure soffia di Pierangelo Bertoli); L’Epicinio (per celebrare o auspicare una vittoria: El pueblo unido jamas serà vencido); L’Epitalamio (composizione per la celebrazione di un matrimonio, che in parte è presente nel testo dello strano sposalizio narrato in Alice di Francesco De Gregori oppure in Marcia Nuziale di Brassens tradotta da De Andrè e cantata da Gino Paoli); L’Epicedio (per le occasioni funebri e i funerali: ad esempio La Ballata del Pinelli); L’Elegia (un narrazione triste, potrebbe essere esemplificata con Santa Lucia di De Gregori o La storia di Marinella di De Andrè); L’Idillio (un tema bucolico, come un Mazzo di fiori di Roversi-Dalla); Il Sermone (componimento satirico, come l’Ultimo Mohicano di Gianfranco Manfredi) L’Epistola (una composizione in forma di lettera, come l’Anno che verrà di Lucio Dalla o Rosso colore di Bertoli); L’Epigramma (una comunicazione pungente e ironica, di quattro/cinque versi al massimo, come le canzoni-bonsai di Enzino Iachetti). Indagando su cosa ha generato l’idea-base di una serie di canzoni, ho individuato una lunga serie di spunti, in parte rientranti in questo elenco, in parte no, più che altro allo scopo di coinvolgere il lettore nel completare la lista. Sono chiaramente nati da Un testo letterario: Dormono sulla collina, Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore, Un medico, Un chimico, Un ottico, Il suonatore Jones, di Fabrizio De Andrè e Giuseppe Bentivoglio, tutte liberamente tratte dall’antologia di Spoon River di E.L.Masters Un fatto di cronaca: 1) La Donna Cannone di Francesco De Gregori, ispirata da un fatto realmente accaduto: un circo equestre era entrato in crisi a seguito della fuga d’amore della sua massima attrazione, una donna che tutte le sere veniva sparata da un cannone. Era accaduto che una sera, dopo lo sparo, la donna era sparita, non nel cielo, ma con il suo amante. 2) Una Storia Sbagliata di Fabrizio De Andrè, commissionatagli dalla RAI per la sigla di una trasmissione ispirata all’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Un rapimento: Hotel Supramonte, ispirata a Fabrizio De Andrè dalla sua drammatica avventura in Sardegna ed allo strascico che ebbe nei suoi rapporti con la compagna Dori Ghezzi, rapita assieme a lui. Una donna: Margherita di Luberti e Cocciante; ma anche Laura, Maria, Suzanne, Dolly, Nenè, Anita, Emanuela, Gloria, Liu, Dolcenera,Titti, Sally, Linda, Isolina, Elena, Alice, Maruzzella, più quasi tutto il calendario di nomi femminili, ma non Francesca, perché sappiamo che secondo Lucio, Non è Francesca. La dedica ad una città: Roma capoccia, Ma se ghe pensu (Genova), Malaga, Addio Lugano bella,Ciao Turin, Rimini, Genova per noi, Napule è, e migliaia di altre località. La dedica ad un luogo: Creuza de ma, Luci a San Siro, Motel, Porta Portese, Via del Campo, Il mare, Chiesetta alpina, La collina, Via della povertà, Via della Croce, ecc. La luna: Verde luna, Luna rossa, Guarda che luna, Luna marinara, Pallida luna, Luna tu, Acqua dalla luna, più almeno il 20% delle ispirazioni delle canzoni Le stagioni: Estate, April in Paris, Maledetta primavera, Inverno, Il mare d’inverno, Autumn in New York, ecc. Una data: 1950 di Amedeo Minghi, 29 settembre di Lucio Battisti, 4/3/1943 di Lucio Dalla e Paola Pallottino. Un periodo: I migliori anni della nostra vita di Renato Zero, A very good year interpretata sia da Franck Sinatra sia da Ray Charles. Una rosa: La rosa sfogliata di Vinicio De Morales, metafora dell’amore in disfacimento; Rose Rosse, Yellow roses of Texas e molti altri esempi. Se la rosa è rossa, ovviamente, è simbolo d’amore, ma spesso, di qualunque colore sia, è una metafora dell’intimità femminile. Celebrità del passato: Bartali di Paolo Conte, Nuvolari e Caruso di Lucio Dalla, Girardengo (Vai campione) di cui è autore il fratello di Francesco De Gregori, Carlo Martello di De Andrè, più tante altre. La nascita di un figlio: Avrai, di Claudio Baglioni. Una storia strana: Aguaplano di Paolo Conte (un pianoforte a coda in fondo al mare, sul fiume di Gennaio che è poi Rio de Janeiro, che mai si saprà come e perché sia finito lì); I sogni: Nel blu dipinto di blu e centinaia d’evocazioni che apparirebbero troppo assurde se non fossero giustificate dal fatto di essere state provocate da una fantasia notturna; Una sbronza: Amico fragile di De Andrè, scritta in garage sotto l’effetto del vino dopo una furiosa serata nei salotti bene della Sardegna degli anni 70. L’amicizia: Ci vorrebbe un amico di Venditti, Una donna per amico di Riccardo Cocciante, L’arcobaleno, dedica musicale di Giulio Rapetti a Lucio Battisti dopo una sua visione notturna; Amico di Renato Zero. Una cadenza ritmica: Zoccoletti, quelli che, per intenderci, nella tormentone che cantava Claudio Villa, ogni mattina davano il buon giorno a Nina; Scalinatella longa, dove il passo del somaro segna il ritmo della bella canzone di Roberto Murolo. Un manifesto politico: Contessa, di Paolo Pietrangeli, La locomotiva di Francesco Guccini, ecc. Oggetti e cose: Sassi, Foglie morte, Abatjour (o l’illuminazione di una celebre casa d’appuntamenti di Buenos Aires in A Media luz, il celebre tango che descrive le stanze piene di velluti, tutti in penombra, che sorgevano al celebre indirizzo di un lupanare dell’epoca, “Corriente 648”, riportato nel testo, dove ora esiste soltanto più uno squallido garage). I fenomeni atmosferici: Il vento, Solo, sole, sole, Cantando sotto la pioggia, O sole mio, Nebbia, Tramonto, Quando calienta el sol, Alba tragica, ecc. Una parte del corpo: Bocca di rosa, Le tue mani, Lisa dagli occhi blu, Ma le gambe… Strumenti musicali: La fisarmonica di Stradella, Chitarra romana, Suona balalaika, Il piano elettrico, ecc. Le attività professionali: Il pianista di piano-bar, Boscaiolo, Vecchio lampionaio, Ma dove vanno i marinai, Lupo di mare, Il pescatore, ecc. Un aneddoto: Lo scrutatore non votante di Samuele Bersani. L’autore confessa di aver scritto di getto la canzone dopo l’incontro con un amico che gli aveva confessato di non votare alle elezioni. Solo che lo stesso amico era stato visto da Samuele nel ruolo di scrutatore alle elezioni precedenti, donde una serie di ossimori e di nonsense deliziosi che danno vita a questo testo di Bersani. Ho lasciato per ultimo il tema principe, l’amore. Dice Giulio Rapetti (Mogol) che se gli amori non producessero tormenti, nel sorgere, nello svolgimento e nella fine del sentimento, probabilmente non ci sarebbe nulla da scrivere. Ecco una infinitesima parte delle canzoni ispirate a L’amore nelle sue varianti. - la nascita del sentimento: La costruzione di un amore, di Ivano Fossati; Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco; Che cosa c’è di Gino Paoli (più centinaia di altri esempi) - un madrigale: La Cura, di Franco Battiato, che riesce ad essere intrisa d’amore senza mai nominarlo; (anche qui gli esempi sono infiniti, molte spesso sotto forma di nomi femminili, quasi mai maschili); Un amore ritrovato: Valsinha di Chico Buarque De Hollanda - l’abbandono: Quando finisce un amore di Luberti e Cocciante, Ne me quitte pas di Jacques Breil; L’amore conta di luciano Ligabue, Cantando con le lacrime agli occhi, Viale d’autunno - il suicidio per amore: La ballata del Michè, Marinella di Fabrizio De Andrè, Alfonsina, cantata da Mercedes Sosa, e tante altre canzoni ispirate a suicidi per un amore finito. Più il 70% della produzione canzonettistica di tutto il mondo ispirato all’amore. IL JAZZ NELLA TORINO DEGLI ANNI 50 Il disegno musicale più ambizioso a Torino negli anni dal 1955 al 1958, almeno per quanto riguardava il jazz californiano, era guidato da Piero Brovarone, un geniale commesso di dischi che anni dopo si sarebbe trasferito negli USA, laureandosi brillantemente in fisica nucleare, diventando poi un docente di informatica dopo anni di brillante attività alla NASA. Brovarone suonava (e ancora suona, negli USA) con grande tecnica, una infinità di strumenti, sempre da autodidatta: tromba, chitarra, flauto, pianoforte. Scriveva anche sofisticati arrangiamenti. Ero presente quando arrivò un pacco delle Messaggerie Musicali contenente un flauto-traverso che Brovarone aveva acquistato per corrispondenza. Aprì il pacco, montò i due pezzi dello strumento e, senza aver mai saputo come s’imboccasse un flauto, suono un’aria di Bach in modo perfetto. Faceva quasi rabbia. Aveva l’orecchio assoluto e improvvisava in modo magistrale in qualunque tonalità. Dopo un periodo come commesso da Gariazzo (un negozio di dischi a fianco del teatro Alfieri che importava i primi LP dagli USA e che rappresentava il centro di raccolta per gli appassionati torinesi di jazz moderno) Piero (noto come Pedro) aprì un proprio negozio in via XX Settembre nel quale io, in attesa di partire per il servizio militare, lavoravo pretestuosamente come assistente: il vero scopo era ascoltare jazz tutto il giorno e incontrare i vari Franco Mondini, Enrico Rava, Cesare Fiorio, Giampaolo Belgrano, Raul Marietti, Bruno Bonsignore, Ennio Vitanza, Piero Delsedime (un emulo di Gerry Mulligan al sax baritono, poi diventato un brillante docente universitario) e tanti altri della ganga dei “modernisti”. Vi erano poi altri bravi musicisti, in particolare pianisti: Mario Rusca, ad esempio, e un certo Peter Angela, che tutti oggi conoscono con il suo nome anagrafico di Piero. Ma amavamo alla follia un dolcissimo ragazzo dalla parlata romana, Maurizio Lama, che si era trasferito a Torino quando il padre assunse in quella città l’incarico di Provveditore agli Studi. Maurizio, che accompagnava splendidamente al piano Enrico Rava, morì pochi anni dopo in un incidente stradale sull’Autostrada dei Fiori. Hot jazz e cool jazz Ho già accennato al tormentone dell’epoca che divideva il jazz tra hot e cool. In quegli anni, e forse oggi farà impressione ai giovani jazzisti sentirlo dire, gli ambienti del jazz si dividevano in due fazioni distinte, che a volte finivano anche in rissa: il termine jazz caldo e jazz freddo lo usavano solo gli estranei alla cerchia jazzistica, di solito signore-bene che volevano apparire informate, ed a noi faceva ribrezzo. I termini usati erano “tradizionale” e “moderno”. C’erano quindi i “tradizionalisti”, che ascoltavano o suonavano solo dixieland, blues e revival, e i “modernisti”, come noi, che seguivano solo quello che andava dal bebop in poi. I primi accettavano anche la swing era, ma si fermavano lì. Per loro Dizzy Gillespie, Charlie Parker, per non parlare di tutto il jazz bianco (Stan Kenton, Woodhy Hermann, l’intera East Cost) era musicaccia incomprensibile. Noi chiamavamo gli altri “cavernicoli”. Alcuni dei “modernisti”, almeno io ero tra questi, non facevano però troppe distinzioni tra le epoche. Oltre al primo disco che mi fece scoprire il jazz, di cui ho già detto, ce ne fu un secondo importante nella mia formazione iniziale: un’altra antologia, questa volta dell’East Coast, grazie alla quale m’innamorai di Gerry Mulligan, Chet Baker, Shally Manne, ecc. Ma via via ascoltai tutto il jazz, dalle origini a quei giorni, cioè a metà degli anni ‘50. Una profonda emozione la provai al mio primo concerto, al teatro Nuovo di Torino nel 1956, quando ascoltai per la prima volta dal vivo il quartetto di Gerry Mulligan, che da pochi mesi si era separato da Chet Baker. Alla tromba quella volta c’era Joe Eardly. L’emozione fu pari a quelle che ricevetti nell’ascoltare, molti anni dopo, in distinti concerti, due giganti: Louis Armstrong e Duke Ellington. Il centro di tutte le attività di jazz tradizionale (e solo qualche volta di jazz moderno, che in quel locale era piuttosto malvisto) era il Sangip Club, al Valentino, dove aveva sede il Circolo Torinese del Jazz (del quale qualche tempo dopo venni nominato segretario) frequentato da uno stuolo di ex alunni del San Giuseppe, il fior fiore della Torino-bene dell’epoca che si formava dai guesuiti. Nella cantina, dove vi era anche un sala-prove, erano attive diverse formazioni di jazz tradizionale e di swing e, solo in un secondo tempo, di jazz moderno. Era lì che avvenivano gli scontri, qualche volta fisici, tra gli appassionati dei due generi. Mi ricordo che una volta uno dei “cavernicoli” sbattè il coperchio del piano sulle mani di un pianista che stava eseguendo un pezzo di Lennie Tristano e per poco non gli spezzò le dita. Stanchi di essere vessati da questi personaggi intransigenti, decidemmo di fare una colletta tra noi e affittare una cantina. Il più attivo in questa operazione, oltre me, fu Enrico Rava. Andammo a parlare con il segretario della Camera del Lavoro di Torino il quale ci affittò per poche lire al mese uno scantinato enorme, pieno di topi e scarafaggi. Comprai presso una cartiera decine di rotoli di cartone ondulato che servirono a tappezzare le pareti ed insonorizzare il locale, aiutati anche da una raccolta di contenitori per uova che i negozianti buttavano via. Poi colorammo tutto con tinte che obbligavano a suonare con gli occhiali da sole per non essere accecati, tanto erano vivaci. Ma fu un successo. Avevamo una sala prove solo per il “jazz moderno”. Quando il segretario della Camera del Lavoro scese per vedere cosa Rava ed io stavamo combinando fu talmente sorpreso da nostro zelo che ci fece omaggio di tre mesi d’affitto. Con quella somma pagammo la derattizzazione e suonammo finalmente senza i topi. Che tempi, gente, da non credere. Era in quel cantinone enorme che Enrico Rava studiò seriamente l’imboccatura della tromba. La band più importante era guidata da uno molto bravo nel ragtime, Ettore Zeppegno, che poi si trasferì a Roma alla direzione artistica della RCA. Spiccavano nella banda Gigi Cavicchioli al sax basso e Alex Cameron Curry alla cornetta in Do. Altri gruppi erano animati dal clarinettista Bepi Cancan, poi trasferitosi a Milano per lavorare nell’editoria. Ricordo un cantante negro che per poche lire cantava gli standard americani per qualunque formazione, Al Tanner, sempre sbronzo, che viveva di rendita (aveva sbancato il Casinò di Venezia in una serata fortunata) bevendo pinte di bourbon al bar di fronte a Porta Nuova. Ad un livello, sempre amatoriale, ma decisamente eccellente, era molto attivo il gruppo Jazz at Kansas City con Renato Germonio, Sergio Farinelli, Emilio Siccardi e Dick Mazzanti, che alternava il trombone al piano, nel quale eccelleva nello stile boogy woogy. L’avvocato Siccardi era un vero principe del foro, talmente appassionato di Lester Young che ne imitava, oltre il fraseggio e la sonorità sul sax tenore, anche l’abbigliamento (girava sempre con un cappello piatto a tesa tonda) e, quando la band raggiungeva dei momenti caldi, suonava piegando il sax tenore di lato, come il suo idolo. Siccardi e Mozzanti, oltre che amicissimi, erano anche cognati, perché avevano sposate due sorelle appassionate di jazz. Nelle grandi occasioni venivano al club anche dei musicisti che, sebbene fossero quasi coetanei, sembravano molto più vecchi di noi, talmente erano bravi: Gianni Basso, Oscar Valdambrini, Dino Piana, Sergio Fanni e Carlo Sola. Era sempre presente anche Sergio Ramella che anni dopo sarebbe passato dal ruolo di appassionato ascoltatore a quello di organizzatore di eventi jazzistici. Di tanto in tanto avvenivano dei gemellaggi e degli scambi culturali con altri circoli del jazz sparsi per l’Italia: tra questi i più attivi erano il circolo di Bologna, dove imperava Ruggero Stiassi, quello di Genova, animato da Lucio Capobianco, quello di Roma (dove la Roman News Orleans Jazz Band spadroneggiava, animando quella che poi venne chiamata la Dolce Vita) e Perugia, dove si era trasferito da Genova Adriano Mazzoletti, che poi lasciò Perugia per Roma e andò alla Rai, diventando, negli anni seguenti, con Nicolosi, Biamonte, Rosa e Rotondo uno dei programmatori di jazz più attivi. A Mazzoletti si devono inoltre i più significativi studi sul jazz italiano, sui quali ritorneremo più avanti. Si tenevano settimanalmente, in questi circoli, delle audizioni guidate, a tema. Noi al San Gip a Torino avevamo una rigorosa programmazione mensile e non era raro che fossero presenti molte decine di appassionati. La sala era sempre piena se era in programma del jazz tradizionale, ma una sera, per l’improvvisa assenza di un conferenziere su Bix Beiderbecke, lo sostituii io con un programma sul post be bop. Siccome i “cavernicoli”, di fatto, altro tipo di jazz che non fosse il loro non lo ascoltavano quasi mai, si trovarono spiazzati nel dover ammettere che le cose che stavano ascoltando erano eccellenti. Così a poco a poco i gruppi smisero di lottare tra loro. Anche se, non solo gli appassionati, ma anche alcuni critici ufficiali non riuscirono mai ad accettare le nuove tendenze. All’inizio del mio periodo di segretariato del circolo, forse anche grazie al fatto che le mie audizioni avevano (non è immodestia, solo cronaca) il più elevato numero di ascoltatori, venni invitato a tenere una conferenza fuori dal circolo, in un teatro, un vero, enorme teatro. L’annuncio era apparso su La Stampa cosicché molte centinaia di persone, attratte dal tema e dal fatto che l’audizione fosse gratuita, riempirono la sala. Ricordo vividamente due cose: la prima, che quando vidi più di mille persone in sala mi trasformai in uno zombie dalla paura. Se mi avessero detto che, anni dopo, sarei diventato un docente di tecniche per la comunicazione efficace in pubblico, sarei morto dalle risate. La seconda, che il direttore del teatro, che non mi conosceva ma aveva trionfalmente annunciato “Tra poco sarà qui il noto conferenziere Enrico Cogno”, vedendo un giovane spaventato che si era presentato con lo stesso cognome, pensò che si trattasse del figlio del conferenziere mandato ad annunciare il ritardo del padre. “Tuo padre quando arriva?” mi chiese nervoso. “Mio padre non viene”. “Come non viene?” “Ma non si occupa di queste cose… Guardi che Enrico Cogno sono io.” “Tuuuuuuu?” E lo sgomento si dipinse sul suo volto. In realtà andò tutto benissimo. Poi per me quel periodo d’oro finì con la partenza per il servizio militare. Ero nella 46°Aerobrigata a Pisa dove ascoltavo alla radio la Coppa del Jazz, che quel anno venne vinta dal Quintetto di Lucca, guidato da Giovanni Tommaso e Antonello Vannucchi. Dopo fu tutto diverso. Smisi di suonare quasi completamente, ma con due figlie piccole e un lavoro che mi obbligava a molti viaggi, non mi pesò troppo il distacco dall’ambiente jazzistico. La civiltà della fame Me lo ricordo bene, quando si viveva nella civiltà della fame, o se vogliamo dirla alla Enzo Spaltro, nella società della scarsità. La comunicazione, al confronto di oggi, quasi non esisteva e non ce ne accorgevamo neppure. Pochi amici con il telefono, pochissimi con il televisore, alcuni con la Vespa, solo i figli di papà con l’auto. Si parlava, si camminava, si ascoltava musica. Lontani anni luce dal diluvio informativo di oggi, dai cellulari che trillano come cicale in ogni luogo, che mandano messaggi cifrati: T.V.M.B. io di + xkè 6 bella. Era meglio, era peggio? Era diverso. Certo, più scomodo, molto più silenzioso, più raccolto, meno sguaiato. Se confronto la comunicazione degli anni di guerra, con le notizie sullo sbarco degli alleati captati di nascosto da Radio Londra, con i quattro colpi di tamburo che riprendevano l’inizio della Quinta di Beethoven (un ritmo cupo che metteva i brividi, soprattutto se passavano nei pressi delle pattuglie tedesche che avrebbero fucilato chiunque fosse stato trovato all’ascolto) e lo paragono con le immagini delle Twin Towers che crollano in diretta, le emozioni sono identicamente forti, mentre i due sistemi di comunicazione sono chiaramente all’opposto. Le immagini, in radio, erano quelle della fantasia, in TV, quelle della realtà. Ma non sempre la fantasia perde, nel confronto. Ma lo strumento di comunicazione che in quel giorno, quel maledetto storico e trasformante 11 settembre, ha dimostrato di aver perso, è stato Internet: almeno in quelle ore, chi poteva ha spento il computer ed ha acceso la televisione, al limite, la radio. Poi si è attaccato al cellulare per dirlo agli altri, sperando di arrivare per primo, quasi godendo dell’essere per primo messaggero di una catastrofe. Ma Internet rimane lo strumento principe per creare un net work mondiale, come la sigla WWW, Wordls Wide Web, indica. Non a caso, nel 2006, il protagonista scelto per la mitica copertina del Times è stato uno specchio, per indicare che i protagonisti del mondo siamo noi, collegati nella rete mondiale. Negli anni in cui ascoltavo Radio Londra di nascosto non sapevo quale fosse la differenza tra informazione e comunicazione. Non mi era chiaro che si comunica sempre e che se anche si cerca di non comunicare, si comunica lo stesso. Non sapevo che invece non sempre si fa informazione, perché se non si informa, l’informazione davvero non c’è. La memoria Allora non sapevo che la memoria fosse così importante. La usavo, in quei tempi, solo come tecnica di studio, e quello era l’uso che consideravo serio, in alternativa all’uso gioioso, per ricordare cose gradevoli, per rivivere dei momenti belli. Non conoscevo la distinzione tra memoria a lungo termine, quella di tipo emozionale, eterna, e la memoria labile, quella che usavo per leggere dei testi mal scritti da recitare in esami sgradevoli. La memoria l’avevo ridotta a strumento utile per ottenere un voto di sufficienza, non sapevo nulla dell’emisfero sinistro e di quello destro del cervello, non sapevo che gli ermeneuti greci e i docenti della Roma antica sapevano giocare con la memoria come Cirano con le parole, sapevano trarne il massimo profitto, visto che scrivere, all’epoca, era poco agevole e che tanti erano gli analfabeti. Ho incominciato a capire che cosa volesse dire saper fare davvero comunicazione quando, nella mia prima visita romana, mi imbattei nelle lastre di marmo di via dei Fori Imperiali che mi mostravano, tavola dopo tavola, il successivo espandersi dell’impero. Pensateci: senza Internet, senza fax, senza telefono, senza giornali, senza radio, senza TV, il sistema di comunicazione degli antichi romani teneva saldamente collegato quasi tutto il mondo. Era più lento, ma doveva funzionare perfettamente, visti i risultati. Credo che il fattore determinante fosse la capacità, certo maggiore di quella attuale, di memorizzare. Non per nulla noi, mammiferi umani di lentissima crescita, impieghiamo ben 25 anni per giungere ad una relativa maturità e ne trascorriamo altrettanti a dormire: assommando, nella vita media di un individuo, le ore di sonno a quelle del tempo che gli occorre per diventare psicologicamente maturo, ogni persona impiega 50 anni, quindi ben oltre la metà della sua vita media. Di quello che gli resta, una grande parte, soprattutto verso la fine, la passa a ricordare. Il tempo dedicato al lavoro sta rapidamente decrescendo: dice l’evoluzione storica del rapporto vita/lavoro che i nostri avi vivevano in media 300.000 ore e ne lavoravano 200.000, noi ne viviamo 700.000 di cui ne trascorriamo 150.000 a lavorare, mentre i nostri nipoti, che vivranno 850.000 ore, ne dedicheranno soltanto 120.000 ore al lavoro. Non abbiamo più bisogno di usare la memoria per ricordare cose che una banca dati può custodire meglio della nostra materia grigia; dobbiamo invece incominciare ad usare la memoria come macchina della metafora, come generatore di nuovi sistemi di relazione. Italo Calvino ricordava, nelle “Lezioni Americane”, che il silenzio, lo spazio, l’autonomia, l’amicizia, la convivialità, la bellezza sono una rete di connessioni tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo, che già sono e sempre più saranno la vera ricchezza del terzo millennio. Come ottenere questo? Se non fossimo in grado di usare così bene la memoria, ci consola Nietzsche: “Il vantaggio della cattiva memoria e che si gode parecchie volte delle stesse cose per la prima volta”. LA ROMA MUSICALE DEGLI ANNI 60 Quando arrivai a Roma, invece, la musica mi mancava. Dirigevo il servizio comunicazioni di una multinazionale americana e, dal tardo pomeriggio in poi, avevo del tempo libero. Ripresi a collaborare con Musica Jazz e con qualche periodico che ospitava delle rubriche musicali. Poi venni invitato da Angiolillo a tenere per il quotidiano Il Tempo la rubrica del jazz, visto che la nuova direzione di Gianni Letta dava molto spazio alla cultura. Questo fece scattare anche delle collaborazioni con la Rai, che poi proseguirono, in vari modi, per quasi venti anni, particolarmente con Adriano Mazzoletti e Paolo Padula. Collaboravo anche con le prime radio romane, che allora si chiamavano “radiolibere”. In particolare una, Radio GBR, trasmetteva da uno sgabuzzino dell’Hotel Hilton (che si trova in cima a Monte Mario) e irradiava un segnale di buona potenza: mi lasciava un sacco di spazio, ero libero (vorrei vedere, era una radio-libera) di trasmettere cosa volevo, non come in Rai dove tutto passava attraverso cento controlli. Tenevo una rubrica che chiamai “My favorites” nella quale trasmettevo, dato il titolo, i brani che amavo di più. Il proprietario era un simpatico ed esplosivo commerciante di elettrodomestici, per cui venivo pagato in natura, nel senso che mi dava lavatrici e frigoriferi e non denaro. Molte volte facevo venire in diretta (tutto era in diretta, fare le differite costava di più e non c’erano quattrini) dei musicisti per intervistarli e andavamo avanti ore a parlare di jazz. Insomma, mi venni a trovare nella condizione di avere spazi nei quali operare ed una serie di contatti con un sacco di musicisti, l’ideale per raccogliere con facilità del materiale. Mi venne l’idea di fare una ricerca (il mio primo lavoro era stato quello di ricercatore), in particolare una doppia indagine, dapprima sul jazz italiano e poi su quello europeo, che non godevano di grande spazio né in Rai, né sui giornali. Poi, parlando con l’editore Cappelli di Bologna, con il quale ero in contatto, pensai di riversare i risultati dell’indagine in due libri, il primo, che venne realizzato nel 1971, JAZZ INCHIESTA ITALIA e il secondo, che avrebbe dovuto intitolarsi JAZZ INCHIESTA EUROPA, che invece rimase lettera morta perché l’editore incominciò a vivere momenti difficili. In quel periodo collaboravano con il mio servizio aziendale due personaggi, Ennio Tamburi (un art director molto creativo, un vero artista, nipote nel grande Orfeo Tamburi) e Umberto Santucci (fratello del trombettista Cicci Santucci). Umberto, tra le tante cose che faceva, allora era prevalentemente un fotografo. Con loro decisi di dare al libro un montaggio che, grazie alla mole di fotografie che avevo fatto produrre a Santucci, potesse, alternandosi alle parole, dare un certo ritmo alla stesura del tutto: l’intenzione era quello di fare un testo “che avesse swing”. La copertina avrebbe dovuto essere una tromba riempita di spaghetti, a significare un certo intasamento tipico della cultura medio-borghese italiana di quel periodo: in realtà venne reperito solo un vecchio bombardino a Porta Portese e al posto degli spaghetti vennero infilati nello strumento dei bucatini all’amatriciana, semplicemente perché quel giorno in casa del fotografo quello era il piatto servito a pranzo. C OME VENNE ACCOLTO IL LIBRO Al testo vennero dedicate molte recensioni, tra le quali una, lunghissima e lusinghiera, a cura di Walter Mauro, che occupò interamente le due pagine centrali de La Fiera Letteraria, della quale ho perso il ritaglio. La cartolina promozionale a suo tempo realizzata in appoggio al lancio del libro Ecco una sintesi delle altre recensioni, riportate non per immodestia ma come puro atto di cronaca : Musica Jazz: “Cogno ha descritto il suo libro come una jam session. Il risultato è che si legge di corsa, con divertimento e anche con utilità, considerato che alla fine ci si fa effettivamente un’idea precisa del mondo del jazz italiano, degli umori e delle idee che vi circolano”. Franco Fayenz: “Un volume agile che descrive e fornisce prove con notevole incisità. Il libro è scritto molto bene, con vivacità, con anticonformismo e con una libertà di schemi che riesce a riflettere nelle parole lo spirito del jazz.” Fabrizio Zampa su Il Messaggero: “Un ritratto discordante ma vivo, costruito con le caratteristiche di un servizio giornalistico.” Maurizio Costanzo (con Dina Luce in Buon Pomeriggio) RadioRAI: “Un libro molto bello, un abecedario utilissimo per chi vuole accostarsi al jazz, adatto soprattutto per i giovani e con una caratteristica indispensabile in questo senso: costa poco”. Giuseppe Gatt: “Testimone e non giudice. In questa impostazione metodologica sta il grosso merito del libro di Cogno; l’aver cioè rinunciato alla presa di posizione cattedratica e l’aver scelto una forma di coinvolgimento globale che colloca il libro in linea con il più vivo ed attuale spirito della critica d’oggi” Arrigo Polillo su Il Giorno: “Sin dalla copertina è emblematicamente indicato lo spirito spregiudicato (ma solo apparentemente divertito) con il quale l’autore ha avvicinato la materia. Ognuno degli intervistati spara sul bersaglio preferito, talvolta senza rifuggire dai colpi bassi”. Renzo Nissim in “E via discorrendo..RadioRAI”: “Il libro è eccellente, con una veste grafica avvincente ed un suo stile imprevisto, molto ritmico”. Tonino Scaroni su Il Tempo: “E’ un libro che tocca i tre aspetti del mondo jazzistico: chi fa, chi giudica e chi ascolta il jazz in Italia, in modo assolutamente nuovo ed interessante”. Walter Mauro su Il Dramma: Sul filo dell’indagine giornalistica il libro di Cogno si presenta come quanto di più completo e pertinente ci si potesse aspettare”. Pietro Violante su Il Giornale di Sicilia: “I jazzmen italiani vengono fuori con verità (qui il merito di Cogno) colti in una confusa e affannosa ricerca d’identità”. Dario Salvatori su Ciao 2001: “Enrico Cogno ha risolto molto brillantemente il problema di un libro nuovo ed attuale sul jazz italiano: un libro che costituirà per tutti gli appassionati una piacevole sorpresa”. Roberto Capasso su Il Paese Sera: “Un’inchiesta coraggiosa, una serie di interviste che hanno il pregio di essere montate in maniera assai valida, si da facilitare la lettura”. E. G. Mattia su Momento Sera: “Una trattazione giovane, ricca di notizie, una registrazione fedele delle arringhe in difesa del jazz, raccolte in un documento che non si perderà nel mucchio della stampa periodica”. Giorgio Martinelli su Il resto del Carlino: “Un quadro fitto di cose e personaggi, con molte pregevoli illustrazioni nel testo”. Il Secolo XIX: “Lontano da ogni cerebralità questo libro si propone di capire e informare. Gli interventi di Cogno sono spesso maliziosamente provocatori e pongono con franchezza sul tappeto certe questioni imbarazzanti: un vivace campione di stimolante polemica culturale”. Gianni Capitani su L’Avanti: “Un buon libro, con un montaggio agile, favorito da un racconto fotografico e da una impaginazione di grande interesse”. Albert Rodriguez in Per voi giovani: “Presenta l’immagine del jazz italiano nella sua dimensione quotidiana, evitando le definizioni universalistiche e lo fa mediante una proposta metodologica molto corretta.” Francesco Forti su Spettacolo: “Una mano, quella di Cogno, di regista oltre che di scrittore. Non è facile resistere all’intensa suggestione che emana dal libro per come è stato montato e per la sua scrittura rapida e swingante”. Ma una recensione che mi ha colpito, della quale non conosco l’autore, l’ho trovata di recente navigando in Internet in un sito internazionale di vendite editoriali, che dice: “Jazz Inchiesta Italia è un libro ormai introvabile sul jazz italiano degli anni '70. Tra le righe riesce a parlare dell'Italia di quegli anni e di alcune idee che attraverso la musica si stavano affermando. L'ho trovato su una bancarella a Roma Ostiense e ne ho comprato 2 copie. E’ uno di quei libri a margine del mondo editoriale e quindi bellissimo e appassionato.“ Vennero tirate ben 25.000 copie del libro (una vera esagerazione, dato il numero abituale della tiratura di opere del genere) che dopo qualche tempo riempirono i vari remainder d’Italia. I PERSONAGGI DELL ’ EPOCA Il problema che mi si pose subito, non appena ebbi deciso di scrivere l’inchiesta, fu quali personaggi inserire e quali escludere dal testo, anche in base alla ridotta bibliografia esistente: all’epoca, sul jazz italiano, le due opere di riferimento erano la discografia curata da Pippo Barazzetta, edita nel 1960 (Giuseppe Barazzetta, JAZZ INCISO IN ITALIA, Messagerie Musicali, Milano, 1960) e un libro-disco di Adriano Mazzoletti, una vera chicca, dal titolo 40 ANNI DI JAZZ IN ITALIA, che riuniva in due LP una splendida selezione di brani storici dei musicisti italiani più significativi, corredata da un album fotografico. La bella copertina era opera del graphic designer romano Sergio Salaroli. Soltanto diversi anni dopo, nel 1982, Mazzoletti editò per Laterza un altro testo, la prima edizione de “Il jazz in Italia” che, pur essendo un libro corposo, per altro presentava solo una parte delle sue ricerche. Una più recente edizione di questo testo, divisa in due volumi (il primo dei quali si estende dalle origini agli anni Trenta), presenta invece il materiale nella sua completezza e si spinge fino agli anni Settanta. E’ un panorama completo del jazz in Italia dal 1902 agli anni Trenta, un testo nel quale si sfatano molte vecchie idee sul rapporto tra jazz e società italiana. Afferma Adriano Fazzoletti che “all'inizio il jazz in Italia è stata una musica di imitazione del modello americano. I musicisti che affrontarono per primi questa musica negli anni Venti erano quasi tutti diplomati, molto preparati e in più possedevano la capacità di capire e assimilare il nuovo linguaggio, anche se conoscevano soprattutto un jazz più leggero, da ballo. A partire dal 1932 appaiono degli straordinari musicisti con una forte personalità che, se fossero vissuti altrove, oggi sarebbero considerati dei grandi. Il periodo più significativo va dal 1935 all’avvento del bebop: il periodo swing ha prodotto grandi musicisti di assoluto valore, primo fra tutti il fisarmonicista Gorni Kramer, il trombettista Nino Impallomeni, il sassofonista Piero Rizza, il pianista Romeo Alvaro.” Chi mettere, chi levare da quel testo? Ricordo, mentre preparavo Jazz Inchiesta Italia, che nell’intervistare Giorgio Gaslini ricevetti da lui l’incitamento a “separare la gramigna dal grano”, che fuori di metafora voleva dire “scegli tu chi mettere nel libro, ma non mettere tutti”. Optai per una soluzione che mi sembrava corretta a livello editoriale: dare più spazio (foto e intervista) ai jazzmen maggiori e citare soltanto gli altri, senza però escludere qualcuno volontariamente. Poi, di fatto, qualche dimenticanza mi avrà fatto cadere in qualche gaffes. Alcuni di quei personaggi minori sono svaniti come meteore nel giro di pochi anni. Altri, già piuttosto anziani all’epoca, si sono ritirati o sono deceduti. Altri sono tuttora in splendida forma e al centro dell’attuale panorama del jazz. Invece molti dei big attuali, all’epoca erano poco più che bambini e ovviamente non potevano comparire come: per citarne alcune per tutti, Massimo Urbani, Paolo Fresu e Stefano Bollani. Come sappiamo il primo dei tre non è riuscito ad uscire dal tunnel e, purtroppo, possiamo solo ricordarlo con grande affetto. L A PREFAZIONE DI M ASSIMO M ILA Una annotazione va fatta per la prefazione al testo, a cura di Massimo Mila, un grande teorico musicale che era piuttosto defilato rispetto al jazz. Confesso che mi serviva il nome di un saggista super partes che non irritasse nessuno dei colleghi della critica: non avrei potuto chiedere la prefazione, che so, ad Arrigo Polillo piuttosto che a Franco Fajenz senza sollevare gelosie e ripercussioni negative. Invece, sia Polillo, sia Fajenz, con altri critici musicali come Franco Pecori, Umberto Santucci, Alberto Rodriguez, Giancarlo Roncaglia (gli ultimi due deceduti in questi ultimi anni) intervennero per altro all’interno del libro, o sotto forma di intervista o di contributo scritto. Così, chiesi a Mila l’autorizzazione a pubblicare un suo scritto sul jazz sotto forma di prefazione e lui, gentilissimo, accondiscese senza problemi. Eccola riprodotta: Prefazione Il jazz moderno è diventato un fenomeno complesso e multiforme, chi si dirama in varie articolazioni e che non teme all’occorrenza di accostarsi alla ricercatezza dell’arte moderna. Soltanto la presenza di qualche glorioso superstite può restituire ancora nella sua autenticità quel senso univoco di robusta ispirazione popolare che, più di quaranta anni fa, aveva attirato sul jazz l’interesse e la simpatia di quasi tutte le forze vive della musica contemporanea. Oggi anche il jazz percorre vie difficili, non meno difficili di quelle degli indirizzi più avanzati della odierna musica d’avanguardia. Ed è giusto che sia così: probabilmente sarebbe un errore volerlo mantenere a forza, come se fosse imbalsamato, su quelle posizioni di semplicità popolare di cui solo Armstrong e gli artisti della sua epoca conservano il segreto. Ma anche il jazz di oggi comprova la propria positività precisamente attraverso l’evoluzione che subisce: proprio perché alle sue origini c’erano la verità e la forza dell’ispirazione popolare, il jazz si dimostra capace di sopravvivere e di seguire un proprio destino artistico, che magari lo allontana dalle posizioni originarie. Ma non si vive senza trasformarsi, e anche chi è rimasto sentimentalmente attaccato alla nostalgia del jazz della sua giovinezza, anche chi ha perduto il contatto con la molteplicità degli sviluppi più recenti, così prolifici di nuove formule e nuovi stili, se fa tanto di accostarvisi, non tarda a riconoscere in questi sviluppi le conseguenze inevitabili dell’antico ceppo. E’ ancora l’antico incendio che alimenta le nuove fiamme, o fiammelle che siano, e anche nelle sue recentissime formulazioni il jazz resta tuttora una manifestazione genuina della musica del nostro tempo: senza avere spento l’originario impulso popolare, ne documenta le possibilità di affinamento e di evoluzione stilistica in accordo con il volgere dei tempi: basterebbe questo per fare del jazz un capitolo insostituibile nella musica moderna. Massimo Mila Molti amici non ci sono più Nel ripensare a quel periodo a distanza di tanti anni risulta evidente che per molte persone la vita è troppo breve. La lista delle persone che nel frattempo sono decedute è lunga. Solo per citarne alcuni: Massimo Urbani, Alberto Rodriguez, Giancarlo Roncaglia, Dick Mazzanti, Sergio Battistelli, Umberto Cesàri, Oscar Valdambrini, Marcello Melis, Romano Mussolini, Giancarlo Cesaroni (il patron del mitico Folkstudio) ed i due anfitrioni della serata nella quale Jazz Inchiesta Italia venne presentato, Pepito e Picchi Pignatelli. Scelsi infatti per l’occasione il loro mitico Music Inn, che era il tempio del jazz a Roma. Pepito e Picchi, dieci anni dopo, uscirono drammaticamente dalla scena del jazz: dopo la morte del principe-batterista per alcolismo, Picchi non resistette al dolore e poco tempo dopo si tolse la vita. Ma quella serata di presentazione, affidata a Renzo Arbore, fu molto vivace e allegra. Era presente uno stuolo di colleghi giornalisti e musicisti, animati da Dario Salvatori, Fabrizio Zampa, Marco Molendini e tanti altri. Alla fine ne venne fuori, ovviamente, una jam session. A proposito di amici scomparsi, mette conto riportare qui un avvenimento che seguì immediatamente la pubblicazione del libro relativo a Umberto Cesari. Il grande pianista era stato da me descritto con stima e affetto, ma senza un’intervista diretta. Sapevo, da quanto si diceva in giro, che era stato il migliore pianista italiano in assoluto, ma che da anni viveva in casa, senza uscire mai. Una storia che aveva, del tutto casualmente, delle attinenze con quanto scrisse molti anni dopo Alessandro Baricco in Novecento, un testo nato per il teatro che poi diventò un film (“La leggenda del pianista sull’oceano”) nel quale si narra la storia di un pianista abbandonato in fasce dalla madre emigrante su di una nave dalla quale non scenderà mai. In entrambe le storie di tratta di splendidi pianisti che vivevano isolati. BIBLIOGRAFIA JAZZ Kitty Grime - “Jazz at Ronnie Scott’s” , Robert Hale – London, 1979. Max Gordon - “Live at The Viliage Vanguard “, St. Martin Press -New York 1980. 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