Recensione: Le Baccanti Siracusa,12 maggio 2012- Magia e fascino: queste le parole che meglio concorrono a descrivere l’atmosfera che Euripide è in grado di donare al pubblico mediante l’ultima sua tragedia, Le Baccanti. A distanza di secoli e secoli,nella splendida cornice del Teatro greco di Siracusa,tale capolavoro è stato riportato in scena dal regista Antonio Calenda che si è avvalso della traduzione testuale del grecista Giorgio Ieranò, capace di ricostruire magistralmente la sensibilità euripidea. La sacralità silente del colle Temenite si sposa perfettamente con l’ambientazione montana che fa da sfondo alla città di Tebe,ove vige il potere del giovane Penteo,che vediamo esser rappresentato nei panni di avvenente giovane. Il rilievo del Citerone,luogo preferito dalle Baccanti per i loro riti dionisiaci, viene riprodotto mediante una struttura lignea di forma ellittica che digrada verso l’alto,quasi a voler simboleggiare l’elevazione spirituale raggiunta dalle discepole della divinità. Dioniso,interpretato da Maurizio Donadoni,apre la tragedia presentandosi su un baldacchino mobile assai sontuoso e imponente. Contrariamente alla descrizione offerta dal drammaturgo,che dipinge il dio di una bellezza travolgente e al contempo fanciullesca, il personaggio voluto da Calenda risponde alla necessità di esaltarne unicamente il fascino dell’arte persuasiva, intrisa di mistero,piuttosto che l’androginia delle forme. Le donne barbare che rendono onore al culto e dunque compongono il coro,invece,sono incarnate in maniera adeguata da una nutrita ed etnicamente variegata schiera di danzatrici,capaci di rendere la ferinità e la follia delle adepte al nume con movimenti sinuosi e terribilmente convulsi,forse talvolta pervasi di eccessivo erotismo. La trama della tragedia è sostanzialmente rispettata nella sua integrità,anche se si ha l’impressione di un voler privilegiare in maniera non troppo oculata la componente ballettistica dell’opera,che certo la rende più accattivante e moderna,ma ne svilisce il substrato classico. D’altra parte sfugge allo spettatore che precedentemente si sia accostato al testo autentico l’ambiguità che connota la divinità,il suo essere così enigmatico e inafferrabile rispetto alla razionalità di Penteo,che invece appare caratterizzato dalla medesima sicumera del suo “doppio” letterario. Proprio per questa motivazione sono convincenti gli scambi dialogici tra il sovrano tebano e i due anziani Tiresia e Cadmo,quanto mai comici nelle loro vesti di Baccanti. L’opposizione tra la caparbietà senile e la superbia di Penteo produce non solo uno scontro generazionale,bensì una reale contrapposizione tra atteggiamenti assolutamente dicotomici e inconciliabili,nei fatti errati nella stessa misura. In uno svolgersi dinamico e in ogni caso assai emozionante della rappresentazione, spicca inaspettatamente la forza espressiva dei messaggeri,che conferiscono alla tragedia un vivo realismo descrittivo,utilizzando immagini crude e nitide,il cui acme viene raggiunto con la comparsa in scena di Agave, forse il personaggio più tragico dell’intero spettacolo. Quest’ultima,intrisi la veste e le mani di sangue, sembra racchiudere in sé la quintessenza dell’insania bacchica grazie ad una profonda immedesimazione e aderenza al personaggio. Se dunque la doppiezza di Dioniso, comunque interpretato con perizia ed elevata capacità,si configura come pallido retaggio euripideo,in sostanza impercettibile, ugualmente il dramma riesce a coinvolgere e ad affascinare,riportando in vita per qualche ora la magia del teatro antico,il quale senza ombra di dubbio mantiene e per sempre manterrà la propria unicità.