Alessandro Bosi, Cultura e civiltà nella città surmoderna, in A. Bosi (a cura), Città e Civiltà. Nuove frontiere di
cittadinanza, Franco Angeli, Milano, 2009
Cultura e civiltà nella città surmoderna
Alessandro Bosi
1. Nomadismo e sedentarismo: come cambia la norma sociale
Gli argomenti di questo articolo riguardano i modi con i quali gli uomini del nostro
tempo modificano la loro appartenenza a un territorio nell’arco della vita. Nessuno
dubita che il fenomeno sia antico quanto l’umanità, ma si direbbe che, da qualche tempo,
l’esperienza di nascere in un luogo, crescere in un altro e morire in uno ancora diverso sia
assai più diffusa di quanto accadesse in passato e, soprattutto, abbia assunto caratteri
particolari.
Dobbiamo tuttavia guardarci dal guadagnare conclusioni affrettate.
Se ci riferiamo ai nostri più lontani progenitori è bene ricordare che il loro
nomadismo non si limitava a una sorta di andirivieni tra gli stessi luoghi condizionato dai
ritmi delle stagioni e dalla disponibilità dei prodotti necessari per la sopravvivenza;
quando le esigenze lo imponevano, l’uomo non esitava a spingersi in regioni molto
distanti da quelle dove era nato, come gli archeologi hanno spesso documentato.
Col passaggio dall’epoca in cui raccoglieva il cibo a quella in cui imparò a coltivarlo,
l’uomo si è insediato stabilmente in un territorio sul quale ha cominciato a esercitare il
controllo attraverso la forza, la politica e il diritto al punto da concepire il suo legame con
l’ambiente come un rapporto naturale di reciproca appartenenza.
Per molto tempo, tuttavia, questa condizione non ha introdotto il concetto di
sedentarismo come norma sociale e tantomeno ha elaborato il discredito per il
nomadismo che deriverà dalla pratica di quella norma.
Nel 1964, Jaques Le Goff ci ha messi in guardia dal credere che il medioevo
occidentale fosse “un mondo di sedentari” poiché anzi - scrive lo storico francese - la
mobilità dei singoli era “estrema” e “sconcertante” (Le Goff, 1981: 149) nonostante le
persone trascorressero abitualmente la vita senza allontanarsi dalla propria abitazione,
traendo perlopiù le risorse essenziali dalla circostante foresta.
Come dovremo intendere questa che sembra una palese contraddizione?
Il pellegrino perpetuo del quale ci parla Le Goff non deve essere inteso come il modello
statistico dei comportamenti sociali; è piuttosto il sentimento di un’epoca che avverte il
bisogno di misurare la terra con i passi del viandante, quasi dovesse espiare la colpa di un
legame profano alle cose del mondo. È solo a partire dal XIV secolo che la condizione
dell’errante non è più percepita come “normale”; in una rinnovata gerarchia di valori
sociali, questo riconoscimento spetta ora al sedentario mentre il pellegrinaggio da “atto di
desiderio” si trasforma in “atto di penitenza” (Ib.: 151). La nascente modernità, che
scopre nuovi mondi di là dall’oceano, non si limita a misurare le grandi distanze, ma entra
anche nella dimensione privata dove introduce una nuova logica tra il dentro e il fuori,
nell’individuo e nella collettività, in forza di una norma sociale che stigmatizza gli erranti
come “vagabondi”, “disgraziati” e “maledetti” volendo usare tre aggettivi di Le Goff. Il
dentro come identità culturale, privata e collettiva, si viene dunque formando attraverso la
definizione di un fuori come mondo ostile da contrastare e, ove possibile, annientare.
Il soggetto, che nell’epoca di Copernico aveva perduto la centralità rispetto ai cieli,
non rotola smarrito nell’universo su un frammento di roccia, come aveva temuto la
Chiesa in polemica con Galileo, perché sta prendendo forma un sistema sociale
altrettanto complesso e organico quanto quello che l’aveva preceduto. Tre fattori
concorrono a definirlo:
- la filosofia del cogito che chiarisce all’uomo la sua primazia nei confronti della res
extensa attraverso un’architettura resa successivamente maestosa dall’opera di
Kant;
- lo Stato moderno che disegna un nuovo concetto di cittadinanza il cui profilo
sarà definito dalla rivoluzione francese;
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la Chiesa che alza, contro le eresie, una solida palizzata a difesa della propria
ortodossia con la quale definisce le regole del dover essere.
L’uomo può dunque abbattere le Colonne d’Ercole, dovunque situate nel mondo,
perché ha fortificato il suo regno nell’involucro del cogito e, ben oltre le intenzioni di
Cartesio, lo ha reso indipendente dalla natura così da poter guardare il mondo di là dalla
foresta e confondersi nell’infinito mentre trascorre il tempo della sua vita in quella
medesima casa nella quale, essendovi nato, considera un privilegio il potervi morire.
Questa aspirazione è comune a tutti gli uomini, quale che sia il loro rango. Le Goff
distingue il “tempo rurale” da quello “signorile” e “clericale”, ma il luogo della vita - dalla
culla alla bara - ha come riferimento comune la propria casa situata nella propria terra.
Quando, tre anni dopo Le Goff, Fernand Braudel analizzerà il rapporto fra
capitalismo e società materiale tra il XV e il XVIII secolo e si soffermerà sul rapporto fra
necessario e superfluo nella vita quotidiana, ci fornirà un’ampia descrizione della casa contadina
in Europa. Ne emergono i tratti di una cultura transnazionale che ovunque rivela il
proprio radicamento al suolo nei materiali usati, nella disposizione delle stanze, negli arredi,
negli utensili, nel rapporto col bestiame, che condivideva a volte lo stesso spazio degli
uomini, a volte, spazi adiacenti. In Braudel, gli elementi locali di una medesima cultura
materiale si distinguono fra di loro e si richiamano in una sorta di consonanza con la terra
che, essendo sempre la stessa, muta in ogni dove.
2 L’identità culturale
La norma sociale introdotta dal sedentarismo non è dunque il portato storico
dell’agricoltura, se così fosse, si sarebbe affermata assai prima; ma l’esito di modificazioni
più circostanziate che riguardano lo spazio e il tempo di vita degli individui. Da questo
cambiamento, che puntualmente ritroviamo in ogni passaggio d’epoca, nasce una
religione laica impegnata a rintracciare, nel radicamento al suolo, l’origine della propria
spiritualità e, nel concetto di identità culturale, il fondamento di un pensiero capace di
fornirne una rappresentazione plausibile.
Si afferma così, nei cascami della modernità, la cultura della terra fondata sul legame
indissolubile tra sangue, paesaggio e patria derivato dai miti, dalle religioni e dalla tradizione
che la cultura autoctona avrebbe preservato nella sua autenticità attraverso i tempi grazie
al solido legame col suolo.
In realtà, quando le navi, di ritorno dai lidi più lontani, scaricavano nell’occidente
moderno (contadino e sedentario) ingredienti, prodotti, strumenti, mercanzie, uomini e
donne ridotti in schiavitù, la cultura autoctona non era affatto impegnata a tutelare la
propria identità dall’altrui invadenza, ma piuttosto a incorporare ogni diversità per
arricchirsene; né era messo nel conto che l’incontro con le culture alloctone potesse
avvenire nell’ambito di uno scambio sociale nel quale entrambi i contraenti sarebbero
rimasti modificati. L’identità culturale poteva dirsi ben protetta dal solido riferimento alla
Madre Terra e l’autoctonia sembrava alimentarsi dell’alloctonia (Bosi, 2006) piuttosto che
restarne travisata. Un qualsiasi nuovo elemento che è stato conquistato, viene dunque
omologato nel nuovo sistema culturale che ben presto ne dimentica le origini.
Questo clima cambia con la migrazione di grandi masse dalla campagna alla città.
I contadini abbandonano le case e modificano antichi stili di vita, le risorse essenziali
per la sopravvivenza sono ricercate nell’energia, anziché nella terra, e, col lavoro in
fabbrica, cambiano nuovamente le coordinate spazio-temporali del vivere quotidiano. Il
processo in atto riguarda la sola cultura autoctona, non deriva dallo scontro con
un’alloctonia venuta da lontano, ma in assenza di nemici concreti la religione laica del
radicamento al suolo non esita a evocare alterità fittizie1 per ingaggiare una furente
Nel 1975, Hans Mayer ha ricostruito i meccanismi concettuali attraverso i quali è stato
possibile rappresentare come nemici dell’Occidente l’ebreo, detentore dei capitali che
alimentano lo sviluppo industriale, l’operaio che vive nell’ambiente insalubre e corruttore
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battaglia in difesa dell’identità culturale (Kultur) contro l’invadenza del processo di civilizzazione
(Zivilisation).
Nell’opera di Oswald Spengler del 1918, la “figura simbolica della casa contadina” è
considerata il “grande simbolo dell’esistenza sedentaria” che consiste nell’avere “radici
profonde nel proprio suolo” come “entità” assimilabili alle “piante”. Gli uomini
condividono questa natura con le loro case contadine, ma anche con le città “per cui ogni
evolversi di una superiore lingua delle forme si lega al paesaggio. Né un’arte, né una
religione possono mutare il luogo dove si sono sviluppate” (Spengler, 1978: 775,6).
Spengler si propone di cogliere i “lineamenti di una morfologia della Storia Mondiale” e
indica nella vita sedentaria una sorta di età dell’oro che caratterizza il ciclo di ogni civiltà
dopo il nomadismo delle origini e prima della decadenza. Alla stagione del sedentarismo,
farebbe seguito il cosmopolitismo di cui sarebbe espressione l’intellettuale
“spiritualmente libero come il cacciatore e il pastore”. In questo periodo, la città si
trasforma nella metropoli che diviene, per gli Stati, la politica e la religione, le arti e le
scienze, il “fenomeno elementare dell’esistenza umana” (Ib.: 777) dove si dissolve il
“sentimento di connessione con la terra [mentre] le religioni, le arti e le scienze [le sono]
straniere, incomprensibili per il contadino”. In questa situazione, le “antichissime radici
dell’essere si disseccano fra le masse di pietra” (Ib.: 781).
Nonostante gli avversari di Spengler e del pensiero conservativo, abbiano guardato
senza pregiudizi e apertamente sostenuto il processo di civilizzazione, molti anni dopo la loro
incandescente polemica, il sedentarismo sopravvive nella città industriale, mette le radici
nella cultura della fabbrica e si conferma come la norma sociale che, ponendosi a difesa
dell’identità culturale, alimenta i pregiudizi sullo straniero e perfino li elegge a elemento di
stabilizzazione dei rapporti sociali (Robert E. Park, 1925), come evidenziano studi di
sociologia divenuti classici (Georg Simmel 1998, Alfred Schutz 1979).
Con la seconda metà del XX secolo, la metropoli cosmopolita, vero stilema
dell’occidente, verrà sempre più caratterizzandosi per i comportamenti sociali degli
abitanti improntati a stili di vita opposti al sedentarismo e, nell’ultimo ventennio, l’intero
pianeta è sottoposto alla triplice pressione di ingenti masse animate dalla convergente e
indifferibile esigenza di espatriare. I più sono mossi dallo stato di depressione delle loro
nazioni per il vertiginoso inasprirsi del divario tra paesi ricchi e poveri; altri fuggono per
sottrarsi alla repressione di stati liberticidi e altri ancora vivono l’euforia dell’espressione
alimentata dal processo di globalizzazione.
Nell’occidente postmoderno, il mondo ovunque in marcia oltre i confini segnati dalla
modernità, decreta un cambiamento sociale che incide sui tratti che più sopra abbiamo
indicato come distintivi dell’identitarismo:
il pensiero della soggettività, dopo aver perduto il filo conduttore delle grandi
narrazioni (Lyotard, 1979) sceglie, prima, di essere debole (Vattimo e Rovatti 1983)
correndo il rischio di trasformarsi in una costruzione privata dell’io minimo (Lasch,
1984), per divenire, successivamente, liquido (Bauman, 2000);
oltre i confini della modernità identitaria infatti, lo Stato Moderno, fondato sul
treppiede della sua autonomia economica, militare e culturale, dipende, in ciascuno di
questi aspetti, da istanze mondiali o sopranazionali che ne limitano il potere
(Bauman 2002: 242). Altri autori hanno messo in relazione “i processi di
frammentazione e deistituzionalizzazione” del presente col venir meno della
“coincidenza stato-nazione-società” che aveva caratterizzato la modernità
(Cesareo e Vaccarini, 2006: 16).
della fabbrica e la donna dell’operaio che, avendolo seguito in fabbrica, ha abbandonato la
famiglia e il suo ruolo di angelo del focolare domestico.
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la Chiesa post conciliare si confronta con le diverse confessioni religiose
cercando un comune orizzonte di fede che non presuppone una propria
irremovibile ortodossia.
Nondimeno, il ricorso alla categoria dell’identità culturale per segnare la soglia che
divide il cittadino residente in un territorio dallo straniero continua a caratterizzare il
linguaggio e il modo di pensare nei dibattiti sul muticulturalismo.
3 Città e civiltà
Conviene riprendere, seppure in modo sintetico, le origini di questo dibattito.
A fronte degli imponenti processi migratori di popolazioni che fuggono dalla miseria
e, con la caduta del muro di Berlino, da regimi oppressivi, è entrata nell’uso l’espressione
società multiculturale per indicare le nazioni che accolgono, al proprio interno, popolazioni
provenienti da altri stati.
Il fenomeno è stato così ascritto, nello stesso modo di denominarlo, alle questioni che
riguardano la cultura, mentre, per affrontarne la complessità, è abituale il ricorso al
concetto di integrazione che implica la riduzione del molteplice all’uno.
Così inteso, il multiculturalismo è stato considerato dagli studiosi, e percepito
dall’opinione pubblica, come un problema esogeno per quanto, già nel 1995, Will
Kymlicka, sottolineando come fosse enorme il divario tra il numero di stati indipendenti
(184) in rapporto alle molte comunità linguistiche (600) ed etniche (5000), ne mettesse in
evidenza la natura endogena.
A ben vedere, l’espressione società multiculturale è tautologica poiché nell’aggettivo
dichiara ciò che è già compreso nel nome, dovendo intendersi ogni società, per quanto
semplice e tribale, come la coesione di culture diverse in un insieme; ma non chiederemo
al linguaggio corrente, che è sempre materia viva e dunque incoerente, anche quando sia
‘dotto’, il rigoroso rispetto della logica.
È piuttosto necessario riflettere sulle ragioni per cui, dovendo descrivere il mutamento
sociale conseguente agli spostamenti della popolazione, si ricorre, nella stessa
denominazione del processo, alla nozione di cultura.
Lo stesso Kymlicka fornisce una possibile risposta al problema costatando la tendenza
della “maggior parte dei commentatori politici occidentali” a uniformare la condizione
degli stati moderni al modello idealizzato dell’antica polis greca dove i cittadini
“condividono una stessa discendenza, una stessa lingua e una stessa cultura” (Kymlicka,
1999: 8); inoltre, anche la “cultura industrializzata della vita sociale” (Ib: 34-35)
costituisce per le società moderne un elemento di uniformità che nasconde il molteplice
ai nostri occhi. Per evitare ogni equivoco, Kymlicka suggerisce il ricorso all’espressione
società multietnica (Cfr. Cesareo 2002, Bosi 2007).
Questo espediente, tuttavia, non ci libera dagli errori d’interpretazione del processo
che consistono nell’aver scambiato il molteplice con l’uniforme e nell’aver colto il complesso
attraverso il ricorso al semplice. Da questa lettura consegue che il tratto multiculturale
(endogeno) delle società è dissimulato e che la diversità culturale è riconosciuta soltanto
come effetto delle migrazioni. La cultura è dunque considerata il contenitore nel quale si
deposita sia l’identità culturale precedente ai processi migratori sia lo scambio sociale a
essi conseguente. Non è un caso se il dibattito sulla società multiculturale è largamente
condizionato da una contrapposizione intorno al concetto d’identità culturale per
affermare, a seconda dei diversi punti di vista, che i processi migratori rischiano
d’indebolirlo o, al contrario, che possono corroborarlo attraverso l’incontro con culture
diverse (meticciato culturale). In breve: quale che sia la denominazione che si assegna alle
nostre società, la costellazione concettuale cui si fa ricorso per spiegare il cambiamento in
atto ha come riferimento privilegiato la nozione di cultura.
Ma possiamo sostenere che processi sociali nati nella postmodernità, possano
intervenire su una materia che è propria della modernità come l’identità culturale dei
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singoli paesi? È credibile che identità culturale e scambio sociale siano nozioni riferibili
univocamente al sistema culturale?
Per cogliere il molteplice nell’uniforme e il complesso nel semplice occorre tornare alla classica
distinzione tra cultura e civiltà, ma evitando per quanto possibile la polarizzazione che
caratterizzò i dibattiti del passato 2.
In un’esposizione necessariamente sintetica, possiamo azzardare che cultura e civiltà
abbiano funzioni e date di nascita distinte.
La cultura, antica quanto l’uomo, anticipa l’avvento della civiltà.
L’umanità non avrebbe potuto attraversare una storia millenaria se non avesse saputo
esercitare tre funzioni primarie:
il produrre beni materiali e immateriali per garantirsi la sopravvivenza;
il riprodursi per avere un progetto di vita individuale e collettivo oltre l’esistenza
del singolo individuo;
il trasmettere la propria cultura per consentire ai piccoli di crescere e ai vecchi,
con l’aiuto dei giovani, di condurre a termine la loro vita.
Queste funzioni primarie sono state originariamente svolte attraverso tre diversità
essenziali: nella produzione, col lavoro manuale e intellettuale, nella riproduzione
attraverso i generi maschile e femminile e nella trasmissione generazionale grazie alle
relazioni parentali tra genitori e figli e, più in generale, tra adulti e giovani. Il fatto che
ogni soggetto qui richiamato (il lavoratore del braccio e quello della mente, la donna e
l’uomo, l’adulto e il giovane) sia portatore di una propria cultura, è, per noi che viviamo
nelle società democratiche del XXI secolo, un dato scontato. Ma non è così ovunque nel
mondo; né lo è stato per noi in passato (Bosi, 2008). Le tre diversità essenziali sono alla
base di ogni società, ma solo attraverso il riconoscimento di ciascuna delle loro distinte
culture è possibile considerare i singoli componenti come soggetti di diritto.
Naturalmente abbiamo esperienza anche di molti altri viventi che possono vantare le
medesime attitudini qui attribuite all’uomo. Ma diversamente dagli animali che si
costruiscono un nido, un ponte o una diga, dirigendo il loro interesse unicamente
all’oggetto da realizzare, l’uomo dedica un’attenzione non minore agli strumenti che usa,
al modo d’impiegarli, ai materiali utilizzati, alla loro forma e colore. La conseguenza è che
l’oggetto della sua attività cambia di continuo adeguandosi ai bisogni, alla spiritualità e al
senso estetico delle diverse culture nelle quali viene utilizzato. Non bastasse, gli oggetti
prodotti retroagiscono sull’uomo modificandolo a loro volta nei bisogni, nella spiritualità,
nell’estetica, ma anche nell’abilità di usarli e produrli.
Tutti i viventi sono insomma capaci di produrre il necessario per sopravvivere, ma
solo l’uomo sa farlo realizzando manufatti e, da molte migliaia di anni, è proprio a questa
abilità che ricorre per garantirsi la sopravvivenza.
Se ci riferiamo a questa specifica attitudine dell’uomo, non possiamo usare il concetto
di cultura, ma dovremo introdurre quello di civiltà.
È appunto attraverso la civiltà che l’uomo modifica l’ambiente in cui vive rendendo
sempre più complesse le relazioni fra i soggetti delle culture originarie rappresentate nelle
tre diversità essenziali.
La civiltà è dunque nel movimento stesso delle cose, nel divenire incessante del tempo
che trascorre, nell’effervescenza del presente. Per questo stretto legame con l’evento, la
civiltà può essere considerata eventuale se confrontata alla monumentalità della cultura.
Ma la cultura - si potrebbe obiettare - non è un sistema statico, come dimostra il fatto
che, nella storia, abbiamo assistito alla nascita e al tramonto di molte subculture. Questa
obiezione coglie nel segno e del resto è opportuno che lo stesso dinamismo attribuito alla
civiltà sia mitigato, in quanto siamo soliti parlare di civiltà millenarie.
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Ho prospettato altrove (Bosi 2007, 2008)la distinzione tra cultura e civiltà che qui richiamo.
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Fatto è che cultura e civiltà non si dispongono agli estremi di un asse i cui poli sono
costituiti dalla statica e dalla dinamica sociale, ma in questo sistema occupano posizioni
intermedie e contigue come suggerisce il grafico seguente
persistenza
trasformazione
Cultura
Civiltà
La monumentalità della cultura consiste nel fatto che essa è la sede dei valori, della
tradizione, della letteratura che non consideriamo immobili, ma che certo percepiamo e
viviamo come persistenze. I manufatti, al contrario, sono fruibili e deperibili. Nella nostra
epoca poi, questo dinamismo è accentuato e a sua volta incrementa la percezione diffusa
che il sistema culturale sia meno solido di quanto non fosse in passato mentre costatiamo
che le diverse forme espressive di cui è ricco il presente non si depositano in una
letteratura che possa considerarsi il diario nel quale un popolo racconta la propria storia.
Dovremo quindi concludere che anche la cultura si è messa a correre in fretta mentre
in passato stava ferma o procedeva lentamente?
Non si tratta di misurare la velocità con cui cultura e civiltà si modificano, ma di
rilevare che ogni giorno chiediamo alla civiltà di correre in fretta e siamo pronti a dire che
è in crisi se non tiene il passo dei tempi; della cultura, diciamo invece che è in crisi quando i
cambiamenti avvengono in modo così repentino da sottrarci i riferimenti identitari cui
siamo abituati.
Con questo si conferma che, nel nostro modo di pensare, la cultura è il sistema al
quale affidiamo ciò che riteniamo dovrebbe essere conservato e in essa cerchiamo i tratti
di persistenza della nostra storia collettiva; la civiltà invece si presenta come un processo
dinamico intrecciato alla tecnica di cui disponiamo e ai comportamenti cui facciamo
ricorso per usare i manufatti e perfino quel nuovo manufatto che definiamo intelligenza
artificiale.
Questa linea interpretativa non cambierebbe se concepissimo cultura e civiltà, anziché
in modo sostantivo, come forme diverse per registrare tutto ciò di cui abbiamo
conoscenza.
Con buona approssimazione, possiamo dire che nel registro della cultura troviamo i
nomi e le definizioni relativi a ciò di cui abbiamo conoscenza. Nel registro della civiltà
collochiamo invece la descrizione dell’uso che viene fatto di ciò che conosciamo.
I nomi e le definizioni si assegnano per sempre sia agli uomini, sia alle cose, pur sapendo
che potrebbero deperire, uscire dall’uso ed essere cambiati. Nondimeno, assegnare un
nome è un fatto socialmente impegnativo e quando riguarda le persone, in tutte le
culture, corrisponde a cerimonie e adempimenti formali relativi ai linguaggi, agli stili di
vita, alle regole istituzionali. Ma anche il nome di un oggetto non è mai un fatto
irrilevante. Quando venga introdotto, può riguardare le procedure che regolano i brevetti,
modificherà alcuni archivi adibiti allo stoccaggio, entrerà a far parte di un dizionario. Lo
stesso vale per la definizione. Il suo compito è di delimitare e garantire stabilità a un
concetto evidenziandone le proprietà particolari non rinvenibili in altri concetti. Il lavoro
del definire consiste nel disegnare i confini necessari e sufficienti per esprimere un’idea:
essi non devono essere troppo ampi, per non essere generici, né così stretti da risultare
scarsamente esaustivi (Cfr. Theodor W. Adorno, 1975).
Il registro che raccoglie nomi e definizioni garantisce la persistenza e la memoria, ma non
per questo è estraneo al mutamento. La civiltà è invece il registro del mutamento nel quale
di continuo annotiamo la descrizione di ciò che conosciamo. La civiltà è dunque nel farsi
dell’evento che ancora non conosciamo così da poterlo denominare e definire quando si
sarà trasformato in un esito. Mentre gli esiti cui assegniamo un nome e una definizione
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sono in ogni epoca una quantità definita, i processi da cui derivano sono incalcolabili. Il
registro della cultura, fatti salvi i limiti e gli errori umani, è dunque esauriente; quello della
civiltà non può esserlo.
La contiguità fra i registri della cultura e della civiltà è essenzialmente dovuta al fatto
che definizione e descrizione si implicano reciprocamente così che non potremmo
descrivere alcun nuovo processo senza ricorrere a un insieme di nomi e definizioni di cui
abbiamo dimestichezza e d’altra parte non potremmo pervenire ad alcuna definizione
senza un’accurata descrizione. E poiché tutto ciò che definiamo si sottrae di continuo ai
limiti che gli abbiamo imposto, dobbiamo ricorrere assai spesso a una più aggiornata e
puntuale descrizione così da pervenire alla definizione che meglio corrisponda alla nuova
situazione. I nomi hanno invece una relativa autonomia rispetto a questo vincolo
potendo avere anche origini convenzionali o stravaganti e non soltanto relative al
significato che indicano.
4 La città surmoderna
La contiguità fra i concetti di cultura e civiltà consente di analizzare il processo che
denominiamo multiculturalismo cogliendone l’articolazione in un aspetto funzionale, che
riguarda la civiltà, e in uno comunicativo (Bosi, 2007), propria della cultura.
Nella dimensione dello spazio urbano, dove le persone si muovono, lavorano,
consumano, chiacchierano, delinquono, truffano, predicano, chiedono l’elemosina, dove
ogni giorno si mette in scena l’insieme di quelle azioni sociali che ognuno di noi
contribuisce a realizzare nello stesso teatro dove è anche spettatore, si svolge lo scambio
sociale tra genti di diverse culture ed etnie. Se in filosofia si è ricorso all’idea che la natura
non fa salti per spiegare la costante linearità del suo incessante sviluppo, qui possiamo
ugualmente dire che non vi sono soluzioni di continuità allo scambio sociale. Esso
consiste nell’ininterrotto gioco di pelle tra gli individui che condividono lo stesso spazio e
tra di loro interagiscono mettendo in comune assai più di quanto non siamo abitualmente
disposti ad ammettere.
Sull’incidenza che la prossimità fisica esercita nei confronti della distanza culturale fra le
persone sappiamo ben poco e certamente la dimensione della vita metropolitana, con la
sua tendenza ad accentuare il carattere istantaneo delle relazioni quotidiane, non ci aiuta a
comprendere la rilevanza del problema. Per certo, nell’ordine eventuale della civiltà, la
monumentalità della nostra cultura individuale e collettiva resta quotidianamente
modificata. È in questo luogo, relativo al sentimento della vita individuale e collettiva,
privata e pubblica, che ciascuno di noi ha quotidianamente esperienza della dimensione
multiculturale di ogni società; una dimensione sottostante alla quale perveniamo per il
tramite della civiltà. Se questa poi cambia rapidamente fisionomia, come accade nei nostri
giorni, dovremmo ammettere che il mutamento percepibile riguarda la civiltà. Ma lungi
dal comprendersi in questo dinamismo, le riflessioni sulla società multiculturale spesso
sembrano ancora attardate da una logica di tipo contenitivo che si direbbe impegnata a
frenare il corso di quello stesso fiume del quale essa stessa costituisce l’acqua. Così, i
dibattiti sull’integrazione dello straniero, e le politiche sociali impegnate in questo senso,
riflettono e operano come se si trattasse di un fiume da governare e non di quella stessa
acqua costituita da ogni individuo che vive quotidianamente rapporti d’interazione con
l’ambiente dove incontra altri individui. Questi gli sono prossimi o distanti sia per cultura,
sia per etnia; ma in realtà la reciproca distanza di quanti vivono ogni giorno nello stesso
ambiente si misura in rapporto alle molteplici appartenenze che caratterizzano la vita di
ogni singolo. Così, se consideriamo l’appartenenza all’insieme dei produttori o dei
mendicanti, dei funzionari o degli utenti, dei vecchi o dei giovani ci accorgiamo che la
prossimità e la distanza per cultura ed etnia non sono affatto criteri assoluti, ma devono
essere incrociati con altri aspetti non meno rilevanti nella vita d’ognuno (Bosi, 1998,
2002).
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La contrapposizione tra il fiume e l’acqua che in essa scorre è simmetrica a quella tra la
monumentalità della cultura e l’eventualità della civiltà ed entrambe, quando siano colte
come polarità, derivano dalla opposizione Noi-Loro.
La società multiculturale non è concepita come il presente nel quale gli individui sono
l’acqua che sta scorrendo nel fiume, ma come l’acqua che è sempre stata nelle epoche
passate. Alcuni vorrebbero che il fiume, nel quale si è riversata un’acqua di colore diverso
da com’era in passato, conservasse la tinta originaria attraverso l’adeguamento a essa dei
nuovi venuti, altri auspicano una generale ricoloritura. In ogni caso, il presupposto è che
esista un fiume come proprietà del luogo (l’identità culturale) cui l’acqua deve adeguarsi.
In realtà nessun fiume potrebbe dirsi tale se mancasse l’acqua e l’identità culturale
costruita su un fiume secco sarebbe davvero povera cosa.
Se, in un’epoca nella quale l’acqua tracima dal fiume per riversarsi in ogni catino senza
corrispondere ad alcun precostituito principio ordinatore, ancora si ritiene opportuno
discutere di fiumi e di identità culturale, è perché la modernità non è affatto transitata
nella postmodernità, ma segna il passo sui suoi stessi confini come una grottesca
surmodernità. Uso questo termine, che in italiano è stato adottato per tradurre il francese
surmodernité introdotto da Marc Augé nel 1986, per analogia con surrealismo che nell’arte e
nella letteratura indica una visione deformata e favolistica della realtà. Ricorrendo al
termine surmodernité, Augé intende segnare la distanza dalla modernità baudleriana nella
quale si affermavano categorie di soggetto, spazio e tempo assai diverse da quelle che
caratterizzano il presente. Col termine surmodernità intendo sottolineare come proprio le
categorie indicate da Augé sopravvivono nel loro aspetto moderno in un mondo che non
è più il loro e dal quale restano deformate. La città surmoderna concepisce un soggetto
che vive relazioni spazio temporali in un universo tayloristico dove il lavoro, le istituzioni
e i modi in cui è organizzata la vita quotidiana corrispondono a criteri moderni quando
da mezzo secolo ormai si è celebrata la nascita della postmodernità.
La difesa del fiume e della sua identità culturale quando l’acqua scorre libera nei campi
è indizio di un ritardo nella comprensione del dinamismo che anima le popolazioni in
un’epoca che nessuno potrebbe considerare sedentaria; di conseguenza, interpretare gli
scambi sociali che avvengono nella dimensione della civiltà come questioni relative
all’ordine della cultura è alla base di un fraintendimento del presente che il multiculturalismo
evidenzia a partire dal nome.
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