Gianni Denitto: il musicista che gira il mondo in l o o p . Intervista di Andrea Capuano per la rubrica “Teen Town” Abbiamo incontrato il sassofonista Gianni Denitto a Dakar, in Senegal, in occasione di una di quelle che lui stesso ama chiamare “residenze”. Ci hanno impressionato da subito il suo stile, la sua arte e la sua persona. Con la “call for artists” già avviata, trovandosi di fronte ad un one-man show di sassofono e loop machine, il collegamento con il tema delle “ripetizioni” è stato immediato e ha incontrato la totale disponibilità dell’artista torinese a confrontarsi con noi e con i nostri lettori. D: Quale alchimia tiene insieme, nella tua musica, la fantasia creativa del sax e la ripetitività dei ritmi elettronici? Come si fondono le progressioni tipiche del Jazz con le loop station? R: Ciao, grazie per le domande! Il jazz e l’elettronica sono le mie due passioni da sempre, e il mix è naturale: quando vuoi esprimerti in musica devi mettere in luce tutto te stesso, non solamente una faccia della medaglia. Durante la mia ricerca ho imparato a padroneggiare la loop machine, nello specifico la RC 505 della Roland: ciò non permette una completa libertà nelle progressioni armoniche, perché vince il concetto di ripetizione al posto del concetto di flusso spontaneo. Mi ha concesso però il lusso di sovrapporre strati di suono con il mio sassofono, rendendolo una fonte sonora piuttosto che un puro strumento solista. La loop machine in questione permette anche di aggiungere effetti come per esempio delay, reverberi filtri. Il che rende molto più creativo e vario il risultato finale. Nel mio solo show le percussioni sono pre-registrate in studio percuotendo le chiavi e il corpo del sax. I vari plug in dei software audio (uso Ableton Live) hanno reso il tutto più simile a strane batterie. In “Brain on a Sofa” tutti i suoni sono esclusivamente creati da uno strumento acustico. D: Hai girato il mondo e conosciuto tante persone in tante realtà completamente diverse; hai avuto modo di conoscere il tuo pubblico? Quali messaggi porta la tua musica? R: Con la mia solo perfomance ho viaggiato per ben 2 anni e mezzo quasi senza sosta, facendo delle residenze più che dei tour. Cina, India, Nepal, Mozambico, Senegal, Australia, Sud Africa sono state le mete più battute. Residenze di uno, due addirittura 3 mesi, come per esempio a Kathmandu, dove ho anche insegnato al Conservatorio. Il pubblico varia da Paese a Paese, rendendo il gioco più divertente. Per esempio in India il feedback è istantaneo e la gente è molto curiosa, piena di entusiasmo verso l’arte in generale e verso la sperimentazione in particolare. La “casta” degli artisti è considerata al pari di quella dei medici, in quanto siamo “dottori dello spirito”. In Cina quando suoni sono tutti calmi e tranquilli, al punto da pensare di non piacere… poi te li trovi tutti in fila a fine concerto per fare la foto e l’autografo. Imprevedibili! Durante questi anni ho imparato tantissimo dalle diverse culture ed ho incontrato tanti bravi musicisti con i quali ho collaborato. Da buon appassionato di improvvisazione oltre che con la solo performance mi sono esibito in gruppo con musicisti locali. Alcuni di questi artisti saranno presenti come ospiti nel mio nuovo disco, in uscita entro un anno, Cube Mandala. Il messaggio che cerco di comunicare è anche sociale, parla di accoglienza, di multiculturalità, di musica come linguaggio universale. Il mio intento è quello di far viaggiare virtualmente con me l’ascoltatore. D: Chi ha influenzato maggiormente il tuo percorso musicale? Da dove viene il tuo stile? R: In Conservatorio a Torino ho avuto un Maestro fantastico, Vittorio Muò. Lui ha un’apertura mentale fuori dal comune, mi sono ritrovato ad ascoltare e suonare Bach ma anche Stevie Wonder, a conoscere il jazz come Brian Eno. Mi ha lasciato un segno molto forte, gliene sono grato. Da li è partita la mia ricerca personale, ho avuto anche molti gruppi con cui ho suonato diversi generi, dal Rock di Zappa all’elettronica stile Depeche Mode, dal Jazz più mainstream alla musica yiddish, oltre che la musica classica in orchestra. Poi ho fatto la mia scelta, che ha comunque al suo interno tutte le mie esperienze passate. Negli 11 anni di studio al Coservatorio ho passato 8 anni con Vittorio e 3 anni con Furio di Castri, contrabbassista jazz. In quegli anni ho capito cosa vuol dire l’improvvisazione, e ho ascoltato e studiato i grandi del Jazz. La mia tesi è stata su Massimo Urbani, italiano, sassofonista jazz anche lui, morto precocemente. È lui che mi ha fatto innamorare di questa musica, che parla in maniera sincera all’animo umano attraverso le note. Con il jazz sei crudo, non hai maschere, devi essere onesto ed estremamente competente. Improvvisare è come parlare in pubblico, ci sono delle tecniche che bisogna padroneggiare. D: Cosa vuol dire, per un musicista, fondere l’Africa e il conservatorio? Cos’è, per chi produce musica, la mescolanza dei ritmi, delle tradizioni, degli stili? R: In Africa i musicisti sono per lo più autodidatti, non sono andati a scuola se non nell’Università della strada. Anche Furio di Castri, che mi ha laureato in jazz, è autodidatta entrato ad insegnare per chiara fama. Ecco il ciclo che si chiude: essere laureato da un autodidatta. Lui mi ha insegnato che la strada è personale e bisogna cercarla da soli. L’insegnante deve dare gli strumenti per trovare se stesso. C’è da imparare da tutti, dal grande Maestro d’orchestra al musicista di strada. Il Conservatorio mi ha insegnato la disciplina nello studio, la lettura e la scrittura della musica. Fondere i due approcci, classico e jazz, mi ha fatto migliorare moltissimo. E ho avuto la fortuna di imparare tutto nella stessa struttura. Poi però bisogna liberarsi e andare a cercare, in maniera autonoma, la propria firma stilistica, possibilmente non copiando, ma osservando e rielaborando ciò che più ci attira. Per me l’Africa è perenne fonte di ispirazione. D: È difficile suonare in Italia? Cosa pensi del nostro mercato discografico? Esiste l’“underground”? E, se esiste, cosa lo differenzia dal cosiddetto “mainstream”? R: Suonare in Italia non è difficile, di più. Io personalmente suono molto di più all’estero. È difficile in quanto il costo della vita è alto rispetto alla considerazione che la società ha dell’artista e le effettive possibilità di lavoro. L’Italia è uno dei pochissimi Paesi dove mi chiedono “Che lavoro fai?” e alla risposta “suono il sax” replicano “sì, ma di lavoro?”. I concerti sono sottopagati ed è difficile fare tutto in regola. La qualità dei musicisti italiani è altissima, sono considerati molto bene nel resto del mondo. Anche per questo, oggi come oggi, viaggio molto. Aspettando tempi migliori. L’underground inteso come tessuto di artisti non ancora affermanti è molto ricco. Per mainstream in Italia intendo la Canzone ed i cantanti. Ma personalmente non è un panorama che seguo molto, avendo fatto la scelta di suonare con il sassofono la mia musica originale e non di fare il turnista per l’artista pop. Intervista di Andrea Capuano per la rubrica “Teen Town” la musica di Gianni Denitto <<Chill!>>, <<Rilassati!>> (<<dopo un lungo giorno di lavoro. Metti il tuo cervello a riposare sul divano!>>), così scrive Gianni Denitto della sua “Brain on a Sofa”, il brano che dà il nome al suo ultimo lavoro discografico, uscito nel 2014. E, nel tempo che è passato, in questi ultimi due anni, il sassofonista torinese ha girato il mondo, esportando la sua musica praticamente ovunque (Cina, Australia, India, Senegal, tra le mete degli innumerevoli viaggi). Denitto è un musicista di incredibile impatto, una spugna capace di assorbire le Storie dei diversi angoli del pianeta, quelle piccole e quotidiane (ma dallo straordinario valore universale) e di tramutarle con forza in melodia. I suoi fiati sanno essere acidi e gentili anche all’interno della stessa composizione (come nella splendida “Chromatic Moon”), le sue note gravissime o acutissime. Questo, forse, ci piace molto della musica di Denitto: spesso non si serve di mezze misure. Come i luoghi di estrema povertà e, allo stesso tempo, di estrema bellezza catturati dai suoi occhi cosmopoliti e curiosi (penso alle esperienze africane) , così i suoi brani diventano contenitori di contrasti, lotte, principi di opposizione. Il sassofono è un pennello per immortalare e tenere insieme sofferenze, gioie, visioni estatiche: tutto quello che ha la fortuna di vedere chi decide di conoscere il mondo nella sua interezza (e nelle sue contraddizioni). Altro aspetto fortemente caratterizzante dei brani di Denitto: l’uso massiccio della loop machine. Una loop machine è un device che “cattura” una sequenza suonata dal vivo dal musicista, il quale, grazie a un pedale o ad un pulsante, può metterla “in loop” -in ripetizione- ad libitum e crearsi, così, una vera e propria base musicale sulla quale poi continuare ad eseguire. Lungi dall’utilizzare il loop come mero supporto alla performance, l’artista torinese scherza con l’ascoltatore intrecciando tra loro i motivi, armonizzando con terze e quinte, creando dei mini contrappunti in chiave assolutamente moderna e fresca. La ripetizione diventa strumento di osservazione e di descrizione (ancora una volta), linguaggio versatile che si adatta alla diversità (“Namaste Supermarket”). Gianni Denitto è su Facebook (@giannidenittosax), SoundCloud ed ha anche un bellissimo e ricco sito internet. Godetene tutti. di Andrea Capuano