energetica 1 - ditec.unige.it

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DISPENSE DEL CORSO
ENERGETICA 1
(CCS Ing.Meccanica -La Spezia)
Prof. Giovanni TANDA
Anno Accademico 2006-07
Settembre 2006
1. FONTI PRIMARIE DI ENERGIA
1.1 Energia, potenza e unità di misura
Con il termine energia si può intendere la capacità di un sistema di compiere lavoro.
La parola energia deriva dal greco energheia, usata da Aristotele nel senso di azione efficace,
composta da en, particella intensiva, ed ergon, capacità di agire; nel 1619 Keplero usò il termine
nell'accezione moderna di energia fisica.
Dal punto di vista della fisica, ogni sistema fisico contiene (o immagazzina) un determinato
quantitativo di una proprietà scalare continua, chiamata energia; per determinare la quantità di
energia di un sistema si devono sommare una serie di termini, ognuno dei quali è designato a
quantificare l'energia conservata in un determinato modo. Non esiste una maniera uniforme di
visualizzare l'energia; è meglio pensarla come una quantità astratta, utile per quantificare il lavoro
che un sistema è in grado di compiere. Svolgere un lavoro richiede energia, e quindi la quantità di
energia presente in un sistema, limita la quantità massima di lavoro che detto sistema può svolgere.
L'unità di misura derivata del Sistema Internazionale, per l'energia e il lavoro è il Joule (simbolo: J),
che equivale a 1 newton x metro, e in termini di unità base SI, 1 J è pari a 1 kg × m2 × s-2.
Nella pratica ingegneristica si usano tuttavia dei multipli (kJ =103J, MJ =106J, GJ =109J, TJ= 1012J,
etc.) o altre unità di misura, tra le quali si citano:
BTU (British Termal Units), 1 BTU = 1055 J,
kcal (kilocaloria), 1 kcal = 4.186 J,
CVh (cavallo vapore – ora), 1 CVh = 2.65 MJ,
kWh (kilowattora), 1 kWh = 3.6 MJ = 860 kcal,
GWh (gigawattora), 1 GWh = 106kWh = 3.6 TJ,
TWh (terawattora), 1 TWh = 109kWh = 3600 TJ,
tep (tonnellata equivalente di petrolio), 1 tep = 42 GJ = 11700 kWh,
Mtep (mega-tep), 1 Mtep = 106 tep = 11.7 TWh.
Il lavoro svolto nell’unità di tempo prende il nome di potenza. Se l’energia trasferita è di tipo
termico (calore), la potenza prende il nome di flusso termico. Potenza e flusso termico si misurano
in Watts (simbolo: W) nel Sistema Internazionale. Un Watt corrisponde a 1 Joule / ! secondo e, in
termini di unità base SI, 1 W è pari a 1 kg x m2 x s-3.
Anche nel caso della potenza si fa ricorso ai multipli del Watt (kW, MW, GW, TW, etc.) e ad altre
unità di misura:
kcal/h (kilocalorie ora), 1 kcal/h = 1.16 W,
CV (cavallo vapore), 1 CV = 735,3 W,
tep/anno, 1 tep/anno = 1.32 kW,
Mtep/anno, 1 Mtep/anno = 1.32 GW.
1.2 Classificazione delle fonti primarie di energia
Con fonti primarie di energia si intendono le risorse naturali (allo stato primario) di cui l’umanità
dispone. Per soddisfare le esigenze tecnologiche e far fronte agli utilizzi finali dell’energia, occorre
una trasformazione delle fonti primarie in energie secondarie (in appositi luoghi di trasformazione:
es. centrali termoelettriche o impianti di raffineria) ed un trasporto dell’energia all’utenza finale.
2
Le fonti primarie di energia possono essere suddivise nelle seguenti categorie:
•
•
•
fonti non rinnovabili,
fonti rinnovabili,
fonti quasi inesauribili.
Le fonti energetiche non rinnovabili includono l’utilizzo di combustibili fossili (petrolio, carbone,
gas naturale) e nucleari (uranio nella fissione nucleare). Le fonti rinnovabili derivano, in maniera
diretta o indiretta, dal sole (energia idraulica, eolica, radiazione solare), quelli quasi inesauribili
sono rappresentate dal calore endogeno della terra (energia geotermica) e dall’utilizzazione
dell’energia di fusione nucleare e di fissione nucleare autofertilizzante.
Le fonti primarie non si utilizzano in generale nella forma in cui si presentano in natura: i
combustibili fossili vengono raffinati ed elaborati prima di essere utilizzati a fini energetici;
l’energia sprigionata dalla combustione di un combustibile quasi sempre viene trasformata in lavoro
meccanico o energia elettrica (energie secondarie).
1.3 Fonti primarie non rinnovabili
Le fonti non rinnovabili sono di gran lunga le più utilizzate: sono costituite dai combustibili fossili e
nucleari (per l’uso nelle reazioni di fissione non autofertilizzante).
I combustibili fossili sono composti di carbonio, idrogeno ed altri elementi che si trovano sulla
crosta terrestre e si sono formati a seguito della fossilizzazione di composti organici presenti sulla
superficie terrestre.
I combustibili fossili naturali normalmente si suddividono in solidi (“carboni”), liquidi (“petroli”o
“idrocarburi”) e gassosi (“gas naturale”).
Per rendere disponibile l’energia potenziale chimica (potere calorifico) di questi composti, occorre
“bruciarli”; l’impiego di queste fonti pertanto prevede un processo di combustione per la loro
successiva trasformazione in energia secondaria.
Tecnicamente si distingue tra potere calorifico inferiore (Hi), dato dalla quantità di calore che si
ottiene dalla combustione completa di un kilogrammo di combustibile, non contando il calore
asportato dal vapore d'acqua prodotto per effetto della reazione chimica dell'idrogeno con l'ossigeno
e tra potere calorifico superiore (Hs), inteso come la quantità di calore che si ottiene dalla
combustione completa di un kilogrammo di combustibile, quando l'acqua prodotta per effetto della
reazione chimica dell'idrogeno con l'ossigeno è allo stato liquido. Per ottenere questo risultato è
necessario che l'impianto sia costruito in modo da permettere la condensazione del vapore,
sfruttando contemporaneamente il calore latente di vaporizzazione restituito durante tale fase.
1.3.1
Il carbone
Il carbone è un minerale, allo stato solido, costituito da resti vegetali fossili che hanno la proprietà
di “bruciare” facilmente. Il carbone è una delle principali fonti di energia dell'umanità, e anche uno
dei modi più inquinanti di produrla. Nel 2005 circa il 40% dell'energia elettrica mondiale veniva
prodotto bruciando carbone, e le riserve accertate ammontano ad almeno 300 anni di produzione.
La qualità dei carboni fossili si misura dal potenziale chimico o potere calorifico (che designa la
quantità d’energia che si riesce ad estrarre dal processo di combustione) e dalla quantità di alcuni
composti (residui minerali o ceneri, zolfo) che, liberati nella combustione, possono produrre elevati
livelli d’inquinamento ambientale.
Nella tabella 1.1 vengono riportati i valori tipici di composizione (in frazioni massiche) ed i poteri
calorici inferiore Hi e superiore Hs (in MJ/kg) per alcuni tipi di carboni fossili.
3
Carboni
Torbe
Ligniti
Litantraci
Antraciti
[C]
0.35
0.50
0.78
0.85
[H]
0.05
0.04
0.04
0.03
[O+N]
0.22
0.15
0.06
0.03
[S]
0.01
0.02
0.01
0.01
[H2O]
0.24
0.18
0.04
0.02
[Ceneri]
0.13
0.11
0.07
0.06
Hi
12.3
19.2
31.5
31.0
Hs
14.2
20.6
32.4
31.5
Tabella 1.1
La distinzione tra i vari combustibili solidi fa riferimento alla formazione, che è relativamente
recente per torbe e ligniti, mentre litantraci e antraciti sono carboni fossili di formazione più antica.
Il carbone si trova abbondante in natura nella crosta terrestre a profondità sino a qualche migliaio di
metri. Viene estratto con tecniche sempre più efficaci e purificato con lavaggi ad acqua.
L’impiego più semplice del carbone è la sua combustione diretta che presenta però l’inconveniente
di produrre prodotti di combustione altamente inquinanti. Si preferisce pertanto sottoporre il
carbone a processi di trasformazione o di raffinazione, per ottenere prodotti più facilmente
trasportabili, meno inquinanti ed egualmente efficienti sul piano energetico.
Mediante il processo di distillazione (piroscissione ad alta temperatura) con cui si separa la fase
solida da quella gassosa, si ottiene un residuo solido con bassi livelli di cenere e solfuri (detto coke)
e gas detto di cokeria. Indicativamente, dalla distillazione di 1000 kg di litantrace in un forno a coke
si ottengono 700 kg di coke (Hi = 30.2 kJ/kg) e 340 Nm3 di gas di cokeria1 (Hi = 15.0 kJ/kg). Il
coke viene principalmente utilizzato nell’industria siderurgica e nei cementifici. Mediante il
processo di gassificazione si ottengono dal carbone dei gas utilizzabili a scopi energetici, mentre la
liquefazione consente di ottenere dei combustibili liquidi di composizione simile alle benzine e ai
gasoli.
1.3.2
Gli idrocarburi
Il principale idrocarburo è costituito dal petrolio, un liquido viscoso composto da una miscela di
idrocarburi. Il petrolio non viene mai utilizzato così come estratto dal sottosuolo (greggio) ma viene
sottoposto a raffinazione, ovvero processi che prevedono una distillazione frazionata ed una serie di
interventi destinati ad aumentare la presenza dei prodotti pregiati.
Nella raffinazione, il petrolio greggio viene riscaldato sino ad una temperatura di circa 360°C ed
inviato alla colonna di distillazione: qui la parte vaporizzata deposita per condensazione, man mano
che si raffredda, le varie frazioni di idrocarburi. Così operando, si possono ottenere gas come
metano (CH4), propano (C3H8) e butano (C4H10), combustibili liquidi raffinati come benzina
(densità 700-800 kg/m3, ebollizione tra 40 e 200°C a pressione atmosferica), kerosene (780-840
kg/m3, 170-280°C) e gasolio (820-900 kg/m3, 210-360°C), mentre dai residui non vaporizzati si
ottengono oli combustibili, lubrificanti ed asfalti.
L’utilizzo energetico dei prodotti petroliferi prevede la loro combustione, per liberare il potere
calorifico, di valore piuttosto uniforme tra i vari prodotti, di composizione chimica molto simile (Hi
dell’ordine di 42-46 MJ/kg). Le combustioni possono avvenire in bruciatori o in motori (a ciclo
Otto o Diesel).
1.3.3
Il gas naturale
Il gas naturale è composto prevalentemente da metano (CH4), ma può contenere anche altri gas
quali etano (C2H6), propano (C3H8), azoto, elio e anidride carbonica. E’ inodore, incolore, non
1
Nm3 o normal metro cubo è la quantità di gas che occupa un metro cubo di volume a 0° C di temperatura e alla
pressione atmosferica
4
tossico e, a differenza di altri combustibili fossili, può essere utilizzato come combustibile senza
alcun trattamento. Il potere calorifico inferiore del gas naturale si aggira dai 36 ai 38 MJ/Nm3.
Il trasporto del gas naturale avviene allo stato gassoso attraverso condotti (metanodotti) che si
possono sviluppare per migliaia di chilometri e che operano con pressioni variabili tra 6 e 7 MPa.
La distribuzione all’utenza avviene in genere ad una pressione tra 1 e 4 kPa.
L’impiego del gas naturale prevede la combustione in caldaie e camere di combustione. Nelle
caldaie si adottano bruciatori atmosferici quando l’aria comburente affluisce per tiraggio naturale o
pressurizzati nel caso di tiraggio forzato. Nelle camere di combustione per gli impianti turbo-gas si
utilizzano combustori dalle alte potenze specifiche e pressioni di funzionamento.
Il gas naturale ha il pregio di produrre, nella combustione, un ridotto numero d’inquinanti. Per
questo motivo se ne fa sempre più ricorso come combustibile fossile nelle centrali per la produzione
di energia elettrica (circa il 25 % dei combustibili fossili nel 2000).
1.3.4
L’uranio e la fissione nucleare
La fissione nucleare è una reazione nucleare in cui atomi di uranio vengono divisi in frammenti in
un processo che libera energia. L’energia liberata dalla rottura di un nucleo di U235 (l’isotopo 235
dell’uranio), mediante l’urto con un neutrone, è di 211,5 MeV2 (=1.6 x 10-13J), quantità elevatissima
che può essere calcolata tramite la formula
E= m c2
in cui m è la differenza di massa tra l'atomo originale di uranio e la somma delle masse dei due
frammenti rimanenti, mentre c è la costante che rappresenta la velocità della luce del vuoto
(300.000 Km/s).La scissione di un nucleo forma due elementi di massa atomica inferiore
all'elemento originale ed è accompagnata dall'emissione di neutroni (in media 2,5). I nuovi neutroni
si comportano a loro volta come proiettili che colpiscono gli atomi vicini di uranio, dando origine
ad una reazione a catena.
La fissione nucleare è il procedimento su cui si basano i reattori nucleari e le bombe atomiche (o,
meglio, nucleari). Affinché una reazione, una volta innescata, possa automantenersi è necessario
che per ogni nucleo fissionato almeno uno dei neutroni prodotti vada a provocare un'altra fissione.
La più piccola quantità di materiale fissile necessaria per autosostenere una reazione a catena, è
detta massa critica.
Il controllo della reazione di fissione nucleare da un lato deve assicurare l’autosostentamento
(ovvero la generazione di neutroni necessaria per continuare la fissione di altri atomi di U235),
dall’altro deve evitare che si stabilisca una catena incontrollata di reazione nucleari il cui sviluppo
energetico porta ad una forte azione esplosiva (e quindi stabilizzare la reazione con “moderatori”
quali l’acqua pesante e la grafite, elementi che rallentano la velocità dei neutroni generati).
La grande quantità di energia (sotto forma di calore) sviluppata dalla fissione nucleare richiede una
complessa tecnologia per la sua asportazione: ciò può avvenire utilizzando come vettore termico lo
stesso fluido moderatore (acqua pesante o normale)
La fissione nucleare ha il difetto, particolarmente sentito nell'ambito della produzione energetica, di
rilasciare scorie radioattive, derivate dalla fissione dell'uranio. A titolo di esempio, un reattore
nucleare da 1000 MW operante per 6500 h/anno produce 100 m3 di scorie (2-3 ordini di grandezza
in meno rispetto alle ceneri prodotte da impianti a carbone o olio combustibile, a parità di energia
prodotta): di queste, il 90% “decadono” entro pochi anni, le restanti in un tempo dell’ordine di
secoli.
Altri problemi connessi con l’utilizzo dei reattori a fissione (e più in generale dell’energia nucleare)
riguardano la sicurezza delle centrali e la proliferazione delle armi nucleari.
2
In un comune processo di combustione, l'ossidazione di un atomo di carbonio fornisce un'energia di circa 4 eV
5
L’uranio è un metallo pesante che si trova in piccole quantità in rocce, suolo, aria, acqua e cibi.
Nella sua forma naturale, l’uranio è costituito da 3 isotopi, con una netta prevalenza (oltre il 99%)
dell’isotopo 238. Tutti gli isotopi dell’uranio sono radioattivi e l’isotopo 238 è il più stabile dei tre,
quindi l’uranio presente in natura è debolmente radioattivo, tuttavia la sua estrazione pone problemi
a seguito dell’emissione di gas radioattivo (radon). Per utilizzarlo nei reattori nucleari, è necessario
arricchire l’uranio naturale con gli isotopi fissili U235 e U234. Il materiale che ne deriva è noto come
uranio arricchito, e la sua concentrazione di U235 in peso varia fra il 2% ed il 90%.
1.3.5
La disponibilità futura delle fonti non rinnovabili
L’utilizzo massiccio di fonti energetiche primarie non rinnovabili pone il problema della loro
reperibilità e disponibilità nel futuro.
Le riserve accertate (anno 2000) dei combustibili fossili, espresse in tep3, sono le seguenti:
Carbone: 700 Gtep (pari a 250 anni al tasso di consumo attuale)
Petrolio: 150 Gtep (pari a 50 anni al tasso di consumo attuale)
Gas naturale: 150 Gtep (pari a 70 anni al tasso di consumo attuale)
Per quanto riguarda le riserve minerarie di combustibile per fissione nucleare, le riserve presunte
variano da 5 a 25 milioni di tonnellate di uranio (di cui è possibile “fissilizzare” l’1%), cui
corrispondono, con la tecnologia oggi disponibile:
Uranio: da 70 a 350 Gtep
Ovviamente la disponibilità sopra riportata non è sinonimo di convenienza economica, nel senso
che, man mano che ci si avvicina all’esaurimento di una fonte, è possibile che aumentino i costi di
estrazione, con cali di produzione ed aumenti del prezzo del prodotto secondo le leggi del mercato.
1.4
Fonti primarie rinnovabili
Le energie rinnovabili (ovvero inesauribili) arrivano, in forma diretta o indiretta, dal Sole, esclusa
l’energia delle maree, dovuta all’attrazione gravitazionale della Luna. L’energia emessa dal Sole è
dovuta ad una reazione di fusione nucleare ed arriva a noi sotto forma di onde elettromagnetiche
(con lunghezza d’onda compresa tra 0.17 e 4µm)4, nell’ammontare di 1.75 x 1017W (=175000
TW5), corrispondenti a oltre 105 Gtep/anno. Non tutta questa energia viene assorbita dalla Terra; il
30% circa viene riflessa da atmosfera e idrosfera (gli oceani), il restante 70% (122500 TW) in parte
è calore che riscalda la Terra (81700 TW), in parte contribuisce all’evaporazione delle acque (e
quindi alle precipitazioni) e un piccolo residuo contribuisce alla generazione dei venti e alla
fotosintesi sulla Terra e negli oceani. Il calore che la superficie terrestre riceve per radiazione diretta
viene riemesso verso l’universo, ancora sotto forma di radiazione termica ad alta lunghezza d’onda
(oltre 25 µm) affinché la superficie terrestre si collochi ad una temperatura di equilibrio di 288 K
(se così non fosse, la Terra subirebbe un progressivo ed inarrestabile innalzamento di temperatura).
1.4.1
La radiazione solare diretta
La radiazione solare massima incidente sulla Terra (in condizioni privilegiate, ovvero a
mezzogiorno nel solstizio d’estate in una località tropicale) è di 1367 W/m2. Tuttavia nell’arco della
giornata, questo valore, come noto è destinato a ridursi, esibendo un andamento periodico nel
3
1 tep (= tonnellata equivalente di petrolio) corrisponde a 11700 kWh, ovvero 42120 MJ.
1 µm (micron) = 10-6m
5
1 TW (TeraWatt) = 1012W
4
6
tempo. Cambiando poi periodo d’osservazione (stagione dell’anno) e posizione sulla superficie
terrestre (longitudine e latitudine) i picchi massimi si attenuano, anche notevolmente.
In aggiunta, occorre considerare alcuni fenomeni (scattering, assorbimento, corpi nuvolosi) che
alterano ulteriormente l’ammontare di energia raggiante incidente sul suolo terrestre.
Lo scattering è causato dall’interazione delle radiazione con le molecole d’aria, d’acqua e
pulviscolo presente nell’atmosfera (anche in condizioni di cielo limpido); il risultato è una
riflessione in tutte le direzioni (verso il cosmo ma anche verso la Terra) della radiazione così
intercettata. La radiazione riflessa verso la Terra prende il nome di radiazione diffusa.
L’assorbimento è dovuto alle molecole di ozono, vapore acqueo e anidride carbonica che, in certi
intervalli di lunghezza d’onda, non sono trasparenti ma trattengono la radiazione solare che le
attraversa.
Figura 1.1
La presenza di corpi nuvolosi fa sì che parte della radiazione solare su di essi incidente venga
riflessa, in parte assorbita dall’acqua che le costituisce e in parte diffusa verso la Terra. Una totale
copertura nuvolosa filtrerà tutta la radiazione solare diretta verso la Terra, inviando verso la stessa
soltanto radiazione diffusa.
La figura 1.1 mostra come la radiazione solare incidente sulla Terra si distribuisca nell’ipotesi di
una copertura nuvolosa media del 40%: si osserva che la radiazione di forma diffusa (27%) è
nell’esempio leggermente superiore a quella diretta (25%), che ci si prefigge di utilizzare a fini
energetici.
La figura mostra la mappa mondiale dell’irradiazione solare media annuale raccolta da una
superficie orizzontale (potenziale energetico della fonte solare).
7
Figura 1.2
Come si nota dalla figura 1.2, l’Europa è caratterizzata da un potenziale compreso tra 900 e 1800
kWh/(m2anno).
Gli attuali sistemi di conversione dell’energia solare si basano su dei componenti, i collettori solari,
che intercettano la radiazione solare raccogliendola su una superficie di raccolta e la inviano ad uno
o più convertitori che la trasformano in calore o energia elettrica. La quantità di energia convertibile
è proporzionale alla superficie di collezione, al suo orientamento e alle caratteristiche del
convertitore.
I collettori solari si dividono in due classi principali (in relazione al tipo di conversione che
operano): collettori termici, che convertono la radiazione solare in calore (per usi domestici
/sanitari), collettori fotovoltaici, che convertono la radiazione in energia elettrica.
Tra i collettori termici possiamo distinguere tra sistemi ad alta temperatura e a bassa temperatura. I
sistemi ad alta temperatura sono costituiti da generatori di vapore ove la caldaia riceve la radiazione
solare grazie alla concentrazione di un sistema di specchi. Così operando si possono raggiungere
temperature anche elevate da 500 a 3000 K (in casi estremi). Le applicazioni a bassa temperatura
riguardano i cosiddetti pannelli solari, la cui utilizzazione spazia dalla produzione di acqua sanitaria
all’integrazione di sistemi di riscaldamento ambientale. I pannelli solari sono costituiti da una
superficie ad alto assorbimento della radiazione solare, protetta da una superficie vetrata posizionata
frontalmente ad una piccola distanza, il cui scopo è quello di contenere le dispersioni del calore
immagazzinato. A contatto con la superficie assorbente è disposto un fascio tubiero al cui interno
scorre il fluido vettore (acqua) che riceve il calore immagazzinato nel pannello e lo trasferisce
all’utenza. La ciclicità della radiazione solare rende impraticabile l’utilizzo dei pannelli solari in
assenza di un sistema di accumulo o di una fonte energetica alternativa (caldaia tradizionale) che
integra la produzione quando non è disponibile energia solare a sufficienza.
I collettori fotovoltaici sono costituiti da pannelli di celle di silicio, un semiconduttore che libera
elettroni a seguito dell’assorbimento di fotoni6 in un determinato intervallo di lunghezza d’onda
(quindi non tutta la radiazione solare è utile ad attivare il processo di produzione fotovoltaica). Il
rendimento di questi dispositivi si aggira attorno al 15% (contro l’80% potenzialmente ottenibile da
un pannello solare termico); occorre poi tenere presente che la corrente continua prodotta va
6
fotone: pacchetto di energia associato alla radiazione elettromagnetica
8
trasformata in alternata a 220 volts per essere immessa nella rete di distribuzione. Al momento la
competitività economica dei pannelli fotovoltaici è modesta (il loro uso è limitato all’erogazione di
energia elettrica in siti ove è problematica la connessione alla rete o in applicazioni dell’elettronica
digitale), anche se è previsto uno sviluppo, con contributi agevolati di Comuni/Regioni, per la
produzione di energia elettrica domestica (8 m2 di pannelli consentono a Roma una produzione di
1200 kWh/anno con un costo d’impianto, nel 2006, di 8-10.000 Euro ed una durata di 25-30 anni).
1.4.2
L’energia idraulica
L’utilizzo dell’energia idraulica come fonte primaria si aggira attorno al 20% nel nostro Paese e
costituisce senz’altro una risorsa di primaria importanza. La sua disponibilità è associata alla
precipitazioni (piovose e nevose) che sono una causa indiretta della radiazione solare.
Lo sfruttamento dell’energia idraulica è legato alla capacità di trasformare in lavoro meccanico (e
quindi in energia elettrica) la differenza di energia potenziale dell’acqua tra monte e valle di un
salto. La potenza disponibile P si può esprimere come
P = η m’g ∆z
ove m’ è la portata massica d’acqua, ∆z è il salto disponibile, g è l’accelerazione di gravità e η è il
rendimento che tiene conto degli attriti idraulici e meccanici. L’energia prodotta in un dato
intervallo temporale ∆t, sarà dato dall’integrale nel tempo della precedente relazione. Considerando
tutti i termini che la compongono costanti nel tempo, si ottiene
E = P ∆t = cost. x m’∆t
da cui si deduce l’importanza della disponibilità di grandi portate d’acqua (anche grandi salti ∆z, ma
su questa variabile è difficile intervenire più di tanto) per conseguire elevate quantità di energia.
L’impianto per la produzione di energia idroelettrica può essere ad acqua fluente, ove si sfrutta un
salto naturale dell’acqua che viene intercettata, inviata in tubazioni e convogliata in turbina e a
serbatoio. In quest’ultimo caso vengono creati due bacini artificiali a monte e a valle, collegati tra
loro attraverso le condotte di alimentazione delle turbine.
Sebbene una centrale idroelettrica non produca inquinanti, l’impatto ambientale delle opere
necessarie al suo funzionamento è elevato e la loro costruzione non è esente da rischi.
1.4.3
L’energia eolica
Il complesso bilancio energetico della superficie terrestre fa sì che gli strati dell’atmosfera ad essa
più vicini subiscano un riscaldamento (dal basso). L’aria riscaldata subisce una spinta ascensionale
(il meccanismo sarà spiegato nel capitolo 4.2.3 sulla convezione naturale) e viene rimpiazzata con
masse d’aria più fredda. Questo meccanismo su larga scala è alla base della formazione delle
perturbazioni e delle correnti planetarie. Su scala più ridotta, i venti locali si originano da differenze
di temperatura ad esempio tra terra ed acqua (a seguito di un diverso grado di assorbimento della
radiazione solare)7 o tra pianura e collina (a causa del diverso grado di riscaldamento da radiazione
solare diretta).
L’energia eolica è l’energia cinetica associata alla corrente d’aria (vento) in movimento. L’energia
cinetica E del vento è funzione della massa d’aria m spostata e della sua velocità w:
E = m w2 / 2
7
poiché la terra si riscalda più velocemente dell’acqua, durante le ore d’insolazione l’aria vicina alla terra subisce una
spinta ascensionale e viene rimpiazzata dall’aria a contatto con l’acqua (brezza marina), il meccanismo s’inverte alla
notte, quando la terra si raffredda più velocemente dell’acqua (brezza di terra).
9
Mentre la potenza P sarà data da
P = m’ w2/2
con m’ portata massica d’aria.
Tuttavia non è possibile arrestare completamente la corrente ventosa, per cui la potenza teorica
massima estraibile differisce dalla potenza cinetica m’ w2/2.
Il calcolo della potenza massima prodotta da un dispositivo per lo sfruttamento dell’energia eolica
(aeromotore) si basa sull’applicazione della legge di Bernoulli riferita al sistema di figura 1.3. Tale
figura ipotizza che il moto dell’aria si sviluppi entro un confine ideale di area A0 = πD02/4 in
ingresso e A2 = πD22/4 in uscita. La girante è collocata in una postazione intermedia ed è inscritta in
un cerchio di diametro D1 (area A1= πD12/4).
Il legame tra le aree è
Le + La + (p2−p0)/ρ + (w22−w02)/2 + g(z2 – z0) = 0
che in assenza di attriti (La=0), variazioni di pressione e di quota, si riduce a:
Le + (w22−w02)/2 = 0,
ovvero P = m’Le = m’(w02−w22)/2
0
1
2
Figura 1.3
Le velocità w1 e w2 vengono valutate sulla base del valore w0 a monte della girante, che rappresenta
la velocità del vento. Se A0, A1 e A2 indicano le aree delle ideali sezioni di passaggio dell’aria
attraverso il condotto virtuale 0-1-2, si avrà, conservandosi la portata massica m’ e ritenendo la
densità costante:
w1A1 = w0A0
w2A2 = w0A0
e quindi, chiamando con α la quantità (A1-A0)/A1 si avrà
w1 = (1-α)w0
e, in relazione alle sezioni 0 e 2, (A2-A0)/A2 = 2α, ovvero
w2 = (1-2α)w0
P = m’[w02- w22] /2 = m’w02 [1-(1-2α)2]/2 = 2α(1-α) m’w02
10
ove α è un fattore d’interferenza ben più piccolo di uno, mentre m’ vale:
m’ = ρ w1A1 = ρ (πD12/4)w0(1-α), da cui
P = ρ (πD12/2)w03 α(1-α)2
Se con D1 (intermedio a D0 e D2) s’intende il diametro della girante, la potenza cinetica massima
dell’aria che l’attraversa è data da
Pmax = m’ w02/2 = ρ (πD12/4) w0w02/2 = ρ πD12 w03/8
avendo assunto, nel caso ideale, w1 = w0.
Il rendimento teorico massimo (perché esclude comunque gli attriti) vale
η = ρ (πD12/2)w03 α(1-α)2 / (ρ πD12 w03/8) = 4α (1-α)2
Quindi il valore di α non deve essere troppo basso (la portata è elevata, ma si sfrutta poca energia
cinetica della corrente) e non troppo basso (si sfrutta al meglio l’energia cinetica, ma la portata è
ridotta). Derivando η rispetto ad α e ponendo il risultato uguale a zero, si ottiene:
dη/dα = -2(1-α)4α + 4(1-α)2 = 12α2 -16α + 4 =0, da cui
α=1/3 e ηmax = 0.593.
Se si considerano gli attriti (idraulici e meccanici), il rendimento effettivo si riduce. Introducendo la
velocità periferica u del rotore (u = ω D1/2, con ω velocità angolare), il rendimento η risulta legato
al rapporto u/w0, come riportato nella figura 1.4. Esiste un valore ottimale di u/c0 che massimizza il
rendimento: se u/w0 si riduce (per effetto ad esempio di un aumento di w0) diventano eccessivi gli
attriti (e le sollecitazioni) mentre se u/w0 aumenta (per effetto ad esempio di una riduzione di w0) il
rendimento teorico si riduce perché comunque per velocità troppo basse non è possibile mantenere
in funzione il generatore.
η
0.593
ηteorico
ηreale
u/w0
Figura 1.4
Esercizio 1.1
Mediante un aeromotore si vogliono produrre 50 MWh/anno, in un sito con velocità del vento
media di 10 m/s. Calcolare il diametro della girante, ipotizzando un rendimento di 0.5.
La potenza massima sarà:
Pmax = ρ πD12 w03/8 = ρ ( πD12/4) w03/2, da cui, la potenza specifica (per unità di area).
P”max = ρ w03/2 = 1.1 x (10)3 / 2 = 550 W/m2.
La potenza effettiva sarà:
P” = ηP”max = 0.5 x 550 = 275 W/m2
11
Poiché l’energia prodotta deve essere di 50MWh all’anno, deve verificarsi la seguente equazione:
E = 3600 x 24 x 365 x P” x A = 50 x 106 x 3600
ovvero
A = 20.75 m2
da cui si ottiene il diametro D1 della girante:
D1 = (4 A/π)1/2 = 5.14 m.
________________________________________________________________________________
Lo sfruttamento dell’energia eolica presuppone l’insediamento dell’impianto in un sito dove siano
presenti correnti ventose di una certa intensità (superiore a 5 m/s) e costanti nel tempo. Come si
nota dalla mappa di fig.1.5, nel continente europeo siti ideali si trovano all’estremo nord e in alcune
zone costiere della Francia (circa il 20% dell’energia elettro-eolica mondiale è prodotta in
Danimarca, pari a 800 GWh/anno nel 1991).
Poiché in un dato sito le fluttuazioni di velocità del vento fanno sì che vi siano periodi di inattività
(quando il vento è al di sotto di un valore di soglia) o di limitazioni nel funzionamento (quando la
velocità del vento è eccessiva), lo sfruttamento effettivo del potenziale energetico eolico scende a
percentuali dell’ordine del 35%.
Figura 1.5
12
1.4.4
Le biomasse ed i rifiuti solidi urbani
Le biomasse sono sostanze riconducibili al processo riproduttivo dei vegetali. Grazie alla fotosintesi
clorofilliana, innescata dalla radiazione solare diretta, il mondo vegetale trasforma l’anidride
carbonica e l’acqua in ossigeno e carboidrati, che sono combustibili.
La conversione delle biomasse in energia utile presenta complessità tecniche, economiche e sociali.
Può avvenire secondo due distinte strade: manipolazione mediante processi chimico-fisici (ad es.
fermentazione alcolica) per la produzione di bio-combustibili (etanolo, metanolo, metano) oppure
conversione chimico termica diretta mediante combustione (per ossidazione del carbonio presente).
Le risorse di biomasse per la produzione di energia derivano dai residui della lavorazione del legno,
dai residui agricoli (scarti o prodotti invenduti), dai resti animali e dalla coltivazione intensiva (ad
es. di sorgo).
Il principale problema connesso all’uso delle biomasse per la produzione di energia e biocombustibili è l’elevato costo legato alle varie fasi del processo di conversione
(coltivazione/raccolta, trasporto, trasformazione) e la bassa competitività del prodotto finale (la
“spesa” energetica è di poco inferiore all’energia prodotta). Inoltre lo sfruttamento energetico delle
biomasse comporta la movimentazione di grandi volumi con conseguenti costi di trasporto.
Un discorso a parte merita lo sfruttamento a fini energetici dei rifiuti solidi urbani (RSU),
riconducibili solo in parte ad una fonte vegetale (costituiti al 30% di sostanza organica e per il
restante 70% da materiali plastici, cartacei, metallici, inerti, etc.). La produzione di energia dagli
RSU avviene mediante la cosiddetta termoutilizzazione (o termovalorizzazione), ovvero la
combustione in appositi impianti, abbinata ad un ciclo termico per la produzione di energia elettrica
e vapore acqueo per usi tecnologici. Poiché i RSU non sono combustibili convenzionali (e per
giunta la loro composizione è fortemente eterogenea), si avrà un’abbondante produzione di ceneri
ed i fumi dovranno essere opportunamente depurati dalle alte concentrazioni di inquinanti presenti.
Tuttavia l’eventuale nocività delle particelle solide residue (di dimensioni dell’ordine di nanometri)
è oggetto di discussione.
Il termoutilizzo dei rifiuti ha una doppia finalità: è una soluzione per lo smaltimento della maggior
parte dei rifiuti (al netto della raccolta differenziata, che non serve per la produzione di energia ma
per il recupero e riciclaggio di alcune tipologie merceologiche) e permette un contributo al
fabbisogno energetico che potrebbe teoricamente arrivare al 10% del totale (dalla
termovalorizzazione della produzione pro-capite di RSU, circa 500 kg/anno, si potrebbero ottenere
300 kWh/anno, ovvero un terzo del fabbisogno individuale per usi domestici).
1.4.5
Le maree e le onde
La rotazione della Terra e l’interazione gravitazionale con Sole e Luna sono alla base della
formazione delle maree ovvero dall’innalzamento e abbassamento ciclico del livello del mare.
L’energia delle maree può essere convertita in energia elettrica secondo criteri simili allo
sfruttamento dell’energia idraulica: occorre intrappolare in bacini abbastanza capienti l’acqua
marina durante l’alta marea ed impedirne il riflusso durante la bassa marea. Si crea quindi un
dislivello (e quindi un gradiente di energia potenziale) che può essere sfruttato facendo defluire
l’acqua in condotte provviste di turbine per la conversione in energia meccanica/ elettrica. Per lo
sfruttamento ottimale di questa fonte energetica, occorre che il sito sia tale da garantire il completo
riempimento dell’invaso durante il breve periodo di alta marea ed il suo completo svuotamento
nella fase di bassa marea; inoltre occorre che il dislivello sia significativo, in quanto direttamente
correlato alla potenza sviluppata. Queste caratteristiche limitano lo sviluppo di impianti destinati
all’utilizzo dell’energia delle maree (esistono solo una ventina di siti al mondo per lo sfruttamento
potenziale di questa fonte, l’unico impianto con potenza significativa, 160 MW elettrici, è stato
costruito a La Rance, in Francia, nel 1966.
13
Lo sfruttamento a fini energetici delle onde marine presuppone la possibilità di immagazzinare
l’energia associata ad un’onda (mediante l’innalzamento di volumi di liquido o la compressione di
aria in un apposito stantuffo) per poi produrre energia in modo convenzionale mediante una turbina.
L’energia associata ad un’onda dipende dall’ampiezza (al quadrato) e dalla lunghezza d’onda (oltre
che da densità e accelerazione di gravità). Dividendo per il periodo dell’onda si ottiene la potenza
sfruttabile (per metro lineare). In presenza di moto ondoso di un certo rilievo (onde di altezza
superiore al metro), si può pensare di incanalare l’onda entro bacini di raccolta, facendo azionare
delle giranti nella fase di riflusso dell’acqua verso il mare aperto o provocando la compressione di
volumi d’aria in appositi sistemi per effetto dell’innalzamento del livello dell’acqua.
Impianti di questo tipo sono presenti alle Mauritius (22 MW realizzati mediante bacino di raccolta
lungo 5 km) e a Bergen, Norvegia (350 kW).
1.5 Fonti primarie quasi inesauribili
Le fonti quasi inesauribili sono disponibili in quantità quasi illimitata, tale da poterle includere nel
novero delle fonti rinnovabili8. Tra esse si includono il calore endogeno (o energia geotermica) che
proviene dal centro della terra (o dalla profondità degli oceani) e l’energia proveniente da reazioni
nucleari di fissione autofertilizzante (con produzione di combustibile dai prodotti di fissione) e di
fusione nucleare (ove da una piccola quantità di materia si possono ottenere grandissime quantità di
energia).
1.5.1
L’energia geotermica
Il calore affiorante dal centro della Terra in superficie è pari a circa 0.065 W/m2, cui corrisponde un
gradiente termico di 0.03 K/m (3 K ogni 100 metri), con punte, in alcune zone della crosta terrestre,
di 6 K ogni 100 metri. Particolarmente interessante è inoltre la presenza di giacimenti sotterranei di
acque calde o vapore. Se infatti lo sfruttamento del gradiente termico in rocce secche può essere
poco agevole, l’estrazione di acqua o vapore caldo dal sottosuolo (la cui disponibilità, laddove
presente, è appunto quasi inesauribile) da utilizzare in cicli termodinamici per la produzione di
energia elettrica può essere estremamente conveniente.
Val la pena ricordare che il primo impianto mondiale per la produzione di energia elettrica da fonte
geotermica è sorto in Italia, a Larderello, nel 1912.
Figura 1.6
8
A rigore, anche l’energia proveniente dal sole dovrebbe essere ritenuta quasi inesauribile, visto che è il prodotto di una
reazione di fusione nucleare con la quale una parte di massa si trasforma in energia. Tuttavia il tempo necessario a
convertire tutta la massa in energia (estinguendo così la reazione) è di 17 miliardi di anni!
14
Lo sfruttamento dell’energia geotermica presuppone tipicamente la presenza, nel sottosuolo, di una
falda che riceve calore dal magma sottostante. In queste condizioni è possibile anche la formazione
di vapore, che può essere estratto ed inviato direttamente in turbina per la generazione di energia
elettrica (impianti a vapore dominante). In presenza di giacimenti di acqua ad alta temperatura
senza vapore si provvede a trasformare parzialmente in vapore l’acqua calda in pressione
proveniente dal sottosuolo (con processi di laminazione) ed il vapore generato viene inviato in
turbina per la produzione di energia elettrica. Infine, se la temperatura dell’acqua non è troppo
elevata, si utilizza un ciclo termodinamico (con fluidi basso-bollenti) che preleva calore dall’acqua
calda mediante uno scambiatore di calore e lo trasforma parzialmente in energia meccanica/elettrica
per espansione del fluido intermedio in turbina.
A livello di impatto ambientale, occorre segnalare che le operazioni connesse allo sfruttamento
dell’energia geotermica possono causare il rilascio di sostanze nocive presenti nelle acque/vapori
prelevate dal sottosuolo. I principali inquinanti sono gas incondensabili (idrogeno solforato,
anidride solforosa, ammoniaca, cloro, fluoro) e metalli pesanti (rame, arsenico, mercurio). Per
limitare la dispersione nell’ambiente di queste sostanze occorre trattare gli incondensabili estratti
dal condensatore (a valle della turbina) mediante reazione chimica con ossigeno (con cui l’idrogeno
solforato si trasforma in acqua e zolfo) o lavaggi con soluzioni acquose a base di solfato di rame
(per rimuovere l’acido solfidrico).
1.5.2
La fissione nucleare autofertilizzante
Nella fissione nucleare l’elemento fissile è costituito dall’isotopo 235 dell’uranio, disponibile in
quantità molto limitate in natura rispetto all’isotopo 238 (meno dell’1%). I reattori nucleari a
fissione funzionano oggi con uranio “arricchito”, mediante processi tecnologicamente complessi, al
3% di U235. Durante la fissione dell’U235, parte di U238 (presente in grande quantità), ricevendo un
neutrone, si trasforma in U239 e successivamente, a seguito di reazioni a catena, in Pu239 (isotopo
239 del plutonio), che a sua volta è un combustibile fissile (artificiale, perché non esistente in
natura). Nei normali reattori a fissione, per ogni nucleo di U235 bruciato si generano 0.6 nuclei di
Pu239 che è il prodotto della trasformazione di nuclei di U238. Se la produzione di Pu239 raggiunge il
rapporto 1:1 con il combustibile, la fissione diviene autofertilizzante (il nuovo combustibile si
genera automaticamente dalla reazione di fissione). Affinché ciò avvenga, occorre che il reattore
non sia “moderato”, ovvero che i neutroni siano mediamente abbastanza veloci da innescare la
produzione di nuovo combustibile fissile (Pu239) a ritmi elevati e tali da compensare la progressiva
estinzione del combustibile di partenza (U235).
I reattori a fissione autofertilizzante (come il SuperPhenix, costruito vicino a Lione, 1200 MW
elettrici prodotti) utilizzano come vettore termico il sodio liquido, che preleva il calore generato
dalla fissione e lo trasferisce, tramite uno scambiatore di calore intermedio, ad un circuito
secondario, ancora a sodio, che serve per isolare il sodio primario, radioattivo, dal vapore che entra
in turbina e che circola in un terzo circuito (ove il fluido evolve secondo un normale ciclo Rankine),
accoppiato ai due precedenti.
1.5.3
La fusione nucleare
Nella reazione di fusione nucleare due nuclei si fondono tra loro (dando vita ad un nuovo nucleo) e
questo processo è accompagnato dalla liberazione di energia. Un esempio di reazione di fusione
nucleare è alla base dell’energia liberata dal Sole, come conseguenza della fusione di nuclei di
idrogeno, elio e litio. Poiché questi elementi sono disponibili in abbondanza sulla Terra, non è
illogico in linea di principio pensare di realizzare in laboratorio una reazione di fusione al fine della
produzione di energia.
15
La reazione più promettente è quella che lega deuterio e trizio (isotopo 2 e 3 dell’idrogeno) a
formare elio + 1 neutrone + energia. La maggiore difficoltà sta nel fatto che affinché la reazione si
inneschi occorrono temperature dell’ordine di 108 K con una densità della miscela superiore a
determinate quantità critiche. Poiché nessun materiale è in grado di resistere a tali condizioni
estreme di temperatura e pressione, la materia da “fondere”, presente in forma di plasma, deve
essere confinata senza contatto con il contenitore, ad esempio mediante campi magnetici.
La ricerca sugli utilizzi dell’energia da fusione è orientata sul confinamento magnetico del plasma
in un volume toroidale definito da un potente campo magnetico esterno.
Le problematiche connesse alla produzione di energia nucleare da fusione sono ancora molteplici:
al di là delle difficoltà tecnologiche che ne rendono ancora lontana la prospettiva, esisteranno
comunque problemi di sicurezza ed impatto ambientale: il trizio è radioattivo, diffonde attraverso le
pareti metalliche e combinandosi con l’ossigeno dà origine a acqua radioattiva; i rischi poi derivanti
ad un improvviso black-out del sistema magnetico di confinamento del plasma sarebbero
paragonabili a quelli dell’esplosione di un reattore a fissione.
1.6 Inquinamento e rischi ambientali
La produzione e utilizzazione di energia comporta dei rischi di diverso grado e natura. Si va dai
rischi ambientali più gravi, ma fortunatamente remoti come la tracimazione di acqua da invasi
(Vayont, 1963, 2000 morti), l’incendio di serbatoi di gas liquido (Città del Messico, 1984, 550
morti, 7000 feriti), sino all’esplosione di un reattore nucleare (Cernobyl, 1986, 32 morti “ufficiali”,
numero imprecisato di morti differite) a rischi più probabili ma senza conseguenze su larga scala
(folgorazioni o esplosioni domestiche connesse all’uso di energia elettrica o gas naturale).
Vi sono poi rischi non associati ad un evento incidentale ma associati al processo di estrazione e
conversione di energia. Il principale effetto indesiderato di un processo di conversione di energia
primaria è l’inquinamento dell’ambiente.
L’inquinamento può riguardare l’atmosfera, le acque ed il suolo; può inoltre essere di tipo termico
(riscaldamento) o chimico (emissione di sostanze inquinanti).
1.6.1
Inquinamento termico
L’inquinamento termico può essere di tipo diretto (calore antropico) o indiretto. Le conseguenze del
calore antropico sono limitate su larga scala ma possono essere evidenti su piccola scala: in zone
densamente popolate si possono avere aumenti di 1-4 K di temperatura dell’aria per effetto del
calore prodotto, mentre le acque limitrofe a centrali termoelettriche possono subire localmente
incrementi sino a 10 K.
L’inquinamento termico indiretto è legato al rilascio di particelle in gran parte generate dai processi
di combustione. Queste particelle si accumulano negli strati alti dell’atmosfera creando il cosiddetto
“effetto serra”, ovvero l’assorbimento di parte delle radiazioni elettromagnetiche emesse dalla
superficie terrestre, con il suo conseguente graduale riscaldamento.
1.6.2
Inquinamento chimico
L’inquinamento chimico è dovuto all’emissione di sostanze inquinanti nell’ambiente a seguito di
processi di conversione energetica. L’inquinamento chimico può essere primario (quando legato
all’immissione diretta degli agenti inquinanti) o secondario (quando gli inquinanti si formano a
seguito di reazioni chimiche tra le particelle emesse e agenti presenti in natura: ossigeno, acqua,
radiazione solare, etc.).
La forma di inquinamento chimico più preoccupante riguarda l’aria. E’ possibile distinguere tra
inquinamento da zolfo, da ossidi di azoto, da ossido di carbonio, da polveri e contaminazione
radioattiva.
16
L’inquinamento da zolfo è dovuto al fatto che il carbone fossile e gli oli combustibili contengono
zolfo, in percentuali che vanno dallo 0.3 al 10% per il carbone e dall’1 al 4% per l’olio
combustibile.
Lo zolfo contenuto nei combustibili rimane in parte nelle ceneri ed in parte diventa SO2 (anidride
solforosa) e viene liberata nell’atmosfera attraverso i fumi. Qui reagisce con l’ossigeno formando
SO3 (anidride solforica) che a sua volta si può combinare con il vapor acqueo formando H2SO4
(acido solforico) che rimane nell’atmosfera come aerosol o che precipita al suolo con la pioggia
contaminando acque e vegetazione.
Il modo più efficace per contenere l’inquinamento da zolfo consiste nel sottoporre i fumi a processi
di desolforazione, ovvero lavaggi in torri utilizzando soluzioni assorbenti a base di acqua e idrato di
calcio.
L’inquinamento da ossidi di azoto è dovuto alla combustione del gas naturale e ai motori a
combustione interna. Si originano per effetto della reazione tra ossigeno ed azoto che si sviluppa
alle alte temperature, producendo NO (ossido di azoto). L’ossido di azoto, a sua volta, si combina
con l’ossigeno presente nell’atmosfera dando luogo a NO2 (biossido di azoto). Il biossido di azoto,
combinandosi con vapor d’acqua ed ossigeno origina l’acido nitrico, che contribuisce, assieme
all’acido solforico, alle “piogge acide”, mentre dall’interazione con la radiazione solare (ovvero dal
suo assorbimento) e con l’ossigeno, si genera la scissione da NO2 a NO + O3 (ozono). L’ozono, che
esercita un’azione filtrante benefica della radiazione ultravioletta nella stratosfera, a quote basse è
invece un potente inquinante. Infine la combinazione di ossidi di azoto, ozono e idrocarburi
incombusti può dare luogo ad altri potenti inquinanti (periossiacetilnitrati) dannosi per l’uomo e per
la vegetazione.
Il controllo dell’emissione degli NOx può avvenire riducendo gli ossidi nella fase di combustione
(abbassando la temperatura di fiamma) o rimuovendoli dai fumi (mediante i catalizzatori che
favoriscono una reazione chimica che riporta gli NOx in N2 + vapore acqueo).
L’inquinamento da ossido di carbonio è dovuto alla combustione incompleta (per eccesso d’aria) di
combustibili contenenti carbonio. L’ossido di carbonio (CO), a differenza dell’anidride carbonica
(CO2, non tossica ma corresponsabile del già citato effetto serra), è un gas velenoso e letale in
quanto interferisce con il trasporto di ossigeno al cervello. La sua generazione è principalmente
dovuta alle emissioni degli autoveicoli (più a benzina che Diesel).
Il controllo dell’emissione di CO può essere di tipo passivo (sensori che interrompono la
combustione nelle calderine domestiche a tiraggio naturale o attivo (mediante catalizzatori che
ossidano il CO, oltre agli NOx e agli idrocarburi incombusti, trasformandolo nella più innocua
CO2).
L’inquinamento da polveri è dovuto all’immissione nell’ambiente di particelle solide di piccole
dimensioni. Durante la combustione (di carbone, ma anche di idrocarburi) alcune sostanze (che
possono raggiungere anche il 10% nel caso di combustibili solidi) non partecipano alla combustione
e di depositano nel focolare (ceneri) o vengono trascinate in sospensione nei fumi (particolato o
polveri). In particolare sono le particelle più piccole (quelle di diametro inferiore al micron), dette
“polveri sottili”, ad essere le più nocive in quanto sono in grado di raggiungere più in profondità gli
organi respiratori.
Le polveri vengono emesse dagli impianti termoelettrici a carbone e olio combustibile e dai motori
automobilistici, soprattutto i Diesel (per la carbonizzazione del gasolio).
Le concentrazioni massime ammissibili nell’aria degli inquinanti citati è riassunta nella tabella 1.2,
che riporta i limiti di inquinamento atmosferico stabiliti dalla legislazione italiana.
17
Indicatori
Polveri sottili
SO2
NOx
O3
CO
Soglia di attenzione
90 mg/Nm3
125
200
180
15
Tabella 1.2
Soglia di allarme
180 mg/Nm3
250
400
360
30
Un discorso a parte merita la contaminazione radioattiva dell’ambiente legata allo sfruttamento
dell’energia nucleare.
La fissione dell’uranio comporta, oltre alla generazione di energia termica, la formazione di tutta
una serie di prodotti (radionuclidi o radioisotopi) che presentano un numero di neutroni maggiore di
quello degli elementi naturali e che quindi risultano instabili e radioattivi (bario 1414, krypton 92,
isotopi di cesio, stronzio, iodio, tellurio, etc.). I radionuclidi emettono particelle pesanti (radiazione
alfa e neutroniche), con scarso potere di penetrazione e onde elettromagnetiche (radiazioni beta e
gamma, che possono penetrare nella pelle e attraversare anche spessi muri di cemento).
Per valutare la conseguenza biologica dell’esposizione alle radiazioni si ricorre alla “dose
assorbita”, ovvero la quantità di energia fornita dalle radiazioni per kilogrammo di massa corporea.
La dose assorbita viene misurata in gray [Gy], con 1 Gy 9= 1 J/kg. La dose assorbita viene quindi
“pesata” per tenere conto degli effetti sull’organismo: la dose pesata si misura in sievert [Sv]10 e
corrisponde ad 1 J (raggi X) per kg di peso corporeo.
L’assorbimento di una dose di radiazioni può avere effetti immediati o tardivi: dosi superiori a 2 Sv
provocano la morte in breve tempo (nell’80% dei casi) mentre dosi dell’ordine di 10-2 Sv possono
provocare tumori (alle ossa, polmoni, tiroide, mammelle o leucemie) come effetto ritardato.
La dose normale, al di sotto della quale non sono previste conseguenze a lungo termine, è stimata
pari a 0.05 Sv nell’arco di trent’anni (considerando 0.0015 Sv all’anno di fondo naturale e 0.0005
Sv da esami medici di radiologia).
In assenza di incidenti, il contributo all’innalzamento della dose di radiazioni fornito dalle centrali
nucleari su base mondiale è pari ad una frazione risibile del fondo naturale. Il problema maggiore
riguarda invece la produzione delle cosiddette scorie radioattive, ovvero materiali solidi prodotti
dalla reazione nucleare. Sebbene anche la combustione di carbone e di olio combustibile producano
quantità di scorie solide (oltre ad altri agenti inquinanti liberati in forma gassosa) superiori da 2 a 3
ordini di grandezza (a parità di energia prodotta) rispetto alla fissione nucleare, i residui solidi di
quest’ultima pongono il serio problema del loro trasporto e/o stoccaggio, data la radioattività in essi
contenuta. In genere il 90% delle scorie radioattive ha un tempo di decadimento di poche decine di
anni e possono essere stoccate in centrale in attesa di una riduzione della radioattività (già
significativa dopo un anno o due), le scorie a lungo tempo di decadimento (dell’ordine di secoli)
devono essere incapsulate ed immagazzinate in luoghi di confinamento a controllo storico.
9
1 Gy = 100 rad
1 Sv = 100 rem
10
18
2. FABBISOGNI E CONSUMI ENERGETICI
I fabbisogni energetici di una comunità sono stimati sulla base della quantità di energia primaria
necessaria per far fronte ad i consumi finali. Le fonti di energia primaria sono state descritte nel
capitolo precedente e classificate come non rinnovabili, rinnovabili e quasi inesauribili. Queste fonti
non vengono utilizzate in genere nella forma in cui si presentano in natura ma vengono soggette a
trasformazioni e manipolazioni.
Ad esempio il carbone viene distillato per ottenere coke ed il petrolio greggio viene raffinato per
ottenere una serie di derivati quali oli combustibili, benzina, gasolio, GPL, etc. Altre forme di
energia primaria (idraulica, eolica, geotermica, nucleare, solare in parte) vengono convertite in
energia elettrica. Il gas naturale è l’unica fonte primaria non soggetta ad eccessive manipolazioni:
può essere utilizzata per produrre energia termica (impianti di riscaldamento), elettrica (negli
impianti a turbogas) e meccanica (nei motori a gas).
In generale quindi si opererà una distinzione tra fonti primarie (disponibili in natura nelle varie
forme) e fonti secondarie. Queste ultime derivano dalle prime a seguito di manipolazione, per
soddisfare le esigenze energetiche nei settori civile, dell’industria e dei trasporti: i derivati del
carbone, del petrolio e l’energia elettrica rappresentato appunto fonti secondarie.
2.1 La previsione dei fabbisogni
La quantità di energia di cui una comunità deve disporre dipende da una serie di parametri. Tra
questi possiamo annoverare il prodotto interno lordo pro-capite, il numero di abitanti, l’ubicazione
geografica e le condizioni climatiche (coefficiente C), il grado di evoluzione tecnologica
(coefficiente K) ed il livello di industrializzazione (coefficiente F).
Se con E si indica il fabbisogno, espresso in tep/anno (tonnellate equivalenti di petrolio per anno), è
possibile correlare E con i parametri citati attraverso una relazione empirica del tipo (ove PIL è il
prodotto tra numero di abitanti e prodotto interno lordo pro-capite):
E = PIL ⋅C ⋅K⋅F
Mentre PIL è un indicatore economico, il fattore C varia tra 0.75 per Paesi caldi e densamente
popolati e 1.5 per Paesi freddi e scarsamente popolati (che richiedono più spese per il riscaldamento
ed il trasporto dell’energia). Il fattore “sociale” F è prossimo ad uno per le economie industriali (e
quindi per i paesi a capitalismo avanzato) e a zero per le economie esclusivamente agricole. Infine,
il fattore tecnologico K è legato alla “efficienza termodinamica della società”: tiene conto dei
progressi scientifici e tecnologici che consentono di produrre energia con sempre maggiore
efficienza e si riduce progressivamente all’aumentare dell’efficienza.
Una previsione del fabbisogno a partire da dati attuali, si fonda sulla stima della variazione ∆E, in
un certo arco temporale, a partire dal dato attuale E.
In termini percentuali, si può scrivere:
(∆E/E) = (∆PIL / PIL) + (∆C/C) + (∆K/K) + (∆F/F)
Esercizio 2.1
Si calcoli l’incremento del fabbisogno energetico nell’anno 2050, a partire dall’anno 2000, per
una società industrializzata il cui PIL cresce al ritmo dell’1% all’anno.
Per una società industrializzata, le variazioni del fattore F sono trascurabili. Inoltre anche il
fattore C non varia se non cambia l’ubicazione geografica.
Quindi la relazione precedente si riduce a:
(∆E/E) = (∆PIL / PIL) + (∆K/K)
19
Se ∆PIL1=0.01 è la variazione percentuale del PIL dopo un anno, la sua variazione percentuale
dopo N anni sarà data da:
∆PILN = (PIL (1 + ∆PIL1)N – PIL) / PIL
ove PIL (1 + ∆PIL1) è il PIL dop N anni e PIL è il dato di partenza.
Per ∆PIL1 = 0.01 e N =50 si ottiene:
∆PILN = 0.644.
Pertanto, se si esclude ogni incremento nel grado di efficienza dei processi di conversione
energetica, il fabbisogno energetico sarà cresciuto, nel 2050, del 64.4% rispetto all’anno 2000.
Tuttavia si può ipotizzare, per effetto dell’incremento dell’efficienza (e di un aumento dei risparmi),
una riduzione percentuale di K: tale riduzione sarà via via sempre più contenuta (perché i
rendimenti aumenteranno, con il progresso tecnologico, in misure percentuale sempre più ridotta).
Nell’ipotesi di una riduzione dell’un per cento annuo, si otterrà una variazione nulla del
fabbisogno. Viceversa, riduzioni percentuali di K inferiori (in valore assoluto) al tasso di crescita
del PIL comporteranno aumenti percentuali del fabbisogno energetico; a riduzioni di K superiori
alla crescita del PIL corrisponderanno viceversa riduzioni del fabbisogno.
________________________________________________________________________________
La stima corretta del fabbisogno energetico deve essere integrata da un’altra previsione di uguale
importanza: il fabbisogno di energia elettrica ovvero della fonde secondaria più “vicina” al prodotto
finale. Un’analisi attenta del panorama energetico mondiale ha evidenziato un crescente tasso di
elettrificazione delle fonti primarie. Chiamando con f l’indice di penetrazione dell’energia elettrica,
definito dal rapporto tra l’energia primaria trasformata in energia elettrica e l’energia primaria
stessa, si è potuto empiricamente constatare che f cresce nel tempo con la legge:
log10[f/(1-f)] = -1.08 + 0.00885 t
con t conteggiato in anni a partire dal 1900 (ad es. nel 2000, t=100).
A titolo di esempio, f valeva 0.187 nel 1950, vale 0.419 nel 2006 e varrà (se è corretto estrapolare
sul passato) 0.83 nel 2100 (ovvero l’83% del fabbisogno in energia primaria servirà all’umanità in
forma di energia elettrica, il che presuppone che anche settori “energivori” come trasporti e
riscaldamento utilizzino quote sempre maggiori di energia elettrica rispetto alla tradizionale
combustione di idrocarburi).
2.2 Il bilancio energetico nel mondo
Le leggi empiriche che regolano le variazioni del fabbisogno energetico e dell’indice di
penetrazione elettrica si basano sui dati dei consumi energetici rilevati nel corso degli anni.
Le statistiche dei fabbisogni vanno integrate con i bilanci energetici di una comunità (nazione,
continente, mondo). Il bilancio energetico stabilisce:
fabbisogno = produzione di energia + (importazione – esportazione) – (variazione scorte)
In una comunità autosufficiente, il fabbisogno (ovvero i consumi di energia primaria) tende ad
uguagliare la produzione di energia.
In Fig.2.1 e Tab.2.1 sono riportati i consumi mondiali di energia primaria per fonte, da cui si evince
il ruolo chiave giocato nell’ordine da petrolio, carbone e gas naturale (con quest’ultimo in rapida
ascesa).
Per completare l’analisi del bilancio energetico occorre stimare i consumi finali di energia, al netto
della spesa e delle perdite connesse alla trasformazione della fonte primaria in energia secondaria
(“pronta all’uso”), come schematizzato in Fig.2.2.
20
Ad esempio, se parte del consumo di petrolio serve per produrre energia elettrica in una centrale
termoelettrica, bisognerà tenere conto che solo una percentuale attorno al 40% (rendimento tipico di
conversione) dell’energia alla fonte verrà convertita in energia elettrica pronta al consumo, cui si
aggiungono le perdite nella catena di distribuzione.
5000
Consumi (MTep)
4000
Combustibili solidi
Idrocarburi
Gas Naturale
Idro-eolico-geo-solare
Biomasse-rifiuti
Nucleare
3000
2000
1000
0
1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010
ANNO
Fig.2.1
FONTI PRIMARIE
FONTI SECONDARIE
Gas naturale
Combustibili solidi
CONSUMI FINALI
USI CIVILI
Derivati di
petrolio e
INDUSTRIA
Idrocarburi
Idro-eolico-geo-solare
Energia
elettrica
TRASPORTI
Nucleare
Fig.2.2
21
Tabella 2.1
Tabella 2.2
La Tab.2.2 mostra i consumi finali di energia (per fonti) a livello mondiale. Il totale dei consumi
finali per anno è sempre inferiore (tipicamente del 30%) del consumo delle fonti primarie in quanto
buona parte delle fonti primarie vengono erose nel processo di trasformazione in fonti secondarie.
2.3 Il bilancio energetico in Italia
I consumi energetici primari suddivisi per aree geografiche sono evidenziati in Tab. 2.3. L’Italia si
colloca in una fascia intermedia rispetto ai paresi europei più industrializzati con un incremento dei
consumi di circa il 20% dal 1990 al 2004. Nel medesimo periodo, solo la Spagna ha avuto
incrementi percentuali maggiori nei consumi (oltre il 50%) a fronte però di una forte espansione
dell’economia; in altri paesi europei i consumi primari sono stati stabili negli anni (Regno Unito) o
addirittura lievemente contratti (Germania).
La Tab.2.4 riporta invece la dipendenza energetica (in percentuale) di alcuni Stati nazionali. Tale
grandezza è definita come l’ammontare delle importazioni nette divise per la somma tra produzione
e importazioni nette.
Per l’Italia la dipendenza energetica si è attestata nel 2004 sull’85%, ovvero solo il 15% del
fabbisogno è prodotto, a partire dalle fonti primarie, sul territorio nazionale.
22
Tab. 2.3
Tab. 2.4
Con riferimento al bilancio energetico nel 1993 (fonte: Energetica Generale, G.Comini, G.Cortella),
il fabbisogno di 166 Mtep era così ripartito: 11.5 Mtep di combustibili solidi (di cui 10 di
importazione), 93.0 Mtep di petrolio (di cui 86 di importazione netta), 42.3 di gas naturale (di cui
23
27 di importazione) e 19.2 di energia elettrica primaria (di cui 8.6 di importazione), ovvero 131.6
Mtep sui 166 richiesti provenivano dall’estero (circa l’80%).
Se si analizzano i consumi nazionali finali, sempre nel 1993, si rileva che un’aliquota considerevole
delle disponibilità di combustibili solidi, petrolio e gas naturale viene destinata alla conversione in
energia elettrica in centrali:
Combustibili solidi: fabbisogno 11.5 Mtep,
Petrolio:
fabbisogno 93.0 Mtep,
Gas naturale:
fabbisogno 42.3 Mtep,
trasform. in en.elettr. 4.7,
trasform. in en.elettr.24.3,
perdite 1.3,
perdite 16.1,
consumo finale 5.5
consumo finale 62.6
trasform. in en.elettr. 7.9,
perdite 0.7,
consumo finale 33.7
Il totale dei consumi finali, a partire dalle fonti primarie, è risultato di 101.8, cui bisogna aggiungere
il consumo di energia secondaria ottenuta mediante la trasformazione di parte delle fonti primarie e
quello di energia elettrica primaria (19.2 Mtep).
Nel 1993, sono stati destinati alla trasformazione in energia secondaria (elettrica) 36.9 Mtep:
tenendo conto del rendimento di conversione negli impianti termoelettrici (circa 40%) e delle
perdite associate alla distribuzione dell’energia, sono stati ottenuti 19.3 Mtep, per cui i consumi
finali sono stati pari a 121.1 Mtep (=101.8 + 19.3).
L’indice di penetrazione dell’energia elettrica è stato:
f = (36.9+19.3) / 166 = 0.34 (34%), a fronte di un valore del 23% nel 1973, a dimostrazione della
tendenza all’incremento (su scala nazionale e mondiale) di tale indice nel tempo.
2.4 L’apporto delle energie rinnovabili al bilancio energetico mondiale e nazionale
Nel 2003 le fonti energetiche rinnovabili, con una produzione di energia equivalente a 1400 Mtep,
coprivano a livello mondiale il 13% dell’offerta totale di energia primaria. Nello stesso anno
l’offerta di energia primaria nel mondo è stata soddisfatta per il 34,4% dal petrolio, per il 24,4% dal
carbone, per il 21,2% dal gas naturale e per il 6,5% dal nucleare; sul totale dell’energia prodotta da
fonti rinnovabili le biomasse solide costituiscono la parte preponderante, con il 79.9% della
produzione, grazie al diffuso utilizzo di biomasse non commerciali (soprattutto paglia, legno e
rifiuti animali) nei Paesi in via di sviluppo (Fig.2.3).
rinnovabili
CONSUMO
MONDIALE DI
FONTI PRIMARIE
2003
PRODUZIONE
MONDIALE DI
ENERGIA
RINNOVABILE
2003
Fig. 2.3
Tra le altre fonti l’idroelettrico rappresenta il 16,2% del totale della produzione da rinnovabili e la
geotermia circa il 3%, mentre solare ed eolico costituiscono complessivamente lo 0,7% della
produzione. Complessivamente, dal 1990 la produzione di energia da fonti rinnovabili è cresciuta
ad un tasso annuo dell’1,8%, leggermente superiore al tasso di crescita annuo dell’offerta di energia
primaria che, nello stesso arco di tempo, è stato dell’1,6%.
24
import
CONSUMO
DI FONTI
PRIMARIE
ITALIA
2004
Fig. 2.4
In Italia, le energie rinnovabili contribuiscono per il solo 7.2% (contro il 13% su scala mondiale),
mentre gran parte del fabbisogno è soddisfatto da petrolio e gas naturale d’importazione (quasi
l’80%), come mostrato in Fig.2.4.
Nei riguardi della produzione di energia secondaria (elettrica), a livello mondiale la fonte primaria
più utilizzata è il carbone (40.1%) seguito da gas naturale (19.4%), come raffigurato in Fig.2.4. Le
energie rinnovabili sono al terzo posto (17.6%), grazie all’ingente uso di biomasse solide nei Paesi
in via di sviluppo dell’Asia e Africa sub-sahariana; nell’Europa comunitaria la percentuale scende
al 14-15%.
PRODUZIONE
MONDIALE
DI ENERGIA
ELETTRICA
2003
Fig.2.5
In Italia la percentuale di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili nel 2004 è stata in linea con
la media europea (16%) grazie soprattutto all’apporto dell’energia idroelettrica (Fig.2.6).
Produzione di
energia elettrica da
fonti rinnovabili
Italia
2004
25
Fig.2.6
Energia elettrica da fonti rinnovabili (GWh). Anni 2000-2004, ITALIA
2000
2001
2002
2003
Idroelettrico
Eolico
Solare fotovoltaico*
Geotermoelettrico
RSU
Legna
Biogas
A - Totale
B - Consumo interno lordo (TWh)
A/B
(%)
* Stime Enea
44.205
563
16
4.705
804
537
566
51.396
321
16
46.810
1.179
16
4.507
1.259
644
684
55.100
327
17
39.519
1.404
18
4.662
1.428
1.052
943
49.027
336
15
36.674
1.458
23
5.341
1.812
1.648
1.033
47.989
345
14
2004
42.744
1.847
27
5.437
2.277
2.190
1.170
55.692
349
16
Tab. 2.5
Nell’arco del periodo 2000-2004, significativi sono stati gli aumenti percentuali di energia eolica
(pur rimanendo su valori modesti in assoluto se comparati con la media europea, dove eolico e
solare fotovoltaico insieme coprono l’11% della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili)
e di energia elettrica prodotta dalla combustione di rifiuti solidi urbani (RSU).
26
3. ANALISI ENERGETICA ED EXERGETICA
3.1 L’energia meccanica
L’energia meccanica si presenta in due forme: potenziale e cinetica, completamente trasformabili
tra loro e convertibili integralmente, in assenza di attriti, in lavoro meccanico.
L’energia cinetica posseduta da un massa m che si muove ad una velocità w è pari a
Ec = m w2 /2
ovvero, in relazione all’unità di massa
ec = w2 /2,
mentre l’energia potenziale di una massa m che si trova alla quota z rispetto ad un riferimento
orizzontale, vale
Ep = m g z
ove g è l’accelerazione gravitazionale (9.81 m/s2). In relazione all’unità di massa
ep = g z.
Esercizio 3.1
Mediante l’azionamento meccanico di una carrucola, viene sollevata una massa m da una quota
z1 ad una quota z2. Calcolare il lavoro meccanico speso.
La massa m aveva inizialmente una energia potenziale pari a m g z1. Con il suo sollevamento,
l’energia potenziale finale ammonta a m g z2. In assenza di attriti, il lavoro meccanico fornito al
sistema (la massa m) è pari a:
L = mg(z1-z2), pari alla differenza tra le energie potenziali con il segno cambiato (per la
convenzione che vuole negativo il lavoro fatto sul sistema).
Esercizio 3.2
Si consideri un serbatoio cilindrico a cielo aperto, di altezza 1 m, riempito di acqua. Nel caso in
cui venga praticato un foro alla base del cilindro, calcolare la velocità media di fuoriuscita
dell’acqua. Ipotizzare costante il livello d’acqua nel serbatoio.
Il deflusso può essere studiato applicando l’equazione di Bernoulli senza attriti e carico motore
(Sez.1 = sommità del serbatoio, Sez.2 = foro di uscita):
(p2−p1)/ρ + (w22−w12)/2 + g(z2 – z1) = 0
Ora, poiché le pressioni p1 e p2 sono praticamente coincidenti e w1 è circa zero, si ottiene:
w2 = [2g(z1-z2)]1/2 = 4.43 m/s.
In pratica l’energia potenziale g(z2-z1) si è convertita in energia cinetica w2/2.
Esercizio 3.3
Una turbina è collocata lungo una condotta che collega due bacini collocati a due diversi livelli.
Calcolare il lavoro meccanico (esterno netto) ottenuto per unità di massa del fluido.
Anche in questo caso si applica l’equazione di Bernoulli (in assenza di attriti) considerando come
sezioni di ingresso/uscita (1/2) i due livelli dei serbatoi:
Le + (p2−p1)/ρ + (w22−w12)/2 + g(z2 – z1) = 0
e poiché le due pressioni p1 e p2 coincidono con quella atmosferica e la variazione di energia
cinetica è trascurabile, segue che
Le = g(z1-z2)
ovvero l’energia potenziale (per unità di massa) del fluido si è trasformata in lavoro meccanico
(per unità di massa).
27
3.2 Il calore
La termodinamica presuppone, rispetto alla meccanica, la definizione di una nuova grandezza fisica
denominata temperatura. Differenze di temperatura tra due corpi (o tra un sistema e l’esterno)
danno luogo ad una interazione chiamate scambio di calore.
Il legame tra calore e lavoro è stato riscontrato empiricamente in una trasformazione ciclica (ove
stato iniziale e finale coincidono), per la quale si ottiene:
Q* – L* = 0
Con Q* e L* espressi in unità energetiche, ovvero [J].
In relazione ad una trasformazione generica, il primo principio della termodinamica afferma che:
Q* – L* = ∆E
Ove ∆E è la variazione di una funzione E chiamata energia del sistema. La funzione E si compone,
in generale, di tre termini:
E = Ec + Ep + Ei
Somma dell’energia cinetica, potenziale e interna. Quest’ultimo termine dipende solo dallo stato
termodinamico (temperatura, pressione) e non da velocità o posizione rispetto ad un riferimento
esterno.
Si consideri ora un sistema aperto, delimitato da un volume di controllo (V.C.). Si ammetta
l’esistenza di una sezione di entrata e di una sezione di uscita per il deflusso di una portata m’ di
fluido. Si assumano le proprietà termodinamiche e cinetiche uniformemente distribuite lungo le
sezioni di ingresso/uscita (ipotesi monodimensionale).
Figura 3.1
Nel caso di regime stazionario (proprietà che non variano nel tempo), si ha m’ = cost., ovvero la
portata massica entrante eguaglia la portata massica uscente. In queste circostanze, dalla costanza
della portata deriva l’equazione di CONTINUITA’ della portata:
w1ρ1A1 = w2ρ2A2
ove w è la velocità del fluido, ortogonale alla sezione di passaggio di area A.
Si supponga ora che il V.C. sia interessato da interazioni con l’esterno. Si indichino con Q* e con L*
gli scambi complessivi di calore e lavoro. In regime stazionario, la portata entrante m’ vedrà
modificare il proprio stato termodinamico dalle condizioni 1 (in entrata) alle condizioni 2 (in
uscita). Precisamente, per effetto del I principio, per la massa m, transitata attraverso il V.C.
nell’intervallo temporale ∆τ , varrà la seguente relazione:
28
Q* - L* = ∆E
con il lavoro totale L* scisso nelle sue componenti di lavoro esterno netto Le* e di pulsione Lp*:
L* = Le* + Lp*
Scomponendo l’energia E nei suoi termini (cinetico, potenziale ed interno termodinamico), si
ottiene, in relazione all’unità di tempo:
q – le = (1/2) m’ (w22- w12) +m’ g (z2 – z1 ) +m’ (h2 - h1),
ove q ed le rappresentano il flusso termico e la potenza meccanica scambiati (espressi in J/s ovvero
in W o kW). La differenza tra flusso termico e potenza meccanica (con i loro segni introdotti dalla
convenzione che vuole positivo il calore entrante nel sistema ed il lavoro uscente dal sistema) è pari
al flusso di energia cinetica più il flusso di energia potenziale più il flusso di entalpia h.
Il I principio delle termodinamica stabilisce pertanto un’equivalenza metrologica tra calore e
lavoro. Entrambi i termini corrispondono ad una energia, misurabile in Joule nel Sistema
Internazionale. In realtà, il II principio delle termodinamica ci spiega che da un punto di vista
operativo l’energia termica (calore) non può essere trasformata integralmente in lavoro o energia
meccanica mentre è possibile il processo inverso. Esiste quindi una dissimetria operativa tra calore
e lavoro.
Da un punto di vista matematico, il II principio afferma che per un sistema chiuso soggetto ad una
trasformazione ciclica, che la somma degli scambi di calore con l’esterno (assunti con il loro segno
attribuito dalla convenzione) rapportati alla temperatura alla quale si concretizzano è sempre
negativa:
∫ (dQ*/T)trasf.chiusa < 0
Nel caso di trasformazioni generiche l’integrale ∫ (dQ*/T) è legato alla variazione di entropia ∆S del
sistema e alla produzione entropica ∆Si (sempre positiva, per effetto delle irreversibilità):
∆S = ∫ (dQ*/T) + ∆Si
e per un sistema aperto, con deflusso m’:
m’∆s = ∫ (dq/T) + m’∆si
ove s e si rappresentano l’entropia e la produzione entropica per unità di massa.
3.3 Rendimenti di primo principio
La definizione di rendimento o di efficienza fa riferimento al rapporto tra benefici e costi. Il
rendimento o efficienza di primo principio si può definire come il rapporto tra l’energia ottenuta e
l’energia spesa nell’ambito di un determinato processo. Come si vedrà negli esempi che seguono, in
alcune situazioni il rendimento di primo principio può tendere ad uno (come nel caso in cui si vuole
utilizzare una quantità di energia termica per riscaldare un fluido), in altri casi non può essere
unitario neanche in linea teorica (come nel caso in cui si vuole trasformare energia termica in lavoro
meccanico).
29
3.3.1 Rendimento di un ciclo diretto
Si consideri un ciclo costituito da due isoterme (cui avvengono gli scambi termici) e due
adiabatiche (ciclo di Carnot). In un piano T-s il ciclo di Carnot è rappresentato da un rettangolo
(figura 3.2). I lati inferiore e superiore rappresentano le trasformazioni isoterme alle quali
avvengono gli scambi termici. Alla sorgente termica superiore (T2) si ha lo scambio di calore Q2-3
dall’esterno al sistema (Q2-3 è l’energia termica disponibile che si vuole convertire nella maggior
parte in lavoro), mentre alla sorgente termica inferiore T1 si attua lo scambio di calore Q4-1 dal
sistema verso l’esterno. Lo scambio di lavoro tra il sistema e l’esterno si attua nelle trasformazioni
adiabatiche (e isoentropiche, assumendo il ciclo come reversibile) schematizzate dai lati verticali
del rettangolo, ovvero nella compressione 1-2 (che richiede lavoro dall’esterno) e nell’espansione 34 (che fornisce lavoro dal sistema verso l’esterno).
Figura 3.2
Il rendimento (meglio noto come “frazione utilizzabile”) del ciclo è espresso dal rapporto tra
l’effetto utile (il lavoro ottenuto in fase di espansione al netto di quello speso nella compressione) e
la spesa, ovvero l’energia (termica) messa a disposizione del ciclo (Q2-3)
Pertanto
ηI = (L3-4+L1-2) / Q2-3
Si ricorda che, per effetto della convenzione sui segni, L3-4 e Q2-3 hanno segno positivo, mentre L1-2
ha segno negativo.
Esprimendo i due principi della termodinamica per il sistema chiuso che evolve secondo il ciclo di
Carnot:
Q2-3 + Q4-1 – L3-4 −L1-2 = 0
Q2-3/T2 + Q4-1/T1 = 0
Si noti che le trasformazioni sono state assunte reversibili ed i termini Q2-3,, Q4-1, L1-2 e L3-4 sono
stati considerati con il loro segno derivante dalla convenzione.
Dopo semplici passaggi, si ricava:
ηI = (Q2-3 + Q4-1 )/ Q2-3 = 1 + Q4-1/Q2-3
Q4-1/Q2-3 = − T1/T2
e quindi:
ηI = 1 − T1/T2
Dalla precedente relazione si evince che il rendimento (o meglio la frazione utilizzabile) del ciclo di
Carnot non può mai essere unitario, neanche in assenza di irreversibilità, poiché T1/T2 è sempre
30
positivo (in linea del tutto teorica T1 potrebbe essere pari a zero, ma si dovrebbe considerare in tal
caso la “spesa” per costruire una sorgente termica a tale livello di temperatura). Come conseguenza
di ciò, viene ribadita l’impossibilità di convertire integralmente il calore Q2-3 in lavoro in un
processo ciclico, mentre è invece possibile l’opposto (convertire cioè integralmente il lavoro in
calore, anche in un processo ciclico). Pertanto, calore e lavoro, anche se equivalenti da un punto di
vista metrologico (si misurano infatti con la stessa unità di misura, il Joule), hanno invece un
differente valore operativo (si suole dire che il lavoro meccanico è più pregiato dell’energia
termica).
________________________________________________________________________________
Esercizio 3.4:
si valuti la quantità minima di calore Q da fornire, per kg di fluido evolvente, alla temperatura
T2=700 K, per ottenere un lavoro di 1 kJ/kg, posta T1=300 K.
I dati del problema sono T2=700 K, T1=300K, L=1 kJ/kg; la frazione utilizzabile del ciclo è ηI = 1
− T1/T2 = 0.571. La quantità minima di calore Q da mettere a disposizione del ciclo è pertanto Q
=L/η0 = 1.75 kJ/kg.
________________________________________________________________________________
3.3.2 Rendimento di uno scambiatore di calore
Uno scambiatore di calore è un dispositivo atto a trasferire calore da un sistema (che si raffredda) ad
un altro sistema (che si riscalda). Tipicamente uno scambiatore di calore è concepito per favorire lo
scambio termico tra due fluidi, facendo in modo che lo scambio di calore sia il più elevato possibile.
Nell’esempio di fig.3.2, lo scambiatore di calore è schematizzato come un contenitore con una
parete di separazione con due ingressi e due uscite. I due fluidi, di portate pari a m’1 e m’2
rispettivamente, defluiscono attraverso due sistemi aperti affiancati e scambiano calore attraverso la
parete di separazione. Con i pedici e ed u si designano le due sezioni di entrata ed uscita dei fluidi.
Applicando a ciascuna portata fluida il I principio per sistemi aperti, trascurando le variazioni di
energia cinetica e potenziale (e considerando nullo il lavoro esterno netto), si ottiene:
fluido 1)
fluido 2)
q1 = m’1 (h1,u - h1,e)
q2 = m’2 (h2,u – h2,e)
ma q1 = -q2, quindi
m’1 (h1,u - h1,e) = - m’2 (h2,u – h2,e)
relazione che esprime il bilancio termico dello scambiatore di calore.
Ora se lo scopo della trasformazione è quello di riscaldare il fluido 2 (da una certa temperatura T2,e
ad una temperatura superiore T2,u) a spese del fluido 1, il rendimento di I principio sarà:
ηI = m’2 (h2,u – h2,e) / [m’1 (h1,e - h1,u)]
che vale esattamente 1 tenendo conto del bilancio termico dello scambiatore. In realtà si dovrà
tenere conto delle eventuali dispersioni di calore verso l’ambiente esterno (ovvero non è scontato
che tutto il calore ceduto dal fluido 1 sia integralmente acquisito dal fluido 2).
m’1
h1,e
h1,u
h2,u
h2,e
m’2
Figura 3.2
31
3.4 L’exergia
Come si è detto, tutte le forme di energia sono equivalenti da un punto di vista metrologico, ma non
lo sono dal punto di vista della loro qualità o valore operativo. Come conseguenza del secondo
principio della termodinamica si può affermare che l’energia, nei suoi processi di trasformazione, si
degrada, perdendo valore operativo (che si azzera quando questa è in forma di calore a temperatura
ambiente). Una valutazione della qualità posseduta da una determinata forma di energia si basa
sull’introduzione di una grandezza chiamata “exergia” o “energia utilizzabile”.
Se si riflette sull’analisi energetica di I principio relativa al ciclo di Carnot (che rappresenta il ciclo
termodinamico diretto a più alto rendimento), il lavoro massimo ottenibile a partire dalla
disponibilità di una data energia termica Q ad una data temperatura T sarà:
A = Q (1 – Ta/T)
dove Ta rappresenta la temperatura dell’ambiente. Nella precedente relazione, A rappresenta
l’exergia del sistema, ovvero il massimo lavoro estraibile operando con una macchina termica
perfetta secondo il ciclo diretto ideale (Carnot).
3.4.1 Exergia di sistemi chiusi e aperti
L’exergia rappresenta quindi il massimo lavoro ottenibile a partire da un sistema in un definito stato
termodinamico. Se si considera un sistema chiuso in un dato stato termodinamico (pressione p,
temperatura T, energia E, entropia S), l’exergia sarà il lavoro meccanico massimo che riesco ad
ottenere dal sistema a seguito dell’interazione con l’esterno (alle condizioni Ta e pa)
Partendo dal I principio, applicato ad una trasformazione che parte dallo stato attuale e si conclude
alle condizioni di equilibrio con l’ambiente esterno (e quindi con valori finali delle proprietà pari a
Ta, pa, Ea, Sa)
L* = E – Ea + Q* = E – Ea + Ta(Sa – S)
ove Q* , negativo, deve essere più piccolo possibile, per massimizzare L* (positivo). Poiché nello
stato finale l’energia del sistema coincide con la sua energia interna Ua (i termini energetici
macroscopici si sono azzerati), si ricava
L* = E – Ua – Ta(S – Sa)
Per ottenere l’exergia A, occorre detrarre ancora il termine pa(Va–V), che rappresenta un termine
energetico che non è possibile sfruttare, per ottenere lavoro meccanico, nella trasformazione.
Quindi
A = L* – pa(V-Va) = E – Ua – Ta(S – Sa) – pa(V – Va)
Per una trasformazione tra due stati 1 e 2 generici, si avrà, per il nostro sistema chiuso:
A2 – A1 = E2 – E1 + pa (V2 – V1) – Ta (S2 – S1)
e applicando i due principi della termodinamica:
E2 – E1 = ∫1,2dQ* – L*1,2
S2 – S1 = ∫1,2 (dQ/T) + σi
ove σi è la traccia termodinamica della trasformazione 1-2.
32
Sostituendo, si avrà:
A2 – A1 =∫1,2 (1–Ta/T) dQ* – [L* – pa (V2 – V1)] – Ta σi
che rappresenta l’equazione di bilancio exergetico per una trasformazione riguardante un sistema
chiuso.
Ripetendo la trattazione per un sistema aperto:
le = m’Le = m’(h – ha) – m’Ta(s – sa) + m’w2/2 + m’g z
ove Le è il lavoro esterno netto massimo (per unità di massa) che è possibile ottenere a partira da un
dato stato termodinamico, interagendo con l’ambiente attraverso una trasformazione ideale in un
sistema con deflusso di massa. Si noti che le variazioni di energia cinetica e potenziale coincidono
con i valori di partenza in quanto, quando il sistema si porta in equilibrio con l’ambiente, velocità e
quota (rispetto al riferimento) sono nulli.
Dividendo per la portata m’, si trova il lavoro massimo (o exergia) del sistema per unità di massa:
a = Le = (h – ha) – Ta(s – sa) + w2/2 + g z
Per un deflusso attraverso una sezione d’entrata 1 e una d’uscita 2, si avrà, per il nostro sistema
aperto:
a2 – a1 = (h2 – h1 ) – Ta (s2 – s1) + (w22 – w21)/2 + g(z2 – z1)
e applicando i due principi della termodinamica:
h2 – h1 = ∫1,2dQ – Le,1,2 – (w22 – w21)/2 – g(z2 – z1)
s2 – s1 = ∫1,2 (dQ/T) + σi
Sostituendo, si avrà:
a2 – a1 =∫1,2 (1– T0/T) dQ – Le,12 – Taσi
ovvero
a2 – a1 =Σj (1– T0/Tj) Qj – Le,12 – Taσi
nel caso di j scambi termici Qj alle rispettive temperature Tj.
che rappresenta l’equazione di bilancio exergetico (per unità di massa evolvente) per una
trasformazione riguardante un sistema aperto.
Moltiplicando per la portata m’ si ottiene la relazione corrispondente, in relazione all’unità di
tempo.
m’a2 – m’a1 = Σj (1– Ta/Tj) qj – le,12 – m’Taσi
3.5 Rendimento exergetico
L’analisi exergetica applicata a sistemi termodinamici consente la definizione di un rendimento,
detto di II principio, dato dal rapporto tra l’exergia ottenuta e quella messa a disposizione.
33
Nel caso del ciclo diretto di Carnot (fig.3.1), si avrà
ηII = L / A
ovvero il rapporto tra il lavoro ottenuto dal ciclo e l’exergia del sistema. Sviluppando, si ha:
ηII = (L3-4+L1-2)/ [Q2-3 (1 – Ta/T2)] = (1 – T1/T2) / (1 – Ta/T2)
che può valere anche uno (a differenza di ηI, limitato dal termine – T1/T2) nel caso in cui T1=Ta.
Nel caso dello scambiatore di calore di fig.3.2, riprendendo l’equazione di bilancio per un sistema
aperto, ove i pedici u ed e si riferiscono alle sezioni di ingresso e uscita
Σm’au – Σm’ae = Σj (1– Ta/Tj) qj – le,12 – Σm’T0σi
con gli scambi termici e dinamici posti pari a zero, si ottiene:
m1’a1,u + m2’a2,u – m1’a1,e– m2’a2,e = – (perdite per irreversibilità >0).
Se anche in questo caso si desidera riscaldare il fluido 2 (da una certa temperatura T2,e ad una
temperatura superiore T2,u) a spese del fluido 1, il rendimento di II principio sarà:
ηII = exergia ottenuta / exergia fornita = m2’ (a2,u – a2,e) / [m1’ (a1,e – a1,u)] =
m '2 [(h 2,u - h 2,e ) - T0 (s 2,u - s 2,e )]
=
m'1 [(h 1,e − h 1,u ) − T0 (s1,e − s1,u )]
con il numeratore che è in genere inferiore al denominatore per la presenza delle perdite. Quindi,
anche escludendo le dispersione termiche verso l’esterno (il che comportava un rendimento di
primo principio unitario), il rendimento di II principio risulta inferiore ad uno.
3.5.1
Analisi exergetica di un impianto motore a vapore
Si consideri il bilancio exergetico di un impianto motore a vapore a ciclo di Rankine per la
produzione di energia elettrica. L’efficienza energetica, come è noto, è espressa dal rapporto tra
l’energia uscente dalla centrale sotto forma di energia elettrica ed il potere calorifico del
combustibile che rappresenta l’energia (termica, a valle della combustione) messa a disposizione.
Sappiamo che questo rapporto (rendimento di I principio) è un numero piuttosto basso (attorno a
0.4) e che non può comunque avvicinarsi all’unità per la nota impossibilità di convertire
integralmente il calore in lavoro in una trasformazione ciclica. In particolare, è la cessione di calore
al condensatore a rappresentare il termine più evidente che concorre all’abbattimento del
rendimento, non potendo sfruttare in alcun modo questo termine per produrre lavoro.
L’analisi exergetica si basa su diversi presupposti: innanzitutto il rendimento di II principio
relazione l’exergia ottenuta con l’exergia chimica posseduta dal combustibile. Casualmente i due
rendimenti (di I e II principio) risultano quasi coincidenti e prossimi a 0.4. In realtà, nell’analisi
exergetica le perdite sono prevalentemente concentrate nel processo di combustione e nello scambio
di calore con il vapore nella caldaia (ove l’energia termica si “degrada” in quanto si abbassa la
temperatura). Più modeste sono le perdite exergetiche in turbina (a causa delle irreversibilità
termodinamiche) e addirittura trascurabili quelle nel condensatore (segno che l’energia termica
scaricata nel condensatore ha valore pressoché nullo).
34
4. I MECCANISMI DI TRASMISSIONE DEL CALORE
La trasmissione del calore è quella branca della termodinamica che si occupa delle modalità con cui
il calore fluisce all’interno dei materiali. Essenzialmente possiamo distinguere tre diversi
meccanismi: la conduzione termica, la convezione termica e l’irraggiamento termico (o radiazione
termica). I primi due meccanismi sono di tipo diffusivo, avvengono cioè per contatto tra i sistemi
termicamente interagenti; la radiazione termica invece può avvenire anche “a distanza”, purché il
mezzo interposto ai sistemi termicamente interagenti sia “trasparente” alla radiazione.
4.1 Conduzione termica
La conduzione termica è il meccanismo di propagazione dell’energia per contatto diretto tra le
molecole di un corpo. Pur presentando caratteristiche diverse a seconda dello stato di aggregazione
in cui la materia si trova, la teoria della conduzione fa riferimento ad un mezzo continuo, senza
tener conto della sua struttura molecolare. Secondo l’ipotesi di Fourier, in ogni punto P(x,y,z) del
continuo il flusso termico specifico q” è proporzionale al gradiente termico ∇T e la costante di
proporzionalità è rappresentata dalla conducibilità termica k. Si consideri la grandezza vettoriale
q” = -k ∇T
ove ∇T è un vettore le cui componenti sono (i∂T/∂x, j∂T/∂y,k∂T/∂z), con (i,j,k) versore unitario
nelle direzioni x,y,z. Il concetto di vettore flusso termico consente di introdurre le linee di flusso
termico, che ammettono come tangente in ogni loro punto il vettore q” e che consentono una
efficace rappresentazione grafica del trasporto di calore per conduzione, alla stregua delle linee di
corrente in meccanica dei fluidi.
Al termine k introdotto dal postulato di Fourier è possibile dare una interpretazione fisica:
rappresenta infatti un coefficiente che esprime l’attitudine di un mezzo a farsi attraversare dal calore
per conduzione e dipende dalla natura chimico-fisica del mezzo. Nel caso più generale, k dipende
dal “punto” del sistema in cui viene misurato (si pensi ai mezzi non omogenei), dalla orientazione
(per mezzi anisotropi), dallo stato termodinamico (temperatura e pressione) oltre che dal tipo di
sostanza e dal suo stato di aggregazione.
Si consideri un corpo solido di forma prismatica, adiabatico su quattro lati (fig.3.1); in tal modo la
propagazione del calore, se presente, potrà avvenire esclusivamente lungo una direzione. Una
porzione elementare di detto solido costituisce un sistema chiuso da un punto di vista
termodinamico. Applicando ad esso la prima legge della termodinamica si avrà:
qx - qx+∆x − l = ∂E/∂t
Poiché il solido è a baricentro fermo, E si riduce all’energia interna termodinamica esprimibile, in
forma differenziale, come:
dE=(ρA∆x)cdT
ove c è il calore specifico del solido (supposto incomprimibile). Ancora ipotizzando trascurabili le
variazioni di volume del solido, lo scambio netto di potenza meccanica l può esprimersi come:
−l = (A∆x)q’’’
ove il segno - denota il fatto che dell’energia meccanica viene trasferita dall’esterno al sistema e si
concretizza in una generazione di calore (per unità di tempo e volume) all’interno del materiale,
come avviene quando quest’ultimo è attraversato da corrente elettrica.
Il flusso termico che attraversa l’elementino solido nella direzione x risulta direttamente
proporzionale alla differenza di temperatura locale Tx-Tx+∆x e all’area A della superficie attraversata
dal flusso termico mentre è inversamente proporzionale all’estensione lineare ∆x dell’elementino.
35
L’osservazione sperimentale suggerisce, inoltre, la dipendenza del flusso termico da una grandezza,
legata alla natura chimico-fisica del materiale, che prende il nome di conduttività (o conducibilità)
termica k [W/m⋅K], che rappresenta l’attitudine di un corpo a farsi attraversare dal calore per
prefissate condizioni di temperatura.
Nel caso limite ∆x→0, si ottiene:
qx= −kA∂T/∂x
in cui il segno −, combinato con il segno sempre positivo di k, attribuisce convenzionalmente il
segno positivo al flusso termico che si propaga lungo l’asse x.
L’espressione precedente prende il nome di postulato di Fourier o legge della conduzione termica.
Combinando opportunamente le relazioni precedenti, considerando poi per qx+∆x uno sviluppo in
serie di Taylor arrestato al secondo termine, si ottiene:
−kA∂T/∂x -A [−k∂T/∂x−(∂(k ∂T/∂x)/ ∂x)∆x] + (A∆x)q’’’ = (ρA∆x)c∂T/∂t
ovvero:
∂(k ∂T/∂x)/∂x + q’’’ = ρc∂T/∂t
conduzione
longitudinale
generazione
interna di cal.
accumulo
termico
Figura 4.1
Nella precedente equazione sono evidenti i tre termini che competono nel bilancio energetico
relativo all’elementino solido: lo scambio di calore netto (nella sola direzione x), la generazione di
calore all’interno del materiale e l’effetto ritardante dell’inerzia termica che controlla la variazione
di temperatura (energia interna) nell’elementino associata ai due termini presenti al primo membro.
Se la conducibilità termica k è supposta indipendente da T (o se le variazioni di T nel materiale
sono molto modeste) allora si ottiene:
∂2T/∂x2 + q’’’/k = (1/α)∂T/∂t
ove il nuovo coefficiente che appare a secondo membro
α = k/(ρc)
prende il nome di diffusività termica e rappresenta una proprietà termofisica del materiale.
4.1.1 L’equazione generale della conduzione
La prima legge della termodinamica applicata ad un elementino solido di volume ∆x∆y∆z (fig.4.2),
supposto incomprimibile, opaco, a baricentro fermo e proprietà fisiche definite ed indipendenti dal
tempo, conduce, nell’ipotesi di propagazione tridimensionale del calore, a:
36
(q”x - q”x+∆x)∆y∆z + (q”y - q”y+∆y)∆x∆z + (q”z - q”z+∆z )∆x∆y + q’’’∆x∆y∆z = ρc∂T/∂t (∆x ∆y∆z)
ove q”x= -k∂T/∂x, q”y= -k∂T/∂y e q”z= -k∂T/∂z. Operando come nel caso monodimensionale, si
ottiene:
∂(k ∂T/∂x)/ ∂x + ∂(k ∂T/∂y)/ ∂y + ∂(k ∂T/∂z)/ ∂z + q’’’ = ρc∂T/∂t
che rappresenta la forma più generale dell’equazione della conduzione termica e che permette,
opportunamente risolta, di risalire alla distribuzione della funzione temperatura T(x,y,z,t) nel mezzo
sede della propagazione termica per conduzione.
q”y
q”y+∆y
Figura 4.2
Ad espressioni semplificate della precedente relazione si può pervenire, sviluppandola ad esempio
nel caso di materiali a k costante:
∂2T/∂x2 + ∂2T/∂y2 + ∂2T/∂z2 + q’’’/k = (1/α)∂T/∂t
Inoltre, in assenza di generazione interna di calore, si ha:
∂2T/∂x2 + ∂2T/∂y2 + ∂2T/∂z2 = (1/α)∂T/∂t
ed infine, nel caso stazionario:
∂2T/∂x2 + ∂2T/∂y2 + ∂2T/∂z2 =
0
Introducendo l’operatore ∇2( ) = ∂2( )/∂x2 + ∂2( ) /∂y2 + ∂2( )/∂z2, detto anche laplaciano, la
precedente relazione può essere scritta come
∇2T = 0
Il laplaciano di T in coordinate cilindriche (r,θ,z) lo si ottiene ricordando che q”r= −k∂T/∂r, q”θ=
−(k/r)∂T/∂θ e q”z= −k∂T/∂z. Dopo alcuni passaggi, si ottiene:
(1/r) ∂(k r ∂T/∂r)/ ∂r + (1/r2) ∂(k ∂T/∂θ)/ ∂θ + ∂(k ∂T/∂z)/ ∂z + q’’’ = ρc∂T/∂t
Quest’ultima relazione è anch’essa suscettibile di semplificazioni nei casi di propagazione del
calore in mezzo a k costante, senza generazione interna di calore e nel regime stazionario.
La risoluzione dell’equazione generale della conduzione è possibile se sono precisate le condizioni
ai limiti, ovvero 6 condizioni al contorno e la condizione iniziale. Nel caso di un fenomeno
transitorio, la condizione iniziale consiste nella precisazione del campo di temperatura nel mezzo in
un dato istante.
37
4.1.2 Conduzione in regime stazionario. Caso monodimensionale
Si consideri un materiale solido, a conducibilità termica costante, senza generazione interna di
calore e sede di conduzione termica monodimensionale. Per questo tipo di problema, con
riferimento alla geometria piana, l’equazione generale della conduzione termica risulta fortemente
semplificata:
d2T/dx2= 0
ove x rappresenta la direzione di propagazione del calore ed il simbolo di derivata totale rimpiazza
il simbolo di derivata parziale essendo T unicamente funzione di x.
Con riferimento alla figura 4.2, introdotte le condizioni al contorno T=T0 in x=0 e T=TL in x=L, il
profilo di temperatura nella struttura, ricavabile per doppia integrazione della relazione d2T/dx2= 0,
risulta lineare:
T = T0 + (TL − T0) x / L
Il flusso termico che attraversa localmente la generica superficie alla generica quota x è espresso da
qx = −kA(dT/dx)x = kA(T0−TL)/L
mentre il corrispondente flusso termico specifico sarà dato da:
q”x = −k(dT/dx)x = k(T0−TL)/L
Come si osserva, la linearità della distribuzione di T lungo x rende qx e q”x indipendenti dalla
coordinata x. In definitiva, il flusso termico che entra nella struttura attraverso la superficie x=0, si
ritrova integralmente in uscita alla quota x=L. Questo risultato è conseguenza del fatto che nel
materiale non c’é accumulo termico (il regime è stazionario) e non è presente generazione termica:
lo scambio termico netto attraverso le facce estreme della parete deve pertanto essere nullo.
Osservando la relazione qx = kA(T0−TL)/L si può porre in evidenza una interessante analogia tra i
fenomeni termici ed i fenomeni elettrici. Infatti, se ci considera (T0−TL) equivalente ad una
differenza di potenziale elettrico e qx equivalente al flusso di corrente elettrica, il termine L/(kA)
rappresenta un fattore equivalente ad una resistenza elettrica e che verrà chiamato resistenza
termica. Attraverso il concetto di resistenza termica è possibile studiare agevolmente problemi di
conduzione e, come si vedrà in seguito, anche di convezione ed irraggiamento.
Si consideri, ad esempio, il caso raffigurato in fig.4.2: tre strutture a diversa conducibilità e facce
piane parallele sono affiancata l’una all’altra. Sono note le temperature superficiali estreme T0 e TL
della “parete composta” così realizzata. La risoluzione dell’equazione della conduzione
monodimensionale per ogni singolo strato conduce ad una distribuzione lineare di T lungo x in
ciascuno di essi. Chiamando con T1 e T2 le temperature alle due interfacce interne, si può facilmente
verificare che:
T0 − T1 = q (L1/k1A)
T1 − T2 = q (L2/k2A)
T2 − TL = q (L3/k3A)
ove q rappresenta il flusso termico che attraversa la struttura nella direzione x e che è indipendente
dalla quota x per le considerazioni precedentemente esposte. Sommando membro a membro, si
ottiene:
38
T0 − TL = q [(L1/k1A)+ (L2/k2A)+ (L3/k3A)]
ovvero
q=
T0 − TL
L
/
k
A
+
L
( 1 1
2 / k 2 A + L3 / k 3A)
=
T0 - TL
(R 1 + R 2 + R 3 )
Nella precedente relazione, Ri = Li/(kiA) rappresenta la resistenza termica offerta dallo strato iesimo al passaggio di calore per conduzione. Con riferimento all’analogia invocata tra fenomeni
termici ed elettrici, nel circuito di fig. 4.3 le tre resistenze termiche, disposte in serie, vedono
sommare il proprio effetto a discapito del flusso termico che le attraversa. Il denominatore del
secondo membro dell’equazione prende il nome di resistenza termica totale. E’evidente che la
relazione precedente può essere generalizzata nel caso di n resistenze conduttive in serie interposte
Figura 4.3
tra i “nodi” a temperatura T0 e TL. In tale caso, il denominatore sarà espresso da una sommatoria
∑ Rj estesa alle n resistenze associate agli n strati di materiale a differente conducibilità termica kj e
spessore Lj, con Rj=Lj/(kjA).
Figura 4.4
39
Nel caso di geometria cilindrica con propagazione del calore nella sola direzione r (figura 4.4),
l’equazione della conduzione, con le ipotesi precedentemente introdotte, si riduce a:
d(r dT/dr)/dr = 0
con le condizioni al contorno T=Ti in r=ri e T=Te in r=re.
Per doppia integrazione, si ottiene:
T = C1 ln r + C2
Introducendo le condizioni al contorno, si ha:
Ti = C1 ln ri + C2
Te = C1 ln re + C2
da cui:
C1 = −(Ti – Te) / ln(re/ri)
C2 = Ti + ln ri (Ti – Te) / ln(re/ri)
e quindi:
T = Ti − (Ti – Te) ln (r/ri) / ln(re/ri)
Passando al flusso termico che attraversa la generica superficie cilindrica a raggio r, si ha:
qr = −k A(r) (dT/dr)r = k 2πr H (Ti – Te) / [r ln(re/ri)] = k 2π H (Ti – Te) / ln(re/ri)
mentre il corrispondente flusso termico specifico sarà dato da:
q”r= −k(dT/dr)r= k (Ti – Te) / [r ln(re/ri)]
Dalle relazioni precedenti si osserva:
(a) il flusso termico qr che attraversa la generica superficie cilindrica è indipendente dal raggio r,
poichè non vi è né accumulo nè generazione di calore;
(b) il flusso termico specifico q”r dipende da r (ed é inversamente proporzionale ad esso) in quanto
il flusso termico qr, costante, si deve “diluire” in una maggiore superficie di scambio termico
all’aumentare di r;
(c) la distribuzione di temperatura lungo r non è più lineare (come avveniva in geometria piana)
poiché all’aumento di r e di A(r) deve corrispondere una riduzione (in valore assoluto) del
gradiente termico dT/dr per poter conservare costante il prodotto k ⋅A(r)⋅⏐dT/dr⏐.
Il flusso termico in geometria cilindrica può essere così riscritto:
qr = (Ti − To) / [ln(re/ri)/ (k 2π H)] = (Ti – Te) /R
ove R= ln(re/ri)/ (k 2π H) assume il significato di una resistenza termica che si oppone al passaggio
di calore per conduzione in direzione radiale. Il concetto di resistenza termica consente, anche nel
caso di geometria cilindrica, di risolvere il problema della determinazione del flusso termico
conduttivo che attraversa una struttura costituita da più strati mediante l’analogia con i fenomeni
elettrici:
40
q = (Ti – Te) / ∑ Rj
ove la j-esima resistenza associata al j-esimo strato è data da:
Rj = ln (rj,e/rj,i) /(kj 2 π H)
avendo inteso con rj,o e rj,i i raggi corrispondenti all’interfaccia esterna ed interna del j-esimo strato.
________________________________________________________________________________
Esercizio 4.1:
una piastra elettrica si trova, in esercizio, alla temperatura di 150°C. La piastra poggia su un
basamento piano, spesso 2 cm e conducibilità termica 0.75 W/mK. Al di sotto del basamento si
trova un rivestimento avente uno spessore di 1.5 cm e conducibilità termica di 0.35 W/mK.
Calcolare la dispersione di calore attraverso la struttura portante, nell’ipotesi che la temperatura
superficiale sul lato opposto alla piastra sia di 35°C. Trascurare lo spessore della piastra
metallica. Calcolare inoltre la distribuzione di temperatura all’interno del materiale.
Il problema può essere svolto ricorrendo all’analogia tra fenomeni termici ed elettrici, con i
seguenti dati di input:
L1 = 0.02 m, k1=0.75 W/mK
L2 = 0.015 m, k1=0.35 W/mK
R1 = L1/(k1A) = 0.02667/A; R2 = 0.04286/A
q=
T0 − TL
T0 -TL
=
= (150 – 35) A /(0.02667+0.04286)
(L1 / k1 A + L2 / k 2 A) (R1 + R2 )
q” = q/A = 1654 W/m2
Per risalire alla distribuzione di temperatura, occorre calcolare la temperatura Tx all’interfaccia
tra i due strati 1 e 2:
q”= (T0 – Tx)/(L1/k1) = 1654 W/m2, ovvero:
(To – Tx) = 1654 x (0.02/0.75) = 44.1 °C, da cui
Tx = 150 – 44.1 = 105.9 °C.
All’interno di ogni strato di materiale omogeneo la distribuzione di temperatura sarà lineare, con
una variazione di pendenza concentrata all’interfaccia tra i due materiali.
_______________________________________________________________________________
Esercizio 4.2:
si consideri una struttura piana costituita da uno strato di alluminio (conducibilità termica 250
W/mK, spessore 5 mm) e da una parete di materiale isolante refrattario (conduc. termica 0.16
W/mK). Il sistema è attraversato da un flusso termico specifico di 1.5 W/cm2 (diretto dall’isolante
verso l’alluminio). La temperatura della faccia dell’isolante opposta allo strato di alluminio è di
1200°C. Determinare lo spessore minimo Lx di isolante per evitare la fusione dell’alluminio,
nonché la differenza di temperatura tra le due facce dell’alluminio.
La temperatura di fusione dell’alluminio è 659°C. Occorre pertanto che lo strato di alluminio si
trovi ad una temperatura sempre inferiore a tale valore. In regime stazionario, il flusso termico che
attraversa la struttura è dato da:
q = (T0−T’) / [L1/(k1A)], ove il pedice 1 si riferisce al materiale isolante, T0 vale 1200°C e T’ è la
temperatura all’interfaccia tra isolante ed alluminio, che viene posta pari a 659°C. Il flusso
termico specifico q” = q/A è pari a 1.5 W/cm2=15000 W/m2, quindi si ottiene:
L1 = Lx = (T0−T’) k / q” = (1200−659) x 0.16 / 15000 = 0.0058 m = 5.8 mm.
Per spessori Lx superiori a 5.8 mm, lo strato d’alluminio presenta una temperatura all’interfaccia
con l’isolante (ovvero nella postazione più calda) inferiore al punto di fusione.
Applicando la relazione q = (T’−T”) / [Lal/(kalA)] allo strato di alluminio (con T’ e T” le due
temperature estreme, Lal lo spessore e kal la conducibilità termica, si trova:
(T’−T”)=0.3°C.
41
________________________________________________________________________________
Esercizio 4.3:
una parete piana è costituita da uno strato di 1 cm di zinco (conduc. termica 110 W/mK) e da uno
strato di 1 cm di acciaio (conduc. termica 25 W/mK). All’interfaccia viene dissipata, da una
resistenza elettrica piana (opportunamente isolata elettricamente dai due strati metallici), una
potenza termica pari a 400 kW/m2. Valutare i flussi termici specifici che attraversano i due strati
metallici in regime stazionario, nell’ipotesi che le temperature sulle facce esterne valgano 140°C.
Per la conservazione dell’energia, la potenza termica P sviluppata nella resistenza elettrica dovrà
essere dissipata in parte attraverso lo strato di zinco (1) ed in parte attraverso lo strato d’acciaio
(2). Ovvero P = q1+q2. In termini specifici, P” = q1” + q2”.
Ricordando le espressioni per q” e chiamando con T0 e TL le temperature sulle facce esterne dello
strato di zinco e d’acciaio, rispettivamente e con T’ la temperatura all’interfaccia (dove è collocata
la resistenza elettrica:
P” = (T’−T0)/(L1/k1) + (T’−TL)/(L2/k2), ovvero
400000 = (T’−140)/(0.01/110) + (T’−140)/(0.01/25), da cui
T’ = (400000 + 1540000 + 350000)/(11000+2500) = 169.6 °C.
I due flussi specifici risulteranno:
q1” = (T’−T0)/(L1/k1) = (169.6−140)/(0.01/110) = 325600 W/m2 = 325.6 kW/m2,
q2” = P” − q1” = 74.4 kW/m2.
________________________________________________________________________________
4.1.3 Conduzione in regime variabile
Nel capitolo precedente sono stati analizzati fenomeni di conduzione in regime stazionario, ovvero
in assenza di una dipendenza della variabile temperatura dal tempo. Nei fenomeni in regime
variabile, la distribuzione di temperatura risente delle caratteristiche di “accumulo” termico del
materiale. Da un punto di vista matematico, la risoluzione di un problema di conduzione in regime
variabile è senza dubbio più complessa: occorre infatti risolvere l’equazione differenziale della
conduzione termica nella sua formulazione completa e talvolta è indispensabile il ricorso a tecniche
numeriche approssimate.
Un esempio classico di conduzione in transitorio è costituito dal raffreddamento (o riscaldamento)
subito da un solido immerso, a partire da un dato istante, in un fluido a diversa temperatura. Nel
caso di raffreddamento, ovviamente la temperatura T∞ del fluido dovrà essere inferiore alla
temperatura iniziale T0 del solido. Inoltre, si supporrà la “capacità termica” del fluido (ovvero il
prodotto massa per calore specifico) molto grande e tale da consentire la costanza di T∞ nel tempo.
Lo scambio termico tra il solido e il fluido è regolato dal coefficiente di scambio termico h
uniforme e costante.
La distribuzione di temperatura all’interno del solido è una complessa funzione dello spazio e del
tempo. Tuttavia, in particolari circostanze, il transitorio termico può essere analizzato secondo un
modello approssimato che si basa sull’assunzione che la temperatura vari nel solido soltanto con la
variabile tempo (in pratica si suppone che, per un dato istante, la distribuzione di temperatura nel
solido sia uniforme). Tale ipotesi, detta del “corpo sottile”, consente di esprimere il flusso termico
scambiato tra il corpo raffigurato in fig.4.8 ed il fluido circostante mediante la relazione (derivata
dalla prima legge della termodinamica):
q = dE / dt
Il flusso termico netto che attraversa il corpo è anche esprimibile secondo la legge della convezione
termica, secondo la quale il flusso termico scambiato tra un solido ed un fluido che lo lambisce è
42
esprimibile come il prodotto tra un termine h detto coefficiente di scambio termico convettivo11,
l’area A della superficie di contatto e la differenza di temperatura tra fluido e parete solida:
q = h A (T∞ - T)
scritta coerentemente con la convenzione di assegnare segno positivo al calore entrante nel sistema.
Ricordando l’espressione per dE (par.3.1), si ottiene:
h A (T∞ - T) = ρ c V (dT/dt)
che rappresenta una equazione differenziale del 1° ordine, avente come condizione iniziale T=T0
per t=0. La soluzione che si ottiene evidenzia una riduzione esponenziale della differenza di
temperatura tra fluido e solido (fig.4.8):
( T - T∞ ) / ( T0 - T∞ ) = exp [ -
hA
t]
ρcV
La costante di tempo è espressa da (ρcV)/(hA): come intuibile a priori, occorre più tempo per
raggiungere la condizione di equilibrio termico (tutto il solido alla temperatura T∞) quando la
capacità termica (ρcV) è grande o la conduttanza (hA) è piccola.
Per stabilire in quali condizioni l’ipotesi del “corpo sottile” è applicabile, si può effettuare un
semplice ragionamento. Se chiamiamo con Tw la temperatura superficiale del corpo (in un dato
istante) e T la sua temperatura interna, per la continuità del flusso termico attraverso la superficie
del corpo (di area A), possiamo scrivere.:
- k A (Tw – T) / r0 ≈ h A (Tw - T∞)
ove r0 è la distanza tra la superficie esterna ed il centro del corpo e (T-Tw) è il salto termico
corrispondente. Affinché il salto termico nel materiale (ad un dato istante) sia molto piccolo,
occorre che (T – Tw) << (Tw – T∞) e cioè (T – Tw)/ (Tw – T∞) = (h r0)/k <<1.
Figura 4.8
Chiamando con Bi (numero di Biot) la quantità (hr0)/k, occorre che tale quantità sia molto più
piccola di uno. Il termine r0 dipende dalla geometria del sistema: ad esempio, per una parete
monodimensionale lambita da un fluido a temperatura T∞ sui due lati, r0 coincide con il semispessore della parete.
11
La relazione fondamentale della convezione termica sarà introdotta e discussa nel successivo paragrafo 4.2
43
________________________________________________________________________________
Esercizio 4.8:
una sferetta metallica (k=125 W/m K, ρ=2500 kg/m3, c=800 J/kgK), di diametro d=0.5 cm e alla
temperatura T0=250°C, viene immersa in un grande recipiente contenente un fluido alla
temperatura (costante) T∞=25°C. Inizialmente il fluido è in movimento per l’azione di turbolatori
ed il coefficiente di scambio termico convettivo h (tra fluido e sferetta) vale 2500 W/m2K. Dopo 2
secondi i turbolatori vengono disattivati ed il coefficiente h si riduce (per il cambiamento del
meccanismo da convezione forzata a naturale) a 250 W/m2K. Si chiede di determinare la
temperatura della sferetta dopo 1,2,3 e 5 secondi dalla sua immersione nel fluido.
Il numero di Biot Bi = (hr0)/k, con r0=0.25x10-2m, vale 0.05 oppure 0.005 a seconda del valore di
h; in ogni caso è rispettata la condizione (hr0)/k<<1 ed è quindi lecita l’ipotesi del “corpo sottile”
per la sferetta. Pertanto si può scrivere:
( T - T∞ ) / ( T0 - T∞ ) = exp [ -
hA
ρcV
t]
Per t compreso tra 0 e 2s, h=2500 W/m2K. Inoltre A=πd2 e V=πd3/6, per cui hA/(ρcV)=1.5.
Quando t=1s, si ha pertanto ( T - T∞ ) / ( T0 - T∞ ) = 0.223, ovvero T(1)=75.2°C. Come si può
osservare, la sferetta sperimenta un notevole raffreddamento nel primo secondo di immersione. Per
t=2s, risulta T(2)=36.2°C: il raffreddamento è proseguito ma non con la medesima “intensità”.
Per t>2s, h=250 W/m2K e hA/(ρcV)=0.15. Si ha pertanto:
( T(3) - T∞) / ( T(2) - T∞ ) = exp [ -
hA
ρcV
(t-2)] , ovvero T(3)=34.6°C. Per effetto delle mutate
condizioni di scambio temrico convettivo, il raffreddamento della sfera nel terzo secondo è stato
estremamente modesto. Infine, per t=5s, si ottiene:
( T(5) - T∞) / ( T(2) - T∞ ) = exp [ -
hA
ρcV
(t-2)] , ossia T(5)=32.1°C.
________________________________________________________________________________
44
4.2 Convezione termica
Lo scambio termico per convezione termica è quel meccanismo che avviene quando il sistema è
costituito da un fluido in movimento. In questo caso il fenomeno conduttivo che presiede al
trasferimento di calore tra le molecole che entrano in contatto (e che possiedono un diverso livello
di energia interna) risulta potenziato dal moto del fluido che consente di trasportare efficacemente
l’energia interna all’interno del sistema. Questo fenomeno di scambio termico è il più comune
meccanismo di trasporto del calore che interviene tra un solido ed un fluido (a diversa temperatura)
che lo lambisce.
Esistono diverse modalità di classificazione dei fenomeni convettivi:
(a) in base alla causa del moto del fluido: si ha convezione forzata quando il moto è provocato da
un’azione esterna (ovvero quando vi è apporto esterno di energia), convezione naturale o libera
quando il moto è dovuto ad azioni fisiche “naturali” (gradienti di concentrazione, densità, etc.) e
convezione mista quando le azioni esterne e naturali giocano entrambe un ruolo significativo;
(b) in base alla configurazione di moto e/o scambio termico: si ha convezione con deflusso esterno
quando il moto del fluido non è confinato (ad eccezione dell’interfaccia solido/fluido sede di
scambio termico) ed esiste una regione di fluido “indisturbato” e convezione con deflusso interno
quando il moto è totalmente o parzialmente confinato e quindi guidato dalla presenza di pareti
solide;
(c) in base alle caratteristiche del moto: si ha convezione in regime laminare quando il moto del
fluido è ordinato, convezione in regime turbolento quando il moto è caratterizzato da rapide
fluttuazioni locali di velocità e temperatura (esiste anche un regime di transizione dal moto laminare
al moto turbolento);
(d) in base alle caratteristiche fisiche del fluido: si può distinguere tra convezione monofase quando
il fluido presenta un unico componente (liquido o gassoso) senza cambiamenti di fase nel corso del
processo di scambio termico e convezione con passaggio di fase (ebollizione, condensazione)
quando il fluido passa di stato nel corso del processo (si può avere anche convezione bifase quando
il processo interessa due sostanze fluide, anche con diverso strato di aggregazione con e senza
cambiamento di fase).
A titolo di esempio, vengono di seguito proposti alcuni meccanismi convettivi appartenenti alle
citate categorie:
(a): convezione forzata: moto forzato di un fluido caldo in un condotto con scambio termico con le
pareti; convezione naturale: scambio termico tra le pareti di un termosifone e l’aria ambiente;
(b) convezione con deflusso esterno: raffreddamento di un corpo esposto all’aria in atmosfera libera;
convezione con deflusso interno: moto dei fumi in un camino;
(c) convezione in regime laminare: moto di un fluido molto viscoso (ad esempio un olio) a bassa
velocità in un condotto; convezione in regime turbolento: scambio termico tra la parete esterna di
una casa e l’aria esterna in presenza di vento forte;
(d) convezione monofase: tutti i casi ai punti precedenti; convezione con passaggio di fase:
vaporizzazione dell’acqua in una pentola riscaldata.
L’approccio tradizionale allo studio dello scambio termico convettivo consiste nel rapportare lo
scambio termico q (effetto) alla differenza di temperatura Tw-Tf tra parete solida e fluido (causa),
introducendo il concetto di coefficiente di scambio termico h:
q = h A (Tw - Tf)
Nella precedente relazione, risalente al XVIII secolo e nota come legge di Newton, A rappresenta
l’area della superficie di scambio termico, ovvero dell’interfaccia tra solido e fluido attraverso la
quale si concretizza il passaggio di calore. Il coefficiente di scambio termico h, espresso in
[W/m2K], qualifica l’efficienza dello scambio termico; la sua determinazione è piuttosto complessa
poiché h è influenzato dalle caratteristiche del moto del fluido, dalle proprietà fisiche del fluido, da
45
parametri geometrici e persino dalla differenza di temperatura tra solido e fluido (aspetto,
quest’ultimo, che rende criticabile la linearità tra “delta T” e flusso termico espressa dalla legge di
Newton). I fenomeni convettivi possono manifestarsi in presenza di un fluido monofase oppure nel
caso di passaggio di fase (ad esempio nell’ebollizione o condensazione). Nei processi di
cambiamento di fase, lo scambio termico convettivo è amplificato a causa delle variazioni di
entalpia associate al passaggio di stato e alle modalità con cui il cambiamento di fase si svolge.
Esistono inoltre ulteriori possibilità di classificazione dei fenomeni convettivi, in base all’origine
del moto, alle caratteristiche (regime) del moto stesso e alla configurazione geometrica della
superficie solida in relazione al deflusso del fluido. L’effetto del tipo di convezione sull’ordine di
grandezza del coefficiente di scambio termico h è riportato nella figura 4.9.
Figura 4.9
4.2.1 Il coefficiente di scambio termico per convezione
Nel precedente paragrafo è stata introdotta una relazione tra una differenza di temperatura
“significativa” all’interno del fluido (sede di trasporto di calore per convezione) e l’ammontare del
flusso termico scambiato. Nel caso tipico di scambio termico per convezione, riguardante un corpo
solido ed un fluido che lo lambisce, la differenza di temperatura è rappresentata dalla differenza tra
la superficie di interfaccia tra il corpo e il fluido e la temperatura del fluido:
q = h A (Tw - Tf)
In questa forma, l’equazione della convezione termica sembra molto semplice; questa semplicità è
tuttavia mistificante in quanto il coefficiente di scambio termico h è a sua volta, in generale,
funzione del campo di temperatura e quindi la linearità della dipendenza di q da (Tw - Tf) è sovente
disattesa. Come detto in precedenza, lo scambio termico convettivo è dovuto alla combinazione del
fenomeno di scambio conduttivo e del fenomeno di trasporto di materia. Lo scambio conduttivo
presiede al fenomeno di scambio termico in assenza di moto; se si sovrappone l’effetto del moto, lo
scambio termico diviene più efficiente grazie alla possibilità che le molecole fluide hanno di
trasportare energia e di scambiarla con le molecole incontrate nel proprio cammino: la notevole
complessità di questo meccanismo combinato di trasporto del calore rende difficoltosa la
valutazione, nelle applicazioni pratiche, del coefficiente di scambio termico h. Tale quantità è infatti
una complessa funzione della termo-fluidodinamica, delle proprietà fisiche del fluido e della
geometria del sistema.
4.2.2 Il concetto di “strato limite”
Quando un fluido scorre lungo una superficie, indipendentemente dal fatto che il moto sia laminare
o turbolento, le particelle sono rallentate da forze viscose. Le particelle adiacenti alla superficie
46
aderiscono ad essa vedendo azzerare la propria velocità, le altre particelle, che scorrono sulle prime,
vedono rallentare la propria velocità per l’effetto di forze tangenziali tra strati molecolari adiacenti.
A sufficiente distanza dalla parete, l’azione di queste forze andrà vanificandosi: in quella zona le
particelle del fluido proseguiranno “indisturbate” il loro moto. Si può pertanto identificare una
regione di fluido, a ridosso della superficie solida, nella quale sono concentrate sostanziali
variazioni di velocità (dal valore nullo, all’interfaccia solido/fluido al valore “indisturbato”, lontano
dalla parete). Questa regione viene denominata strato limite fluidodinamico, il cui spessore viene
definito come la distanza dalla superficie alla quale il valore locale della velocità raggiunge il 99%
del valore della velocità del fluido “indisturbato”. Lo strato limite, indrodotto dallo scienziato
tedesco Prandtl nel 1904, divide sostanzialmente il campo che circonda il solido in due dominii: uno
strato sottile, a ridosso della superficie solida, dove i gradienti di velocità e le forze viscose sono
grandi e una regione esterna a questo strato, dove la velocità è praticamente uguale a quella della
corrente libera e gli effetti della viscosità sono trascurabili.
La forma del profilo di velocità nello strato limite dipende dalla natura del moto. Si consideri, ad
esempio, un fluido che scorre su una superficie piana (figura 4.10) in convezione forzata. Al bordo
d’attacco della piastra (x=0) le particelle di fluido a contatto con la parete aderiscono ad essa (u=0)
mentre il resto del fluido continua a muoversi alla velocità u∞ della corrente libera indisturbata. Man
mano che il fluido procede lungo la piastra, le forze viscose determinano il rallentamento di una
quantità sempre maggiore di fluido e lo spessore dello strato limite fluidodinamico aumenta: il
profilo di velocità in una data postazione x assume le caratteristiche indicate in figura. Fintantoché
la distanza dal bordo d’attacco si mantiene relativamente piccola, le forze viscose riescono a
sopprimere i piccoli disturbi sempre presenti in un efflusso: il moto all’interno dello strato limite si
mantiene laminare, ovvero è caratterizzato da regolarità, senza mescolamenti tra le particelle del
fluido. Al crescere dello strato limite, i disturbi non vengono più smorzati ma si amplificano: il
moto nello strato limite diviene instabile, caratterizzato da rapide fluttuazioni delle grandezze
Figura 4.10
cinematiche. In questa zona (a partire da x=xc) si ha la transizione al regime turbolento. Tuttavia
permane, vicino alla superficie, un sottilissimo strato (detto sottostrato laminare) al cui interno il
moto conserva la sua laminarità. La distanza xc dal bordo d’attacco (lunghezza critica) determina,
come già detto, la transizione tra i due regimi di moto: questa distanza viene espressa in forma
adimensionale mediante il numero di Reynolds critico Rec = u∞ xc /ν (con ν viscosità cinematica del
fluido) che vale circa 5⋅105, per qualsiasi tipo di fluido e valore di velocità indisturbata.
47
Figura 4.11
Le considerazioni sinora esposte prescindono dalla presenza o meno di uno scambio termico tra la
superficie solida ed il fluido; nel caso in cui siano presenti differenza di temperatura tra la superficie
solida ed il fluido, si potrà definire uno strato limite termico definito come la regione di fluido ove
sono concentrate le variazioni più significative di temperatura. Con riferimento al moto forzato di
un fluido (a temperatura T∞) su una lastra piana isoterma (alla temperatura Tw > T∞), esemplificato
in fig. 4.11, si ha ancora uno strato limite (il cui spessore, definito dalla condizione T = Tw-0.99(TwT∞), si incrementa a partire da x=0) caratterizzato da un profilo di temperatura che risente della
natura del moto (laminare o turbolento). Il trasferimento di calore dal solido al fluido avviene per
conduzione tra le molecole che entrano in contatto tra loro. Il movimento del fluido “potenzia” il
meccanismo conduttivo perché concede alla singola molecola più possibilità di “contatto” con altre
molecole con cui scambiare parte della propria energia interna. Poiché all’interfaccia solido/fluido
le molecole aderiscono alla parete, lo scambio termico specifico q”x (alla generica quota x) potrà
essere espresso attraverso la legge della conduzione:
q”x = - kf (∂T/∂y)y=0
ove kf è la conducibilità termica del fluido e (∂T/∂y)y=0 rappresenta il gradiente di temperatura
(nella direzione ortogonale alla superficie) all’interno del fluido, per y=0. Tutto il calore che
“attraversa” per conduzione lo strato molecolare di fluido che aderisce alla parete viene poi
trasferito in seno alla corrente fluida attraverso quel processo di conduzione potenziata dal trasporto
di materia che va sotto il nome di convezione termica, per cui:
q”x = h (Tw - T∞)
Dall’eguaglianza tra le due relazioni per q”x si trova una nuova espressione per il coefficiente di
convezione h:
h = - kf (∂T/∂y)y=0 / (Tw - T∞)
Dall’esame delle precedenti relazioni, si osserva che lo scambio termico risulta più efficace quando
il gradiente termico alla parete è grande. Ciò avviene vicino al bordo d’attacco della piastra (x
prossimo a x=0) e nello strato limite turbolento, grazie alle intense azioni di mescolamento del
fluido.
Nei fenomeni di convezione forzata, lo strato limite fluidodinamico non coincide, in generale, con
lo strato limite termico. Vi sono fluidi, ad alta viscosità, per i quali è maggiore l’estensione dello
strato limite fluidodinamico rispetto allo strato limite termico (a causa della capacità di trasportare a
grandi distanze l’azione di rallentamento viscoso), mentre nei fluidi ad alta diffusività termica
prevale l’estensione dello strato limite termico rispetto a quello fluidodinamico.
48
4.2.3
La convezione naturale
Nel precedente paragrafo sono state illustrati alcuni concetti (strato limite fluidodinamico e termico,
coefficiente di scambio termico convettivo), validi per la generalità dei fenomeni convettivi benché
riferiti ad un problema di convezione forzata (moto su lastra piana orizzontale) particolarmente
interessante da un punto di vista didattico. E’ stato pertanto supposto il moto di un fluido, con
velocità u∞ uniforme, mosso da un propulsore che richiede energia dall’esterno; a causa dell’azione
della viscosità, si crea a ridosso della parete, una regione di fluido la cui velocità si riduce dal valore
u∞ della corrente “indisturbata” (strato limite fluidodinamico). Se la corrente fluida è a temperatura
diversa da quella della piastra, si attua uno scambio termico tra parete e fluido attraverso quella
regione di fluido (strato limite termico) in cui sono concentrate le più significative variazioni di
temperatura nel fluido. In questo fenomeno le caratteristiche di moto influenzano in modo
significativo lo scambio termico, ma non viceversa.
Quando il moto del fluido è indotto da circostanze “naturali” (per lo più dovute a differenze di
temperatura nel fluido), la distribuzione di velocità nel fluido non è più associabile ad un’azione
esterna ma è determinata dalle cause intrinseche che innescano il moto naturale.
Figura 4.12
Con riferimento alla figura 4.12, si consideri un fluido isotermo, inizialmente in condizioni di
quiete, adiacente ad una parete piana verticale a diversa temperatura (Tw>T∞). Per effetto di questa
differenza di temperatura, le molecole del fluido adiacenti alla parete solida si riscalderanno. Poiché
la densità dei fluidi generalmente diminuisce all’aumentare della temperatura, le particelle vicine
alla parete diverranno più leggere e tenderanno a dirigersi verso l’alto. Esse verranno rimpiazzate da
altre particelle, che a loro volta si riscalderanno: si stabilirà pertanto una circolazione naturale di
fluido come indicato in figura. Condizioni necessarie affinché si stabiliscano i moti convettivi
naturali sono la presenza di un gradiente di temperatura (o densità) in un campo di forze di massa.
Ad esempio, in presenza di un campo gravitazionale, il moto convettivo è promosso dall’azione
delle forze di galleggiamento, legate alle differenze di temperatura, all’accelerazione di gravità (g) e
al coefficiente di espansione termica (β) del fluido.
Le differenze fondamentali tra la convezione naturale e forzata riguardano, come già detto, la causa
del moto (la convezione forzata richiede un’azione dall’esterno) e la relazione tra campo di moto e
temperatura. Infatti, nella convezione naturale, sono le differenze di temperatura a promuovere il
moto e quindi a determinare il campo di moto nel fluido, mentre nella convezione forzata il campo
49
di moto è indipendente dal campo termico. Generalmente, i coefficienti di scambio termico per la
convezione naturale sono inferiori rispetto a quelli tipici della convezione forzata; questo perché la
velocità del fluido è in genere modesta. Infine, anche nel caso della convezione naturale si possono
avere due distinti regimi di moto (laminare e turbolento); la transizione da un regime all’altro è qui
governata da un parametro adimensionale, differente da numero di Reynolds, che verrà introdotto
nel successivo paragrafo.
4.2.4 L’analisi dimensionale
L’analisi dei fenomeni convettivi presuppone la risoluzione (in modo esatto o con tecniche
numeriche approssimate) delle equazioni che governano il fenomeno e che saranno descritte
successivamente. Tuttavia, un approccio semplificato al problema è costituito dall’analisi
dimensionale, il cui obiettivo è la ricerca di gruppi adimensionali ottenuti come combinazioni delle
grandezze che influenzano il fenomeno. Le relazioni funzionali tra i gruppi adimensionali vanno
poi ricercate utilizzando dati sperimentali.
L’applicazione della analisi dimensionale presenta il vantaggio di non ricorrere alla risoluzione
delle equazioni, peraltro piuttosto complicate, che governano il fenomeno; inoltre consente di
ottenere, per mezzo di pochi dati sperimentali, relazioni di scambio termico con validità in un
ampio campo di variazione dei parametri significativi. E’ tuttavia indispensabile una conoscenza a
priori di tutte le variabili che influenzano il fenomeno in osservazione.
Con riferimento al citato problema della convezione forzata su lastra piana (fig.4.10), il primo passo
per l’applicazione dell’analisi dimensionale consiste nell’elencazione di tutte le grandezze
significative, ovvero:
-il coefficiente di scambio termico convettivo h,
- la conducibilità termica del fluido kf,
- la viscosità dinamica del fluido µ,
- la densità del fluido ρ,
- il calore specifico (a pressione costante) del fluido cp,
- la velocità (indisturbata) del fluido u∞,
- la distanza generica L dal bordo d’attacco.
A rigore anche q”x e (Tw - T∞) intervengono nel fenomeno, ma possono essere combinate nel
parametro h = q”x / (Tw - T∞). In definitiva si hanno 7 grandezze indipendenti e significative, dalla
loro combinazione è possibile risalire ad un certo numero di gruppi adimensionali indipendenti.
Secondo il teorema di Buckingham il numero di gruppi adimensionali indipendenti è dato dal
numero totale n di grandezze fisiche indipendenti meno il numero delle dimensioni fondamentali m
richieste per esprimere le formule dimensionali delle n grandezze fisiche. Con riferimento al nostro
problema (per cui n=7) e adottando come dimensioni fondamentali la lunghezza l, il tempo t, la
massa M e la temperatura T, il numero di gruppi da individuare è pari a 7−4=3.
La relazione da ricercare tra i tre gruppi adimensionali π1, π2 e π3 sarà del tipo π1 = F(π2 ,π3), ove
ciascun termine πi sarà espresso da una opportuna combinazione delle variabili indipendenti:
π = Lakfbu∞cρdµecpfhg
Da un punto di vista applicativo è particolarmente utile ricavare un legame tra il coefficiente di
scambio termico h e le altre grandezze significative. Passando dalle grandezze alle formule
dimensionali, si ottiene:
[-] = [l]a[Ml/t3T]b[l/t]c[M/l3]d[M/lt]e[l2/t2T]f [M/t3T]g
Da cui segue, per l’omogeneità dimensionale:
50
b+d+e+g=0
a + b + c -3d -e +2f = 0
-3b - c - e -2f -3g = 0
-b - f -g = 0
per M,
per l,
per t,
per T.
Il sistema di 4 equazioni nelle 7 incognite (a,b,c,d,e,f,g) è sottodimensionato. Può essere risolto
fissando arbitrariamente il valore di tre delle sette incognite.
Poiché h costituisce una delle grandezze di interesse, è opportuno fissare g=1 e poi, per semplificare
i calcoli, porre c=d=0. Dalla risoluzione del sistema, si ottiene a=1, b= -1, e=f=0, da cui risulta che
il gruppo h L/kf è adimensionale e rappresenta uno dei tre possibili gruppi significativi. Tale
quantità prende il nome di numero di Nusselt Nu e ad esso, come si vedrà, è possibile attribuire un
preciso significato fisico.
Questa operazione può essere ripetuta per l’identificazione di altri due gruppi adimensionali (tre in
tutto sono sufficienti): si fisseranno cioè arbitrariamente i valori di due esponenti risolvendo il
sistema di equazioni per determinare i rimanenti quattro.
Ad esempio, volendo ricavare un gruppo adimensionale che tenga opportunamente conto della
variabile cinematica u∞, si potrà porre c=1. Inoltre, converrà fissare g=0 (per non far apparire
nuovamente il coefficiente h) e quindi f=0. Dai calcoli si ottiene: a=d=1, e=-1. Il gruppo
adimensionale u∞Lρ /µ rappresenta, ricordando che ν=µ/ρ, il già noto numero di Reynolds Re.
Infine, il terzo gruppo adimensionale significativo si ricava ponendo c=g=0 (per non far comparire
velocità e coefficiente di scambio) e ponendo f=1, dal momento che cp non è ancora stato incluso
nei gruppi adimensionali significativi. Si ottiene a=d=0, e=1, b=-1, risultato che dà origine al terzo
parametro adimensionale cpµ/kf chiamato numero di Prandtl Pr che ha la particolarità di
dipendere unicamente dalle proprietà termofisiche del fluido.
Una possibile relazione funzionale tra i tre parametri adimensionali avrà la forma:
π1 = F(π2 , π3) = C π2 w π3z
ove rappresenta un gruppo adimensionale contenente il coefficiente h mentre π2 e π3 sono i due
gruppi adimensionali indipendenti da cui π1 dipende.
π1 = Nu = h L/kf
π2 = Re = u∞Lρ /µ = u∞L/ν
π3 = Pr = cpµ/kf = ν/α
mentre la costante C e gli esponenti w e z vanno determinati facendo ricorso all’analisi
sperimentale.
L’analisi precedente può essere ripetuta nel caso della convezione naturale; considerando ad
esempio il moto naturale di un fluido che lambisce una piastra verticale a temperatura Tw>T∞. In
questo caso, alle variabili che influenzano il fenomeno si aggiunge il termine βg(Tw−T∞), relativo
alla spinta di galleggiamento, mentre perde di significato u∞ (lontano dalla parete la velocità è circa
zero). Si possono pertanto identificare ancora tre gruppi adimensionali che risultano essere:
π1 = Nu = h L/kf
π2 = Ra = βg(Tw−T∞)L3cpρ2/(k µ) = βg(Tw−T∞)L3/(να)
π3 = Pr = cpµ/kf = ν/α
Ra è il numero di Rayleigh che rimpiazza, nella convezione naturale, il numero di Reynolds.
51
4.2.5 Correlazioni tra gruppi adimensionali
Nell’analisi presentata nel precedente paragrafo sono stati dedotti tre gruppi adimensionali
particolarmente significativi nei processi di convezione forzata. La dipendenza funzionale tra Nu,
Re e Pr è espressa da una relazione del tipo:
Nu = C Rew Prz
Effettuando una limitata serie si esperimenti, sarà possibile ricavare i valori di C, w e z in modo da
utilizzare la precedente relazione in un ampio campo di variazione dei parametri significativi.
Le correlazioni adimensionali più note sono riportate qui di seguito:
a) convezione forzata su lastra piana, regime laminare, Re<5x105, Pr>0.5:
Nu = 0.332 Re0.5Pr1/3 (lunghezza caratteristica la coordinata “corrente” x),
b) convezione forzata su lastra piana, regime turbolento, Re>5x105, Pr>0.5:
Nu = 0.0296 Re0.8Pr1/3 (lunghezza caratteristica la coordinata “corrente” x),
c) convezione forzata all’interno di condotti a sezione circolare (di lunghezza L e diam.interno D),
regime laminare, Re< 2200:
Nu = 1.86 (Re Pr D/L)1/3 (lunghezza caratteristica il diametro interno D),
d) convezione forzata all’interno di condotti a sezione circolare, regime pienam. turbolento,
Re>104:
Nu = 0.023 Re0.8Prn (lunghezza caratteristica il diametro interno D, n=0.3 in caso di raffreddamento
del fluido, n=0.4 in caso di riscaldamento).
Le citate correlazioni consentono, nelle varie condizioni, di valutare il coefficiente di scambio
termico noti alcuni parametri geometrici (ad esempio L), fisici (le proprietà del fluido convettivo) e
cinematici (la velocità significativa del fluido) del problema.
Nel caso della convezione naturale o libera, le correlazioni più ricorrenti per lo scambio termico in
convezione naturale sono:
a) convezione naturale su lastra piana verticale isoterma, regime laminare (10<Ra<109, Pr=0.5-10):
Nu = 0.59 Ra0.25 (lunghezza caratteristica l’altezza verticale della lastra),
b) convezione naturale su lastra piana verticale isoterma, regime turbolento (Ra>109, Pr=0.5-10):
Nu = 0.14 Ra1/3 (lunghezza caratteristica l’altezza verticale della lastra),
c) convezione naturale su lastra piana orizzontale isoterma, regime laminare (104<Ra<107, Pr=0.510) e flusso termico diretto dal basso verso l’alto:
Nu = 0.54 Ra0.25 (lunghezza caratteristica il rapporto tra area e perimetro),
d) convezione naturale su lastra piana orizzontale isoterma, regime laminare (104<Ra<107, Pr=0.510) e flusso termico diretto dall’alto verso il basso:
Nu = 0.27 Ra0.25 (lunghezza caratteristica il rapporto tra area e perimetro),
e) convezione naturale su lastra piana orizzontale isoterma, regime turbolento (Ra>107, Pr=0.5-10):
Nu = 0.14 Ra1/3 (lunghezza caratteristica il rapporto tra area e perimetro).
In tutte le relazioni menzionate, occorre introdurre il valore delle proprietà fisiche del fluido (kf, ν,
α, etc.), le quali spesso dipendono, anche in misura notevole, dalla temperatura. In tale caso,
52
occorre considerare il valore delle proprietà ad una temperatura possibilmente intermedia tra quella
della parete solida e quella del fluido (temperatura T* = (Tw+Tf)/2 ).
________________________________________________________________________________
Esercizio 4.9:
un flusso d’acqua scorre, in regime di moto turbolento, all’interno di un condotto a sezione
circolare, di diametro interno pari a 1 cm e lunghezza 0.8 m. La temperatura interna del condotto
è mantenuta pari a 50°C. Calcolare la portata tale da garantire un incremento della temperatura
dell’acqua da 20 a 30°C. Valutare inoltre il coefficiente di scambio termico convettivo.
In base al primo principio della termodinamica, il flusso termico scambiato tra il condotto e la
portata d’acqua è dato da:
q = m’(hout−hin) = m’cp(Tout−Tin), dove i pedici out e in si riferiscono alle sezioni di uscita ed
entrata, rispettivamente.
Inoltre, dalla legge della convezione termica:
q = h A (Tw−Tf), dove h è il coefficiente medio di scambio termico per convezione, A è l’area della
superficie di scambio termico, Tw è la temperatura superficiale del condotto (50°C) e Tf è la
temperatura “significativa” del fluido (che “entra” a 20°C ed “esce” a 30°C, per cui si può
stimare che Tf sia pari a 25°C).
Per il fenomeno in studio, vale la relazione:
Nu = 1.86 (Re Pr D/L)1/3, nel regime laminare, ovvero la relazione:
Nu =0.023 Re0.8Pr0.4, nel regime pienam. turbolento.
Per il regime di moto turbolento,si ha
h = (kf /D) 0.023 (w D ρ /µ)0.8Pr0.4.
Dall’eguaglianza delle due relazioni per q, si ottiene:
(w ρ π D2/4)cp(Tout−Tin) = (kf /D) 0.023 (w D ρ /µ)0.8Pr0.4(π D L) (Tw−Tf).
Isolando w, segue che:
w0.2 = 4x0.023x(ρ0.8 / ρ) (D0.8/D2) Pr0.4 kf L (Tw−Tf) / [µ0.8cp(Tout−Tin)]=
= 0.092 ρ−0.2D−1.2cp−1µ−0.8 Pr0.4 kf (Tw−Tf) L /(Tout−Tin).
I termini a secondo membro sono tutti dati del problema (D, L, Tin, Tout, Tw e Tf) o possono
comunque essere dedotti dalle tabelle delle proprietà termofisiche dell’acqua (Tab.5.1).
Considerando una temperatura “media” Tf del fluido pari a 25°C, una scelta corretta per la
valutazione delle proprietà termofisiche dell’acqua potrebbe essere quella di fare riferimento alla
temperatura T* = 37.5°C, intermedia a 25°C (acqua) e 50°C (condotto). Si ottiene:
ρ=993.2 kg/m3, cp=4178 J/kgK, µ=687x10−6 kg/m s, kf=0.625 W/mK, Pr=4.61, da cui:
w0.2 = 1.087, ovvero w=1.52 m/s.
Calcolando Re= (w ρ D) / µ = 1.52 x 993.2 x 0.01 / (687x10−6) = 21970 > 104, si ha la conferma
del regime di moto pienamente turbolento.
La portata d’acqua risulta quindi:
m’ = w ρ π D2/4 = 1.52 x 993.2 x 3.14 x (0.01)2/4= 0.1185 kg/s.
Ed infine:
h = (kf /D) 0.023 (w D ρ /µ)0.8Pr0.4 = (0.625/0.01)x0.023x(21970)0.8(4.61)0.4 = 7880 W/m2K.
________________________________________________________________________________
Esercizio 4.10:
si consideri un condotto di lunghezza L=3 m e diametro interno D=2 cm attraversato da una
portata d’acqua m’ pari a 10 kg/h, la cui temperatura all’ingresso è pari a 20°C. Il condotto cede
all’acqua un flusso termico uniforme pari a 100 W/m. Valutare:
- l’incremento di temperatura che mediamente subisce l’acqua per ogni metro lineare
percorso,
- il coefficiente di scambio termico medio tra il condotto e l’acqua.
Per la prima legge della termodinamica, q = m’cp∆T, ove ∆T è il salto termico dell’acqua. Per un
metro lineare di tubo (L1=1 m), si ha: q’ = m’cp (∆T/L1), ovvero ∆T/L1 = q’/(m’cp) =
53
100/(4182x10/3600) = 8.6 K/m. Per una lunghezza L=3 m, si avrà un aumento di temperatura da
20°C a 45.8°C, con una temperatura media Tf pari circa a 32.9 °C.
Il numero di Reynolds Re = (w D ρ) / µ = (m’ D) / (µ π D2/4) dipende dalla viscosità dell’acqua
alla temperatura T* = (Tp+Tf)/2. Poiché Tf=32.9°C, mentre il valor medio di Tp non è noto (ma
sicuramente maggiore di Tf), si ipotizza un valore di I tentativo di Tp (ad esempio 50°C),
verificando la correttezza della scelta a posteriori. Pertanto, in I approssimazione T* =
(50+32.9)/2≈41.5°C, cui corrisponde µ = 638 x 10-6 kg/ m s e Re=277 < 2200 (regime di moto
laminare). La correlazione di scambio termico appropriata è quindi:
Nu = 1.86 (Re Pr D/L )1/3 = 1.86 (277 x 4.22 x 0.02 /3)1/3 = 3.69, da cui
h = Nu kf / D = 3.69 x 0.631 / 0.02 = 116.4 W/m2K.
Poiché q = h A (Tp − Tf) = h π D L (Tp−Tf), dove Tp e Tf rappresentano valori “medi” della parete
solida e dell’acqua nel tratto di condotto considerato, si ricava:
Tp = Tf + (q/L)/(h π D) = Tf + q’/(h π D) = 32.9 + 100 / (116.4 x 3.14 x 0.02) = 46.6°C. Il valore
trovato non è molto diverso da quello ipotizzato. A rigore, occorrerebbe ripetere i calcoli
considerando una nuova temperatura di riferimento per la valutazione delle proprietà dell’acqua
T* = (46.6 + 32.9)/2 = 39.7°C, ottenendo comunque valori di Re, Nu ed h poco diversi da quelli
ricavati in I approssimazione.
________________________________________________________________________________
Esercizio 4.11:
un pannello riscaldante, di forma quadrata con lato L=0.5 m., viene collocato in un locale
secondo tre diverse orientazioni: orizzontale a soffitto, orizzontale a pavimento, verticale a parete.
Calcolare il coefficiente di scambio termico medio per convezione naturale nei tre casi,
ipotizzando una temperatura superficiale del pannello pari a 60°C ed una temperatura dell’aria
nel locale pari a 20°C.
Occorre dapprima valutare il numero di Rayleigh che risulta pari a:
Ra = β g (Tw−Tf) L3 / (ν α), con le proprietà dell’aria (Tab.5.2) da valutarsi alla temperatura T* =
(60+20)/2 = 40°C e la lunghezza caratteristica L che vale 0.5 m (per giacitura verticale) e 0.125 m
(per giacitura orizzontale).
Pertanto, nel caso di giacitura verticale del pannello, si avrà:
Ra = (3.2 x 10-3 x 9.8 x 40 x 0.53) /(172.6 x10-7 x 242.4 x 10-7) = 37.47 x 107 (< 109, regime di moto
laminare); Nu = 0.59 Ra0.25 = 0.59 x (37.47 x 107)0.25 = 82.1, h = Nu kf /L = 82.1 x 0.02716/ 0.5
=4.5 W/m2K.
Nel caso di giacitura orizzontale, Ra = (3.2 x 10-3 x 9.8 x 40 x 0.1253) /(172.6 x10-7 x 242.4 x 10-7)
= 5.85 x 106 < 107 (regime di moto laminare).
Per la disposizione a pavimento, con flusso termico rivolto verso l’alto, si ottiene:
Nu = 0.54 Ra0.25 = 0.54 x (5.86 x 106)0.25 = 26.6, da cui h = Nu kf /L = 26.6 x 0.02716/ 0.125 = 5.8
W/m2K,
mentre per la disposizione a soffitto,
Nu = 0.27 Ra0.25 = 0.27 x (5.86 x 106)0.25 = 13.3, da cui cui h = Nu kf /L = 13.3 x 0.02716/ 0.125 =
2.9 W/m2K.
________________________________________________________________________________
4.2.6
Problemi di conduzione/convezione: le superfici alettate
L’aumento dello scambio termico alla parete tra un solido ed un fluido che lo lambisce può
verificarsi nel caso in cui la superficie di scambio termico venga incrementata: ciò può avvenire
applicando alla superficie corpi solidi opportunamente sagomati (“alette”) che, protesi verso il
fluido, contribuiscano ad aumentare lo scambio termico per effetto della maggiore superficie di
scambio. Un tipico esempio di superficie alettata (realizzata a partire da una superficie piana) è
illustrato in fig. 4.13: alla superficie Ab della “base” si sovrappone la superficie Aa delle alette. In
54
assenza di alette lo scambio termico (convettivo) tra la parete solida (di area Ao) ed il fluido che la
lambisce è espresso da:
qo = hAo(Tb−T∞)
con h e (Tb−T∞) assunti costanti lungo la parete (ovvero qo/Ao è costante). Si consideri ora la
presenza delle alette come raffigurato in fig.4.13: per semplicità viene ancora assunto il medesimo
coefficiente di scambio termico h tra la superficie alettata ed il fluido, supposto uniforme lungo la
superficie (in realtà h è generalmente maggiore vicino alle estremità delle alette e minore alla base).
Le alette apportano un contributo rilevante in termini di area di scambio termico: l’area della
superficie di contatto è ora A=Ab+Aa, ove Ab è l’area della superficie della base (uguale a Ao per
alette con spessore trascurabile) e Aa è l’area della superficie delle alette. L’incremento di area di
scambio non garantisce comunque un aumento del flusso termico q scambiato. Poiché
q = hA(Tsa−T∞)
affinché si abbia q>qo occorre che la differenza (Tsa−T∞) tra temperatura media Tsa della superficie
alettata e la temperatura del fluido non sia troppo inferiore a (Tb−T∞), ove Tb è la temperatura della
base. Ciò avviene quando il materiale è dotato di una elevata conducibilità termica k che garantisce
differenze non accentuate tra Tsa e Tb.
L’efficacia di una superficie alettata è definita dal rapporto εo:
εo = q/qo = q/[hAo(Tb−T∞)]
che rappresenta l’incremento, in termini di potenza termica, associato alla presenza delle alette.
Figura 4.13
Figura 4.14
55
L’analisi dello scambio termico lungo l’aletta viene usualmente affrontata ipotizzando, all’interno
di essa, una propagazione monodimensionale del calore per conduzione (nella direzione
longitudinale x, vedi fig.4.14) associata ad uno scambio termico convettivo attraverso la superficie
perimetrale dell’aletta. Si noti che questo modello contiene una contraddizione di fondo: è infatti
impensabile avere uno scambio termico convettivo attraverso lo superfici laterali dell’aletta (ovvero
lungo al direzione normale alla x in fig.4.14) senza che vi sia, nel materiale, un gradiente termico,
pur piccolo, lungo la medesima direzione a ridosso dell’interfaccia solido/fluido. Tuttavia l’ipotesi
citata è necessaria per poter risolvere agevolmente il problema posto. Con riferimento ad una
porzione elementare di aletta (fig.4.14) l’equazione di conservazione dell’energia in regime
stazionario impone la seguente relazione:
q”xAc - q”x+∆xAc - (p∆x)h(T - T∞) = 0
scambio termico
conduttivo netto
scambio termico
convettivo
ove q” è il flusso termico specifico che attraversa le sezioni (di area Ac) collocate alle quote x e
x+∆x e p= 2(t+W) è il perimetro dell’aletta. Il flusso termico conduttivo può essere espresso
secondo il postulato di Fourier:
q”x = −k(dT/dx)x
q” x+∆x = −k(dT/dx) x+∆x ≈ −k(dT/dx)x −k(d2T/dx2) ∆x
Nella relazione precedente è stato considerato uno sviluppo in serie di Taylor di k(dT/dx)x+∆x
(considerando k costante) arrestato al secondo termine. Dopo semplici passaggi, si ottiene:
kAc(d2T/dx2) − hp(T − T∞) = 0
conduz. longitudinale
convez.laterale
equazione che richiede l’imposizione di due condizioni al contorno per poter essere risolta.
Il caso più semplice (anche se poco realistico) è quello di ipotizzare una lunghezza molto elevata
dell’aletta. In questo caso le condizioni al contorno sono rappresentate da:
T = Tb in x=0 e T→T∞ per x →∞.
Introducendo la variabile ausiliaria θ = T− T∞, si ha:
d2θ/dx2 −m2θ = 0
con m = [ (h p) / (k Ac) ]1/2 e θ = θb (= Tb−T∞) in x=0 e θ =0 per x→∞.
L’integrale generale è rappresentato da:
θ = C1 exp (−m x) + C2 exp (mx)
Applicando le condizioni al contorno, si ottiene:
θ = θb exp (−m x)
andamento rappresentato nella figura 4.15.
Il flusso termico che viene scambiato tra l’aletta ed il fluido convettivo può essere determinato in
due differenti modalità:
56
L
qal = ∫0 hθpdx
qal = −kAc(dθ/dx)x=0
Nota la distribuzione di temperatura θ(x), si ricava:
qal =
θb kAcm = θb (kAch p)1/2
Le prestazioni termiche di un’aletta possono essere quantificate introducendo il rendimento d’aletta
ηal, definito dal rapporto tra il flusso termico effettivo qal scambiato dall’aletta e quello che verrebbe
scambiato se l’aletta fosse isoterma alla temperatura Tb (caso ideale):
ηal = qal / [h Aa (Tb − T∞)]
Nel caso esaminato, segue che:
ηal = [θb (kAch p)1/2] / (h p L θb) = (k Ac / h p)1/2 / L = 1 /(mL)
Nelle situazioni pratiche, la temperatura dell’estremità dell’aletta in realtà non si discosta molto
dalla temperatura della base (andamento tratteggiato in fig. 4.15). In tal caso si può dimostrare che:
qal = [θb (kAch p)1/2] tanh (m L)
ηal = tanh (m L) / (m L)
(si ricorda che la tangente iperbolica tanh(u) di una variabile u è pari a (eu −e-u)/( eu +e-u) ).
Figura 4.15
Un ulteriore parametro prestazionale è rappresentato dal rendimento della superficie alettata ηsa
espresso dal rapporto tra il flusso termico scambiato dalla superficie alettata (base + alette) ed il
flusso termico che verrebbe scambiato se tutta la superficie alettata fosse alla temperatura Tb della
base:
ηsa = hA(Tsa−T∞) / hA(Tb−T∞) = [qal + hAb(Tb−T∞)]/[h(Aa+Ab) (Tb−T∞)] .
ove con qal si indica il flusso termico scambiato dalle alette. Dividendo numeratore e denominatore
per hAa(Tb−T∞):
ηsa = [qal /hAa(Tb−T∞) +Ab/Aa]/[1 + Ab/Aa] = [ηal + Ab/Aa ] /[ 1 + Ab/Aa] =ηal Aa/A + Ab/A
con A = Aa + Ab.
Ovviamente, quando Aa >> Ab, ηsa tende a coincidere con ηal.
_______________________________________________________________________________
57
Esercizio 4.12:
una superficie piana di 0.7 m2 dissipa in aria (T∞= 20°C) un flusso termico di 1.2 kW, con un
coefficiente di scambio termico convettivo h=15 W/m2K. Calcolare la riduzione di temperatura
della superficie nel caso dell’applicazione di alette aventi Aa = 0.4 m2 e rendimento d’aletta pari a
0.8.
In assenza dell’alettatura, in regime stazionario si ha q = h A0 (T0 − T∞), ove q = 1200 W, T0 è la
temperatura da determinare e A0 è l’area della superficie sede di scambio termico.
Ne segue che: T0 = (q/hA0) + T∞ = 1200/(15x0.7) + 20 = 134.3 °C.
In presenza di una superficie di scambio Aa supplementare, ipotizzando inalterati l’area della
superficie di base A0 ed il coefficiente di scambio, il flusso termico totale è dato da:
q = h A0 (T0 − T∞) + ηal h Aa(T0 − T∞) = h (T0 − T∞) (A0 + ηal Aa), da cui:
T0 = q/[h(A0 +ηal Aa)] + T∞ = 1200 /[15x(0.7+0.8x0.4)] + 20 = 98.4 °C.
L’inserzione delle alette ha quindi consentito, a parità di flusso termico smaltito, una riduzione
della temperatura della superficie piana di oltre 35°C.
______________________________________________________________________________
Esercizio 4.13:
un’aletta a sezione rettangolare (spessore 1 mm, lunghezza 1 cm, larghezza 5 cm) viene connessa
ad una piastra metallica alla temperatura costante di 80°C. Calcolare il flusso termico smaltito
dall’aletta, il rendimento d’aletta e la sua temperatura media ipotizzando k=40 W/mK, h=200
W/m2K e T∞=15°C.
Il flusso termico smaltito è dato da:
qal = [θb (kAch p)1/2] tanh (m L)
dove θb=Tb−T∞ = 80 − 15 = 65°C, L=0.01 m, Ac=0.05x0.001=5x10-5m2, p=2x(0.001+0.05)=
0.102m; da cui:
qal = 65 x (40x5x10-5x200x0.102)1/2tanh {[ (200x0.102) / (40x5x10-5) ]1/20.01} = 13.12 tanh(1.01) =
10.05 W.
Il flusso termico massimo smaltito si ha quando tutta l’aletta è alla stessa temperatura della base,
ossia qal,,max = hpLθb = 200x0.102x0.01x65 = 13.26 W;
da cui ηal = (q/qmax) = 10.05/13.26 = 0.758.
La temperatura “media” Tm,a dell’aletta la si può ottenere dalla relazione:
qal = hAa(Tm,a−T∞), ove Aa=pL è l’area di scambio termico dell’aletta (trascurando lo scambio
termico tra l’estremità dell’aletta ed il fluido convettivo);
Tm,a = 10.05/(200x0.102x0.01) + 15 = 64.3 °C, inferiore di circa 16°C alla temperatura della base.
________________________________________________________________________________
4.2.7
Convezione nei passaggi di fase
Nei precedenti paragrafi sono stati descritti alcuni esempi di fenomeni convettivi monofase,
riguardanti cioè un fluido in un determinato stato di aggregazione (liquido o gassoso). Tuttavia, in
particolari applicazioni ingegneristiche, rivestono una particolare importanza i fenomeni di scambio
termico in presenza di passaggio di fase, in particolare in fase di condensazione (passaggio da
vapore a liquido) e di vaporizzazione (passaggio da liquido a vapore). In queste circostanze, lo
scambio termico viene ancora descritto mediante l’equazione della convezione; il coefficiente di
scambio termico h viene qui a dipendere anche da nuovi parametri, quali l’entalpia di passaggio di
fase, la tensione superficiale del fluido, la morfologia della superficie di contatto tra solido e fluido.
Nella condensazione, il fluido, in condizioni di pressione e temperatura di saturazione, entra a
contatto con una superficie a minore temperatura (Tw<Tsat) e cambia di fase localmente. E’ possibile
distinguere tra la condensazione a film, che si ha quando la parete “fredda” viene rivestita da un
velo continuo di condensato (che drena verso il basso per gravità) e la condensazione a gocce,
caratterizzata dalla formazione localizzata di gocce di liquido che si distaccano dalla parete per
gravità o per l’azione di trascinamento del vapore. La condensazione a film può essere
58
schematizzata come in fig.4.16. Uno strato di liquido (condensato) si forma a ridosso della parete e
si muove lentamente verso il basso per gravità; lo spessore del film liquido aumenta all’aumentare
della distanza dal bordo d’attacco. Il coefficiente di scambio termico h è inversamente
proporzionale allo spessore del film liquido che agisce come una resistenza termica tra la parete ed
il vapore; in particolare h aumenta all’aumentare della conducibilità termica della fase liquida
(perché aumenta il trasporto di calore nel film), dell’entalpia di passaggio di fase r, della differenza
tra le densità della fase liquida e aeriforme (perché viene favorito il drenaggio del liquido) mentre
diminuisce all’aumentare della distanza dal bordo d’attacco (aumenta lo spessore del film) e della
viscosità della fase liquida (che fa aderire il liquido alla parete contrastando la discesa verso il
basso). I coefficienti h che si ottengono nella condensazione a film per il vapore acqueo sono molto
alti (oltre 104 W/m2K); è possibile un incremento di oltre un ordine di grandezza ricorrendo alla
condensazione a gocce, favorita dall’applicazione sulla superficie di particolari sostanze
idrorepellenti (cere, teflon) che determinano una condensazione localizzata e più efficiente (dal
momento che la superficie di scambio termico è solo parzialmente ricoperta da liquido).
Figura 4.16
La vaporizzazione è invece il passaggio di fase da liquido a vapore nelle condizioni di pressione e
temperatura di saturazione (da non confondersi con l’evaporazione, controllata dalla differenza di
pressione parziale del vapore e che può avvenire a tutte le temperature e pressioni). La
vaporizzazione può riguardare un liquido in quiete (in tal caso si chiama vaporizzazione o
ebollizione in convezione naturale o pool-boiling) oppure in moto (vaporizzazione in convezione
forzata o flow-boiling); inoltre la massa liquida può essere nelle condizioni di saturazione
(ebollizione satura) oppure a temperatura leggermente inferiore a quella di saturazione (ebollizione
sottoraffreddata). Nella figura 4.17 è illustrata la fenomenologia della vaporizzazione di una massa
d’acqua satura e in quiete: l’acqua è riscaldata da un filamento elettrico che eroga, per effetto Joule,
una potenza termica per unità di superficie q”. Poiché la resistenza termica del filamento è legata
alla temperatura, è possibile variare la potenza q” in modo da mantenere una temperatura
programmata Tw del filamento; la differenza di temperatura Tw−Tsat è quindi riportata in ascissa.
All’aumentare del surriscaldamento, si formano le prime bolle sulla superficie che
progressivamente si raggruppano a formare delle colonne di vapore che sale in superficie. Per
ulteriori incrementi di (Tw−Tsat) l’ascesa del vapore si fa impetuosa e tende ad ostacolare il deflusso
di liquido verso il filamento, necessario per alimentare il processo di ebollizione: l’efficienza dello
scambio termico tende a ridursi sino al raggiungimento di una condizione critica (punto C), oltre la
quale q” si riduce, in quanto il vapore che si raggruppa attorno al filamento crea una barriera allo
scambio termico. Raggiunto il punto di minimo relativo (L) nella curva q”-(Tw−Tsat), per cui il
filamento riesce a dissipare calore per sola conduzione attraverso il vapore, gli elevati livelli di
59
temperatura Tw favoriscono lo scambio di calore, attraverso il vapore che avvolge il filamento, per
radiazione termica: si ha quindi un progressivo incremento del flusso termico q” sino al
raggiungimento delle condizioni di fusione del filamento (F). I regimi di moto che si instaurano
nella vaporizzazione in convezione forzata sono illustrati in figura 4.18: il liquido entra nel condotto
(la cui temperatura superficiale sul lato interno Tw eccede la temperatura di saturazione Tsat) in
condizioni sottoraffreddate. L’ebollizione ha inizio quando il liquido localmente eccede la
temperatura di saturazione, le bolle, trascinate dalla corrente, imploderanno finché la temperatura
del liquido non raggiungerà il valore di saturazione: da questo punto in avanti sarà sempre maggiore
la quantità di vapore prodotta alla parete, sino alla formazione di grossi agglomerati di vapore
(“tappi” o slug) trascinati dalla massa liquida in movimento. All’aumentare del riscaldamento i
tappi tenderanno ad agglomerarsi sono ad occupare la parte centrale del canale, con il liquido
confinato a contatto con la parete. In queste condizioni, il liquido vaporizzerà all’interfaccia tra
liquido e vapore, lo strato di liquido diverrà così sempre più sottile sino ad estinguersi.
Figura 4.17
Figura 4.18
60
Tabella 4.1. Proprietà termofisiche dell’acqua alla pressione atmosferica
t
ρ
cp
3
°C
kg/m
0
5
10
15
20
25
30
35
40
50
60
70
80
90
100
999.9
1000
999.7
999.1
998.2
997.1
995.7
994.1
992.3
988.1
983.2
977.8
971.8
965.3
958.4
kJ/ kg K
4.217
4.202
4.192
4.186
4.182
4.179
4.178
4.178
4.178
4.180
4.184
4.189
4.196
4.205
4.216
β x 103
1/K
-0.06
0.01
0.09
0.15
0.21
0.26
0.30
0.34
0.38
0.45
0.51
0.57
0.62
0.67
0.71
k x 102
W/ m K
56
57
58
59
59
60
61
62
63
64
65
66
67
67
68
µ x 106
Kg / m s
1787
1514
1304
1137
1002
891
798
720
654
548
467
405
355
316
283
ν x 106
2
α x 106
m /s
m2/s
1.787
1.514
1.304
1.138
1.004
0.894
0.802
0.725
0.659
0.554
0.475
0.414
0.366
0.327
0.295
0.133
0.136
0.138
0.140
0.142
0.144
0.146
0.149
0.152
0.155
0.158
0.161
0.164
0.165
0.166
Pr
13.44
11.13
9.45
8.13
7.07
6.21
5.49
4.87
4.34
3.57
3.01
2.57
2.23
1.98
1.78
61
Tabella 4.2. Proprietà termofisiche dell’aria alla pressione atmosferica
t
ρ
cp
3
β x 103
k x 103
µ x 106
ν x 107
α x 107
2
°C
kg/m
kJ/ kg K
1/K
W/ m K
kg/ s m
m /s
m2/s
-200
-180
-160
-140
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