Cultura
16
Marzo 2010
LA SARDEGNA E IL CINEMA / Viaggio nei luoghi dove sono stati girati film famosi
a cura di Gianni Olla
“Proibito” a Tissi
Nel 2004 fu celebrato l’anniversario dei 50 anni delle riprese del film di Mario Monicelli
el 2004, a Tissi,
un comune in provincia
di Sassari, fu celebrato un
curioso anniversario: 50 anni
prima, “Proibito”, film di Mario
Monicelli ispirato al romanzo
“La madre” di Grazia Deledda,
fu girato prevalentemente nelle
strade e nelle piazze del paese.
Per l’occasione, un giovane
ricercatore, Dario Bertini, mise
a disposizione della Pro Loco la
sua tesi di laurea, e grazie
anche al presidente della stessa
associazione, Giovanni Sanna,
fu pubblicato un interessante
libretto dal titolo: “Proibito,
memorie e immagini di un film
di cinquant’anni”.
Giusto per mettere in evidenza
una bella ricerca – che resterà a
disposizione dei futuri studiosi
del cinema in Sardegna ed
anche dei curiosi o di ogni altro
tipo di lettore – il nostro
viaggio nei luoghi che videro
la lavorazione di famose
e meno famose pellicole può
cominciare da qui.
La geografia del cinematografo
non è solo una mania da
collezionisti, ma anche
un modo diverso di considerare
la storia del cinema, arte
universale che, nel rapporto
con gli spettatori di ogni epoca
e di ogni luogo, ha attuato
una sorta di re-invenzione
del paesaggio, staccandolo
il più delle volte
dai contesti originari.
Ma, appunto, sempre più
spesso emergono ricerche che
raccontano come e perché tal film sia stato
girato in una città particolare, mostrandola
in una data circostanza storica
che finisce per avere una valenza anche di
documento. Mostrandoci, cioè, in sottofondo,
come si viveva in quegli anni.
La storia di Proibito ha inizio nell’immediato
dopoguerra, quando i romanzi deleddiani
entrano nel grande immaginario meridionalista
che comprendeva l’esplorazione di un’Italia
sconosciuta alla maggior parte degli spettatori
cinematografici delle città.
A “La madre” pensava, nel 1947, Sergio Amidei,
lo sceneggiatore di “Roma città aperta”,
che chiese a Giuseppe Dessì di scrivere un
adattamento e intanto propose all’esordiente
Luciano Emmer di dirigerlo, sapendo che aveva
passato l’infanzia in Sardegna, negli anni in cui
il padre, ingegnere, lavorava all’edificazione
di Mussolina/Carbonia. Questo progetto
non andò oltre i provini per gli interpreti
principali (Mastroianni per Paulo, il sacerdote,
e una giovanissima Lucia Bosè, neo miss Italia,
per Agnese): troppi problemi di censura
per una vicenda che riguardava un uomo
di chiesa immerso nel peccato.
Però Emmer, poco prima di morire, ha ricordato
che la sua trasposizione deleddiana sarebbe
stata l’occasione di un viaggio nella Sardegna
N
profonda che aveva conosciuto in gioventù.
E, dunque, nel film ci sarebbero dovuti essere
banditi, faide, nonché una geografia urbana
e campestre ancora ottocentesca.
Quando il progetto arrivò a Monicelli
(alla sua prima regia, dopo un lungo tirocinio
con Steno), l’idea di una Deledda avventurosa
e melodrammatica si sposò ad una circostanza
storica: la Sardegna era di nuovo nelle cronache
criminali che attraversano il Tirreno.
Così gli sceneggiatori (in primo luogo Suso
Cecchi D’Amico, figlia del principale
consigliere della Deledda, Emilio Cecchi),
da un lato ambientarono al presente il mondo
della scrittrice, dall’altro costruirono
un copione che attingeva ad altri romanzi
della scrittrice, da “Colombi e Sparvieri”
a “Elias Portolu”, fino a “Cenere”.
Altri apporti, secondo Salvatore Patatu,
storico di Tissi, furono quelli di Indro
Montanelli, amico del regista, che aveva passato
l’infanzia a Nuoro, assieme al padre preside
di scuola elementare, e ricordava le lunghe faide
che impedivano ai bambini di famiglie
“in guerra” di andare persino a scuola.
Infine, grazie all’apporto degli americani, il film
divenne anche una produzione ricca: in cambio i
produttori d’oltre oceano chiesero, per la parte
del sacerdote innamorato (poi paciere tra le due
famiglie in guerra), il divo Mel Ferrer.
Oltre che a Tissi – principale scenario – il film
ci restituisce immagini di Martis, Chiaramonti,
Nulvi, Ploaghe e della Basilica di Saccargia.
Tutti i set furono straordinariamente animati da
una partecipazione popolare che la galleria
fotografica curata da Sanna e Bertini ci
restituisce pienamente: Mel Ferrer e Germaine
Kerjean (figlio e madre) che escono dalla casa
in cui erano ospitati, in mezzo ai “tissesi”
sorridenti e festosi; le comparse locali
in posa per il quarto d’ora di celebrità
warholiano; la tenda che protegge
Mel Ferrer dal caldo; il set organizzato
sul sagrato della Chiesa di Santa Vittoria,
che campeggia alla fine della via Roma;
Lea Massari al trucco; le chiacchiere
amichevoli di Amedeo Nazzari con gli abitanti
di Tissi, nelle pause delle riprese;
infine la presentazione del film, con Mel Ferrer
sul palco, al teatro Verdi di Sassari.
Ma ovviamente, per i sardi, il divo
non era Mel Ferrer ma Amedeo Nazzari,
trattato come uno di casa.
Interessanti anche i ricordi “spiccioli”
dei protagonisti: alla curiosità culturale
di Ansano Giannarelli, assistente alla regia
e poi regista, nel 1968, di un altro film
“sardo”, Sierra Maestra, che avrebbe voluto
visitare il Nuraghe Ruju, si contrappone
l’osservazione di un vecchio paesano,
disgustato da quel luogo «prenu
de pulighe e de laddara de arveghe».
In ogni caso, la gente di Tissi seguì la “troupe”
anche al Nuraghe Ruju, con grande disperazione
del regista, che pensava a riprese meno affollate
e caotiche. E, quando il set si spostò a Martis,
in Gallura, e poi alla Basilica di Saccargia
(per la grande processione che dovrebbe
riappacificare le due fazioni in guerra),
e ancora a Ploaghe e Chiaramonti, i ragazzi
di Tissi erano sempre numerosi e chiassosi,
stupiti per il fatto che gli attori dicevano
sempre le stesse frasi (i ciak erano numerosi
e ripetuti) e ancor di più che, nei dialoghi,
qualcuno faceva una domanda in italiano
e qualche altro (Mel Ferrer) rispondeva
in una lingua sconosciuta, l’inglese.
Poiché il film è rimasto giustamente celebre,
la lista delle testimonianze si allunga anche in
altri libri. Suso Cecchi D’Amico racconta a
Goffredo Fofi che Mel Ferrer odiava il film e
soprattutto quel posto sperduto in Sardegna,
al punto dal fare arrivare dagli Stati Uniti
la sua acqua minerale. In confronto Nazzari
fu un gentiluomo, contento di interpretare,
finalmente, un personaggio sardo,
onorato e coraggioso, anche se bandito.
Invece, in una pubblicazione indipendentista
di almeno quindici anni fa, un articolo
dal titolo inequivocabile (“Quando si gira
in colonia”), un testimone di Ploaghe, racconta
una storia diversa: il buono e simpatico era Mel
Ferrer, quello scorbutico era invece Nazzari, che
non amava essere circondato dai suoi
ammiratori. Infine, Nazzari – secondo quel
testimone – non sapeva andare a cavallo e usava
la controfigura. Affermazione discutibile,
quest’ultima: può darsi che ci fosse una
controfigura per qualche scena, ma certo
Nazzari imparò a cavalcare nel 1934, quando
girò “Cavalleria”, il suo primo successo.