L`acquisto immobiliare - Studio notarile Busani Milano

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PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
© 2012 Wolters Kluwer Italia S.r.l Strada I, Palazzo F6 - 20090 Milanofiori Assago (MI)
ISBN: 97888217xxxxx
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L’elaborazione dei testi è curata con scrupolosa attenzione, l’editore declina tuttavia ogni responsabilità
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ISBN: 9788821751950
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Gli Speciali
Immobili & proprietà
Comprar casa
al tempo della crisi
di Mariagrazia Monegat - Avvocato in Milano
I dati statistici rivelano che il 65% degli italiani ha
una proprietà immobiliare, il risultato conferma che
l’investimento in immobili pare essere da sempre
quello preferito nel nostro Paese: “il mattone” per
molto tempo è parso il bene più sicuro. Da qualche
anno a questa parte, però, il mercato immobiliare
ristagna e gli immobili non appaiono più come un
bene rifugio. Vi è una massiccia offerta ma la domanda è ferma mentre le aste conseguenti alle esecuzioni vanno deserte. Il possesso di immobili è divenuto gravoso sotto il profilo fiscale e la loro redditività non è più interessante.
Pur tuttavia l’acquisto della casa rimane un momento importante per molti soggetti, privati e istituzionali, sia che si tratti dell’abitazione principale
o della casa di vacanza, sia che concerna
l’immobile destinato allo svolgimento dell’attività
professionale o imprenditoriale.
La compravendita di un immobile va però condotta
sempre con cautela ricorrendo all’ausilio di seri e
competenti professionisti perché numerose sono le
regole da conoscere sia per evitare di incorrere in
spiacevoli sorprese sia per utilizzare al meglio le
diverse forme contrattuali e le agevolazioni fiscali.
A maggior ragione in periodi di difficoltà finanziarie come l’attuale è indispensabile prestare la massima attenzione sin dalle prime fasi delle trattative:
tali e tante sono le questioni che possono insorgere
in relazione alla contrattazione immobiliare che è
essenziale un approccio professionale.
Con questo “Speciale” Immobili & Proprietà offre
ai propri lettori una panoramica degli aspetti giuridici e fiscali inerenti la compravendita immobiliare.
Gli Autori esaminano ogni aspetto della negoziazione immobiliare a partire dalla individuazione
dell’oggetto del contratto, l’immobile con le sue caratteristiche tecniche talvolta sottostimate. La corretta individuazione del bene oggetto del contratto,
sotto il profilo urbanistico e catastale oltre che la
Immobili & proprietà 2015
sua conformità anche in riferimento agli impianti di
cui è dotato, assume una rilevante importanza, ben
superiore a quella relativa agli aspetti estetici e logistici: una bella casa in un bel quartiere non è un
grande affare se è dotata di impianti non a norma o
se la sua categoria catastale è sbagliata.
Diverse e particolari sono le problematiche che riguardano l’acquisto di immobili di nuova costruzione, rispetto al patrimonio immobiliare esistente,
eventualmente da ristrutturare. Di recente, infatti,
sono cambiate le regole per l’esecuzione dei lavori
di ristrutturazione per i quali non sono più necessarie particolari autorizzazioni: per interventi di manutenzione straordinaria finalizzati a rinnovare e
sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienicosanitari e tecnologici, ivi compresa l’apertura di
porte interne o lo spostamento di pareti interne,
sempre che non riguardino le parti strutturali
dell’edificio, l’interessato si limita a trasmettere
all’amministrazione comunale la comunicazione di
inizio dei lavori (CIL) asseverata da un tecnico abilitato, il quale attesterà, sotto la propria responsabilità, che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti. La
comunicazione dovrà anche riportare i dati identificativi dell’impresa incaricata di eseguire i lavori.
Questa semplificazione suggerisce l’acquisto di
immobili già esistenti nella prospettiva di una più
agevole modificazione della loro consistenza.
Gli aspetti giuridici inerenti il contratto sono altrettanto rilevanti giacché la compravendita immobiliare è caratterizzata da una negoziazione articolata in
più fasi, dalla proposta al contratto definitivo che
trasferisce il diritto reale, l’intero iter dà luogo ad
una serie di accordi a formazione progressiva, conseguentemente i diversi momenti implicano
l’assunzione di obblighi differenziati. Nella proposta irrevocabile, nel preliminare del preliminare e
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Gli Speciali
Immobili & proprietà
nel contratto definitivo diverse e particolari sono le
obbligazione che le parti assumono e i diritti che ne
conseguono.
Particolare attenzione è riservata anche ai momenti
patologici, sia in relazione al bene oggetto di compravendita, sia in riferimento all’inadempimento
delle obbligazioni assunte da parte del venditore o
del compratore. Sono esaminati ed illustrati i rimedi
pattizi e le soluzioni offerte dalla giurisprudenza.
Inoltre, sono evidenziate le particolari e nuove fattispecie negoziali che caratterizzano il momento attuale: come il “rent to buy”, una soluzione preparatoria alla compravendita che consente di entrate subito nell’immobile scelto dapprima in locazione
(rent) e poi in proprietà (buy), al termine del percorso previsto in cui è previsto un canone, pattuito
in misura maggiore rispetto al normale valore di
mercato, che viene imputato in parte al corrispettivo del prezzo di vendita ed in parte alla locazione,
così che al termine della durata del programma, al
momento del rogito, all’acquirente resterà da saldare il restante prezzo accedendo ad un mutuo che
avrà liberamente scelto.
Proprio in un momento come l’attuale caratterizzato da una stagnazione economica e da difficoltà finanziarie può essere interessante alienare la nuda
proprietà riservandosi l’usufrutto o l’uso abitazione: soluzioni che vengono incontro alle esigenze di
Immobili & proprietà 2015
chi necessità di liquidità e a chi intende solo investire, ma che comportano un’alea in termini di durata nonché oneri in relazione alle novità in materia
di obbligazioni condominiali.
Numerosi e di gran rilievo sono gli aspetti fiscali
connessi alla compravendita immobiliare ai quali è
dedicata una trattazione puntuale ed esaustiva. In
particolare, sono esaminate le recenti novità a partire dal decreto “Sblocca Italia” (D.L. n. 133/2014,
entrato in vigore il 12 novembre 2014) che ha introdotto numerose misure concrete e positive per
agevolare il mercato immobiliare, per finire con
l’ultima manovra governativa (legge di stabilità, in
corso di approvazione) in tema di IMU prima casa.
L’acquisto di immobili da parte di persone fisiche
che non esercitano attività commerciali consente
una nuova deduzione dal reddito complessivo Irpef
quando l’oggetto dell’acquisto è un’unità immobiliare residenziale da destinare alla locazione. Da ultimo, vi è la proposta di legge di esentare la prima
casa dal pagamento dell’IMU.
Conoscere le novità normative, le prassi e gli orientamenti giurisprudenziali agevola senza dubbio lo
svolgimento delle contrattazioni e fornisce un valido aiuto ai professionisti del settore e a chiunque si
appresti a definire un acquisto o una vendita immobiliare.
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Gli Speciali
Immobili & proprietà
L’acquisto immobiliare oggi:
inquadramento istituzionale
di Antonio Testa - Notaio in Monza
Una breve digressione critica sul moderno inquadramento del contratto di compravendita immobiliare negli
aspetti peculiari dell’attività notarile alla quale, di necessità, si accompagna la considerazione degli effetti
del contratto preliminare e della più recente rivisitazione giurisprudenziale della sequenza preliminaredefinitivo alla luce dell’ammessa legittimità della conclusione di una doppia fase preparatoria.
Il contratto di compravendita
L’impegno a scrivere un inquadramento istituzionale del contratto di compravendita dovrebbe condurre ad una serie di valutazioni talmente sterminate,
da impedire una seria trattazione che, giocoforza,
debba concludersi in poche pagine, utili ad una lettura immediata da parte dell’utenza. A ciò si aggiunga che il gravoso compito giammai potrebbe
essere validamente ed efficacemente adempiuto, al
cospetto di una dottrina accademica che ha scritto
fiumi di inchiostro sulla fattispecie, senza, per ciò
stesso che, nonostante la capacità degli Autori, tutti
i dubbi e le incertezze sul tema possano considerarsi del tutto fugati e superati.
L’umile tentativo che qui ci si propone, allora, per
ragioni di spazio e di tempi a disposizione, anche in
considerazione della funzionalità di quanto appresso elaborato, ad una lettura immediata che ponga in
risalto i passaggi più importanti e rilevanti, soprattutto nel contesto dell’attività notarile, sarà quello
di individuare gli elementi essenziali del contratto
in generale, rinvenibili nei requisiti per esso richiesti dall’art. 1325 c.c., tentandone una coerente lettura con le caratteristiche tipiche del contratto di
compravendita immobiliare nella sua evoluzione
più moderna.
Sicuramente, infatti, il punto dal quale prendere le
mosse, è quello di individuare immediatamente nella compravendita l’essenza più tipica del contratto.
Quando si pensa istintivamente ad un accordo con
il quale, almeno due parti, intendano costituire,
modificare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale, non può farsi a meno di recuperare alla
Immobili & proprietà 2015
mente anzitutto il contratto di compravendita, ovvero quell’accordo, destinato a sortire effetti su rapporti giuridici patrimoniali, con il quale un soggetto
dispone, a favore di altri, di un diritto appartenentesi alla propria sfera patrimoniale, in cambio di un
corrispettivo, rappresentato sempre da un prezzo, e
cioè da una prestazione pecuniaria.
È fin troppo evidente come la vendita non possa
prescindere da un rapporto negoziale che sia almeno bilaterale. Lo scambio di prestazioni che essa
genera, infatti, preclude la possibilità di una assumibile unilateralità in quanto il contratto di compravendita può essere individuato solo in presenza
di una prestazione, avente ad oggetto la dismissione
di un diritto, e di una controprestazione in denaro.
Se tali elementi fossero in teoria imputabili ad una
medesima parte, essi stessi perderebbero il naturale
significato giuridico derivante dall’inquadramento
di questi obblighi negoziali nell’ambito del concetto di “prestazione” e di “controprestazione”. Si
consideri, per inciso, quanto tale elemento assuma
una sua essenziale consistenza anche in relazione
alla fattispecie della rappresentanza volontaria ove,
pur in presenza della duplicazione del concetto di
parte in capo ad un medesimo centro di interessi
(parte in senso formale e parte in senso sostanziale), l’Ordinamento esclude la possibilità, salvo eccezioni, fino a condurre all’annullamento contrattuale, che l’accordo che il rappresentante debba
concludere, possa essere concluso con se stesso, in
proprio, o come rappresentante di altra parte.
In altri termini, la duplicazione delle sfere giuridico-patrimoniali, essendo interconnessa allo scambio che naturalmente caratterizza la compravendita,
diventa il primo elemento del tutto imprescindibile
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Gli Speciali
Immobili & proprietà
attraverso il quale è rinvenibile nella compravendita
l’esistenza di quel primo e più essenziale requisito
contrattuale che è costituito dall’accordo nel quale
è insita la bilateralità che caratterizza necessariamente la fattispecie.
In seconda battuta, tale accordo non è privo di una
sua specifica caratterizzazione, senza la quale non è
possibile accedere alla fattispecie “compravendita”.
L’accordo funzionale al perfezionamento della
compravendita consiste, infatti, nella contemporanea estinzione e costituzione di un rapporto giuridico patrimoniale. Sotto tale aspetto deve dirsi che la
compravendita rientra senz’altro tra i contratti di
alienazione funzionali a realizzare uno scambio di
beni o, più in generale, di prestazioni.
Assodato, a questo punto, come la compravendita
rientri tra i contratti, costituendo, anzi, il più importante tra i contratti, a misura della propria funzione
economica e del proprio valore paradigmatico
all’interno della teoria generale del contratto, e
spiegata la necessaria immanenza, a tale fattispecie,
del requisito primario del contratto, costituito
dall’accordo delle parti, è opportuno verificare come si atteggino, con riferimento più specifico al
negozio di compravendita immobiliare, gli altri
elementi presupposti, ovvero la causa, l’oggetto e la
forma.
Quanto alla causa, premessa l’acquisita distinzione
scolastica, tra il concetto di “causa” e quello del
“motivo”, è innegabile come, sia in dottrina, che in
giurisprudenza, sia stata definitivamente imboccata
la strada di far rilevare la causa in concreto, ravvisando in essa, non più la funzione economicosociale che il contratto è idoneo a produrre obbiettivamente ed in astratto, quanto, piuttosto, la funzione pratica che le parti concretamente perseguono
mediante il tipo di accordo contrattuale che esse intendono perfezionare. Questo, sia beninteso, non
determina un errato ed erroneo affastellamento tra
il concetto di “causa” e quello, ben diverso, del
“motivo”. Se, infatti, il “motivo” è costituito
dall’interesse particolaristico che ciascuna parte intende perseguire e soddisfare mediante il congegno
contrattuale posto in essere, la “causa” continua a
chiamarsi estranea agli interessi specifici di ciascuna parte e agli scopi “privatistici” che esse intendono raggiungere, ma, d’altro canto, non rappresenta
più un fenomeno generalizzato ed astratto, appartenentesi alla sola teoria generale del diritto. Oggi la
“causa contrattuale” si attaglia specificamente al
singolo tipo di contratto che venga perfezionato,
indicando la funzione pratica che la singola fattiImmobili & proprietà 2015
specie è in grado di soddisfare in concreto.
Sicché, nel contratto di compravendita immobiliare,
la “causa” è rinvenibile nella corrispettività e nella
coerenza economica delle prestazioni reciproche.
Tanto che, come è ormai assodato, vi sono ipotesi
in cui, l’eventuale mancanza di una congrua corrispettività, genera un’alterazione della causa, modificandone i termini puri ed originari e comportando
un inquadramento causale, appunto, non più rispondente al singolo tipico contratto (come avviene, ad esempio, nel caso di una vendita il cui corrispettivo è rappresentato da una prestazione pecuniaria molto più bassa del valore effettivo del bene
ceduto, che dà luogo al negotium mixtum cum donatione).
Alla luce di queste considerazioni deve affermarsi
che l’acquisto immobiliare è retto da una causa
concreta che consiste nella funzione pratica di sostituire, nel contesto di una determinata sfera patrimoniale (quella del venditore), l’esistenza di un bene immobile, con l’introduzione di un valore monetario che soddisfi il venditore alienante il bene e,
d’altro canto, nel contesto della sfera patrimoniale
dell’acquirente, determini la fuoriuscita di un ammontare pecuniario in funzione della sua sostituzione con il bene immobile acquistato. Tutto ciò, si
intende, nulla ha a che vedere, con le specifiche ragioni che abbiano indotto, rispettivamente, il venditore a disfarsi del bene immobile alienato, e
l’acquirente ad acquistarlo; il che fuoriesce dal
concetto di “causa”, determinando esclusivamente
la definizione del diverso concetto dei “motivi” che
inducono le parti al perfezionamento del contratto
di compravendita immobiliare. Mentre, la causa,
pur nella sua nuova “concreta” accezione attribuita
da dottrina e giurisprudenza più da recente, continua a rappresentare la funzione pratica astrattamente collegata a ciascuna attività negoziale, disegnando le conseguenze che da essa derivano sul campo
giuridico e patrimoniale delle sfere personali coinvolte.
In relazione all’oggetto, non può negarsi come tale,
apparentemente univoco, concetto, venga spesso
istintivamente fatto coincidere con il bene oggetto
dell’operazione economica. Quindi il contratto di
compravendita immobiliare avrebbe per oggetto il
bene che determina la traslazione, dal soggetto
venditore, a quello acquirente.
Invero costituisce oggetto immediato del contratto,
non il bene (rectius: il diritto) oggetto di negoziazione, ma l’operazione economica voluta dalle parti
con il contratto di vendita immobiliare, consistente
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Gli Speciali
Immobili & proprietà
nella traslazione del diritto di proprietà, o di altro
diritto reale, (su un bene). In tal senso, usualmente,
si è cercato di distinguere l’oggetto immediato del
contratto, da quello mediato, quest’ultimo essendo
costituito dal bene (ovvero dal diritto) sul quale si
estrinseca l’operazione economica traslativa posta
in essere. Con l’ovvia conseguenza che i requisiti
che l’art. 1346 c.c. richiede per l’oggetto, ovvero: la
possibilità, la liceità, la determinatezza o la determinabilità, salvaguardano la validità del contratto
di compravendita immobiliare, non solo a patto che
il bene immobile oggetto (mediato) del contratto,
sia possibile in senso materiale e giuridico (ad
esempio non è possibile che oggetto del contratto
sia un bene immobile appartenente al demanio dello Stato), lecito (in quanto il bene immobile oggetto
del contratto costituisca un bene pienamente commerciabile), determinato o determinabile (in quanto
il bene immobile sia perfettamente descritto nella
sua effettiva essenza o, essendo costituito da un bene futuro, sia stato definito con quei criteri minimi
di determinazione che possano renderlo comunque
individuabile al momento della sua venuta ad esistenza), occorrendo che identiche caratterizzazioni
di possibilità, liceità, determinatezza o determinabilità, assuma anche l’operazione economicogiuridica che le parti hanno programmato attraverso
la manifestazione volontaristica contrattuale che esse intendono perfezionare.
Sicché deve concludersi, sempre con specifico riferimento alla contrattazione immobiliare che anche
il contenuto del contratto debba essere possibile, lecito, determinato o determinabile. È possibile chiedersi, a tal riguardo, in che modo una compravendita immobiliare, il cui contenuto sostanziale coincida con la traslazione di un bene immobile dal patrimonio di un soggetto, al patrimonio di altro soggetto, dietro pagamento di un corrispettivo, determinando l’esplicazione concreta della stessa causa
contrattuale, possa poi realizzare una fattispecie
non rispettosa dei criteri anzidetti.
A tal fine occorre distinguere l’elemento causale
estrinsecantesi in una determinata operazione che
astrattamente giustifica la funzione per la quale un
certo contratto viene posto in essere, con l’effettiva
operazione che le parti intendono in concreto esplicare attraverso l’accordo contrattuale. Così, se la
compravendita immobiliare svolge la sua funzione
economica pratica nella modificazione degli elementi patrimoniali della sfera giuridica di una parte
e di quella dell’altra e se, sotto questo profilo,
l’operazione è giuridicamente valida in quanto soImmobili & proprietà 2015
stenuta da una causa del tutto rispondente agli interessi delle parti legittimamente tutelabili, altrettanto
non può dirsi allorché quell’elemento causale desse
luogo, nel concreto, ad un’operazione economica
che, ad esempio, contempli il trasferimento di un
immobile urbanisticamente abusivo. Il che, come è
ovvio, determinerebbe il venir meno, sia del requisito della possibilità, che di quello della liceità.
Analogamente, non è realizzabile una struttura
convenzionale di compravendita immobiliare in assenza di un’operazione economica di traslazione di
diritti reali, dalla sfera giuridica di un soggetto, a
quella di altro soggetto, che non sia esattamente determinata (o quanto meno) determinabile nella sua
effettiva essenza. Non bisogna dimenticare, a tal riguardo, come la determinazione dell’oggetto (tale
intendendosi quanto sopra chiarito), costituisce
elemento che, in generale, è direttamente ed indirettamente rilevante anche con riferimento agli effetti
del contratto.
Nell’ambito della compravendita con intervento notarile, quindi, è essenziale che il notaio presti particolare attenzione al requisito della determinazione
dell’oggetto in relazione ai profili di efficacia del
contratto. L’indagine sulla esatta volontà delle parti, risulta a questo punto particolarmente delicata,
laddove - ad esempio - si pensi alla vendita di cose
potenzialmente fungibili in quanto appartenenti ad
un genus. La determinatezza attuale o la determinabilità futura, come si vede, modifica la natura e gli
effetti stessi della compravendita, in quanto il diverso approccio volontaristico rispetto all’oggetto,
potrà condurre verso una vendita di cose generiche,
oppure verso una vendita di cose specifiche.
In conclusione si può dire, tornando al riferimento
della distinzione tra “oggetto mediato” ed “oggetto
immediato” del contratto che, contrariamente a
quanto d’istinto possa ritenersi, non è dunque la sola indeterminatezza del bene oggetto mediato del
contratto a poter compromettere la validità dello
stesso. Analoga invalidità, infatti, deriverebbe da
una compravendita immobiliare perfettamente determinata nel bene immobile che costituisca
l’oggetto (mediato) dell’operazione, allorché i criteri redazionali del contratto non abbiano rispettato la
esatta circoscrizione di tutti gli elementi (prezzo e
modalità di pagamento in caso di corrispettivo dilazionato, tempi di consegna dell’immobile, momento della traslazione del possesso del diritto sullo
stesso, modalità di esercizio del diritto trasferito e
suoi eventuali limiti, eventuali limitazioni
all’esercizio del diritto acquistato, derivanti da di5
Gli Speciali
Immobili & proprietà
ritti di un terzo, durata del diritto acquistato, quando diverso dalla piena proprietà, etc. ...) che contribuiscono comunque alla definizione dell’intera
economia dell’operazione patrimoniale che le parti
hanno programmato e, per questa via, alla esatta definizione dell’oggetto immediato del contratto.
Una specifica rilevanza, proprio con riferimento al
contratto di compravendita immobiliare, assume la
forma. In linea di principio, non va dimenticato
come la compravendita in generale non abbia bisogno di forme particolari, almeno non di quelle richieste ad substantiam actus.
Nella compravendita immobiliare, ad onta di un
dettato normativo che esplicitamente riconnette, alla mancanza del rispetto della forma scritta, addirittura la sanzione della nullità (art. 1350 c.c.), risulta
tutt’altro che inverosimile che, soprattutto con riguardo a taluni contesti geografici del nostro Paese,
diversi trasferimenti di diritti reali su beni immobili
siano stati conclusi, almeno nei tempi più risalenti,
come si suol dire, “sulla parola” o, come è stato altrettanto frequente, “mediante una stretta di mano”,
con tutte le conseguenziali ripercussioni sull’esatta
identificazione dei titoli di provenienza. È evidente
come, alla luce di un dettato normativo che sin dal
’42 prevedeva la sanzione della nullità di tali trasferimenti, sanzione effettivamente legalmente insanabile, si sia giunti a pratiche negoziali che hanno
risolto tali nullità attraverso quella strana forma di
“sanatoria a regime” che si riscontra mediante il pur
distorto utilizzo dell’istituto dell’usucapione, mai
documentalmente formalizzato. Non è raro, infatti,
imbattersi in titoli notarili, non proprio risalenti ai
tempi in cui l’impiegato principe del notaio era
l’amanuense, nei quali, sul punto della provenienza
è utilizzata la stereotipata formula per cui si attesta
che: “Il bene è pervenuto alla Parte venditrice in
base a giusti e legali titoli di provenienza antecedenti il ventennio” (!). Più di recente è stata sperimentata anche la diversa formula redazionale della
scrittura privata semplice a cui faceva seguito, o il
formale deposito, con tanto di verbale notarile, agli
atti del notaio, oppure, nella migliore delle ipotesi,
una ripetizione del contratto che seguisse la forma
minima necessaria agli adempimenti pubblicitari,
ovvero la forma della scrittura privata autenticata.
Quanto in breve accennato conduce alla conclusione per cui la forma minima richiesta per la compravendita immobiliare è, di fatto, quella della scrittura
privata autenticata, che è forma ad probationem e
non ad substantiam, nel senso che l’utilizzo della
stessa è unicamente collegato all’adempimento delImmobili & proprietà 2015
le formalità pubblicitarie, necessarie per rendere
l’acquisto opponibile erga omnes nonché per consentire quella continuità delle trascrizioni che, nel
formalismo del sistema pubblicitario “a base personale” (e non “reale”, come è nel sistema tavolare),
rappresenta il principio cardine per consentire che
l’opponibilità erga omnes dell’acquisto possa dispiegare i suoi effetti, non solo con riferimento ai
titoli risalenti, ma anche in relazione ai diritti poi,
di volta, in volta, acquistati dai futuri contraenti.
Tuttavia, non è affatto secondario, riconoscere come,
al di là dell’espresso dettato codicistico, l’elemento
formale, proprio in relazione alla compravendita e,
vieppiù, alla compravendita immobiliare, assuma
una portata essenziale in dipendenza della causa che
caratterizza tale fattispecie la quale, consistendo nello svolgimento della funzione economica della corrispettività delle prestazioni, non sarebbe in grado di
poter dispiegare il proprio funzionamento, in assenza
di una documentazione dell’avvenuto scambio di un
consenso volontaristico contrattuale, volto a perfezionare uno scambio prestazionale tra le parti il quale, documentato, appunto, attraverso l’utilizzo di una
specifica forma legale, consente poi di addivenire
agli adempimenti pubblicitari che ne conseguono,
laddove ci si trovi al cospetto di atti dispositivi di diritti reali immobiliari.
Elemento che, però, spesso sfugge all’attenzione
comune è che, sempre con riferimento alla compravendita e con riguardo alla forma, quest’ultima assume una funzione indispensabile in considerazione
del principio consensualistico che regge la natura
stessa della fattispecie contrattuale in discorso.
Nessuno può più validamente dubitare che, in considerazione anche del riferimento alla norma generale contenuta nell’art. 1376 c.c., nella quale viene
enunciato il principio del consenso traslativo, la
vendita determini un contratto consensuale e ad effetto traslativo. “Consensuale” in quanto essa si
perfeziona in dipendenza del consenso volontaristico manifestato dalle parti e indipendentemente dalla immissione dell’acquirente nella materiale detenzione del bene. “Ad effetto traslativo”, in quanto
la vendita produce sempre il trasferimento di un diritto e mai il semplice sorgere di un’obbligazione
del venditore avente ad oggetto il compimento di
un successivo negozio di trasferimento a favore
dell’acquirente (come è uso, per esempio, presso il
diritto tedesco).
Ora, se si fa caso alla centralità che nella vendita
assume la manifestazione del consenso volontaristico, è ovvio ritenere come tale consenso perde6
Gli Speciali
Immobili & proprietà
rebbe o annacquerebbe notevolmente il proprio effetto giuridico allorché esso non potesse essere documentato attraverso, appunto, l’utilizzo di una
forma che consacri nello scritto l’effettiva volontà
dismissiva di una parte e acquisitiva dell’altra. Sotto questo aspetto non può negarsi come, al di là di
prescrizioni codicistiche “sacrali” (come accade per
il contratto di donazione), anche per la compravendita immobiliare deve richiamarsi il principio della
forma, dovendosi concludere che essa costituisce un
contratto formale per il quale la minima forma richiesta dal Codice della scrittura non è concretamente sufficiente al raggiungimento dei risultati effettivi
e completi che si riconnettono alla prestazione del
consenso, dovendosi - di fatto - essere utilizzata almeno la forma della scrittura privata autenticata.
A tal proposito non si può omettere di notare come,
da ultimo, si riscontri una speciale “agitazione” dottrinale e tecnica, che oggi pervade l’ambiente degli
studiosi del diritto e dell’informatica giuridica, nella rivisitazione del requisito formale, al fine di offrire mezzi documentali che vadano oltre la carta
scritta, suscettibile spesso di subire danni irreparabili, se non alterazioni perpetrabili anche in mala
fede, verso l’acquisizione di un sistema in cui, il file informatico, diverrà, a breve, il definitivo sostituto dell’ormai logoro, superato e anacronistico, sistema cartaceo.
In ultimo, tra le caratteristiche della natura del contratto di vendita, è opportuno soffermarsi con un
solo cenno sulla qualificazione della fattispecie
come fattispecie “ad effetti reali”. Tale accezione è
direttamente collegata a ciò che appena sopra si è
detto circa la caratteristica precipua della vendita,
quale contratto ad effetto traslativo immediato e
quindi al principio della consensualità. Affermare,
infatti, che la compravendita sia un contratto ad effetti reali equivale a dire, sostanzialmente, che il
contratto di compravendita produce il proprio effetto traslativo e fa sorgere, d’altro canto, l’obbligo al
pagamento del corrispettivo, sin dal momento del
perfezionamento dell’accordo contrattuale, indipendentemente dalla materiale datio rei, che potrebbe verificarsi anche in un momento successivo
a quello del perfezionamento negoziale.
L’assunto ha un rilievo non esclusivamente scolastico poiché gli effetti reali connaturati alla vendita determinano, quale conseguenza più immediata,
l’individuazione del momento del passaggio dei rischi che, in ottemperanza al principio
dell’immediato effetto traslativo, non potrà che coincidere con il momento dell’effettivo trasferimento
Immobili & proprietà 2015
della proprietà, laddove presso altri Ordinamenti, il
passaggio dei rischi viene a coincidere con il momento in cui avvenga la materiale consegna della cosa che costituisce l’oggetto mediato della vendita,
dietro ulteriore prestazione di un consenso dettato
dall’obbligo di adempimento di una precedente obbligazione assunta con il contratto di vendita.
In dottrina, sul punto, occorre segnalare la tesi di
chi sostiene che la compravendita, quando sia affetta da condizioni sospensive o da termini di efficacia
iniziali, non possa considerarsi vendita “ad effetti
reali”, al pari di ciò che accade quando la vendita
avesse ad oggetto un bene futuro o una cosa altrui,
laddove - sempre secondo Alcuni - devesi parlare di
vendita obbligatoria. Si segnala, tuttavia, che
l’“eventualità” legata all’oggetto mediato del contratto, secondo la migliore dottrina (Sacco, Bianca,
Luminoso), non modifica la natura del contratto che
rimane contratto ad effetti reali, sebbene si tratti di
effetti reali differiti, producendosi, gli effetti della
traslazione del diritto, appunto, non dal momento
del perfezionamento dell’accordo, ma dal momento
in cui, rispettivamente, dell’evento dedotto in condizione sospensiva si accerti la venuta ad esistenza,
dal momento in cui il termine iniziale si sia verificato, dal momento in cui la cosa futura sia venuta
ad esistenza, dal momento in cui il venditore di cosa altrui abbia acquistato il bene dall’originario titolare, in tal modo trasferendolo automaticamente al
proprio avente causa.
Invero, alcuni Autori parlano, in tal caso, di “vendita ad effetto traslativo mediato” nel senso che, gli
effetti traslativi, seppure non collegati al momento
originario del perfezionamento del contratto, sono
tuttavia sempre riconducibili al consenso traslativo
originariamente manifestato e non hanno bisogno,
come invece accade nella vendita obbligatoria vera
e propria, di un ulteriore consenso volontaristico
che determini, proprio esso, l’effetto traslativo in
adempimento dell’obbligo assunto col consenso
originariamente prestato.
Qualunque sia la tesi che si voglia condividere, la
questione non sembra, da un punto di vista sostanziale, particolarmente rilevante se non sotto il profilo meramente definitorio. Ciò che in linea generale
deve concludersi è che non sembra possano aversi
eccezioni alla caratteristica della compravendita
immobiliare quale contratto ad effetti comunque
reali (che siano immediati o differiti, poco importa,
sotto questo aspetto), ma giammai tale contratto
può considerarsi assorbibile nella diversa fattispecie del contratto ad effetti obbligatori che richiede,
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per finalità sostanziali (e non meramente collegate
a profili di formalismo) un ulteriore prestazione di
un consenso volontaristico al fine di perfezionare la
fattispecie che determini la traslazione del diritto.
Diversamente, invece, è a dirsi per quanto riguarda
gli aspetti peculiari di tutti i cosiddetti “contratti
preparatori” tra i quali, certamente per importanza,
spicca - almeno con riguardo ai diritti reali immobiliari - il contratto preliminare.
Il contratto preliminare
Il nostro Ordinamento non si occupa del contratto
preliminare se non in una sola norma che disciplina
esclusivamente l’aspetto formale, laddove essa richiede la medesima forma che la legge richiede per
la stipulazione del contratto definitivo. Nonostante
la norma taccia sulla funzione del preliminare e sulla sua esatta nozione, non è difficile rimediare tali
elementi direttamente con ricorso alla prassi quotidiana che fa, del preliminare, un contratto dal larghissimo utilizzo.
Il preliminare è costituito da un accordo con il quale le parti intendono vincolarsi alla conclusione di
un ulteriore contratto (definitivo) che, in adempimento a quanto dalle medesime parti statuito in seno al preliminare, consenta di rinviare gli effetti
scaturenti dal contratto definitivo, vincolando, nel
contempo, le parti ad addivenire all’adempimento
dei propri rispettivi obblighi assunti col preliminare
medesimo. La funzione del preliminare è dunque
quella di assicurare la produzione degli effetti che
si riconnettono alla stipulazione del contratto definitivo, consentendo che tali effetti possano essere
procrastinati, tuttavia, ad un tempo successivo.
È possibile che l’interesse a rinviare gli effetti che
si producono solo con la stipulazione del contratto
definitivo, siano solo di una parte. In altri termini,
potrebbe capitare che una parte sia già pronta ad
eseguire la propria prestazione, mentre sia la controparte a volerne rinviare gli effetti e quindi
l’adempimento. Si parla, in tal caso di “contratto
preliminare unilaterale”, e ciò, non perché al contratto partecipi una sola parte (altrimenti il preliminare smetterebbe la sua natura e la sua essenza contrattuale che, invece, vi è naturalmente connaturata), ma perché l’interesse a rinviare gli effetti giuridici ed economici dell’affare da concludere, sono
solo di una parte. Ciò importa che, mentre la parte
che sarebbe pronta ad eseguire anche immediatamente la propria prestazione, resta vincolata
all’adempimento della propria prestazione, l’altra
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parte resta arbitrariamente libera di decidere se
concludere, o meno, il definitivo, senza che, in
mancanza, possano richiedersi tutte quelle forme di
tutela giuridica della parte adempiente contro quella
eventualmente inadempiente, considerato che
l’inadempienza della controparte è già contemplata
nell’ambito della lex contractus caratterizzante
l’accordo preliminare iniziale.
La fattispecie appena considerata rappresenta una
struttura assimilabile all’opzione, ma con la differenza che l’opzione costituisce un patto facente parte di un accordo complesso a formazione progressiva, laddove il preliminare è un contratto perfetto ed
autonomo rispetto al contratto definitivo di cui si
limita a promuoverne la conclusione.
Quando, invece, gli interessi al rinvio degli effetti
conclusivi dell’affare sono di entrambe le parti, il
preliminare si definisce “bilaterale”; il che rappresenta l’ipotesi più tradizionale ed ordinaria.
Quanto alla natura giuridica, nessuno più dubita che
il preliminare sia un contratto di natura obbligatoria
dal momento che, dallo stesso, non sorgono effetti
ulteriori rispetto all’assunzione di obblighi in capo
ad una o ad entrambe le parti, in ordine all’ulteriore
(necessaria) prestazione di un consenso contrattuale
che vada a costituire il contratto definitivo. Contrariamente a ciò che accade nella compravendita, ove
gli effetti consensuali traslativi sono immediati (a
prescindere dalla materiale dazione del bene costituente l’oggetto mediato del contratto), nel contratto preliminare non si determina alcuna modificazione immediata, almeno dal punto di vista materiale, delle sfere giuridico-patrimoniali dei contraenti.
Da quanto accennato, è possibile evincere la conservazione nel preliminare, rispetto alla compravendita, della natura di contratto consensuale in
quanto contratto il cui perfezionamento è unicamente legato alla manifestazione del consenso volontaristico delle parti coinvolte, a prescindere da
alcuna prestazione materiale immediata. Ciò non
esclude, come spesso avviene, che, al momento della stipulazione del preliminare, si assista ad un accordo nel quale sono contemplate prestazioni (totali
o parziali) che dovrebbero riconnettersi al contratto
definitivo (quali: versamento di un acconto prezzo,
immissione nella materiale detenzione del bene
promesso in vendita prima del perfezionamento del
definitivo, etc. ...). Tuttavia, come è dato osservare,
tali prestazioni, qualora ottemperate al momento
della stipula del preliminare, non rispondono alla
causa naturale del contratto preliminare e quindi
agli interessi che hanno spinto i contraenti al perfe8
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zionamento del contratto stesso. Si tratta, infatti, di
prestazioni che rivestono il ruolo di “accessorietà”
rispetto alle prestazioni naturalmente e giuridicamente legate al preliminare e che servono a rispondere ad esigenze particolaristiche volute dalle parti,
ma che restano estranee alla causa contrattuale del
preliminare e che, pertanto, non ne modificano la
natura.
È lecito chiedersi se il preliminare debba necessariamente costituire, dal punto di vista contenutistico, un’anticipazione letterale dell’accordo che sarà
consacrato poi nel contratto definitivo. Per quanto
si sia convinti che la delicatezza nell’affrontare la
redazione di un contratto preliminare e
l’inserimento di talune clausole, piuttosto che di altre, costituisca paradossalmente un impegno intellettuale e giuridico, se si può, ancora più virtuoso di
quello normalmente richiesto per il contratto definitivo, non si può dire, d’altro canto, che il contratto
definitivo debba risolversi in una mera “ripetizione” contrattuale del preliminare.
Ciò che si intende affermare è che, se per un verso
è vero che il contratto preliminare pone dei vincoli
contrattuali difficilmente eliminabili e modificabili
in seno al contratto di compravendita definitivo,
talché l’attenzione che il notaio deve prestare
nell’adempimento della sua funzione di adeguamento, rispetto al preliminare, è forse più incisiva
di quella richiesta per il contratto definitivo, è altresì vero che alle parti sono lasciati ampi margini di
discrezionalità nella scelta di introdurre,
nell’ambito del definitivo, adeguamenti ed integrazioni che lascino ovviamente immutata la struttura
contrattuale sostanziale, inizialmente ideata con il
preliminare.
Di guisa che, sebbene il contratto definitivo assuma
una totale autonomia rispetto al contratto preliminare, ponendosi come unica fonte dei diritti e delle
obbligazioni delle parti in relazione all’affare che
esse hanno scelto di concludere, in tal modo facendo sì che il contratto preliminare resti definitivamente superato dal definitivo, ciò non consente che,
rispetto al contratto preparatorio, costituito dal preliminare,
il
contratto
definitivo
possa,
nell’autonomia legale di cui godono le parti, costituire una strutturazione dell’accordo completamente diversa dal contratto preliminare del quale, il definitivo, per sua natura, deve determinare il naturale
adempimento e al quale, dunque, il definitivo è direttamente connesso quanto agli aspetti contenuti-
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stici essenziali1.
Ovviamente, ciò non impedisce alle parti, sempre
nel contesto dell’autonomia privata di cui esse parti
godono, di concludere un contratto di compravendita immobiliare che nulla abbia a che fare col contratto preliminare che esse parti avevano, a suo
tempo, già stipulato. Ma questa possibilità farà in
modo, se seguita, di annullare, tra le medesime parti, ogni rilievo che esse avevano inteso originariamente riferire al loro preliminare, non solo facendo
in modo, come di regola, che il preliminare “functus est munere suo” (ovvero resti del tutto avulso ed
autonomo rispetto al definitivo al quale pure è collegato), ma che il preliminare medesimo smetta
ogni sua efficacia e sia considerato, nell’economia
dell’affare che le parti intendano concludere,
“tamquam non esset”, come, cioè, se non fosse stato mai perfezionato, in quanto privato di alcun addentellato obbligatorio rispetto al diverso contratto
definitivo tra le stesse parti perfezionato.
Con riguardo al contenuto del preliminare, è evidente che l’ambito di libertà riservato alle parti in
base all’autonomia contrattuale di cui esse godono,
consente un ampio spettro di scelte, Tuttavia vi sono dei punti che è opportuno focalizzare per una
migliore comprensione di taluni aspetti.
Così è per il termine di adempimento. Normalmente è previsto, pena la possibile indeterminatezza
dell’oggetto contrattuale secondo quanto si è avuto
modo di verificare con riguardo alla compravendita, la fissazione di un termine per la stipula del contratto definitivo. Non si tratta, a meno di apposita
pattuizione in tal senso, di un termine che possa essere considerato essenziale nell’accezione di cui
all’art. 1457 c.c., a meno che le stesse parti non lo
abbiano voluto considerare come tale. Tuttavia,
l’inutile decorso del termine fissato dalle parti, ma
non essenziale, faculta comunque la parte pronta al
proprio adempimento, a richiedere l’esecuzione in
1
Sull’aspetto della centralità del contratto definitivo deve registrarsi l’interessante voce del Montesano il quale ha più volte
sostenuto che l’effettiva fonte della contrattazione immobiliare
sia costituita, non dal definitivo, ma dal contratto preliminare.
Ciò è dimostrato anzitutto dalla norma che il Codice civile dedica al preliminare, laddove richiede per lo stesso, la medesima
forma che la legge richiederebbe per il contratto definitivo. Disposizione che, secondo l’Autore, se il preliminare non fosse,
esso, la vera fonte del rapporto, non vi sarebbe necessità di rispettare. Inoltre, se si ammette che una sentenza (quella di
esecuzione in forma specifica, ex art. 2932 c.c.) possa determinare e costituire gli effetti del non concluso contratto definitivo, ciò vuol dire che quegli effetti erano già insiti nel contratto
preliminare, mentre il definitivo si limita a rappresentare una
sorta di condicio juris per rendere efficaci gli effetti della stipulazione.
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forma specifica sulla base dell’assunta inadempienza della controparte o, in alternativa, a richiedere la
risoluzione giudiziale ai sensi degli artt. 1453 e
1454 c.c., dimostrando che il termine fissato costituiva elemento essenziale al rispetto degli interessi
della parte non inadempiente. Laddove, invece,
nessun termine fosse stato eccezionalmente previsto, fermi i principi dai quali possa addirittura farsi
valere (dalla parte inadempiente) una potenziale indeterminatezza dell’oggetto, ove ne ricorrano i presupposti, è possibile il ricorso al giudice per la fissazione di un termine o, altrimenti, richiedere
l’immediato adempimento contrattuale secondo la
regola generale prevista dall’art. 1183 c.c.2.
Analogamente è consentito alle parti di prevedere,
in seno al preliminare, l’integrale pagamento del
corrispettivo, il cui saldo, di norma, è riservato al
momento della stipula del contratto di compravendita definitivo. Oppure, come qualche volta capita,
di riconnettere, al momento del perfezionamento
del preliminare, l’immissione del promissario acquirente nella materiale detenzione del bene oggetto del contratto definitivo. Si tratta in ogni caso di
previsioni legalmente ammissibili e del tutto legittime, salvo le dovute considerazioni, soprattutto
con riferimento ai profili fiscali, delle conseguenze
di una anticipazione dei naturali effetti contrattuali
che avrebbero dovuto riconnettersi al contratto definitivo.
Il preliminare di preliminare e le questioni
di legittimità
Dal punto di vista pratico, si può dire che oggi la
tradizionale sequela contrattuale preliminaredefinitivo è stata soppiantata, soprattutto con riguardo alle transazioni immobiliari in cui vi sia
l’intervento di un mediatore professionale, da un
triplice stadio di eventi negoziali.
In prima istanza, infatti, la fase delle contrattazioni
si apre con la cosiddetta “proposta di acquisto” che
altro non è che una sorta di inversione camuffata
degli interessi delle parti. A fronte, infatti, di
un’offerta immobiliare, non è il venditore a promuovere l’offerta di vendita, ma è il potenziale acquirente, interessato all’immobile, a produrre, di
solito all’agente immobiliare, una proposta di acquisto in cui vengono indicate le condizioni di massima (ivi compreso il prezzo) alle quali si intenderebbe chiudere l’affare. La proposta di acquisto as2
Sul punto risulta conforme Cass. n. 1642/1989.
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sume la definizione tecnica di “contratto preliminare aperto” in quanto, partendo da un mero atto unilaterale (la proposta propriamente detta), assume le
sembianze di un vero contratto quando essa si colleghi all’accettazione da parte del destinatario. A
questo punto, però, è necessario individuare quale
tipo di natura essa possa dirsi avere assunto. La dottrina notarile, negli anni, è stata divisa tra chi (Ravazzoni) ha visto in tali accordi un vero preliminare
del preliminare, quale forma atipica del contratto
preliminare con il quale viene riservata una fase
preparatoria, non solo rispetto al contratto definitivo, come tradizionalmente accade, ma viene assicurata altresì una primitiva fase preparatoria rispetto
al preliminare vero e proprio. Altra parte (Tassinari) ha individuato nella proposta di acquisto, una fase contrattuale che si svolge tra soggetti diversi da
quelli che poi saranno effettivamente coinvolti dal
preliminare vero e proprio e dal definitivo. La proposta, infatti, secondo tale tesi, va ad inserirsi in
una fase pre-contrattuale dove il rapporto si svolge
ancora nell’ambito dell’intervento diretto del mediatore, successivamente estraneo alle vere fasi precontrattuali, preparatorie del contratto definitivo.
Non pare che entrambe le tesi manchino di spunti
assai interessanti. Da un lato, infatti, seguendo la
teoria per la quale la proposta contrattuale costituisce un’ulteriore fase preparatoria necessaria alle
parti per addivenire ad un più approfondito controllo circa la situazione giuridica dell’immobile, a dilatare ulteriormente i tempi al fine di consentire
maggiori margini cronologici nella ricerca di fonti
di finanziamento per l’acquisto, di bloccare, nei
suoi elementi essenziali, la trattativa, in attesa
dell’intervento di un tecnico del diritto che possa
confezionare il vero e proprio contratto preliminare
con tutti gli elementi e le clausole che rispondano
agli interessi complessivi delle parti, non si può disconoscere importanza ad una dilatazione, in due
fasi, dello stadio preparatorio pre-contrattuale (rispetto al definitivo).
Dall’altro lato la tesi che vede, nella proposta contrattuale, non una fase propriamente preparatoria
del definitivo, ma una fase meramente promozionale nell’ambito dell’acquisto di un dato prodotto,
conferma la rilevanza dell’ambito della mediazione
rispetto all’ambito più precisamente destinato alla
regolamentazione degli interessi delle parti
nell’economia di un determinato affare.
In ogni caso, sia che si voglia condividere l’una o
l’altra delle tesi sopra esposte, diventa di fondamentale importanza comprendere le conseguenze
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che possono richiamarsi nell’ipotesi in cui, effettuata una proposta contrattuale, ed essendo stata, questa, pienamente accettata, non si addivenisse poi alla conclusione del contratto preliminare che la proposta avesse promosso e, tanto meno, alla stipulazione del contratto definitivo.
A seguire la tesi secondo cui la proposta altro non
sarebbe se non “un preliminare di preliminare” se
ne dovrebbe concludere nel senso che, al pari
dell’inadempimento del contratto preliminare, si
possa ricorrere al rimedio dell’esecuzione in forma
specifica ex art. 2932 c.c. Senonché la dottrina notarile ha avanzato forti riserve sull’applicabilità, alla proposta accettata, del rimedio dell’esecuzione in
forma specifica. Quest’ultima, infatti, attraverso la
sentenza costitutiva di esecuzione in forma specifica, si limita a riprodurre giudizialmente un regolamento contrattuale, già completo, del quale ordina
l’esecuzione in via forzosa. Ma la proposta, in effetti, pur contenendo gli elementi più importanti destinati a definire una prima economia dell’accordo,
manca di tutte quelle clausole e di tutti quegli accordi accessori che avrebbero dovuto essere integrati con il contratto preliminare vero e proprio.
Sicché, di fatto, alla sentenza ex art. 2932 c.c. è impedito di sostituire un regolamento contrattuale in
quanto questo non era ancora stato posto in essere
e, d’altronde, mancano a questo tipo di intervento
giudiziale i requisiti che possano consentire al giudice di sostituirsi alla mancata espressione volontaristica delle parti. La sentenza di esecuzione in forma specifica ha, infatti, la sola portata suppletiva rispetto ad un mancato adempimento, ma manca della
funzione integrativa che sarebbe necessaria al fine di
consentire l’adeguamento della proposta a tutti gli
accordi che possano dirsi effettivamente completativi di un contratto preliminare vero e proprio.
La soluzione unicamente percorribile, allora, nel
caso in cui una proposta accettata dovesse restare
inadempiuta, sarebbe quella di prevedere tale evento nel corpo della stessa proposta, magari inserendo, nella stessa, apposita clausola compromissoria
idonea a demandare ad un collegio arbitrale
l’integrazione del regolamento negoziale, sulla base
di criteri oggettivi ricavabili dalla prassi e dal normale comportamento che le parti avrebbero dovuto
tenere per il soddisfacimento dei reciproci interessi,
alla luce del principio della buona fede contrattuale
e pre-contrattuale. Di guisa che, per questa via, si
possa giungere all’elaborazione “coattiva” di un
preliminare chiuso suscettibile, poi, in caso di inadempimento, di essere sottoposto alle conseguenze
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ordinarie previste per il caso di inadempimento del
contratto preliminare.
Nell’ambito di una esatta cronaca di queste vicende
legate alla questione della proposta contrattuale che
conduce ad un preliminare di preliminare, alla possibilità riconosciuta alle parti, di triplicare le fasi
delle trattative contrattuali convenendo, prima ancora del vero preliminare, un ulteriore contratto che
rappresenti una fase preparatoria dello stesso contratto preparatorio, è opportuno registrare quali sono state le posizioni assunte più di recente dalla
giurisprudenza di legittimità.
In prima battuta, con la sentenza Cass. 2 aprile
2009, n. 8038, la Suprema Corte aveva concluso
nel senso di una nullità del “preliminare del preliminare”, qualunque fosse la forma esteriore adoperata dalle parti, per radicale mancanza di causa. I
Giudici avevano supposto, infatti, che, al cospetto
della causa astratta che distingue il contratto preliminare e che consiste nella prestazione di un consenso volontaristico finalizzato all’assunzione
dell’obbligo di prestare un ulteriore consenso negoziale avente effetto traslativo, la duplicazione del
momento preparatorio sarebbe stata priva di una seria causa contrattuale, rivelandosi “una mera ed inconcludente superfetazione, non sorretta da un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento
giuridico”.
Della questione sono state, di recente, investite le
Sezioni Unite della Suprema Corte, alle quali la seconda sezione, con ordinanza del 4 marzo 2014,
aveva rimesso la soluzione della problematica della
validità del “preliminare del preliminare” sulla
scorta della considerazione della causa contrattuale,
non più in astratto, ma in concreto. In tale ottica i
Giudici si sono espressi in maniera più puntuale,
tacciando di invalidità quel contratto preparatorio
che obblighi alla prestazione di un ulteriore consenso obbligatorio, senza nulla integrare o aggiungere
rispetto alla prima regolamentazione contrattuale,
ma, al contempo, conservando e prevedendo la piena validità di un “preliminare di preliminare” allorché il contenuto del vincolo scaturente dal secondo
contratto non sia una mera ripetizione di quanto assunto nel primo contratto, ma valga ad integrare e a
individuare aspetti che non siano stati trattati in
prima battuta.
Perciò, secondo le conclusioni delle Sezioni Unite,
(Cass. sent. 6 marzo 2015 n. 4628) è pacifica la
conservazione degli effetti del “preliminare del preliminare” quando, esclusa l’ammissibilità del “bis
in idem”, il primo accordo sia volto all’assunzione
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dell’obbligo di prestare un ulteriore consenso volontaristico, obbligatorio alla conclusione di un definitivo, ma in un contesto contrattuale che sia finalizzato a rifinire l’accordo originario, ad integrarlo
in taluni suoi contenuti, a sostituire la previsione di
un termine con un altro o ad escluderlo affatto, etc.
E, pertanto, così come statuito dalle succitate Sezioni Unite, la configurabilità di un “preliminare di
preliminare” resta pienamente accettata laddove,
anche in presenza di un primo stadio prenegoziale
avanzato, vi sia il legittimo interesse delle parti,
meritevole di tutela, di giungere ad un ulteriore accordo preparatorio in funzione di attuare una formazione progressiva del contratto definitivo che sia
basata, epperò, su una oggettiva differenziazione
dei contenuti negoziali nelle diverse fasi di cui la
formazione stessa dell’accordo consta.
Sotto quest’ottica, allora, risulta pienamente am-
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missibile la tradizionale tripartizione cui di recente
si assiste che, modificando la primitiva dicotomia
preliminare-definitivo, tende ad applicare una generalizzata bipartizione della fase preparatoria che,
partendo dalla proposta accettata, conduce al contratto preliminare vero e proprio. Ed, in riferimento
ad una tale progressione verso la stipula del contratto definitivo è ben valutabile il rilievo di
un’eventuale violazione dell’accordo primario con
conseguenziale inadempimento alla conclusione del
preliminare in quanto comportamento contrario a
buona fede che potrà dar luogo a responsabilità
dell’inadempiente che la Suprema Corte ha definito
“responsabilità contrattuale” per la volontaria rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale delle trattative culminate nella proposta
accettata.
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Aspetti relativi alla conformità
urbanistica e catastale degli
immobili. Il profilo della
conformità degli impianti.
La certificazione energetica
di Antonio Testa - Notaio in Monza
Il problema del concetto di conformità verificato nei diversi profili che esso può generare con riferimento
agli edifici sotto l’aspetto urbanistico-edilizio, degli impianti e della materia energetica con particolare riguardo critico all’effettiva portata che tale concetto esplica oggi al cospetto di una legislazione solo formalmente tutelatrice degli interessi privati ma in concreto estranea ad ogni profilo di tutela sostanziale.
Premesse
Non è affatto casuale che l’acquisto immobiliare,
almeno nel contesto storico-economico della società in cui viviamo, venga sempre più spesso collegato, in relazione alle problematiche e alle questioni
che lo interessano, al concetto di “conformità” di
quanto ne costituisca l’oggetto. Ciò, è evidente, non
solo perché il legislatore stesso si è reso protagonista di un avvicendarsi normativo che, nell’arco
dell’ultimo decennio, ha individuato nella “conformità”, sotto i diversi aspetti nei quali essa debba
estrinsecarsi, una forma di garanzia sostanziale
nell’ambito della circolazione degli immobili, a tutela dell’effettiva rispondenza del manufatto a certe
regole legali che un tempo potevano essere, di fatto,
facilmente eluse, ma soprattutto a causa
dell’insorgenza di una nuova consapevolezza di legalità, collegata ad una sostanziale, e mai troppo
abusata, tutela dell’utenza o, come è di moda affermare, “del consumatore”.
Il problema è, però, quello di appurare se tali sistematici approcci normativi al concetto di “conformità”, nelle diverse essenze di cui, come si è detto, esso consta, siano effettivamente serviti, non solo,
appunto, ad una maggiore e più continuativa regolarità formale del sistema di circolazione degli imImmobili & proprietà 2015
mobili, ma soprattutto ad attuare forme di tutela
dell’utente che siano, da un lato, in linea con un sistema di contrattazione negoziale di tipo moderno
e, dall’altro, consentano l’effettivo raggiungimento
di un “metodo” negoziale capace di mettere
l’acquirente, al riparo dai più frequenti rischi che la
compravendita immobiliare comporta.
Ora, se dal punto di vista strettamente “economicopatrimoniale”, taluni rischi naturalmente connessi
alla contrattazione immobiliare, possono essere, in
larga misura, eliminati o, quanto meno, attutiti
dall’intervento notarile, si comprende facilmente
come, in assenza di una regolamentazione della materia che attribuisca al notaio rogante, ad esempio
sulla scorta del modello francese, un sostanziale controllo su tutti i profili tecnico-materiali attinenti
l’immobile oggetto del negozio giuridico, laddove il
solo sostanziale controllo notarile, oggi, si impernia
sulle questioni pubblicitarie (libertà dell’immobile
da pesi, vincoli, iscrizioni, trascrizioni pregiudizievoli, diritti di terzi in genere, continuità delle trascrizioni) e sulle modalità di pagamento del corrispettivo, oltreché sul trattamento fiscale dell’operazione
in essere, risulta evidente come l’effettiva tutela
dell’acquirente resti unicamente collegata a “dichiarazioni di conformità”, la cui veridicità sebbene
sia più o meno documentale o più o meno docu13
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mentabile, in ottemperanza a specifiche previsioni
di legge, frequentemente è destinata a ricoprire un
ruolo meramente formale, restando affidata unicamente all’onestà di chi certe dichiarazioni sia chiamato ad effettuare in atto.
Qui di seguito si cercherà, sotto questa ottica, di
trattare del problema della “conformità” sotto i diversi aspetti che legislativamente lo riguardano, con
riferimento alla fattispecie della compravendita
immobiliare, evidenziando, appunto, ove possibile,
i limiti che una normazione, la quale richiede il rispetto di presupposti meramente formali, determina
sull’efficacia di talune tutele sostanziali
dell’acquirente. Né, in tal senso, si può dimenticare
come una normativa, oggi povera di sanzioni, abbia
comportato, nel tempo, un annacquamento, nella
mente dell’operatore, di certi passaggi che sono stati ritenuti importanti ed imprescindibili solo quando
essi si sono trovati al cospetto della sanzione della
nullità dell’atto, in mancanza della quale, purtroppo, sembra che tutto quanto acceda alla questione
“conformità” possa addirittura assumere un ruolo
marginale ed esclusivamente formale e, come tale,
suscettibile di deroga e/o di consapevole omissione.
La conformità urbanistico-edilizia
Nell’ambito della tematica appena accennata, assumono una rilevanza di non poco momento anzitutto le problematiche connesse alla conformità edilizia dell’immobile oggetto del negozio giuridico e
quelle interagenti con la sua effettiva legale utilizzabilità dipendenti, queste ultime, dall’avvenuto rilascio della certificazione di agibilità.
In relazione al complesso concetto di “conformità
urbanistico-edilizia” dell’unità immobiliare, con la
sola eccezione di quanto disposto dall’art. 36 del
T.U. 380/2001, in ordine al cosiddetto “accertamento di conformità” (essenzialmente riproduttivo
del procedimento da taluni definito di “sanatoria a
regime” di cui al vecchio art. 13, L. n. 47/1985),
non pare rintracciabile alcuna definizione che faccia esplicitamente riferimento a tale elemento.
Piuttosto, sono rinvenibili diversi passaggi della
normativa sulla regolarità edilizio-urbanistica in cui
indirettamente, senza alcun riferimento esplicito ad
una certificazione di conformità edilizia, si fa riferimento comunque al concetto di conformità
dell’opera realizzata. Si tratta di una conformità che
viene a rilevanza, anzitutto, nel procedimento disciplinante la denuncia di inizio attività, laddove
essa assume, come vedremo, una duplice valenza,
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una ex ante ed una ex post, ed - in secondo luogo nell’ambito della certificazione di agibilità di cui
agli artt. 24 e 25 del T.U. alla quale deve riconoscersi la funzione di attestazione dell’idoneità di
qualunque edificio, indipendentemente dalla propria destinazione, all’uso per cui esso è predisposto,
sotto il profilo igienico-sanitario, della sicurezza e
del risparmio energetico degli impianti in esso installati, così come espressamente affermato dal citato art. 24 e, quindi, in ultima analisi, la funzione
di attestare la conformità dell’opera realizzata, ad
un progetto che, in quanto assentito dalle competenti Autorità preposte, non può avere prodotto un
manufatto non conforme alle disposizioni legali in
materia edilizia.
Partendo dal concetto di “conformità edilizia” collegato ai procedimenti di D.I.A. (ma similmente è a
dirsi per la novella S.C.I.A. e, sotto certi aspetti, financo per la C.I.A.), la prima funzione di essa è
rinvenibile nel giudizio di conformità che il progettista ha obbligo di attestare, al momento della instaurazione del procedimento, con apposita relazione in tal senso asseverata e depositata in accompagnamento alla D.I.A., con riguardo alla coerenza
dell’intervento rispetto agli strumenti urbanistici
adottati od approvati e ai vigenti regolamenti edilizi
(art. 23, comma 1, T.U.E.). Analogamente, la seconda funzione dell’accertamento di conformità è
quella rintracciabile al momento della definizione
del procedimento, coincidente con l’ultimazione dei
lavori, e sostanziantesi nel certificato di collaudo
finale, che attesta l’effettiva conformità dell’opera,
una volta che sia stata definitivamente realizzata,
rispetto al progetto presentato con la D.I.A. (art. 23,
comma 7, T.U.E.).
Si comprende facilmente come la necessità di documentare ex ante un giudizio di conformità
dell’intervento edilizio rispetto agli strumenti urbanistici vigenti e ai regolamenti edilizi, sia estraneo
al “permesso di costruire” in quanto ultroneo rispetto ad esso, stante la natura evidentemente “concessoria” di tale permesso rispetto alla diversa natura
“di parte” della D.I.A. Diversamente, sia nel caso di
intervento edilizio abilitato con regolare permesso
di costruire, che in quello regolamentato da D.I.A.,
resta necessario documentare un giudizio ex post di
conformità di quanto realizzato rispetto al progetto
originariamente assentito. Il che avviene con soluzioni diverse a seconda che l’intervento sia stato
abilitato con D.I.A. oppure sia stato autorizzato con
“permesso di costruire”. Nel primo caso, infatti, il
certificato di collaudo finale, in cui si sostanzia il
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giudizio di conformità, entra a far parte integrante
dell’intero iter procedurale di abilitazione edilizia
instauratosi con la D.I.A., definendo conclusivamente la regolarità urbanistica dell’intervento stesso (salvo, ovviamente, il problema di eventuali
mendaci dichiarazioni, sul punto, da parte del progettista); nel secondo caso, in presenza di un intervento edilizio assentito con “permesso di costruire”, il giudizio di conformità dell’opera rispetto al
progetto trova l’unico proprio sbocco documentale
nel carteggio richiesto in accompagnamento alla
domanda di rilascio del certificato di agibilità (art.
25, comma 1, lettera “b” T.U.E.).
È probabile che la giustificazione di questo diverso
trattamento sia rinvenibile nella diversa natura dei
due iter abilitativi. L’uno, infatti, quello instaurato
con la D.I.A., si caratterizza proprio per la natura
procedimentale la cui definizione dipende da un
documento, il certificato di collaudo finale, che
rappresenta quasi la quadratura del cerchio, attestando appunto la piena conformità dell’edificato a
quanto rappresentato progettualmente nella D.I.A.
originariamente presentata in Comune; laddove la
presenza di un permesso di costruire determina
l’esistenza di un documento abilitativo che si perfeziona “istantaneamente” con il suo rilascio. In altri
termini, è pensabile che, costituendo la D.I.A. una
procedura di parte alla quale è estraneo almeno inizialmente qualunque controllo in funzione concessoria da parte della pubblica autorità, essa rende per
ciò stesso necessaria una maggiore responsabilizzazione del beneficiario in ordine all’effettivo rispetto
del progetto, da documentarsi appunto con il certificato di collaudo finale. Non è casuale e secondario, sotto l’aspetto che qui interessa sottolineare,
che alla redazione di tale certificato di collaudo sia
unicamente deputato il tecnico-progettista o comunque altro tecnico abilitato, e cioè un soggetto
che, in base alle proprie specifiche attitudini professionali, sia idoneo a conferire maggiore pregnanza
tecnica a quanto dichiarato rispetto ad una mera dichiarazione proveniente dal proprietario.
Al contrario, nel caso in cui l’intervento sia stato
assentito con “permesso di costruire”, la natura
prettamente “pubblicistica” del provvedimento, determina un immediato e diretto controllo da parte
della pubblica autorità circa la congruità urbanistica
dell’intervento. Ciò fa sì che la funzione della dichiarazione di conformità, in tal caso e contrariamente a ciò che accade in presenza di D.I.A., non
sia più, né quella di operare un controllo ex ante sul
rispetto da parte dell’intervento degli strumenti urImmobili & proprietà 2015
banistici e dei regolamenti edilizi vigenti, né quella
di determinare il perfezionamento di un procedimento (che invece qui è concluso istantaneamente
con il rilascio del provvedimento abilitativo), ma
sia
confinata
esclusivamente
all’ambito
dell’abilitazione legale dell’utilizzo del bene, e
quindi al momento della richiesta della certificazione di agibilità. Sotto tale aspetto, come sarà evidenziato più oltre, si potrebbe concludere nel senso che
la certificazione di agibilità assuma una valenza,
non solo igienico-sanitaria, ma oltretutto urbanistica proprio in relazione ad un intervento che sia stato abilitato con “permesso di costruire”, laddove, in
presenza di D.I.A., la questione urbanistica può dirsi conclusa e conchiusa all’interno del relativo procedimento la cui definizione ultima è lasciata al
“certificato di collaudo finale”.
Giova, tuttavia ricordare che, come si è avuto modo
di accennare in premessa, tale “conformità”, per
quanto attestata documentalmente, fuoriesce, da un
lato, da alcun controllo notarile (non solo, come è
ovvio, da un controllo diretto, considerato che il notaio non avrebbe quelle conoscenze tecniche idonee
a rappresentare una sostanziale verifica del rispetto
dei requisiti urbanistico-edilizi legalmente previsti,
ma neppure indiretto, in quanto al notaio non è affidato alcun compito di controllare attraverso propri
consulenti la sostanziale regolarità edilizia
dell’immobile oggetto della contrattazione), e,
dall’altro lato, esclude addirittura qualsiasi obbligatoria menzione in atto. La normativa, infatti, sotto
gli aspetti della regolarità edilizia ed urbanistica del
manufatto, si affida ad una mera dichiarazione di
parte, che, seppure documentata ed inserita nel corpo dell’atto, è di nulla rilevanza sostanziale in
quanto sprovvista ed esclusa da adeguati strumenti
di controllo della sua veridicità.
È interessante, sul punto, notare tuttavia come, un
adeguato trattamento normativo della questione
“agibilità dell’edificio”, avrebbe potuto condurre a
risultati maggiormente soddisfacenti. Le funzioni
che, secondo quanto sancito dall’art. 24 del T.U.
380/2001, sono riservate alla certificazione di agibilità, escludono, almeno sul piano letterale, qualsiasi valenza relativa all’attestazione di regolarità
urbanistica del bene certificato agibile. Sembra anzi
che, proprio in ciò, possa riscontrarsi la più incidente differenza tra l’attuale disciplina della certificazione di agibilità e la primitiva normativa in materia di agibilità ed abitabilità degli edifici recata dagli artt. 220, 221 e 222 del R.D. 27 luglio 1934, n.
1265 (T.U. delle leggi sanitarie). È infatti opportu15
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no considerare come l’art. 221 della norma da ultimo richiamata, oltre a prevedere il divieto espresso
di abitare e di utilizzare edifici sprovvisti di certificazione di abitabilità od agibilità (divieto peraltro al
tempo penalmente sanzionato con una specifica
ammenda), sancisse, tra i presupposti ai quali era
collegato il rilascio della certificazione, anzitutto
l’obbligo del controllo di conformità edilizia del
manufatto rispetto al progetto approvato. Anzi, nella disciplina recata da tale normativa sembra proprio che il giudizio di “conformità edilizia” finisse
per assumere quasi un’importanza prioritaria rispetto agli altri elementi, di natura prettamente igienico-sanitaria, rilevanti per il rilascio dell’abitabilità e
costituiti dal controllo dell’effettivo prosciugamento dei muri e dal controllo circa l’inesistenza di
eventuali altre cause di insalubrità dei locali.
La natura della funzione dell’abitabilità/agibilità,
caratterizzata fin qui essenzialmente dalla prevalenza di un giudizio di natura urbanistico-edilizia su
quello più specificamente igienico-sanitario, restava sostanzialmente immodificata anche con
l’introduzione della novella recata in materia dal
D.L. 5 ottobre 1993, n. 398 (convertito con modificazioni nella L. 4 dicembre 1993, n. 493) il cui art.
4, comma 10, integrando la portata della prima disciplina, aveva lasciato intatta la tipologia dei controlli da effettuare in funzione del rilascio della certificazione, conservando all’accertamento di conformità urbanistico-edilizia, una valenza ancora una
volta preponderante rispetto agli elementi più strettamente igienico-sanitari.
La situazione, invece, subisce un certo cambio di
rotta a seguito dell’emanazione del d.P.R. 22 aprile
1994, n. 425 che, tornando sulla disciplina del procedimento per il rilascio del certificato di abitabilità/agibilità, provvedeva ad abrogare l’art. 221 del
R.D. n. 1265/1934 ed il comma 10 dell’art. 4 del
D.L. 5 ottobre 1993, n. 398, sia pure limitatamente
alla disciplina procedimentale. Tale intervento
normativo, se da un lato riconfermava perciò il divieto di utilizzare edifici che fossero sprovvisti della certificazione di abitabilità/agibilità, così come
già previsto in origine dall’art. 221 del R.D. n.
1265/1934 (depenalizzandone peraltro la sanzione
che diventava una ammenda amministrativa),
dall’altro lato non prevedeva più (come era sotto il
vigore della prima normativa) un accertamento diretto da parte della Pubblica Autorità della conformità urbanistico-edilizia di quanto realizzato stabilendo, in maniera ben più blanda, l’obbligo di predisporre sul punto una certificazione di parte, sia
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pure redatta da un tecnico, quale è il direttore dei
lavori. Inoltre, a riconferma della relatività della
questione edilizia rispetto all’agibilità determinata
dalla nuova normativa, va rilevato come il terzo
comma dell’art. 4 del citato d.P.R. n. 425/1994 abbia disposto che il diniego dell’abitabilità si riferisca unicamente alla mancanza dei requisiti igienici
della costruzione e non alla conformità estetica o
urbanistico/edilizia dell’edificio.
In conseguenza dell’introduzione dell’attuale T.U.
380/2001, l’evoluzione della disciplina della materia, a parte la novità terminologica (che ha riunito
sotto il medesimo concetto di “agibilità”, sia gli
immobili adibiti a destinazione abitativa, che quelli
adibiti ad altri utilizzi), presenta due elementi che
contribuiscono ad allontanare tale certificazione da
qualunque valenza urbanistico-edilizia. In primo
luogo, infatti, l’art. 24 esplicita in maniera espressa
le esatte funzioni che si riconnettono all’agibilità,
sostanziandole nell’accertamento della sussistenza,
nell’edificio, delle condizioni di sicurezza, igiene,
salubrità e risparmio energetico e, in secondo luogo, pur richiamando, tra i documenti preordinati al
rilascio della certificazione di agibilità, la dichiarazione di conformità dell’opera rispetto al progetto
approvato, si limita a richiedere una dichiarazione
di parte che non è più nemmeno una dichiarazione
tecnica proveniente dal direttore dei lavori, ma una
semplice dichiarazione proveniente da chi ha presentato la richiesta di agibilità e quindi, in sostanza,
proveniente dal privato proprietario.
Tuttavia, al di là del dato letterale ricavabile dal
primo comma dell’art. 24 T.U., il quale lascia supporre come gli obiettivi di pubblico interesse che il
legislatore ha inteso perseguire nel subordinare
l’utilizzabilità degli edifici al rilascio dell’apposita
certificazione di agibilità siano collegati a funzioni
di tutela della salute, pubblica incolumità e risparmio delle fonti energetiche, è innegabile come la
valutazione delle documentazioni necessarie alla
definizione del procedimento per il rilascio della
certificazione non possano che portare alla conclusione di una certa rilevanza dell’agibilità anche sotto il profilo edilizio-urbanistico. L’art. 25, comma
1, lett. b), tra le documentazioni richieste in accompagnamento alla domanda di rilascio, pone, di fatto,
su un medesimo piano la dichiarazione di conformità dell’edificio rispetto al progetto e la dichiarazione in ordine alla avvenuta prosciugatura dei muri e della salubrità degli ambienti, di guisa che contrariamente a quanto da molti sostenuto - non è
affatto vero che la certificazione di agibilità non
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svolgerebbe più alcuna funzione di verifica di conformità urbanistica ed anzi, almeno dal punto di vista delle disposizioni letterali contenute nel richiamato art. 25, finisce per porre su un medesimo piano la rilevanza degli aspetti igienico-sanitari rispetto a quella relativa agli aspetti urbanistico-edilizi. È
vero che l’incidenza di una dichiarazione di conformità, che oggi proviene sostanzialmente dal privato, è certamente annacquata rispetto ad analoga
certificazione che, nel passato, doveva provenire
obbligatoriamente da un tecnico (il direttore dei lavori o altro tecnico abilitato), ma questa sorta di
evoluzione regressiva di certo tecnicismo documentale si estende anche agli accertamenti igienicosanitari e sembrerebbe giustificata unicamente dalla
volontà di semplificazione, insita nel legislatore più
moderno e che si sviluppa attraverso la diffusa
prassi di delegare al privato, in funzione autocertificativa, tutta una serie di accertamenti prima lasciati alla P.A. o a determinate competenze di tecnici della materia.
Il problema è, piuttosto, quello di coniugare,
nell’ambito della certificazione di agibilità,
l’accertata rilevanza degli aspetti urbanistico-edilizi
con le definizioni presenti nel primo comma
dell’art. 24, le quali, come detto all’inizio, puntano
l’obbiettivo sulla tutela di un pubblico interesse che
sembrerebbe
essere
unicamente
collegato
all’esistenza di requisiti igienico-sanitari. Se, infatti, il certificato di agibilità è funzionalizzato ad attestare, come dice la norma, la sussistenza
nell’edificio delle condizioni di igiene, salubrità e
risparmio energetico, la conformità urbanistica
dell’edificato sembrerebbe del tutto irrilevante rispetto a tali accertamenti. La conformità rispetto al
progetto assentito, ancorché possa essere ampiamente indicativa in proposito, potrebbe in teoria
nulla aggiungere o togliere rispetto alle effettive
condizioni igieniche ed energetiche che consentano
l’effettiva utilizzabilità dell’edificato. Nulla può infatti escludere che anche un manufatto che abbia rispettato alla lettera il progetto approvato, sia poi nel
concreto mancante di quelle caratteristiche igieniche ed energetiche che ne consentano la libera utilizzabilità. Basti pensare al caso in cui particolari
contingenze termiche e meteorologiche non abbiano consentito un tempestivo prosciugamento delle
murature; oppure al caso in cui errori commessi
nella realizzazione degli impianti termo-idraulici,
non apparentemente visibili (come nel caso di un
viziato ricircolo dell’acqua calda per uso sanitario
che richiede energie termiche in esubero) abbiano a
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determinare significativi sprechi energetici. Ed, infatti, il legislatore ha richiesto, in funzione delle indagini di natura igienico-sanitaria e degli accertamenti energetici, specifiche documentazioni del tutto autonome rispetto alla dichiarazione di conformità al progetto. Qual è, allora, l’esatta valenza della
certificazione di conformità edilizia richiesta in
funzione del rilascio dell’agibilità e, in altri termini,
qual è l’effettiva funzione urbanistico-edilizia che
oggi può considerarsi espletata attraverso il rilascio
dell’agibilità?
Per dare un’esauriente risposta a tale interrogativo,
è opportuno partire dalla considerazione che il
T.U.E., nel ribadire l’ambito operativo del certificato di agibilità, ne ha, di fatto, ampliato notevolmente gli aspetti tutelati ricomprendendovi, oltre al tradizionale aspetto igienico-sanitario, anche l’aspetto
inerente le condizioni di sicurezza dell’edificio.
Con ciò, il T.U.E., con riguardo alla valenza da riconnettere all’agibilità, ha introdotto una variabile
ulteriore rispetto alla quale, e solo rispetto alla quale, assume rilevanza la conformità progettuale
dell’edificato: la materia della sicurezza. Sicché è
sotto questo unico aspetto, della sicurezza
dell’edificio appunto, che assume rilevanza la conformità edilizia di quanto realizzato rispetto al progetto. Una rilevanza che, a parere di chi scrive, lascia sullo sfondo o, quanto meno in secondo piano,
le tradizionali problematiche inerenti gli abusi edilizio-urbanistici per occuparsi, direi quasi esclusivamente, di elementi che, collegati al progetto, consentono la tutela di specifici interessi collettivi legati all’utilizzazione dell’edificio, quali la staticità
e la sicurezza strutturale di quanto edificato.
Perciò, se esiste certamente una rilevanza urbanistica collegata alla certificazione di agibilità, essa non
poggia tanto sull’accertamento di un eventuale abuso, per la cui individuazione sono preposti ben altri
e più pregnanti controlli e ben altri mezzi dissuasivi, quanto sull’evidenziazione del rispetto del progetto originario che, in quanto assentito, non può
avere comportato la realizzazione di manufatti carenti sotto il profilo della sicurezza e della loro staticità. Il tutto al fine di apprestare unicamente una
significativa tutela a quell’interesse generale rappresentato dalla difesa della pubblica incolumità rispetto al quale, invece, il problema di contrastare la
circolazione di immobili abusivamente realizzati
resta, nell’ottica della dichiarazione di agibilità, di
mero sfondo.
Ed è proprio questa particolare funzione urbanistica
della certificazione di agibilità a spiegare la diversa
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rilevanza della dichiarazione di conformità al progetto nell’ambito di un procedimento instaurato con
D.I.A. rispetto ad un intervento assentito con regolare permesso di costruire. Nel primo caso la dichiarazione di conformità richiesta a corredo della
documentazione per il rilascio dell’agibilità ha un
suo pregresso nella certificazione di collaudo finale
redatta dal tecnico progettista che, ai sensi del settimo comma dell’art. 23, serve a concludere il procedimento di “abilitazione “ edilizia instaurato con
D.I.A. Nel secondo caso, invece, l’unico momento
in cui viene documentalmente dichiarata la conformità è proprio nell’ambito del procedimento per il
rilascio dell’agibilità. Sicché, per quanto paradossale possa sembrare, è proprio in presenza di un permesso di costruire che la certificazione di agibilità
assume un particolare connotato urbanistico, sia pure sulla scorta di una dichiarazione di conformità
che non è effettuata da un tecnico. Come dire che,
proprio in presenza di quell’abilitazione edilizia
considerata “principe” - quale è il permesso di costruire - sia lasciato proprio all’agibilità (e dunque
ad un documento non proprio deputato alla funzione di controllo del territorio sotto l’aspetto urbanistico) il ruolo di verificare la coerenza urbanisticoedilizia di quanto realizzato. Ciò non deve poi stupire più di tanto per le ragioni sopra esposte per cui,
in presenza di “permesso di costruire”, il controllo
di conformità al progetto si pone ad un gradino necessariamente inferiore e più blando rispetto
all’analogo controllo richiesto in presenza di
D.I.A., in considerazione dei più stringenti controlli
che caratterizzano sin dall’inizio il permesso di costruire rispetto a quelli necessari in presenza di
un’attività procedimentale instaurata con D.I.A.
Quest’ultima, infatti, basandosi essenzialmente su
un procedimento che è di parte (non solo nel suo
impulso iniziale, ma anche durante tutto il suo iter),
necessita di un controllo di conformità realizzato da
un tecnico che trova la sua naturale “ubicazione”,
non nell’ambito dell’agibilità (ove pure la conformità è richiesta ma con mera dichiarazione di parte), per sua natura deputata a scopi che non sono
propriamente quelli di un controllo urbanisticoedilizio, ma a conclusione del procedimento stesso,
attraverso la certificazione di collaudo finale redatta
dal progettista.
Per quanto le disposizioni attualmente in vigore
non contemplino alcuna previsione in ordine alla
incidenza della certificazione di agibilità sulla contrattazione immobiliare né, tanto meno esistono
norme che ne presuppongano il necessario rilascio
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rispetto alla commercializzazione dell’immobile,
limitandosi la legge a prevedere l’inutilizzabilità
dell’immobile rispetto alla sua naturale destinazione in assenza di agibilità, pena l’irrogazione di specifiche sanzioni a carico di chi leda questo divieto,
la copiosità della giurisprudenza sul tema fa intuire
come la mancanza del requisito dell’agibilità non
sia affatto priva di rilevanza nei rapporti negoziali.
In linea di massima e al di là di taluni dati letterali
rinvenibili dalle massime giurisprudenziali, non
sempre puntuali, invero, nel rispecchiare le effettive
dimensioni delle conclusioni cui i giudici sono
giunti nell’affrontare la problematica, è possibile
isolare tre principi posti dalla giurisprudenza in materia di agibilità:
A) l’inesistenza della licenza di abitabilità (ma il
discorso è evidentemente estensibile anche alle unità immobiliari diverse da quelle a destinazione abitativa) incide sull’esercizio e sulla disponibilità, in
senso generale, del diritto di proprietà;
B) l’inesistenza dell’agibilità non comporta alcuna
limitazione alla legale circolazione dell’immobile e
quindi alla validità dell’atto di trasferimento, incidendo
unicamente
su
questioni
inerenti
l’adempimento della prestazione contrattuale;
C) rispetto all’inesistenza dell’abitabilità/agibilità è
del tutto irrilevante l’avvenuto perfezionamento dei
procedimenti urbanistici abilitativi, ordinari o in
sanatoria.
Quanto al primo punto, è stato ampiamente evidenziato come l’agibilità si riconnetta al controllo di
obiettivi di pubblico interesse costituiti dalla tutela
della salute e della pubblica incolumità. Si tratta,
pertanto, di elementi che sono sovracostituiti rispetto ai diritti e agli interessi che, collegati alla proprietà privata, sono come tali pur ritenuti meritevoli
di tutela. Come si sa, il diritto di proprietà compendia una serie di libertà e di diritti che possono essere legittimamente esercitati e legalmente tutelati fino al limite estremo in cui essi non vadano ad intaccare diritti di terzi analogamente tutelati e, soprattutto, diritti legati all’ambito pubblicistico, costituzionalmente garantiti e, pertanto, di rango superiore.
In questo campo bisogna rammentare come la certificazione di agibilità serva sostanzialmente a garantire che l’immobile sia in possesso di tutti i requisiti
che ne accertino concretamente la possibilità del
suo utilizzo senza rischi per la salute pubblica e
l’incolumità, non solo di chi ne usufruisce, ma anche dell’intera collettività. Proprio per la tutela di
tali finalità, non bisogna dimenticare che la norma
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posta dal vecchio art. 221 del R.D. 27 luglio 1934,
n. 1265, abrogata per il resto dalle successive normative dettate in materia, è rimasta pienamente in
essere per la parte in cui la stessa vieta l’utilizzo
degli edifici sprovvisti della certificazione di agibilità. Sotto questo aspetto, allora, l’esercizio del diritto di proprietà che si concreti nell’utilizzo di un
bene che non goda attualmente o, peggio, non possa
mai godere dell’ottenimento di quella “patente”,
costituita dal rilascio dell’agibilità, che ne garantisca l’immunità da vizi capaci di compromettere la
sicurezza e la tutela della salute pubblica, non può
che rappresentare un illegittimo esercizio della proprietà ed, anzi, un abuso di essa. Sicché la mancata
concessione dell’agibilità costituisce, di fatto, una
limitazione alle libertà che si riconnettono al diritto
di proprietà, impedendone in concreto il legittimo
esercizio.
Tali considerazioni, però, non devono condurre al
facile equivoco, in cui sovente si rischia di cadere,
soprattutto attraverso una cattiva interpretazione di
alcune conclusioni giurisprudenziali, secondo cui la
mancanza dell’agibilità costituisce un insormontabile impedimento alla validità del trasferimento di
diritti relativi all’immobile che ne sia sprovvisto.
Una recente sentenza della Suprema Corte (Cass.,
Sez. III, 23 gennaio 2009, n. 1701) che, peraltro, ribadisce un concetto già ampiamente affermato nel
passato da altre pronunce su analoghe problematiche, ha ricondotto la licenza di abitabilità a rango di
“requisito giuridico essenziale ai fini del legittimo
godimento e della commerciabilità del bene [...]”.
Ma tale dato letterale, come ben spiegato altresì in
diritto nel prosieguo della citata sentenza, non deve
essere interpretato nel senso che la mancanza della
agibilità determini una limitazione legale alla circolazione dell’immobile. Infatti, in ciò ricollegandoci
al secondo principio sopra evidenziato, la licenza di
agibilità non costituisce una condizione giuridica
della validità del contratto ma, incidendo esclusivamente sull’attitudine del bene compravenduto a
svolgere la sua naturale funzione economicosociale, ne rappresenta un elemento che contribuisce ad integrare l’identità dell’immobile. Di guisa
che la mancanza dell’agibilità, rendendo il bene
inidoneo alla sua naturale utilizzazione, rende di
fatto impossibile il soddisfacimento delle esigenze
che hanno condotto l’acquirente a contrarre, determinando, per questa via, una sostanziale incommerciabilità del bene stesso o, se si vuole, in altri
termini, una inutilità dell’acquisto effettuato. Non si
tratta, perciò, come si vede, di una “incommerciabiImmobili & proprietà 2015
lità” in senso giuridico, come da alcuni paventato,
ma di una “incommerciabilità” in senso economico
le cui conseguenze, come chiarito per l’ennesima
volta anche da quest’ultima pronuncia della Cassazione, attengono ai profili dell’adempimento contrattuale e non si pongono in termini di condizionamenti
alla validità del contratto, coinvolgendo, pertanto,
tutta la casistica relativa all’inadempimento contrattuale con tutte le conseguenti azioni civili esperibili
per tali fattispecie. È, invece, rimasta isolata una
pronuncia dei giudici di merito (Trib. Venezia, 9
febbraio 1978, in Giur. it., 1979, I, 2, 234) secondo
la quale la mancanza del certificato di abitabilità determinerebbe nullità del contratto di vendita per illiceità dell’oggetto. In effetti ad analoghe conclusioni
è giunta anche qualche pronuncia della Suprema
Corte che in termini di nullità per illiceità (rectius:
sopravvenuta impossibilità) dell’oggetto si è pronunciata con riferimento ad immobili a destinazione diversa da quella abitativa (immobili produttivi
o destinati comunque all’esercizio di una attività).
In tal caso, a ben vedere, la mancanza dell’agibilità
comporta la sopravvenuta impossibilità assoluta
dell’oggetto del contratto e, perciò, per questa via la
sua insanabile conseguente invalidità ai sensi
dell’art. 1418 c.c.
Di fronte a tali conclusioni è facile argomentare come
la mancanza dell’abitabilità non rende illecito
l’oggetto del contratto ma si limita a determinare
l’inidoneità del “bene-oggetto” all’uso cui è destinato,
nulla perciò sottraendo rispetto alla piena commerciabilità giuridica del bene. I limiti del ragionamento di
chi asserisca l’invalidità del contratto in presenza di
un bene sprovvisto dell’agibilità, sono facilmente individuabili sol che si consideri come nessuna norma,
comunque, impedisca il trasferimento di immobili
privi della certificazione di agibilità e come, tale deficienza, comporti, per espressa previsione di legge,
soltanto l’impossibilità che l’immobile venga utilizzato per la destinazione sua propria per la quale, verosimilmente, era stato acquistato. Il che, come è ovvio,
non determina una impossibilità sopravvenuta assoluta dell’oggetto del contratto che è e resta, come “oggetto del contratto” considerato in senso assoluto, del
tutto integro anche quando non possa assolvere alla
sua naturale funzione.
Quando la Corte di Cassazione si è pronunciata per
la nullità contrattuale scaturente dall’impossibilità
assoluta dell’oggetto, lo ha fatto, e giustamente, con
riguardo ai contratti di affitto di azienda nei quali
l’immobile assurge ad una precisa funzione strumentale che, mi si consenta la forzatura, direi entra
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a far parte dello stesso concetto di “oggetto del contratto”, nel senso che l’oggetto in tal caso non è determinato soltanto dal bene in quanto tale, ma da un
bene caratterizzato da specifiche qualità e natura e
per il quale dunque assume una rilevanza essenziale
la sua destinazione in funzione del suo utilizzo
strumentale rispetto all’attività aziendale. In conseguenza di ciò, l’impossibilità di utilizzazione dipendente dal mancato rilascio dell’agibilità, impedisce l’espletamento di quella funzione per il quale
il bene stesso era entrato a far parte del contratto
quale suo oggetto. Il che, coerentemente coi principi generali, genera una “deficienza” contrattuale tale da giustificare l’invalidità sancita dall’art. 1418
c.c. In altre fattispecie contrattuali, come nella vendita, invece, non vi è spazio per la considerazione
di una sopravvenuta impossibilità dell’oggetto in
termini assoluti in quanto la funzione che al “bene
oggetto” si riconnette non entra a far parte del concetto legale di “oggetto”, limitandosi ad avere una
sua rilevanza nell’ambito semmai della disciplina
dell’errore, che può condurre, non alla nullità, ma
all’annullabilità del contratto qualora all’errore
commesso possano riconnettersi i requisiti di essenzialità e di riconoscibilità previsti dalla legge
(artt. 1428 ss. c.c.) per la sua rilevanza.
Quanto al terzo principio giurisprudenziale che si è
tentato sopra di isolare, infine, a riprova della netta
autonomia delle problematiche urbanistiche rispetto
a quelle dipendenti dall’agibilità, le conclusioni giurisprudenziali chiariscono, secondo un’affermazione
mantenutasi pressoché costante in tutta la giurisprudenza in materia, come la definizione di eventuali
procedimenti urbanistici (ordinari o in sanatoria) sia
del tutto irrilevante a giustificazione del perfetto
adempimento contrattuale quando, comunque, non si
fosse pervenuti all’ottenimento della certificazione
di agibilità, essendo la consegna di tale certificazione, almeno di norma e salvo specifiche deroghe contrattuali tra le parti, un requisito giuridico essenziale
del bene compravenduto, in assenza del quale il bene
viene meno alla naturale destinazione per la quale
possa essere utilizzato.
Questa conseguenza, direi automatica, discendente
dalla mancanza della certificazione di agibilità/abitabilità, fa sì che, anche qualora si documenti
una condizione dell’immobile tale per cui lo stesso
risulti perfettamente conforme sotto l’aspetto urbanistico-edilizio, ciò non comporta l’esclusione
dell’inadempimento contrattuale.
Se, per quanto sin qui detto, la mancanza della certificazione di agibilità non incide sulla validità del
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contratto di vendita, tuttavia le conseguenze, svolgendosi sul diverso piano dell’adempimento, possono determinare pesanti riflessi sulla responsabilità del venditore.
Il principio generale dal quale partire per una valutazione delle conseguenze legali generate dalla
mancanza dell’agibilità è, in materia di vendita,
quello posto dal terzo comma dell’art. 1477 c.c. secondo cui costituisce obbligazione primaria del
venditore quella di consegnare all’acquirente, tra
l’altro, anche i documenti relativi all’uso della cosa
venduta, tra i quali è ovviamente ricompresa la certificazione di agibilità, in funzione del legale utilizzo del bene. Ora, sebbene l’acquirente possa liberamente scegliere di acquistare un immobile anche
in assenza del documento che lo renda atto al suo
utilizzo, e ciò sulla base dell’autonomia negoziale
delle parti, tutelabile dall’Ordinamento in assenza
di alcuna norma imperativa che impedisca la commerciabilità degli immobili senza l’avvenuto conseguimento dell’agibilità degli stessi, è normale
che, in mancanza di una disposizione negoziale tra
le parti in senso contrario, la legittima aspettativa
dell’acquirente si sostanzi nell’acquisto di un bene
idoneo all’uso cui lo stesso è destinato. Di guisa
che la mancanza della certificazione di agibilità
impedisce la realizzazione della funzione economico-sociale legata al contratto di acquisto in quanto
il perfezionamento del contratto, pur determinando
la valida acquisizione del bene al patrimonio
dell’acquirente, impedisce il soddisfacimento dei
bisogni che hanno indotto l’acquirente ad effettuare
l’acquisto, essendo il bene in concreto inutilizzabile
rispetto allo scopo in funzione del quale l’acquisto
stesso è stato perfezionato.
Sulla base di quanto sin qui detto, è pacifico che il
notaio non ha uno specifico obbligo di accertare
l’esistenza della licenza di agibilità/abitabilità, né di
effettuare in tal senso alcuna specifica menzione in
atto, poiché tale menzione la legge non prevede e
poiché, come più volte affermato, essa non disciplina alcun divieto o alcuna sanzione nei confronti
di chi abbia alienato un immobile privo di agibilità.
La problematica inerente eventuali specifici accorgimenti da utilizzare nell’ambito documentale della
contrattazione immobiliare in tema di agibilità
dell’edificio compravenduto, si svolge quindi tutta
sul piano della mera opportunità, a meno che uno
dei contraenti non abbia espressamente rimesso al
notaio un incarico professionale relativo allo svolgimento di specifici accertamenti in materia.
Le conseguenze che la giurisprudenza riconnette al
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silenzio posto dalle parti in materia di agibilità e la
necessità, che pure è insita nello svolgimento
dell’attività notarile, di prevenire il contenzioso,
consigliano il ricorso a delle specifiche clausole
contrattuali che si occupino di regolamentare quanto attenga all’agibilità.
Sarebbe apprezzabile che tali clausole non si limitassero soltanto ad una mera “ricognizione” di ciò
che è attualmente lo stato di fatto, ma disponessero
anche oltre, tendendo ad una regolamentazione
quanto più completa possibile, che, soprattutto in
assenza attuale della certificazione di agibilità, sia
capace di chiarire e documentare l’effettiva volontà
dei contraenti rispetto all’eventualità in cui qualità
e natura, a questo punto apparenti, del bene oggetto
del contratto, possano venire a non corrispondere
più a realtà nel momento in cui si determinasse ad
esempio l’impossibilità definitiva di conseguire
l’agibilità.
Partendo dal presupposto che la dichiarazione di
abitabilità/agibilità “fotografa” una situazione attuale del bene rispetto al momento in cui viene rilasciata e posto che l’art. 26 del T.U. in materia edilizia pone sempre, in capo alla P.A., il potere di dichiarare la sopravvenuta inagibilità qualora verificasse la sopravvenienza di situazioni che abbiano
eliminato le condizioni necessarie per l’agibilità, è
anzitutto fondamentale chiarire, soprattutto in ordine agli immobili più datati, se qualunque garanzia
prestata dall’alienante in ordine all’agibilità si riferisca ad una situazione storicamente isolata con riferimento ad un dato momento (per esempio a quello della costruzione o dell’avvenuto ottenimento
della certificazione di abitabilità/agibilità), oppure
venga contemplata in termini assoluti, nel senso di
rappresentare una garanzia che, al di là del dato
formale (la certificazione potrebbe infatti essere
ormai superata, nella sua valenza sostanziale, in
conseguenza di nuove normative che l’abbiano resa
anacronistica), si sostanzi nell’obbligazione di garantire, anche con riferimento alla vigente legislazione, l’esistenza nell’immobile di tutti i requisiti
atti a permetterne il suo legale utilizzo secondo la
destinazione che gli è propria.
In secondo luogo, per quanto possa sembrare apparentemente insito nella natura del bene quale fatta
rilevare dalla definizione dello stesso contenuta nel
contratto, è opportuno mettere in risalto l’esatta
qualità del bene in relazione alla propria destinazione d’utilizzo con riferimento alla volontà contrattuale dell’alienatario, e ciò al di là dell’avvenuto
rilascio, o meno, della certificazione di agibilità, alImmobili & proprietà 2015
lo scopo di stabilire l’effettivo dimensionamento
dell’importanza della destinazione del bene in relazione
alla
manifestazione
del
consenso
dell’acquirente. In altri termini è assolutamente opportuno far emergere dalla lex contractus se la volontà dell’alienatario è quella di pervenire comunque
alla stipulazione del contratto, indipendentemente
dalla effettiva realizzazione della qualità del bene in
ordine alla sua destinazione, oppure se rappresentava
una condizione implicita del contratto la legale utilizzabilità dell’oggetto secondo la destinazione
emarginata in seno allo stesso. Questo primo riscontro contrattuale, che peraltro non è necessariamente
implicito nella definizione del bene oggetto del contratto, assume poi una coerente rilevanza in ordine
alle conseguenze che si determinino in mancanza di
agibilità posto che la responsabilità dell’alienante sarà valutata in termini ben meno severi qualora potesse individuarsi una volontà dell’altro contraente al
perfezionamento dell’operazione indipendente dalla
reale destinazione del bene.
Sarà poi opportuno stabilire se l’agibilità
dell’edificio promessa dall’alienante, e dunque la
legale utilizzabilità del bene secondo la sua naturale
destinazione, venga da questi effettivamente garantita, o meno, e, in caso affermativo, se si tratti di
una garanzia che attenga, sia al piano formale che a
quello sostanziale o se, invece, tale garanzia si fermi al solo piano sostanziale. Nel primo caso il venditore dovrà, non solo garantire la presenza di tutti i
requisiti necessari al rilascio dell’abitabilità, ma altresì obbligarsi a porre in essere tutta l’attività in
funzione del rilascio della relativa certificazione.
Nel secondo caso, invece, sarà sufficiente ad esonerare il venditore da qualunque responsabilità in relazione al materiale rilascio della certificazione,
l’avvenuta prova che quanto oggetto del contratto
sia in possesso effettivamente di tutte le condizioni
per l’ottenimento dell’agibilità, restando, l’attività
necessaria al rilascio della documentazione relativa,
unicamente in capo all’alienatario, salvo la previsione di regolamentare in contratto la previsione
della messa a carico dell’alienante degli oneri, anche economici, derivanti dalla eventuale necessità
di realizzare le opere edilizie richieste per
l’ottenimento dell’agibilità.
In conclusione occorre ribadire che, al di là della
specifica attività di consulenza incombente sul notaio nell’ambito della contrattazione immobiliare,
per cui allo stesso compete un generale dovere di
informazione circa le conseguenze derivanti dal
mancato rilascio del certificato di agibilità, sia sotto
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il profilo economico (sanzioni amministrative connesse), che sotto quello sostanziale (legale inutilizzabilità del bene secondo la sua naturale destinazione), è innegabile che, qualora si volesse pervenire ad un effettivo controllo circa l’esistenza, nel bene oggetto del contratto, di tutti gli elementi posti a
garanzia dell’ottimizzazione del bene sotto i diversi
aspetti, della regolarità urbanistica, della sicurezza
degli impianti, della salubrità dei locali, del risparmio energetico, rilevanti comunque a tutela di interessi generali della collettività, basterebbe dare un
rilievo oggettivo al perfezionamento dell’agibilità
facendone condizione irrinunciabile di ricevimento
dell’atto. La mole di documentazione, infatti, oggi
prevista e richiesta in funzione del rilascio
dell’agibilità, sarebbe sufficiente a documentare, da
sola, tutti i diversi aspetti i cui singoli risultati sono
oggi invece legati a specifiche certificazioni e dichiarazioni di parte rispetto alle cui necessità, in
funzione del perfezionamento dell’atto, la legge
appare attualmente alquanto convulsa e confusa.
La diversa questione circa la conformità
catastale
Il comma 14 dell’art. 19 del D.L. 31 maggio 2010,
n. 78, convertito con L. 30 luglio 2010, n. 122, ha
introdotto una integrazione di significativa importanza relativamente alla normativa sulla disciplina
tecnica del sistema della pubblicità immobiliare,
portato dalla L. 27 febbraio 1985, n. 52, al cui art.
29 è stato aggiunto, in virtù della citata novella, il
comma 1-bis.
È da premettere che l’ambito normativo sul quale il
legislatore ha inciso con la normativa appena richiamata è un ambito che non attiene, almeno in via
diretta, a norme di diritto sostanziale di natura civilistica, sibbene a norme di diritto amministrativo,
sia pur latamente inteso. Infatti la L. n. 52/85, sulla
quale il testo del D.L. ha inciso, con proprie norme,
integrative di quella, costituisce una normativa che,
sebbene abbia modificato alcuni elementi del Libro
VI del C.C., non ne ha stravolto alcun elemento sostanziale, essendo essa preordinata essenzialmente
alla introduzione di nuove procedure di redazione
delle note pubblicitarie, volte a permettere la realizzazione di un sistema di elaborazione automatica di
dati presso le Conservatorie dei PP.RR.II., capace
di determinare un effettivo ammodernamento di un
sistema ormai per tanti versi considerato obsoleto e
non al passo coi tempi.
Ciò basti a far comprendere come non si possa reImmobili & proprietà 2015
cuperare, nelle intenzioni del legislatore della novella, alcuna volontà, nemmeno implicita, di modificare, o peggio abrogare, alcun istituto civilistico
posto dal diritto vigente.
La disposizione in discorso prevede essenzialmente
due novità:
a) l’obbligo, relativamente agli atti pubblici e alle
scritture private autenticate portanti trasferimento,
costituzione e/o scioglimento di comunione di diritti reali, allorché abbiano per oggetto fabbricati già
esistenti costituenti unità immobiliari urbane, a pena di nullità, di identificare esattamente gli immobili che ne costituiscono oggetto, facendo riferimento
ai loro dati catastali e facendo riferimento alle planimetrie che risultano ufficialmente depositate in
catasto, introducendo, altresì nell’atto, ancora una
volta a pena di nullità, una dichiarazione, resa
dall’intestatario-disponente del diritto, circa la conformità allo stato effettivo, sia dei dati catastali indicati, sia delle richiamate planimetrie;
b) l’obbligo per il notaio ricevente gli atti sopra
elencati di verificare preventivamente coloro che risultino intestatari del bene secondo le intestazioni
catastali e di constatarne la rispondenza con le risultanze dei registri immobiliari. Quest’ultima “attività”, alla quale, di fatto, il notaio era comunque
da sempre chiamato, anche a prescindere dalla introdotta novella, non prevede alcuna menzione
formale, a pena di nullità, ma esclude che si possa
ricorrere al valido perfezionamento di un atto dispositivo, avente ad oggetto diritti reali su beni
immobili urbani, in presenza di una eccezionale deroga pattizia agli obblighi notarili di accertamento
ipo-catastali, nemmeno nelle ipotesi in cui dottrina
e giurisprudenza ammettevano tale deroga.
Tale obbligo, invero non strettamente legato alla
tecnica redazionale del documento, quanto piuttosto
all’attività notarile che precede la stipula vera e
propria, sembrerebbe, dal tenore letterale della
norma, rinvenirsi, non solo per gli atti aventi per
oggetto fabbricati costituiti da unità immobiliari urbane, ma altresì per ogni altra fattispecie portante
costituzione, trasferimento o modifica di diritti reali
su fabbricati, anche diversi da quelli costituenti unità immobiliari urbane.
Quanto così sommariamente accennato, induce ad
affermare che, mediante tale novella legislativa, si
sia inteso introdurre sostanzialmente, nell’ambito
del sistema preposto alla disposizione di diritti reali
su beni immobili, un generalizzato obbligo di documentazione e di verificazione della rispondenza
tra le risultanze catastali e quelle effettive, sia in re22
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lazione agli elementi oggettivi, sia in relazione agli
elementi
soggettivi
che
caratterizzano
l’identificazione dell’immobile e la sua titolarità. In
tal senso è evidente come lo scopo della novella sia
quello di realizzare una perfetta rispondenza dei dati che individuano l’immobile, sia sotto il profilo
oggettivo, sia sotto quello soggettivo, al fine ultimo
di conferire ai dati risultanti dal Catasto un peso
ben maggiore rispetto al passato, facendo, del Catasto, un effettivo “data-base” le cui risultanze rappresentino concretamente il dato reale.
Quanto all’ambito applicativo delle norme in discorso, è anzitutto importante partire da una attenta
ricognizione del dettato letterale delle nuove norme. Sotto questo aspetto, la disposizione fa riferimento, quanto alla tipologia di atti dalla stessa interessati, alle stesse indicazioni formulate sul punto
dalla prima legge sul condono edilizio. In sostanza
si tratta degli atti costitutivi, traslativi o modificativi di diritti reali, per i quali è richiesto l’obbligo
della trascrizione. Ne restano esclusi i contratti preliminari ed in genere tutti gli atti che non determinano effetti di natura traslativa (costituzione di garanzie reali, atti costitutivi di fondo patrimoniale
senza trasferimento di diritti, contratti di locazione
ultranovennali, vincoli di destinazione, accettazione
dell’eredità, fusione, scissione e trasformazione di
società).
Per inciso è opportuno sottolineare come,
all’indomani della introduzione della novella, più di
un interprete ha immediatamente tacciato le novità
normative di una palese dimenticanza, laddove, dagli obblighi posti dal testo normativo, risultano del
tutto escluse le scritture private semplici. In effetti,
tuttavia, se solo si presta una particolare attenzione
alla causa giustificativa dell’intervento legislativo
in commento, è possibile recuperare al legislatore
una giustificatissima attenuante per quella che, a
primo acchito, è stata considerata una abominevole
dimenticanza.
L’intera struttura della novella è infatti improntata
ad un efficace ammodernamento di quella che
avrebbe dovuto essere la funzione svolta dal Catasto e che non è mai stata. Il tentativo che la novella
cerca di perseguire è il raggiungimento di una totale
coerenza di dati tra il sistema catastale e quello risultante dai Registri Immobiliari, al fine di conferire al Catasto quella funzione che avrebbe dovuto
essergli propria fin dalla sua nascita e che mai è stata: un serbatoio di dati che consenta l’effettuazione
di un concreto monitoraggio, con finalità soprattutto fiscali, della titolarità dei diritti fondiari.
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Connessa a questa primaria funzione resta, giocoforza, collegata la funzione di far emergere determinate titolarità immobiliari tenute occulte al fisco
per ragioni legate alla avvenuta perpetrazione di
abusi edilizi che, come tali, limitandosi a soddisfare
il miglior godimento, da parte del proprio titolare,
del bene che ne è stato oggetto, e quindi non essendo destinate, almeno in via immediata, ad entrare
nel circuito commerciale delle compravendite, sono
sfuggite ad oggi financo alle pur strette maglie delle
norme edilizie ed urbanistiche.
Ora, è intuitivo considerare come una scrittura privata semplice, pur consentendo una trasmissibilità,
una costituibilità, una modificabilità, e perfino lo
scioglimento, di diritti reali tra le parti, è insufficiente a rendere tali attività giuridiche opponibili
nei confronti dei terzi, stante l’impossibilità, per la
scrittura privata semplice, a pervenire ad alcuna
forma pubblicitaria. Di guisa che, l’impossibilità
del diritto reale, costituito, modificato, trasmesso, o
sciolto, ad entrare in un circuito che ne consenta la
valida commerciabilità con efficacia erga omnes,
stante l’avvenuto ricorso alla insufficiente forma
della scrittura privata semplice, proprio in dipendenza della mancanza del rispetto di quelle forme
minime considerate necessarie dall’ordinamento
per l’opponibilità ai terzi, ne svisa, per ciò stesso, la
pratica rilevanza.
La legge di conversione del D.L. che ha introdotto
la Novella ha recato seco alcune novità. Tra le più
rilevanti (insieme all’eliminazione, tra le tipologie
di atti oggetto della normativa, degli atti costitutivi
di diritti reali di garanzia) occorre segnalare quella
relativa alla possibilità che la dichiarazione di parte,
da rendersi dall’intestatario del bene, relativa alla
rispondenza, allo stato dei fatti, dei dati catastali e
delle planimetrie a cui il notaio ha fatto evidente riferimento documentale, possa essere sostituita da
una attestazione di conformità resa da un tecnico
abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Tale innovazione rispetto a quanto
sancito, in prima battuta, dal decreto sembra assolutamente positiva perché consente almeno di raggiungere due vantaggi. In primo luogo bisogna considerare che se la dichiarazione di conformità dovesse necessariamente derivare esclusivamente dal
soggetto parte dell’atto, essa potrebbe dar luogo a
profili di dubbio sulla veridicità della stessa anche
quando le mendacità non siano dipendenti da mala
fede del dichiarante. Basti pensare a come possa essere di assoluta criticità una dichiarazione resa circa
la conformità alla reale situazione di fatto quando,
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ad esempio, si fosse in presenza di situazioni pregresse rispetto all’acquisizione della titolarità del
diritto in capo al soggetto attualmente dichiarante
di cui quest’ultimo potrebbe non essere del tutto
edotto. In tal caso, invece, una dichiarazione ufficialmente resa da un tecnico esterno non lascia
margini di dubbio circa l’effettiva rispondenza della
attestazione effettuata rispetto alla realtà (salvo ovviamente le responsabilità cui il tecnico si espone in
caso di attestazioni non veritiere). Analogamente,
una tale attestazione “estranea” alle parti torna utile
tutte le volte in cui, la controparte o addirittura lo
stesso notaio, possano nutrire dubbi circa la veridicità della dichiarazione resa dal soggetto agente.
Senonché, la nuova disposizione che consente una
sostituzione della dichiarazione di parte, circa la
conformità, con una attestazione da parte di un tecnico potrebbe indurre alcuni problemi di natura
formale. La norma tace, infatti, sulla forma che tale
attestazione debba ricoprire e sulle modalità esatte
con le quali l’attestazione deve essere collegata
all’atto. Sul primo punto, la mancanza di una diversa e circostanziata volontà del legislatore, impedisce di ritenere necessario il ricorso ad una dichiarazione giurata fatta alla presenza del notaio o comunque di una attestazione che segua formule particolari. La responsabilità dell’attestante, in fondo,
è nella sottoscrizione che egli appone in calce alla
attestazione stessa che ne attribuisce la paternità e
che, unitamente alla professionalità di chi abbia effettuato la dichiarazione, vale ai fini del richiamo a
responsabilità di chi la emette. Quanto alle modalità
di collegamento all’atto, non pare che l’attestazione
sia da rendere dal tecnico in seno all’atto e, quindi,
quale comparente all’atto stesso, essendo sufficiente l’allegazione, al rogito stesso, di un documento
originale che tale attestazione contenga. D’altronde
non è pensabile ad una interpretazione della norma
in termini così rigidi e peraltro non espressi (perché
comunque la norma lascia del tutto indiscriminata
l’individuazione di quali caratteri formali
l’attestazione debba rivestire) da determinare un sostanziale blocco delle contrattazioni, in assenza di
una attestazione priva di presunti crismi di ufficialità. Non pare condivisibile sul punto l’opinione di
chi riconnette le richieste normative all’utilizzo di
formule sacramentali attraverso le quali si dia atto
dell’utilizzo di dati catastali corretti e dei riferimenti alle planimetrie depositate in Catasto e quindi
della conformità a quelli e a queste.
Tornando ai contenuti sostanziali della Novella, in
relazione alla rilevanza dei dati catastali, è, come si
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è detto, praticamente un obbligo quello della esatta
individuazione dell’immobile anzitutto attraverso il
ricorso ai dati catastali che lo identificano. Il riferimento agli esatti dati catastali individuanti il cespite oggetto del contratto non sembra affatto una
novità redazionale, quanto meno dal momento in
cui l’avvento del tecnicismo informatico delle conservatorie ha comportato l’adozione delle nuove
modalità di redazione delle note le quali, contrariamente alle vecchie note cartacee, non sopportano
più, come invece accadeva prima, il riferimento a
descrizioni del bene più o meno fantasiose ed approssimative. Ma neppure sembra una grandissima
novità il riferimento alle planimetrie catastali rispetto alle quali, se oggi è introdotto un vero e proprio obbligo legale di riferimento alle stesse, raramente, anche nel passato, poteva sfuggirsi ad una
loro verifica da parte del notaio, quando non si desse addirittura luogo ad una allegazione di esse al
contratto, al precipuo fine di meglio esemplificare
la volontà dei contraenti in ordine all’effettivo bene
dedotto nel negozio giuridico perfezionando.
Una precisazione che ha destato più volte qualche
perplessità, merita la questione se sia suscettibile di
nullità un atto nel quale si sia fatto riferimento a
delle planimetrie, poi materialmente allegate
all’atto, senza dire che si tratti delle planimetrie ufficialmente depositate in Catasto. La materiale allegazione all’atto stesso permette di controllare
l’effettiva provenienza delle stesse (dagli uffici catastali che le abbiano rilasciate), la data del rilascio,
e l’indicazione dei dati di identificazione catastale
dell’immobile che ne è oggetto, quali inseriti trasversalmente sulla planimetria stessa, in modo da
sconfessare ogni dubbio circa l’ufficialità della planimetria. Diversamente è a dirsi per l’ipotesi in cui
si sia semplicemente fatto riferimento (senza allegazione, peraltro - come detto - non obbligatoria) a
delle planimetrie, senza aggiungere che il riferimento è proprio a quelle “ufficialmente depositate
in Catasto”.
La legge di conversione, invece, sembra avere perso l’occasione di chiarire un punto che risulta particolarmente importante in relazione alle unità immobiliari “in corso di costruzione”. L’ultima dizione contenuta nella norma di cui al comma 1-bis
sembrerebbe far propendere per una esclusione di
tale fattispecie dall’applicazione normativa, posto
che, ai fini della cogenza di essa, non basta più che
si tratti, come in una prima redazione della norma,
di semplici “unità immobiliari urbane”, ma che, altresì, si tratti di “fabbricati già esistenti” e cioè di
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fabbricati che siano, o già ultimati nella loro interezza, secondo la disciplina contenuta nell’art. 25,
comma 1 del d.P.R. n. 380/2001, e che siano quindi
in grado di ottenere l’agibilità, o di fabbricati considerabili come comunque venuti ad esistenza secondo la disciplina contenuta nell’art. 2645-bis c.c.
Ora, la legge di conversione ha perso proprio
l’occasione di chiarire se il significato da attribuire
al “fabbricato venuto ad esistenza” è il primo, cioè
quello che può evincersi dal T.U. sull’edilizia, oppure se, per “fabbricati in corso di costruzione”
debbano intendersi, quelli rilevanti ai sensi della
normativa applicabile in materia di trascrizione di
preliminari di beni in corso di costruzione, e cioè
quelli per i quali siano state completate le tamponature esterne ed il tetto di copertura.
Qui, la conversione in legge del decreto, nulla ha
aggiunto, potendo lamentare l’interprete, la mancanza, ad oggi, di una sicura indicazione circa
l’adesione alla prima o alla seconda ricostruzione
del concetto di “fabbricato già esistente” secondo il
dettato normativo. Il che non potrà che lasciare
spazio a scelte prudenziali, ma pur sempre mai di
convenienza, sulla base della sensibilità propria di
ognuno, pur con tutte le problematiche che restano,
in tal modo, aperte in ordine alla effettiva validità
di titoli di provenienza trattati in maniera difforme
da come poi potrà essere trattato, di tempo, in tempo, il concetto stesso di “fabbricato già esistente”.
Scendendo più nel particolare, come si accennava
sopra, scopo della Novella è stato quello di introdurre sostanzialmente, nell’ambito del sistema preposto alla disposizione di diritti reali su beni immobili, un generalizzato obbligo di documentazione
e di verificazione della rispondenza tra le risultanze
catastali e quelle effettive, sia in relazione agli elementi oggettivi, sia in relazione agli elementi soggettivi
che
caratterizzano
l’identificazione
dell’immobile e la sua titolarità. Ciò, in modo da
realizzare una perfetta rispondenza dei dati che individuano l’immobile, sia sotto il profilo oggettivo,
sia sotto quello soggettivo.
Rispetto all’assunto è però opportuno chiedersi di
che tipo di rispondenza si tratti e quali siano le conseguenze generate da una eventuale mancanza di
conformità di tali dati.
Sembra che, sulla questione, debba ravvisarsi una
differenza sostanziale tra la natura di conformità
cui fa riferimento la prima parte del comma 14 e
quella a cui si riferisce la seconda parte dello stesso. Al di là di un dato testuale apparentemente analogo, in effetti, la dichiarazione di conformità cui è
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chiamato l’intestatario del bene ha la natura di una
corrispondenza bidimensionale nel senso che vi è la
necessità di un preventivo adeguamento, sia quando
il dato catastale risulti errato rispetto a quello apparente dalla realtà, sia quando sia avvenuto esattamente il contrario.
All’inverso, la conformità che è tenuta ad attestare
il notaio è data da una corrispondenza unidirezionale nel senso che egli è chiamato a verificare
l’adeguamento delle risultanze del Catasto con
quelle dei RR.II., e non viceversa.
La prima parte del comma 14, nella quale è ravvisabile essenzialmente l’aspetto più complesso attinente la “conformità oggettiva”, richiede la verificazione di due tipi di corrispondenza, l’una attinente ai dati catastali che individuano l’immobile,
l’altra relativa all’aspetto catastale grafico relativo
all’immobile rispetto alla sua materiale ed effettiva
consistenza. Ed entrambi tali verifiche vanno accertate con un duplice intervento. Il primo, di natura
per così dire documentale, affidato in buona sostanza direttamente al notaio, il quale dovrà provvedere
alla esatta individuazione catastale dell’unità immobiliare in contratto con indicazione in atto dei
dati catastali che la riguardano e con riferimento alla planimetria “ufficialmente” depositata in Catasto
ed individuante la rappresentazione grafica di essa.
Non si richiede ovviamente né una allegazione documentale del certificato catastale dal quale siano
stati desunti i dati identificativi, ma nemmeno
l’allegazione della planimetria che risulta depositata in Catasto in corrispondenza di quei dati identificativi.
Quanto alla individuazione catastale dell’immobile
in atto, nulla cambia rispetto al passato, se non,
come si accennava prima, l’ufficializzazione
dell’obbligatorietà di un adempimento redazionale
cui, nella prassi, ciascun notaio era comunque già
praticamente obbligato, almeno sin dall’era
dell’informatizzazione delle note pubblicitarie. Già
da tempo, infatti, era praticamente impossibile ricorrere ad una descrizione, sia pur specifica,
dell’immobile, che prescindesse dai dati identificativi catastali, necessari ai fini dell’esatto adempimento degli obblighi pubblicitari. Al notaio, oggi
come ieri, incombe comunque l’obbligo di attenzionare l’esatta ricostruzione dei dati identificativi
attuali, soprattutto quando essi risultino difformi rispetto a quelli evidenziati dai titoli di provenienza.
Quanto alla valutazione planimetrica dell’unità
immobiliare oggetto dell’attività negoziale dispositiva di diritti, sembra opportuna, sebbene non ne25
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cessaria, l’allegazione documentale della planimetria, anche in funzione di consentire un materiale e
documentato collegamento tra le risultanze della
stessa e le dichiarazioni di conformità cui è chiamato l’intestatario del bene.
Relativamente a tale ambito riservato all’indagine
tecnico-notarile non vi è spazio per alcuna nullità
dell’atto che non discenda dal mancato riferimento
ai dati di identificazione catastale o dal mancato riferimento alla planimetria ufficialmente depositata
in Catasto. Di guisa che, eventuali differenze, ad
esempio, tra la categoria catastale del bene, quale
risultante dalle ispezioni catastali correttamente effettuate dal notaio e l’effettiva diversa destinazione
d’uso del bene, non conosciuta e non palesata al notaio, risulta del tutto irrilevante, come analogamente è del tutto irrilevante una discrepanza, anche sostanziale, tra la rappresentazione grafica
dell’immobile rilevabile dalla planimetria di riferimento e la situazione reale del bene che il notaio
non è tenuto a conoscere, a meno di una dichiarazione effettuatagli da una delle parti circa
l’esistenza di situazioni di difformità.
A tali accertamenti notarili, ai quali dovrà corrispondere una documentabilità degli stessi, sia pure
estranea al contenuto dell’atto, si aggiunge un elemento redazionale nuovo rispetto al passato: la dichiarazione resa in atto dall’intestatario del bene
volta a corroborare quanto dedotto dal notaio, e
cioè: a) che vi sia una piena corrispondenza tra i dati catastali e lo stato di fatto del bene (e che cioè,
sostanzialmente, non solo i dati individuanti
l’immobile e costituiti da foglio, particella e subalterno, corrispondono al cespite oggetto del contratto, ma anche che l’intestazione della ditta catastale,
la destinazione e la consistenza catastale del bene
siano corrispondenti a quelli reali) ; b) che vi sia
una piena corrispondenza tra la consistenza materiale del bene e la rappresentazione grafica dello
stesso quale deducibile dalla planimetria depositata
in catasto (ed opportunamente allegata all’atto).
Anche qui la nullità dell’atto non deriva da eventuali
mendacità, alle quali peraltro si ricollegano altre
conseguenze di natura più che altro fiscale e per tanti
versi ancora da stabilirsi, ma dalla effettiva mancanza di tali elementi contenutistico-redazionali.
Qualche problema interpretativo potrebbe discendere dalla considerazione:
a) di quali dati catastali occorre accertare la corrispondenza allo “stato di fatto”;
b) chi debbano essere considerati gli “intestatari”
chiamati a fare le dichiarazioni di rispondenza riImmobili & proprietà 2015
chieste dalla norma.
In relazione al primo punto, stante la genericità del
riferimento testuale, dovremmo concludere che
qualunque dato catastale (intestazione della ditta,
indicazione di foglio, particella e subalterno, indicazione toponomastiche e di ubicazione di piano,
dati di classamento, riferimenti alla consistenza,
rendita catastale) è rilevante ai nostri fini. Invero,
occorre sempre collegare, ai fini di una equilibrata
interpretazione della norma, quello che è il dato testuale con la effettiva ratio preposta alla norma
stessa. Scopo della disposizione introdotta dal decreto legge in esame non è, come si avrà modo di
esplicitare meglio più avanti, quello di determinare
una pedissequa uniformità delle risultanze catastali
alla realtà effettiva, quanto quello di evidenziare e
correggere discrepanze di dati la cui rilevanza è
collegata o collegabile a ragioni di natura fiscale,
nell’ottica di approntare un sistema documentale
che possa consentire all’Amministrazione dello
Stato e, segnatamente al sistema erariale, un monitoraggio sulla titolarità e sulla consistenza fondiaria.
Tali considerazioni inducono a ritenere che i dati
catastali rilevanti ai fini dell’accertamento di conformità siano solo quelli che possano determinare
eventuali alterazioni di quel sistema di controllo e
delle peculiarità (fiscali appunto) a cui quel sistema
di controllo è collegato. Sicché, non qualsiasi dato
catastale difforme rispetto allo “stato di fatto” va ad
incidere sulla dichiarazione di conformità da rendere da parte dell’intestatario e quindi sulla ricevibilità degli atti, ma solo quei dati la cui difformità possa avere un’incidenza di rilievo rispetto alla realizzazione di una adeguata indagine di natura fiscale.
In tal modo, la semplice difformità del dato toponomastico (indicazione della denominazione della
via e individuazione del civico) non assume alcun
rilievo ai fini della conformità richiesta, allo stesso
modo di come l’ubicazione del piano, l’indicazione
(ove presente) della scala e del numero interno , dati questi spessissimo incoerenti rispetto alla realtà,
non sembrano assumere rilievo sotto l’aspetto di
quella specifica conformità richiesta dalla legge,
per i fini per i quali essa viene richiesta.
Quanto al problema di individuare chi debbano essere considerati gli “intestatari” per le finalità richieste dalla norma in esame, in ordine alle dichiarazioni da farsi, è opportuno considerare anzitutto
che, quando il legislatore abbia inteso fare riferimento all’intestatario risultante dai dati catastali, lo
ha detto espressamente, come avviene nella secon26
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da parte del comma 14. Sicché, a tal fine, sembra
potersi affermare che l’intestatario chiamato a fare
la dichiarazione in atto non debba considerarsi colui che è tale dalle risultanze catastali. L’intestatario
definito dalla norma sembra piuttosto individuarsi
in colui che è sostanzialmente titolare del diritto
oggetto dell’atto dispositivo ed, in primo luogo, ma
non esclusivamente, colui che risulti titolare in base
alle risultanze dei registri immobiliari. Tuttavia,
non esistendo nel nostro sistema pubblicitario ordinario, quella sorta di “costitutività” di diritti che si
riconnette, nel sistema tavolare, all’intavolazione,
sembra potersi ammettere che, per “intestatario”
devesi considerare colui che sia titolare sostanziale
del diritto sul bene oggetto dell’atto di disposizione,
anche se difforme dall’intestatario risultante dai
Registri Immobiliari, se ciò non sia contrario a
norme imperative. Il che, tra l’altro, consente di risolvere efficacemente la questione di non reputare
colpito sistematicamente da nullità, per dichiarazione effettuata da chi non ne aveva titolo, l’atto di
mutuo con concessione d’ipoteca che venga stipulato subito dopo l’avvenuta compravendita a favore
del mutuatario. In tal caso, non essendo ancora stata
ovviamente effettuata la trascrizione della vendita
nei PP.RR.II., l’acquirente-mutuatario (non ancora
intestatario presso i RR.II.) non avrebbe alcun titolo
per effettuare la dichiarazione di rispondenza richiesta dal comma 1-bis in esame. Ma d’altronde
non è pensabile ad una interpretazione della norma
in termini così rigidi e peraltro non espressi (perché
comunque la norma lascia del tutto indiscriminata
l’individuazione di chi debba considerarsi come intestatario) da determinare un sostanziale blocco delle contrattazioni che certamente una razionale interpretazione della norma non sembra abbia inteso
volere.
Ciò che rileva dalla norma in esame è dunque la
necessità di effettuare, prima dell’atto, ove dovuto,
un allineamento dei dati catastali e della situazione
graficamente rappresentata dalla planimetria, rispetto alla situazione reale del bene. Si tratta di un
allineamento che, come si accennava più sopra, deve riguardare non soltanto il caso in cui, ad essere
difformi, siano i dati catastali (errati rispetto alla situazione reale) , ma anche l’ipotesi in cui a dati catastali esatti corrisponda, in effetti, una realtà diversa. È questo, ad esempio, il caso in cui vi sia conformità piena tra la destinazione catastale del bene,
rilevabile dalla categoria di appartenenza, e la sua
destinazione d’uso, quale risultante dal progetto urbanisticamente assentito, mentre l’effettiva destinaImmobili & proprietà 2015
zione impressa al bene abbia travisato l’una e
l’altra. Analogamente può accadere che la consistenza del bene, quale rappresentata dalla planimetria depositata in Catasto, sia conforme al progetto
edilizio assentito, ma ne risulti difforme la situazione reale. Sotto questa ottica si è detto che il problema della corrispondenza, altrimenti definita dalla norma come “conformità”, non va visto solo in
direzione univoca di un dato catastale errato rispetto alla situazione effettiva, ma anche nel senso di
quella bidirezionalità cui si accennava prima attraverso la quale è possibile ravvisare uno spirito della
norma volto, non soltanto, come possa apparire a
primo acchito, ad un controllo prettamente fiscale
del contesto fondiario in vista dell’interesse pubblico ad un maggior e più congruo gettito tributario,
ma anche destinato a tutelare l’interesse sovraordinato alla tutela del territorio da abusi urbanistici capaci di arrecare non soltanto un danno economico
indiretto, ma anche un immediato e diretto danno
sociale.
Per quanto da taluni considerato assai meno complesso del profilo oggettivo considerato dalla prima
parte della norma, il sostanziale controllo di conformità tra l’individuazione degli intestatari catastali e quelli risultanti dai RR.II., richiesto dalla seconda parte del comma 14, in effetti, pone ben più
complessi
problemi,
almeno
sul
piano
dell’interpretazione della norma. Il cosiddetto preallineamento soggettivo anzitutto, in mancanza di
una espressa formulazione della disposizione di segno contrario, deve dirsi applicabile sia agli atti
aventi ad oggetto le unità immobiliari urbane, sia
agli atti aventi ad oggetto edificati non costituenti
unità immobiliari urbane.
La norma che obbliga il notaio alla preventiva individuazione degli intestatari catastali e ad un raffronto con quelli che tali risultano dai PP.RR.II.,
non indica una sanzione come quella della nullità
richiamata dalla norma precedente, ma si esprime
in termini, più blandi, di obbligo di preventiva verifica notarile dalla quale evidentemente non può farsi discendere una nullità virtuale dell’atto ricevuto
in assenza di una tale verifica, essendo, l’atto eventualmente ricevuto ad onta di una necessaria preventiva verifica di tal fatta, esclusivamente foriero
di altre conseguenze in ordine alla responsabilità
del notaio, diverse comunque da quelle discendenti
dall’applicazione dell’art. 28 L.N., oggi, per giurisprudenza consolidata, ritenuto applicabile soltanto
alle ipotesi di nullità sostanziale (e non formale) assoluta e testuale.
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Gli Speciali
Immobili & proprietà
Ma, a prescindere da considerazioni accedenti ad
un ambito meramente sanzionatorio, il problema
principale creato dalla norma in questione è quello
relativo all’esatta circoscrizione di cosa costituisca
l’esatto compito del notaio rogante e di cosa, in particolare, debba intendersi per “risultanze dei registri
immobiliari”.
Quanto al primo quesito, non sembra che, come
sembrerebbe da una lettura superficiale della disposizione, spetti al notaio un semplice obbligo di verifica preventiva, peraltro già incombente sull’attività
notarile anche nel passato, in ordine alle indagini di
natura ipotecaria e catastale, mirate alla individuazione del titolare sostanziale del diritto di cui si dispone e delle risultanze dei pubblici registri, siano
essi i libri censuari del Catasto, siano essi i registri
tenuti presso la Conservatoria. La verifica richiesta
dalla norma è una verifica specifica, mirata ad un
determinato e preciso scopo: quello di evidenziare
la corrispondenza tra l’intestatario catastale del cespite in contratto, individuato attraverso la relativa
visura, e l’intestatario del medesimo bene risultante
dall’indagine esperita presso i PP.RR.II. Ciò induce
a ritenere come non basti la mera verifica preventiva per consentire la piena ricevibilità dell’atto, ma
occorre di più: che da quella verifica sia stata evidenziata la perfetta corrispondenza tra le risultanze
dei due registri: quello catastale e quello fondiario,
senza la quale l’atto comunque ricevuto potrebbe
prestare il fianco alla applicazione, se non altro, di
una responsabilità contrattuale a carico del notaio
che non abbia ottemperato ad una verificazione della piena rispondenza dei due dati.
Le conclusioni anzidette si inseriscono nello spirito
specifico della novella, per mezzo della quale il legislatore si ripromette di perseguire lo scopo di un
aggiornamento immediato, o quanto più immediato
possibile, dei dati catastali rispetto alla reale situazione di titolarità dei beni, al fine di consentire il
conseguimento, di dati catastali corretti, capaci finalmente di attribuire al Catasto quella prigenia
funzione fiscale per il quale era nato e che, di fatto,
fino ad oggi non è mai riuscito ad esplicare in tutta
la sua effettiva consistenza.
Quanto al secondo elemento evidenziato, cioè
l’esatto dimensionamento del concetto di “risultanze dei registri immobiliari”, il problema va valutato
sotto almeno due distinti aspetti.
In primo luogo occorrerebbe stabilire se tali risultanze debbano considerarsi esclusivamente quelle
attuali, come sembrerebbe da una lettura immediata
della norma, oppure se le risultanze cui si fa cenno
Immobili & proprietà 2015
debbano essere quelle sostanziali discendenti, non
solo dall’attuale intestazione del bene, ma anche
dalla considerazione della effettiva esistenza di una
catena ininterrotta di trascrizioni capaci di dare certezza della titolarità del bene in capo all’attuale intestatario in ossequio al principio della continuità
delle trascrizioni di cui all’art. 2650 c.c. E se così è,
la domanda ulteriore è: fino a che punto, o meglio,
fino a quale periodo sarà necessario estendere il
controllo al fine di giustificare che le risultanze attuali dei RR.II. siano, oltreché formalmente, anche
sostanzialmente, conformi ai dati desumibili dai
pregressi trasferimenti di diritti sul bene considerato?
In secondo luogo sarà necessario chiarire, almeno
con riferimento a taluni fatti giuridici, oggetto di
pubblicità, a quale tipologia di pubblicità sarà possibile fare riferimento per documentare e dichiarare
l’effettiva rispondenza richiesta dalla seconda parte
del comma 14 in esame. In altri termini, per comprendere il problema, l’eventuale intestazione pubblicitaria di un bene ereditario a nome dell’avente
causa per diritto successorio discendente dalla mera
pubblicità-notizia derivante dall’avvenuta trascrizione del certificato di avvenuta presentazione della
denuncia di successione, effettuata a cura
dell’Agenzia delle Entrate, può, o no, ad esempio,
ritenersi sufficiente ad individuare l’avvenuta verifica di coincidenza tra l’intestazione catastale e
quella sancita dai RR.II.?
Per tentare di dare una risposta al primo quesito
evidenziato, in ordine alla consistenza delle risultanze dei registri immobiliari che sia effettivamente
rilevante per la norma in esame, per quanto, almeno
allo stato attuale, sia effettivamente arduo dare alcuna certezza a tal riguardo, è opportuno partire
dalla ratio legis informatrice della novella. L’intero
art. 19 del D.L. n. 78/2010, di cui il comma 14 che
ha integrato la disposizione contenuta nella L. 27
febbraio 1985, n. 52 costituisce solamente una piccola parte, è improntato a consentire - come detto una definitiva sistemazione dei dati catastali atta a
fare, dello strumento del Catasto, un effettivo mezzo capace di “fotografare” la titolarità del patrimonio fondiario italiano, in funzione della creazione di
quella “Anagrafe Immobiliare Integrata”, di cui è
detto al comma 1 dello stessa articolo 19 del Decreto, quale contenitore di informazioni, riferibili al
patrimonio immobiliare, dal quale sia desumibile,
con attendibilità certa e priva di discrasie, la situazione di titolarità di diritti reali in relazione a ciascun immobile considerato.
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Gli Speciali
Immobili & proprietà
Leggendo l’intero art. 19 dedicato espressamente a
tale funzione, i diversi passaggi attraverso i quali la
norma obbliga all’adeguamento dei dati lasciano intuire come il legislatore abbia avuto perfettamente
chiaro che ciò che va adeguato e certamente integrato è proprio il dato catastale. In altri termini,
l’impressione che se ne ricava dalla lettura delle
norme è che il legislatore, partendo da un punto che
considera certo (e guai se così non fosse!), quello
delle notizie ricavabili dai PP.RR.II., si sia accorto
della necessità di adeguare a tale contesto quelle
che sono le risultanze, spesso palesemente inesatte
ed errate, dei registri catastali. L’adeguamento dei
dati che ne deriva, quindi, non è mai, nelle intenzioni di chi ha confezionato la novella, dei RR.II.
nei confronti del Catasto, ma - al contrario - sempre
del Catasto nei confronti di ciò che risulta dai
RR.II. Si tratta dunque, come si diceva più sopra, di
una verificazione funzionale ad un adeguamento
unidirezionale, delle risultanze catastali rispetto alle
risultanze contenute nei registri immobiliari.
Ciò significa che la norma sembrerebbe perseguire
sostanzialmente, non una finalità civilistica, ché altrimenti si dovrebbe pensare ad un lento percorso di
modificazione del nostro sistema pubblicitario attraverso l’avvenuta creazione di un istituto molto
simile a quello tavolare, ma essenzialmente una finalità fiscale, volta alla creazione di una banca dati
che, prescindendo da problematiche giuridiche a
volte complesse, e di cui le diposizioni contenute
nel Decreto Legge in discorso non si occupano,
consenta di far rilevare chi sia il soggetto al quale,
sia pure in apparenza, ma con una apparenza documentata dalle risultanze dei registri immobiliari,
appartenga il diritto su un determinato bene. L’idea
che il legislatore ha avuto in mente non è quella di
proporre un pedissequo accertamento della veridicità sostanziale di ciò che risulta dai RR.II., attraverso uno specifico controllo della corrispondenza di
tali risultanze ai principi disposti in materia di continuità delle trascrizioni, ma quella assai più limitata di aggiornare il catasto in modo da uniformare
quest’ultimo alle indicazioni fornite dai RR.II., e
ciò secondo una logica che, essendo funzionalizzata
alla prospettiva di assicurare un maggiore e più
equilibrato gettito tributario nell’immediatezza,
sembra prescindere del tutto da problematiche che
si riconnettono invece a difficili e complicate indagini capaci di consentire l’individuazione di una
specifica coerenza tra l’intestazione formale attualmente risultante dai RR.II., e la situazione sostanziale di titolarità relativa ad un certo diritto. In
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altri termini, non si tratta di formare una banca dati
capace di attestare una corrispondenza tra gli intestatari catastali e gli effettivi proprietari in base al titolo
e alla serie continuata della catena di trascrizioni, ma
esclusivamente di creare una integrazione delle banche dati disponibili presso l’Amministrazione, capace di eliminare ogni discrasia tra ciò che risulta dagli
atti trascritti e ciò che risulta dalle effettuate volture
catastali.
Questa più limitata portata della norma lascia intuire come le “risultanze dei registri immobiliari” di
cui si parla siano da considerare esclusivamente le
risultanze attuali, con la conseguenza che la norma
di cui alla seconda parte del comma 14 imporrebbe
esclusivamente un preventivo allineamento tra il
dato attualmente ricavabile dai PP.RR.II. ed il dato
catastale, in maniera tale da consentire la coerenza
delle risultanze delle banche dati che, con
l’Anagrafe Immobiliare Integrata, si intende creare,
restando estraneo al contenuto normativo qualunque elemento che sia relativo ad un problema di
continuità di trascrizioni e quindi a qualsiasi problema relativo alla congruità delle risultanze dei registri immobiliari che potrebbero anche risultare
meramente “apparenti”.
Se così è, non si pone neppure alcun problema relativo all’estensione dell’indagine notarile relativamente a quella congruità. Dovendosi, infatti, ritenere che la trascrizione risultante dai RR.II. Si considera virtualmente efficace, stante l’esclusivo obiettivo fiscale della riforma, non occorre che ci si
ponga, almeno sotto questo aspetto, alcun problema
circa l’occorrenza di evidenziare la continuità delle
trascrizioni entro il ventennio pregresso o anche oltre.
Passando alla considerazione del secondo problema
posto dalla norma di cui alla seconda parte del
comma 14, e al quale sopra si accennava, quello di
verificare a quali tipologie pubblicitarie bisogna fare riferimento al fine di potersi dire soddisfatta la
verifica di conformità tra le risultanze catastali e
quelle, appunto, dei registri immobiliari, la disposizione tace sul punto. Essa, infatti non chiarisce se,
ai fini dell’accertamento di tale conformità, debbano ritenersi idonee soltanto le formalità pubblicitarie di natura costitutiva e dichiarativa o anche le
formalità pubblicitarie attinenti all’ambito di una
mera pubblicità-notizia.
Ciò indurrebbe a ritenere che, almeno a primo acchito, tenendo buono il dato testuale in effetti silente sul punto, anche una intestazione pubblicitaria
presso i RR.II. conseguente ad una forma di pubbli29
Gli Speciali
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cità notizia, dovrebbe ritenersi sufficiente alla verifica e all’accertamento di quella conformità che la
norma in esame richiede.
Ad una più approfondita analisi, tuttavia, il compito
che attribuisce la norma al notaio è quello di verificare la coerenza dell’intestazione catastale con
quella risultante dai registri immobiliari al fine di
assicurare un pre-allineamento della ditta catastale
con le risultanze derivanti da questi ultimi. Ora, non
pare sinceramente che qualsiasi risultanza dei pubblici registri costituisca giusta causa per un allineamento con l’intestazione catastale perché lo
scopo ravvisabile nella norma in esame è quello di
aggiornare nell’immediatezza i dati catastali rispetto alla situazione di titolarità effettiva dei beni al fine di conferire definitivamente alle banche dati catastali la loro reale funzione fiscale per la quale il
Catasto stesso era stato creato e che, fino ad oggi,
esso non è mai riuscito ad esplicare.
Sotto tale aspetto, allora, non sembra potersi considerare sufficiente la valenza di una forma pubblicitaria che non abbia lo scopo di palesare erga omnes
l’avvenuta acquisizione di un diritto in capo ad un
soggetto e quindi non determini gli effetti tipici di
cui all’art. 2644 c.c., ma abbia il ben più limitato
effetto di portare a conoscenza dei terzi la rilevanza
di determinati fatti.
Le conclusioni cui si è giunti sopra in ordine
all’effettivo scopo di mero monitoraggio fiscale che
con la novella in esame il legislatore si è preposto,
inducono alla valutazione di talune ipotesi particolari e al corrispondente comportamento di chi abbia
a ricevere l’atto.
a) L’atto dispositivo di un bene derivante
da successione
Un’ipotesi di pubblicità notizia la quale, ancorché
abbia dato luogo ad una intestazione presso i registri immobiliari, tuttavia non sembra soddisfare la
verifica di conformità richiesta dalla norma, è quella, ad esempio, della trascrizione del certificato di
denunciata successione effettuata a cura
dell’Agenzia delle Entrate. Come si sa, la dichiarazione di successione assume una valenza esclusivamente fiscale e la conseguente sua pubblicizzazione, a mezzo di trascrizione, non determina alcuno degli effetti che si riconnettono alla norma di cui
all’art. 2644 c.c. Di guisa che, in presenza di un
soggetto che disponga di un bene pervenutogli sulla
base di una successione mortis causa, ci si può trovare dinanzi ad una duplice possibilità: o l’erede è
Immobili & proprietà 2015
divenuto effettivamente tale, in conseguenza di una
dichiarazione di accettazione espressa dell’eredità
alla quale si riconnette l’onere pubblicitario della
trascrizione dei beni ereditati a nome dell’avente
causa, oppure, quando l’erede non abbia ancora effettuato alcuna dichiarazione espressa di accettazione, egli si trova ancora allo stadio di mero
“chiamato all’eredità”.
Nel primo caso, l’atto dispositivo posto in essere da
colui che è erede, non pone alcun problema, né con
riferimento alle dichiarazioni che questi dovrà rendere ai sensi della prima parte del comma 14, né,
tanto meno, in relazione alla verifica notarile di
conformità richiesta dalla seconda parte di esso. In
entrambi i casi la preventiva effettuazione della
voltura catastale a seguito dell’avvenuta trascrizione della denuncia di successione, e l’avvenuta intestazione del bene a nome dell’erede per effetto della avvenuta trascrizione della accettazione espressa
dell’eredità, hanno determinato, al momento
dell’atto dispositivo, una piena conformità tra
l’intestazione catastale e quella sancita dalla pubblicità immobiliare effettuata, con riferimento al disponente del diritto oggetto dell’atto.
Nel secondo caso, invece, quando non sia stata effettuata alcuna accettazione dell’eredità, l’avente
causa non è ancora “erede”, trovandosi al momento
nella posizione di “chiamato all’eredità”. L’atto dispositivo dallo stesso posto in essere, e determinante accettazione tacita dell’eredità, non pone problemi alla luce del disposto delle due norme in
commento. L’intestatario (sostanziale) del bene oggetto del contratto dispositivo di diritti effettuerà
una dichiarazione di conformità, ai sensi del comma 1-bis dell’art. 29 della L. 27 febbraio 1985, n.
52, con riferimento allo stato del bene al momento
del decesso del proprio dante causa. Egli, infatti,
trovandosi ancora nella posizione di “chiamato
all’eredità” (almeno fin quando non si sia perfezionato l’atto dispositivo), non avrà conseguito ancora
alcun diritto per ottenere l’intestazione del bene a
proprio nome sui pubblici registri immobiliari. Dal
punto di vista catastale, il bene dovrebbe ancora risultare in ditta al de cuius, almeno nel caso in cui
non sia stata volturata l’eventuale denuncia di successione già presentata. Ma, anche quando fosse già
stata effettuata la voltura catastale, l’intestazione
catastale del bene al nome dell’erede (che ancora,
in effetti non è tale), la quale di per sé non ha alcuna valenza sostanziale e probatoria della titolarità,
ancor meno l’avrà in questo caso. Si tratta, infatti,
di una intestazione che, non potendo essere accom30
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pagnata da una trascrizione nei RR.II. (in quanto attualmente manca il titolo di erede) produce, al momento, una sorta di effetto, come dire, “prenotativo” di una intestazione sostanziale ancora di là da
venire. E, a considerare quanto una tale intestazione
catastale abbia una efficacia “aleatoria”, basti pensare a come, per effetto di una rinuncia all’eredità
successiva alla presentazione della dichiarazione di
successione volturata o, addirittura, di una accettazione tardiva dell’eredità, sempre successiva alla
stessa, la medesima voltura catastale dovrà essere
aggiornata. Sicché, in ogni caso (sia che sia stata
effettuata la voltura catastale, sia che la stessa non
sia stata ancora eseguita), la dichiarazione da rendersi da parte dell’intestatario sostanziale del bene
(il chiamato all’eredità disponente del diritto che,
in base all’atto compiuto, accetta tacitamente
l’eredità), è una dichiarazione che fa stato al momento dell’apertura della successione, non essendosi prodotto, da quel momento e fino al perfezionamento dell’atto dispositivo da parte dell’erede,
alcun effetto modificativo nella formale e sostanziale intestazione dei beni facenti parte dell’asse
ereditario.
Allo stesso modo, l’atto che il chiamato pone in essere, e che determina l’attribuzione allo stesso del
titolo di erede, deve dirsi pienamente ricevibile da
parte del notaio, anche alla luce della seconda parte
del comma 14. Il notaio, infatti, per gli stessi motivi
sopra esposti, dovrà limitarsi a verificare la corrispondenza tra l’intestatario catastale e quello risultante dai RR.II., con riferimento al momento del
decesso del dante causa. Ancora una volta,
l’eventuale eseguita voltura catastale per effetto
della presentazione della denuncia di successione,
non ha determinato alcuna modificazione sostanziale nella effettiva intestazione del bene, posto che la
dichiarazione di successione (e la sua volturazione
catastale, prima della sostanziale intestazione a
nome dell’erede nei registri immobiliari) sortisce
esclusivamente effetti di natura eminentemente fiscali e non sostanziali.
È dunque vero che, prima della trascrizione della
accettazione tacita dell’eredità, a seguito della trascrizione dell’avvenuto atto dispositivo da parte del
chiamato, ora erede, non si ha (almeno quando sia
già stata effettuata la voltura della denuncia di successione) formale coincidenza tra intestatario catastale ed intestatario del bene nei RR.II., ma è anche
vero come ad una tale conformità si perverrà a seguito della successiva trascrizione dell’atto dispositivo e della relativa accettazione tacita di eredità.
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Ma una tale discrepanza non può intendersi come
“mancanza di conformità” nel senso che si appalesa
dalle norme della novella rispetto al cui scopo, più
volte evidenziato, la sostenuta irricevibilità dell’atto
darebbe luogo ad una conseguenza davvero sproporzionata che, portata alle estreme conseguenze,
dovrebbe determinare l’abrogazione stessa
dell’istituto civilistico dell’accettazione tacita
dell’eredità e della rilevanza della sua trascrizione.
b) Il problema degli atti di disposizione
su beni altrui
Per quanto il contratto dispositivo di diritti su cosa
altrui sia alquanto raro nella pratica quotidiana, si
tratta di una fattispecie pur sempre prevista nel nostro Ordinamento che, come tale, non può dirsi
abrogata per effetto di una norma che non sembra
avere lo scopo di innovare il codice civile, quanto il
più limitato effetto di promuovere un aggiornamento dei dati risultanti dalle intestazioni, catastali e
sostanziali, dei beni, al fine di rendere possibile
l’elaborazione di una banca dati, come quella che ci
si auspica con la prossima creazione dell’Anagrafe
Immobiliare Integrata, capace di creare un contenitore di notizie, quanto più affidabile e coerente, circa l’effettiva titolarità fondiaria.
Nell’atto dispositivo su cosa altrui, se nessun problema si pone, con riferimento alla disposizione di
cui alla seconda parte del comma 14, posto che, in
assenza di discrepanze pregresse, al notaio non è
impedito l’accertamento della verifica della piena
rispondenza tra “intestatario catastale” e “risultanze
dei registri immobiliari”, ben più grossi problemi si
pongono con riferimento alla disposizione di cui alla prima parte del comma in esame.
Qui a rendere l’atto nullo e quindi irricevibile non
sarebbe tanto il fatto di una presunta discrepanza tra
dati catastali e stato di fatto perché, invero,
l’intestazione della ditta catastale a nome
dell’effettivo titolare del bene, quale risulta dai
RR.II., esiste. Non si tratta, quindi, dell’impossibilità
oggettiva di far compiere una determinata dichiarazione, ma il fatto che quella dichiarazione non potrà,
per ragioni soggettive, essere “resa in atti dagli intestatari”. E, pertanto, a seguire il rigore letterale della
norma, delle due, l’una: o immaginiamo che all’atto
dispositivo di cosa altrui partecipi anche l’effettivo
intestatario del bene, oppure dovremmo considerare
l’atto irricevibile perché colpito dalla nullità discendente dall’inesistenza del soggetto capace di rendere
la dichiarazione di cui alla prima parte della norma
31
Gli Speciali
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in esame.
Per la soluzione del problema, allora, dovremmo
pensare di risalire alla natura e al meccanismo della
vendita di casa altrui. Dal contratto, come si sa, non
si verifica alcun effetto reale, ma meramente obbligatorio, determinando, il perfezionamento del contratto, non il trasferimento di un diritto, ma soltanto
un obbligo, in capo al venditore di cosa altrui, di
procurare la titolarità del bene all’acquirente mediante l’acquisizione del bene dall’attuale titolare.
In altri termini, e con i dovuti distinguo, è come se
gli effetti reali della vendita fossero condizionati alla preventiva avvenuta attribuzione della titolarità
in capo all’attuale venditore-disponente di guisa
che è possibile individuare, nel disponente del diritto, una sorta di intestatario sub condicione. In buona sostanza, nella vendita di cosa altrui il fatto che
chi dispone del diritto si definisca “venditore” è una
fictio iuris perché, mancando in lui le caratteristiche
di effettivo titolare del bene, egli non è venditore,
nel senso di effettivo disponente di un diritto di cui
egli è titolare, ma riveste la specifica qualifica di
“venditore di cosa altrui”. Analogamente, se non
può dirsi tecnicamente che egli, al momento
dell’atto dispositivo, sia “intestatario del bene”, tuttavia egli potrà definirsi tale “ora per allora”, con
riferimento al momento in cui si sarà completata,
con l’acquisizione del bene in capo all’attuale disponente, la fattispecie a formazione progressiva
della vendita di cosa altrui. E, pertanto, nulla aggiungendo la norma del comma 14 per una più specifica qualificazione di colui che viene definito “intestatario”, potrà concludersi nel senso che, con
analoga finzione giuridica utilizzata per qualificare
il venditore di cosa altrui comunque come “venditore”, anche il disponente di cosa altrui potrà, al
momento del compimento dell’atto, qualificarsi
come “intestatario” che, come tale, potrà emettere
la dichiarazione di conformità richiesta dalla norma
tra lo stato di fatto, le planimetrie ed i dati catastali.
c) Il problema delle unità in corso
di costruzione
Per quanto attiene alle unità immobiliari “in corso
di costruzione”, l’ultima dizione contenuta nella
norma di cui al comma 1-bis sembrerebbe far propendere per una esclusione di tale fattispecie
dall’applicazione normativa, posto che, ai fini della
cogenza di essa, non basta più che si tratti, come in
una prima redazione della norma, di semplici “unità
immobiliari urbane”, ma che, altresì, si tratti di
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“fabbricati già esistenti” e cioè di fabbricati che
siano, o già ultimati nella loro interezza, secondo la
disciplina contenuta nell’art. 25, comma 1 del
d.P.R. n. 380/2001, e che siano quindi in grado di
ottenere l’agibilità, o di fabbricati considerabili
come comunque venuti ad esistenza secondo la disciplina contenuta nell’art. 2645-bis c.c.
Ora, se il significato da attribuire al “fabbricato venuto ad esistenza” è il primo, cioè quello che può
evincersi dal T.U. sull’edilizia, è chiaro che il caso
degli immobili in corso di costruzione resta estraneo all’applicazione della novella. Qualora, invece,
per “fabbricati in corso di costruzione” debbano intendersi, ai sensi della normativa applicabile in materia di trascrizione di preliminari di beni in corso
di costruzione, quelli per i quali siano state completate le tamponature esterne ed il tetto di copertura,
allora un problema potrà porsi, almeno in riferimento alla perfetta applicabilità della norma considerata, nella parte relativa alla necessaria dichiarazione di conformità resa dall’intestatario. In tal caso, come già affermato da qualche Autore, nonostante la possibilità di pervenire ad un accatastamento al rustico, l’assenza di planimetria e anzi
l’impossibilità di essa, impedisce qualsiasi dichiarazione di conformità che si occupi della corrispondenza tra planimetria e stato di fatto. Non sembra,
tuttavia, che, stante la particolarità della situazione
nella quale l’assenza di planimetria è ampiamente
giustificata, l’atto debba considerarsi colpito da nullità, a condizione, ovviamente che l’intestatario formuli una dichiarazione di conformità tra i dati catastali e lo stato di fatto, mentre - in relazione allo “stato planimetrico” - sarà opportuno e sufficiente far
prestare una dichiarazione dell’intestatario circa la
causa giustificatrice dell’assenza della planimetria.
Quanto poi all’intervento della verifica notarile di
conformità di cui alla seconda parte della norma,
tale verifica di conformità che il notaio dovrà attestare, non potrà ovviamente prescindere da un preventivo obbligatorio accatastamento al rustico che è
comunque poi necessario al fine di consentire
l’adempimento degli obblighi pubblicitari.
La conformità degli impianti a norma
del D.M. n. 37/2008
Il complesso di disposizioni introdotte dal D.M. n.
37/2008 si interfacciava inizialmente con l’attività
notarile essenzialmente per una norma: l’art. 13. La
disposizione in parola, sebbene non sembrasse
comminare ipotesi sanzionatorie di nullità degli atti
32
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di trasferimento, poneva, nell’ambito della contrattazione avente ad oggetto il trasferimento di un
immobile, tre prescrizioni diverse:
1) - l’obbligo di consegna all’avente causa, in caso
di trasferimento dell’immobile a qualsiasi titolo,
della documentazione tecnica e amministrativa
nonché del libretto di uso e manutenzione di tutti
gli impianti considerati rilevanti ai sensi dell’art. 1
del decreto medesimo;
2) - l’obbligo di allegare, all’atto di trasferimento (a
qualsiasi titolo) dell’immobile, la “dichiarazione di
conformità” o la “dichiarazione di rispondenza”,
salvo deroga a tale obbligo derivante da espresso
patto contrario intercorso tra le parti;
3) - la prestazione di garanzia da parte del venditore
(quindi esclusivamente in presenza di un contratto
di trasferimento a titolo oneroso) in ordine alla conformità degli impianti alle vigenti normative in materia di sicurezza.
L’art. 35 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, pubblicato sulla G.U. n. 147, Suppl. Ord. n. 152 del 25 giugno 2008, entrato in vigore a far data dal medesimo
giorno di pubblicazione, abroga l’art. 13, senza che,
sul punto vi siano stati ulteriori deroghe poste dalla
legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133.
L’abrogazione di tale norma renderebbe apparentemente superflua qualsiasi digressione notarile inerente la fattispecie “impianti”, in quanto esonererebbe le parti contraenti da qualsiasi documentazione relativa agli impianti in qualche modo collegata
al momento del trasferimento di proprietà.
Tuttavia, ad una analisi appena più approfondita,
non sembra del tutto fuor di luogo un approccio ragionato sulla materia.
Quanto all’obbligo di consegna all’avente causa
della documentazione tecnica ed amministrativa,
nonché del libretto di uso e manutenzione degli impianti, l’abrogazione dell’articolo 13 sembrerebbe
aver determinato la venuta meno di tale obbligo,
anche in considerazione del fatto che analoga disposizione era rinvenibile, precedentemente,
nell’art. 9, comma 3 del d.P.R. n. 447/1991, abrogato a partire dall’entrata in vigore del D.M. n.
37/2008 (ai sensi dell’art. 3 del D.L. 28 dicembre
2006, n. 300, convertito con L. 26 febbraio 2007, n.
17 come modificato dall’art. 29-bis del D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito dalla L. 31 dicembre 2007, n. 248).
Non può omettersi, tuttavia, come il secondo comma dell’art. 8 del D.M. n. 37/2008 imponga al proprietario dell’impianto di adottare tutte le misure
necessarie per conservare le caratteristiche di sicuImmobili & proprietà 2015
rezza degli stessi, tenendo anche conto delle istruzioni per l’uso di essi; il che, di fatto, rende opportuno che il proprietario possa dimostrare di avere
ottemperato alle prescrizioni in materia di sicurezza, implicitamente dimostrate, come avremo modo
di spiegare appresso, nell’essersi giovato, al momento dell’installazione, di imprese all’uopo abilitate alla installazione degli impianti in discorso.
Quindi, al fine di dimostrare che le imprese installatrici siano state effettivamente quelle abilitate per
legge (le uniche in grado di consegnare tutta la regolare documentazione tecnica ed amministrativa,
così come per legge previsto), sarà opportuno che il
proprietario, verosimilmente in possesso di tale documentazione, faccia consegna della stessa
all’avente causa.
Tale consegna assume un rilievo particolarmente
importante in considerazione delle previsioni di cui
al combinato disposto dei commi 3 e 4 dell’art. 8
che impongono all’utente di consegnare, agli enti
erogatori dell’energia, copia della documentazione
di conformità o di rispondenza in caso di nuovi allacciamenti o di richieste di potenziamento degli
impianti.
Sicché, nonostante la mancanza esplicita della previsione di alcuna menzione, da inserire nell’atto di
trasferimento, circa l’ottemperanza a tale obbligo,
nonostante l’abrogazione dell’art. 13, continuerebbe a perpetuarsi l’opportunità che il notaio dia notizia nel corpo dell’atto dell’avvenuta consegna di tale documentazione, eventualmente segnalando, perciò, l’indisponibilità della documentazione stessa
presso il dante causa.
Epperò, in quest’ultimo caso, potrebbe determinarsi
un principio di allarme circa l’effettivo intervento,
al tempo dell’installazione, di imprese realmente
abilitate a norma delle disposizioni di cui alla L. n.
46/1990, facendo sorgere una conseguenziale presunzione di difformità degli impianti alle norme di
sicurezza, almeno per quegli impianti installati dopo l’entrata in vigore della detta legge.
L’obbligo di consegna scatterebbe, per logica analogia a quanto si è affermato sotto il vigore dell’art.
13 abrogato, in presenza di un atto di trasferimento
a qualsiasi titolo, quindi, non solo in presenza di
una vendita, ma anche nelle ipotesi di qualsiasi altra fattispecie di trasferimento, anche a titolo gratuito. Qualche dubbio può proporsi in presenza di un
contratto di divisione che, come è noto, di per sé
implica il ricorrere di una attività negoziale di natura meramente dichiarativa e non traslativa di diritti,
fatta eccezione per l’ipotesi di una divisione con
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conguagli, laddove al tipico effetto distributivoattributivo della divisione si accompagna un parziale effetto traslativo (a titolo oneroso) a favore della
parte condividente che abbia corrisposto il conguaglio; per cui in tale tipo di divisione, a seguire le
conclusioni appena riportate, la consegna della documentazione diverrebbe imprescindibile.
L’obbligo di consegna accede, poi, sia agli impianti
che siano installati nell’unità immobiliare oggetto
del contratto, sia anche a quegli impianti condominiali ai quali comunque l’utilizzatore dell’unità
immobiliare in contratto ha accesso in quanto costituente impianto posto a servizio anche dell’unità
immobiliare considerata.
Quanto all’obbligo di allegare all’atto la “dichiarazione di conformità” o la “dichiarazione di rispondenza”, si trattava di un obbligo meramente documentale, peraltro già suscettibile di apposita deroga
per espressa previsione normativa, e che adesso, in
assenza di una prescrizione specifica sul punto
(stante l’avvenuta abrogazione della norma che lo
prevedeva), non dovrà essere più rispettato in atto,
nemmeno in termini di mera menzione della concertata deroga tra le parti contraenti.
Più complesso, invece, il discorso relativo alla prestazione espressa di una garanzia circa la conformità degli impianti alle norme di sicurezza il cui obbligo era previsto espressamente, in presenza di atti
di trasferimento a titolo oneroso, dall’art. 13, ora
abrogato.
È innegabile che, per quanto sin qui detto, l’art. 13
abbia avuto una portata meramente formale, caratterizzata da una serie di previsioni inerenti la fase
della documentazione e della documentabilità di
determinati comportamenti che, comunque in buona sostanza, prima e dopo l’introduzione dell’art.
13, prima e dopo la sua abrogazione, andavano e
vanno comunque rispettati. A ben guardare, l’unica
effettiva novità sostanziale rispetto al passato, imputabile all’art. 13, sta nell’aver esso previsto, in
maniera espressa, per la prima volta, un obbligo di
garanzia assunto dal venditore in ordine alla conformità degli impianti alle normative in materia di
sicurezza. Sotto tale aspetto non sembra, invece,
che le norme pregresse dettate in materia di sicurezza degli impianti si fossero espresse con altrettanta incisività.
Invero, la prima norma che si è occupata in maniera
organica delle problematiche inerenti la sicurezza
degli impianti è stata la L. 5 marzo 1990, n. 46 alla
quale ha fatto seguito il suo regolamento di attuazione, portato dal d.P.R. 6 dicembre 1991, n. 447.
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Tuttavia in nessuno dei due provvedimenti legislativi è rinvenibile, in maniera chiara, un obbligo, a
carico del venditore o più genericamente del dante
causa, relativo all’assunzione di una garanzia circa
la conformità degli impianti a specifici dettami di
sicurezza imposti dalla legge stessa. Sembra, piuttosto, che l’intero impianto normativo in materia sia
permeato dalla esclusiva preoccupazione di determinare i requisiti richiesti nei confronti delle imprese che si occupino dell’esecuzione dei lavori
inerenti l’impiantistica. In altri termini, sembra che
il legislatore non si sia tanto preoccupato di introdurre una esplicita garanzia circa lo stato di sicurezza degli impianti a carico del dante causa ma
abbia, piuttosto, presuntivamente ricollegato la conformità degli impianti alle norme di sicurezza alla
installazione degli stessi da parte di imprese dotate
di specifici requisiti tecnico-professionali ad esse
riconosciute, in considerazione del fatto che tali
imprese hanno l’obbligo di utilizzare materiali e
componenti certificati conformi dagli enti svolgenti
attività di normazione tecnica (segnatamente
l’U.N.I., Ente Italiano di Unificazione, ed il C.E.I.
Comitato Elettrotecnico Italiano), costringendo di
fatto, in tal modo, l’utenza a servirsi, nella realizzazione e nella manutenzione degli impianti, di siffatte imprese, attraverso la previsione dell’unica norma che espone a responsabilità l’utente, qualora
egli si fosse servito di imprese prive di tali indicate
caratteristiche. Si tratta della previsione contenuta
nell’art. 10 della L. n. 46/1990 relativa al “proprietario” o al “committente” (e quindi a persone che si
trovino comunque a gestire l’immobile, a prescindere da qualsiasi attività negoziale di compravendita) che, in caso di installazione, trasformazione,
ampliamento e manutenzione degli impianti, si siano, per avventura, serviti di soggetti diversi dalle
imprese all’uopo abilitate, nei confronti dei quali
scatta, a norma dell’art. 16 della stessa legge, la
sanzione amministrativa da lire centomila a lire
cinquecentomila (norma, peraltro, la cui previsione
è ripetuta dal testo dell’attuale art. 8 del D.M. n.
37/2008). Perciò, prima dell’introduzione dell’art.
13, oggi abrogato, non si rinviene un obbligo di garantire, da parte del proprietario, il rispetto - in relazione ai propri impianti - dei criteri di normazione
tecnica ad essi relativi, essendo, di fatto, questa garanzia, assorbita dal rispetto dell’obbligo di servirsi,
per qualsiasi opera inerente l’impiantistica, delle
imprese abilitate secondo le prescrizioni di legge.
Per inciso occorre dire che ciò spiegherebbe, altresì, la ragione per cui l’intero sistema sanzionatorio
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predisposto dalla L. n. 46/1990, prima e poi sostanzialmente confermato dall’art. 15 del D.M. n.
37/2008, tutt’oggi in vigore, sia appannaggio di enti
(oggi le Camere di Commercio, ex art. 15, comma
6, D.M. n. 37/2008 e, sotto il vigore della L. n.
46/1990, gli uffici provinciali dell’industria, del
commercio e dell’artigianato, ex art. 10, comma 6,
del d.P.R. n. 447/1991) notoriamente estranei alla
irrogazione di sanzioni nei confronti dei privati. La
ragione di ciò risiede nel fatto che il legislatore, al
di là di certo dato letterale, allora come oggi, ha inteso sanzionare in via diretta, non l’elusione di uno
specifico obbligo di garanzia previsto in capo al
privato, quanto il fatto dell’affidamento dei lavori
di installazione degli impianti (in spregio alla disposizione dell’art. 10 della L. n. 46/1990 allora vigente, ed oggi in spregio all’art. 8 del D.M. n.
37/2008) a soggetti non abilitati, con la sola differenza che, mentre sotto il vigore della L. n.
46/1990, vi era una sanzione espressamente prevista in capo all’utenza (il “proprietario” o il “committente”) che si fosse avvalsa dell’opera di soggetti non specializzati (ex art. 16 L. n. 46/1990), con la
medesima specificità non è rinvenibile analoga sanzione nell’impianto del D.M. n. 37/2008, a meno
che non si voglia far riferimento alla previsione di
quella generica sanzione residuale, relativa alla violazione di tutti gli altri obblighi previsti dal decreto,
contenuta nel comma 2 dell’art. 15, la quale tuttavia
essendo esclusivamente irrogabile dalla Camera di
Commercio (come previsto dal comma 6 della medesima norma) non è pensabile possa essere azionata contro il privato. Piuttosto si potrebbe ritenere
che la violazione dell’art. 8, lasciando impunito il
privato, determini l’irrogazione della sanzione nei
confronti del soggetto che, senza esservi abilitato,
abbia provveduto a realizzare o a manutenere gli
impianti.
Tornando al nostro problema, circa la perpetuazione, o meno, dell’obbligo di garantire la conformità
degli impianti alle norme di sicurezza, perciò, dovremmo - almeno a primo acchito - concludere che,
soppressa la formulazione normativa che espressamente imponeva un tale obbligo, ma conservato
l’intero impianto normativo che obbliga sostanzialmente l’utenza a servirsi, per le opere relative
all’impiantistica, di imprese all’uopo abilitate, a garanzia del rispetto dei criteri di normazione tecnica
previsti dalla legge, la prestazione della garanzia
andrebbe formulata in termini diversi. Non si tratterebbe più di far dichiarare una conformità degli impianti alle norme di legge (all’epoca dettate o atImmobili & proprietà 2015
tualmente vigenti) in materia di sicurezza, ma piuttosto di dare atto che l’installazione, la manutenzione ed eventuali ampliamenti degli impianti presenti, siano stati effettuati da imprese specificamente abilitate ed in possesso dei requisiti previsti
dall’art. 3 del D.M. n. 37/2008.
A tali conclusioni è verosimilmente obiettabile che,
nonostante l’avvenuta prova della abilitazione da
parte delle imprese che abbiano effettuato i lavori
sull’impianto, la effettiva mancanza dei requisiti di
sicurezza degli impianti stessi verrebbe a determinare una totale o parziale impossibilità di utilizzare
il bene secondo la sua naturale destinazione, con la
conseguenza che il bene acquistato potrebbe anche
essere privo di quelle qualità richieste per il normale utilizzo dello stesso. Tale obiezione, che ha riscosso un notevole successo sotto il vigore dell’art.
13, ha condotto a richiamare i principi in materia di
mancanza delle qualità promesse o essenziali
all’uso della cosa, di cui all’art. 1497 c.c. nonché
quelli previsti in materia di garanzia per i vizi della
cosa venduta, di cui agli artt. 1490 ss. c.c. Da più
parti è stato, infatti, affermato che la garanzia di
conformità degli impianti, altro non sarebbe che
una naturale estensione della garanzia per i vizi. A
riprova di tale identità di principi, si è detto, il fatto
che, al pari della garanzia per i vizi, la garanzia di
conformità, costituisce garanzia derogabile dalle
parti, così come anche espressamente concludeva il
parere del Ministero dello Sviluppo economico reso
in data 26 marzo 2008.
In effetti, però, in caso di deroga alla garanzia per i
vizi, viene a determinarsi un annullamento della garanzia stessa “per facta concludentia”, perché il
passaggio della garanzia dal soggetto venditore
(che sarebbe chiamato codicisticamente a prestarla)
al soggetto acquirente (che si accollerebbe il rischio
della mancanza delle qualità e dunque dei vizi della
cosa venduta) dà luogo ad una pratica coincidenza
del soggetto garante e del soggetto garantito, con
conseguenziale annullamento della garanzia per
confusione, appunto, tra soggetto garante e soggetto
garantito. Tali conseguenze sono, invece, inaccettabili in materia di garanzia inerenti il rispetto dei
dettami di sicurezza degli impianti. Mentre nel caso
di qualità mancanti della cosa venduta che generino
dei vizi della stessa, vi è una incidenza delle relative conseguenze unicamente, almeno di norma,
sull’acquirente, l’eventuale mancanza dei dettami
di sicurezza relativi agli impianti inciderà, non solo
sull’interesse
dell’utilizzatore,
ma
anche
sull’interesse generale della collettività, individua35
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bile nel fatto che, da impianti non in regola, possano derivare danni alla salute delle persone. Di più:
eventuali danni patiti dalla collettività, per una effettiva tutela della stessa, hanno bisogno della esatta individuazione del soggetto che, di quei danni,
possa rispondere.
Ecco che, allora, in materia di caratteristiche degli
impianti, la presenza di una clausola di garanzia diventa davvero imprescindibile nella sua previsione
contrattuale, ancorché negoziabile quanto ai suoi
elementi contenutistici in riferimento alla possibilità di determinare il soggetto a cui tale garanzia
spetti. Tale negoziabilità non va letta in termini di
deroga pattizia alla garanzia per i vizi della cosa
venduta la quale, laddove derogata, finisce di fatto,
come si è visto, di spiegare ogni suo effetto, ma va
letta in termini di accordo pattizio volto esclusivamente a modificare la determinazione del soggetto
a carico del quale essa spetti, in tale ambito potendosi anche operare attraverso l’applicazione - ma
solo in via analogica - delle norme sulla garanzia
per i vizi.
La portata dell’art. 13 allora è stata, sia pure indirettamente, davvero innovativa in tale contesto,
dando coscienza della necessità che si pervenga alla
individuazione di un soggetto, indifferentemente
scelto tra venditore ed acquirente, al quale imputare
la responsabilità conseguente ai danni che un impianto non in regola possa generare. E, sotto questo
aspetto, l’abrogazione della norma non potrà cancellare un principio di portata così generale.
Pertanto, se i termini letterali della garanzia vanno,
per come sopra detto ed in conseguenza
dell’abrogazione dell’art. 13, riscritti nelle formulazioni da utilizzare, poiché non si tratterà più di garantire la conformità degli impianti ma l’avvenuta
installazione degli stessi da parte di imprese dotate
dei requisiti e delle abilitazioni previste dalla legge,
non si potrà comunque prescindere dalla individuazione di un soggetto che, delle eventuali violazioni
inerenti il rispetto delle norme di sicurezza di tali
impianti, assuma la responsabilità. Il che è un obbligo che risiede in una norma non scritta (come
non lo era neppure sotto il vigore dell’art. 13) ma
risiede in un principio superiore direttamente collegato all’interesse generale della collettività.
Ma tale garanzia non rappresenta, come si è avuto
modo di affermare sopra indirettamente, una estensione della garanzia per i vizi, concludendosi in una
garanzia autonoma che trova la propria causa
nell’interesse legittimo della collettività a che non
abbiano a circolare immobili dotati di impianti poImmobili & proprietà 2015
tenzialmente
pericolosi
e
quantomeno,
nell’impossibilità di porre in essere una generalizzata campagna di forzoso adeguamento di tutti gli
immobili, sia idonea a consentire l’individuazione
del soggetto che del funzionamento di tali impianti
e delle conseguenze di eventuali eventi dannosi, ne
sia il responsabile.
Ovviamente la garanzia si atteggia in maniera differente a seconda che gli impianti siano risalenti a
prima dell’entrata in vigore della L. n. 46/1990, allorché non erano ancora state previste obbligatorie
abilitazioni per le imprese installatrici. In tal caso
occorrerà notiziare l’acquirente circa l’esistenza,
nell’impianto elettrico, almeno dei requisiti previsti
dall’art. 6, comma 3, del D.M. n. 37/2008, in mancanza di che andrà comunque individuato il soggetto che si assuma l’onere di condurre gli impianti a
norma o, in alternativa, di assumersi le responsabilità relative.
Quanto agli edifici che possono dirsi interessati dalla norma, essi sono tutti gli edifici, indipendentemente dalla loro destinazione, ma purché in essi
siano presenti impianti, a servizio degli stessi, considerati rilevanti ai fini dell’applicazione della normativa e a tale uopo classificati nell’art. 1 del D.M.
stesso. Poiché l’obbligo di garanzia è comunque
correlato alla esistenza di una impiantistica e di una
impiantistica posta in grado di poter funzionare, è
scontato che restano escluse dall’applicazione della
normativa gli immobili in cui non esistano impianti. Qui, essendo escluso ogni pericolo correlato
all’utilizzo degli stessi, ne deriva l’esclusione della
garanzia. Ove, invece, vi siano impianti che, per la
mancanza di sottosistemi deputati al loro funzionamento, non siano posti in grado di poter funzionare, sembrerebbe opportuno dare contezza comunque dell’esistenza di tali impianti e, relativamente alle parti di essi la cui installazione sia già
stata completata, fare effettuare la dichiarazione di
garanzia nei termini sopra riportati.
Dubbi erano poi sorti, già sotto la vigenza dell’art.
13, circa l’effettiva natura di tale garanzia e, in particolare, sul modo di atteggiarsi della stessa, soprattutto quando gli impianti manchino dei requisiti di sicurezza. In tal caso sono tre i punti fondamentali che è
possibile richiamare anche dopo l’abrogazione della
più volte richiamata norma dell’art. 13:
- a) l’immobile conserva comunque la sua commerciabilità;
- b) non sorge alcun obbligo di adeguamento degli
impianti in nessuna tipologia di fabbricato;
- c) la garanzia va comunque disciplinata.
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Quanto al punto sub a), la conclusione appare abbastanza ovvia sol che si consideri come una norma
portata da un decreto ministeriale non può modificare in modo sostanziale norme civilistiche, ponendo extra commercium tutti gli immobili sforniti della dichiarazione di conformità. Peraltro una conseguenza talmente grave avrebbe dovuto, quanto meno, essere prevista dalla stessa norma, il che non
pare la disposizione abbia disposto.
Quanto al punto sub b), la nota ministeriale è stata
chiarissima nell’evidenziare che non esistono norme rintracciabili nel D.M., ma neanche altrove, che
pongano, un generale obbligo di adeguamento degli
impianti preesistenti che siano conformi alle norme
di sicurezza applicabili all’epoca della loro realizzazione. Naturalmente, qualora l’impianto non fosse a norma neppure in relazione ai dettami di sicurezza vigenti all’epoca della sua realizzazione, vi
sarà un obbligo di adeguamento comunque indipendente dalla commerciabilità dell’immobile.
Quanto al punto sub c), infine, si è ampiamente
spiegato che la garanzia è inderogabile quanto alla
sua previsione e quanto ai suoi essenziali contenuti,
salva la possibilità di derogare in relazione alla determinazione di un soggetto diverso dal venditore
(rectius: dal dante causa) a carico del quale la garanzia debba essere posta.
Gli effetti della garanzia possono essere poi diversi
anche a seconda dalla conoscenza o dalla conoscibilità dei vizi degli impianti attinenti elementi di sicurezza che ne abbia il venditore e l’acquirente, soprattutto in considerazione della possibilità, in caso
di dolo del venditore, di una automatica responsabilità, in capo a quest’ultimo, anche nel caso in cui alla prestazione di garanzia da parte dello stesso si sia
derogato.
La tutela discendente dalla certificazione
energetica dell’immobile
La stipulazione del Protocollo di Kyoto, avvenuta
tra i Paesi più industrializzati l’11 dicembre 1997,
ha determinato l’instaurarsi di politiche legislative
del tutto nuove nell’ambito del contenimento e del
controllo delle emissioni inquinanti. Il trattato, infatti, ha previsto, in capo ai Paesi aderenti,
l’obbligo di operare una riduzione delle emissioni
nocive per l’ambiente, da attuarsi anzitutto attraverso il ricorso a meccanismi di mercato (il principale
dei quali è il Meccanismo di Sviluppo Pulito) tesi a
massimizzare le riduzioni inquinanti a parità di investimento economico.
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Da qui la necessità di attuare una serie di interventi
normativi funzionalizzati alla razionalizzazione delle fonti energetiche e dei consumi e al controllo
della misura delle emissioni nocive. La consapevolezza che, in questo ambito, una discreta parte di
elementi inquinanti per l’atmosfera deriva, non solo
dall’utilizzo degli impianti di produzione industriale, ma altresì dal normale e più banale utilizzo degli
impianti, per così dire, domestici, immanenti
all’uso standard degli edifici civili e commerciali,
ha condotto alla emanazione della Direttiva Comunitaria 2002/91/CE che ha imposto, ai Paesi
dell’Unione, l’adozione di specifiche normative sul
rendimento energetico nell’edilizia.
L’Italia, in effetti, ben prima dello stesso Protocollo
di Kyoto, aveva intrapreso i primi passi legislativi
in questo settore con la L. 9 gennaio 1991, n. 10 recante: “Norme per l’attuazione del Piano energetico
nazionale in materia di uso razionale dell’energia,
di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti
rinnovabili di energia” alla quale era succeduta, a
tredici anni di distanza, la L. 23 agosto 2004 n. 239
portante “Riordino del settore energetico, nonché
delega al Governo per il riassetto delle disposizioni
vigenti in materia di energia”. Ed è proprio in attuazione di questa delega, oltreché della succitata
Direttiva Comunitaria, che viene adottato il D.Lgs.
19 agosto 2005, n. 192 (in G.U. n. 222 del 23 settembre 2005) entrato in vigore il giorno 8 ottobre
2005.
La ratio che informa l’intera materia è essenzialmente quella di introdurre, nell’ampio e complesso
iter burocratico-amministrativo che consente la realizzazione, il godimento e quindi la commercializzazione degli edifici, un nuovo documento, prima
del tutto sconosciuto, che va sotto il nome di “Attestato di Certificazione Energetica” (ACE), idoneo a
dare all’utente una rappresentazione delle caratteristiche energetiche dell’unità immobiliare in relazione all’uso standard della stessa, dipendente dalla
propria destinazione urbanistica, con conseguente
attribuzione di un preciso classamento energetico
dell’unità immobiliare considerata, unitamente ad
indicazioni circa eventuali interventi migliorativi
degli impianti, tali da consentire risparmi di energia
o il potenziamento delle capacità prestazionali, a
parità di costi.
Ciò consente di mettere l’utente finale del settore
edile nella diretta possibilità di conoscere esattamente, attraverso appunto l’Attestato di Certificazione Energetica, le caratteristiche energetiche
dell’unità immobiliare in suo possesso, consenten37
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done un paragone con i parametri energetici medi
di legge e, per questa via, scoraggiandone
l’acquisto, allorché l’unità immobiliare in oggetto
sia, per così dire, “sparametrata” rispetto ai normali
canoni energetici nazionali.
In tal modo il legislatore, da un lato, agendo in via
diretta, introduce norme che impediscono nuove
realizzazioni edilizie che siano sfornite di determinati parametri energetici minimi e che, come tali,
sono potenzialmente nocive a causa delle eccessive
emissioni inquinanti che ne deriverebbero;
dall’altro lato, attraverso il meccanismo della certificazione energetica, indirettamente, agisce conducendo potenzialmente fuori mercato quegli immobili che non rispondano più ai moderni criteri energetici. Tutto questo dovrebbe indurre ad un adeguamento degli impianti più vecchi, necessario a
far tornare appetibili sul mercato le unità immobiliari altrimenti svalutate a causa della vetustà e del
mancato “allineamento energetico” dei propri impianti rispetto ai parametri di legge.
La funzione della certificazione energetica è quindi,
sotto questo aspetto, quella di consegnare a ciascuna
unità immobiliare una sorta di “patente di salubrità”
che abbia a determinarne una particolare valorizzazione sul mercato, rispetto ad altre unità immobiliari
aventi caratteristiche energetiche scadenti.
L’impatto che la disciplina sulla certificazione
energetica ha avuto nell’ambito delle attività negoziali di compravendita e di locazione degli immobili ha causato non pochi problemi all’operatore del
diritto e all’interprete in relazione alla esatta e corretta applicazione della normativa. È innegabile, infatti, che la disciplina della materia non brilla certo
per chiarezza espositiva e ciò, non tanto per
l’utilizzo di un impianto non sempre univoco nelle
sue definizioni e nelle sue determinazioni, ma soprattutto perché il legislatore della materia si è giocoforza - trovato al cospetto di due problematiche dalla natura diversissima: da un lato la problematica posta da aspetti strettamente tecnici e,
dall’altro lato, la problematica della ricerca di un
amalgama di questa con questioni di ordine più
strettamente giuridico.
La complessità della strutturazione normativa sulla
certificazione energetica, deriva poi dal fatto che
l’intera materia viene giocata attraverso un’ipotesi
di competenza normativa, di fatto, concorrente tra
Stato e Regioni. Sotto questo profilo occorre ricordare come l’art. 117 Cost., nel testo riformato dalle
innovazioni subite dall’intero Titolo V, sancisca
una ripartizione di competenza legislativa tra Stato
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e Regioni tale che, per talune materie, tassativamente individuate dalla stessa norma, prevede una
competenza, a seconda dei casi, esclusiva dello Stato o ripartita tra Stato e Regioni, lasciando che, nelle altre materie residuali, non espressamente riservate alla legislazione dello Stato, la potestà legislativa, sia appannaggio esclusivo delle Regioni. La
materia della certificazione energetica degli edifici,
occupandosi direttamente di questioni attinenti il
rendimento energetico nell’edilizia, non è stata invero considerata propriamente come appartenente
alla sfera delle normative preposte alla tutela
dell’ambiente e dell’ecosistema (materia di competenza esclusiva dello Stato, ex art. 117, comma 2,
lett. “s)”, Cost.), ma, piuttosto, come appartenente
ad un ambito legislativo autonomo che, non rientrando in alcuna altra specifica materia lasciata alla
competenza esclusiva dello Stato o alla competenza
ripartita Stato-Regioni, ai sensi del comma 4 dello
stesso art. 117 Cost., spetta residualmente alla
competenza regionale.
Il comma 5 dello stesso art. 117, nelle materie di
competenza residuale esclusiva delle Regioni, conferisce, poi, alle Regioni stesse il potere di dare attuazione ed esecuzione diretta agli atti dell’Unione
europea, nel rispetto delle norme procedurali statali
le quali si cureranno di disciplinare anche
l’eventuale potere legislativo sostitutivo dello Stato,
nel caso in cui il potere legislativo locale sia rimasto inadempiente. Questa strutturazione relativa alle
fonti normative capaci di legiferare in materia,
espressamente richiamata, in seno al D.Lgs. n.
192/2005, dalla cd. “Clausola di cedevolezza” di cui
all’art. 17, consente di concludere circa l’indubbia
appartenenza della competenza legislativa regionale
in materia di certificazione energetica degli edifici. Il
che avrebbe potuto condurre, addirittura, le Regioni
ad intervenire in diretta attuazione della Direttiva
Comunitaria, senza il filtro della normativa nazionale e a prescindere dall’esistenza, quale presupposto,
di una struttura normativa statale.
Tuttavia in Italia nessuna regione ha adottato norme
che, a prescindere da disposizioni normative nazionali, provvedessero al diretto recepimento della Direttiva Comunitaria in materia di certificazione
energetica degli edifici. Per cui, il quadro che si è
venuto a creare ha determinato:
a) casi di regioni (la maggior parte!) nelle quali,
non essendo stata disposta alcuna normativa “locale”, attuativa di quella statale, è rimasta applicabile
l’intera legislazione nazionale emanata in materia,
da applicare, dunque, sia nelle sue disposizioni di
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principio, che in quelle di dettaglio (queste ultime,
peraltro a lungo inesistenti, stante la perpetuata latitanza delle cd. Linee Guida Nazionali e dei Decreti
Attuativi previsti in seno al D.Lgs. n. 192/2005 ed
emanati con circa cinque anni di ritardo);
b) l’esistenza di interventi normativi regionali,
emanati comunque sempre in attuazione
dell’intervento statale, e che, come tali, avrebbero
dovuto essere rispettosi dei principi fondamentali
posti dalla legislazione nazionale.
Resta, tuttavia, il legittimo dubbio che le disposizioni locali che abbiano dettato norme sulla certificazione energetica, avendo spesso allargato
l’ambito della propria disciplina ad elementi non
propriamente attuativi della legislazione nazionale,
addirittura introducendo principi (come l’obbligo di
allegazione agli atti di trasferimento a titolo oneroso, laddove in alcuni passaggi normativi non più
previsto dalla legislazione nazionale che si è succeduta nel tempo) estranei alla legislazione statale,
abbia esondato rispetto ai limiti di normazione costituzionalmente garantiti.
La reazione del legislatore italiano di fronte alle disposizioni contenute nella normativa comunitaria è
stata, dunque, quella di emanare una specifica disciplina in materia di certificazione energetica la
quale ha introdotto, con il D.Lgs. n. 192/2005,
nell’ambito della contrattazione immobiliare, un
nuovo documento, prima sconosciuto al settore
contrattuale edilizio che va sotto il nome di Attestato di Certificazione Energetica.
L’introduzione “a regime” di questa novità documentale avviene, secondo le disposizioni contenute
nella prima normativa di riferimento (il D.Lgs. n.
192/2005, appunto), attraverso un calendario temporale ed una casistica tese ad assicurare una graduale obbligatorietà di tali novità.
Secondo il combinato disposto dell’art. 6, comma 1
e dell’art. 3, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 192/2005,
devono essere dotati di ACE:
a) gli edifici di nuova costruzione (tali intendendosi quelli per i quali la D.I.A. sia stata presentata,
o il permesso di costruire sia stato richiesto, in data
successiva l’8 ottobre 2005, cioè un anno dopo
l’entrata in vigore del decreto);
b) gli edifici già esistenti, di superficie utile superiore a mille metri quadrati, che siano stati oggetto di “ristrutturazione integrale degli elementi edilizi costituenti l’involucro”;
c) gli edifici già esistenti, di superficie utile superiore a mille metri quadrati, che siano stati oggetto di “demolizione e ricostruzione in manuImmobili & proprietà 2015
tenzione straordinaria”;
(in questi ultimi due casi sempreché i relativi provvedimenti abilitativi fossero stati richiesti o presentati dopo la data dell’8 ottobre 2005).
Il successivo art. 6, comma 3, sancisce, poi,
l’obbligo di allegazione, in originale o in copia autentica, dell’ “Attestato di certificazione energetica”
agli atti di compravendita, sanzionando, l’eventuale
mancata allegazione, con la nullità relativa
dell’atto, ai sensi dell’art. 15, comma 8.
Gli obblighi di dotare gli edifici dell’Attestato di certificazione energetica e di allegare lo stesso agli atti di
compravendita immobiliare sono rimasti - ad onta
dell’entrata in vigore della norma che li aveva previsti
- di fatto procrastinati “sine die” a causa della mancata emanazione dei Decreti presidenziali attuativi (previsti dall’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 192/2005) e delle
“Linee guida nazionali” (previste dall’art. 6, comma
9, D.Lgs. n. 192/2005) preposti alla determinazione
delle modalità e dei criteri di massima per il rilascio
della certificazione energetica.
Avendo, la fonte normativa primaria (il Decreto
Legislativo), fatto riferimento a fonti delegificate,
l’assenza delle stesse ha determinato l’inattuabilità
della medesima fonte primaria la quale è rimasta,
pertanto, “provvedimento ad applicazione sospesa”.
A questa “impasse” legislativa ha rimediato il successivo D.Lgs. 29 dicembre 2006, n. 311 (pubblicato sulla G.U. del 1° febbraio 2007) entrato in vigore
il giorno 2 febbraio 2007 che ha introdotto alcune
novità nella materia.
La novità principale è contenuta nell’art. 5 che,
all’art. 11 dell’originario D.Lgs. n. 192/2005, ha
aggiunto il comma 1-bis il quale sancisce che, in
assenza delle “Linee Guida Nazionali” e fino alla
loro emanazione, l’“Attestazione di certificazione
energetica” è sostituita - a tutti gli effetti dall’“Attestazione di qualificazione energetica”.
In secondo luogo l’art. 2 del D.Lgs. n. 311/2006,
modificando il comma 3 dell’art. 6 del D.Lgs. n.
192/2005, prevede (con effetto a partire dall’entrata
in vigore del D.Lgs. n. 311/2006, e cioè a partire
dal 2 febbraio 2007), l’obbligo di allegazione della
certificazione energetica, non più soltanto agli atti
di compravendita, ma altresì a tutti gli atti di trasferimento dell’immobile a titolo oneroso.
In terzo luogo, per effetto dell’aggiunta, ad opera
dell’art. 2 del D.Lgs. n. 311/2006, dei commi 1-bis,
1-ter, 1-quater, all’art. 6 del D.Lgs. n. 192/2005, gli
obblighi di dotazione della certificazione energetica
e di allegazione della stessa agli atti di trasferimento a titolo oneroso vengono estesi ad una serie di al39
Gli Speciali
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tre fattispecie anche in funzione di un ulteriore proposto calendario temporale che prevede una serie di
date successive a partire dalle quali gli obblighi
stessi vanno inderogabilmente applicati.
Improvvisamente, però, di fronte alle pressanti critiche e alle innegabili problematiche poste
dall’obbligo di allegazione della certificazione energetica agli atti di trasferimento a titolo oneroso, il
comma 2-bis dell’art. 35 del D.L. 25 giugno 2008, n.
112, aggiunto in sede di conversione, con la L. 6
agosto 2008 n. 133, entrata in vigore il 22 agosto
2008, ha abrogato i commi 3 e 4 dell’art. 6 e i commi 8 e 9 dell’art. 15 del D.Lgs. 19 agosto 2005, n.
192, così come modificato dal D.Lgs. n. 311/2006,
abrogando l’obbligo di allegazione, nonché l’obbligo
di effettuare consegna della certificazione al conduttore, in caso di locazione dell’immobile che ne fosse
dotato, e le conseguenti norme che sanzionavano con
la nullità relativa il contratto di vendita e di locazione il cui perfezionamento avesse trasceso dai previsti
indicati obblighi.
Ora, l’abrogazione dell’obbligo di allegazione del
certificato energetico all’atto di trasferimento
dell’immobile a titolo oneroso, a pena di nullità, e
dell’obbligo di consegna del certificato stesso
all’inquilino, in caso di locazione immobiliare, fa
sorgere due ordini distinti di problemi. Da un lato
quello di coniugare l’abrogazione dei detti obblighi,
ad opera di una norma legislativa nazionale, con la
previsione specifica dei medesimi obblighi da parte
di norme di rango legislativo o regolamentare regionali. Dall’altro, quello di considerare se la descritta abrogazione non abbia determinato addirittura la violazione di un vincolo comunitario, quello
posto dalla Direttiva 2002/91/CE, il cui art. 7,
comma 1 prevede l’obbligo, per ciascun Stato
membro, di attuare disposizioni legislative volte ad
assicurare che in fase di costruzione, compravendita o locazione di un edificio, “l’attestato di certificazione energetica sia messo a disposizione del
proprietario [...], del futuro acquirente o locatario”.
In relazione al primo problema, è evidente (ed in
ciò le disposizioni regionali si sono, via, via, uniformate) come la sanzione della nullità possa essere
introdotta (e quindi abrogata) unicamente da una
norma statale (e non da una disposizione normativa
locale). La sanzione di nullità, infatti, ponendo dei
vincoli alla libertà della forma degli atti, e quindi
della circolazione dei beni, resta materia di appannaggio esclusivo della legge statale, anche quando,
ai sensi del novellato disposto dell’art. 117 Cost. si
trattasse di materie riservate (anche) alla competenImmobili & proprietà 2015
za legislativa locale.
Quanto al secondo problema, invece, la risposta
non può essere data che in termini positivi, tanto
che l’Italia è stata sottoposta ad una specifica procedura sanzionatoria da parte della Comunità Europea, proprio in quanto Paese che non è stato in grado di provvedere, con specifiche norme, ad una applicazione generalizzata dei principi introdotti dalla
prima Direttiva Comunitaria sul tema, la
2002/91/CE. Sicché la Corte di Giustizia UE con
sentenza 13 giugno 2013 è pervenuta alla condanna
della Repubblica Italiana nella procedura di infrazione contro la stessa instaurata per la mancata ottemperanza alle disposizioni recate, in materia di
certificazione energetica degli edifici, ai sensi della
Direttiva Comunitaria 2002/91/CE. Come si evince
dalla sentenza di condanna medesima, il capo di
imputazione relativo alla procedura di infrazione fa
riferimento, pressoché esclusivo, alla mancata previsione, da parte delle norme nazionali in materia,
dell’ “obbligo di consegnare un attestato relativo al
rendimento energetico in caso di vendita o di locazione di un immobile, conformemente agli articoli
7 e 10 della Direttiva 2002/91/CE [...]”.
Nel frattempo, alla prima Direttiva Comunitaria,
appena citata, viene sostituita una nuova Direttiva,
la 2010/31/UE, che propone disposizioni sempre
più stringenti in materia di certificazione energetica
degli edifici rispetto alle quali l’emanazione delle
prime “Linee Guida Nazionali” del giugno del 2009
non sono più rispondenti. Mentre, all’interno della
normazione statale, ripresa presso le singole regioni
che avevano già legiferato in materia, viene introdotta una nuova denominazione dell’Attestato
energetico che, più precisamente, definisce la certificazione energetica come “Attestato di Prestazione
Energetica” (APE).
Si giunge così ai più recenti provvedimenti. Lo Stato, temendo l’apertura di un’ulteriore procedura di
infrazione da parte della Comunità Europea per
mancato adeguamento alla nuova Direttiva Comunitaria, con il recente Decreto Interministeriale 26
giugno 2015, ha provveduto ad una rivisitazione,
non tanto delle norme di principio (che continuano
ad essere quelle recuperabili dal D.Lgs. n. 192/2005
come modificato dal D.Lgs. n. 311/2006 e dalla L.
n. 90/2013), ma delle “Linee Guida Nazionali” in
materia di certificazione energetica degli edifici,
con l’introduzione di alcuni punti di novità ai quali,
giocoforza, dovranno poi attenersi anche le Regioni
e le Province Autonome, trattandosi di elementi
che, sebbene facenti parte di quella materia “di det40
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taglio” che, in base alla sopra ricordata “clausola di
cedevolezza” avrebbe dovuto vedere una piena autonomia locale, vengono regolamentati dalla fonte
primaria costituita dalla Direttiva Comunitaria la
quale, come tale, non può non vedere un pieno adeguamento anche da parte delle autonomie locali.
La nuova normativa guida nazionale introduce:
a) l’obbligo di pervenire, entro la data del 31 dicembre 2018, per gli edifici pubblici, ed entro la
data del 31 dicembre 2020, per gli edifici privati, ad
un parametro energetico “quasi zero”. Il significato
di ciò consiste, in relazione ad edifici di nuova realizzazione o soggetti ad integrale ristrutturazione,
una progettazione adeguata a consentire che il fabbisogno energetico di tali edifici sia vicina allo zero, nel senso che le progettazioni tecniche degli impianti (elettrico, idrico-sanitario, di riscaldamento,
di raffrescamento, di climatizzazione) devono prevedere sistemi capaci di consentire una sorta di “autarchia” del fabbisogno energetico secondo cui,
l’energia di cui l’edificio ha bisogno per essere utilizzato secondo la destinazione che è sua propria,
deve essere ricavata con la minima dispersione di
elementi inquinanti per l’ambiente esterno;
b) di conseguenza nuove modalità di calcolo dovranno essere applicate per l’identificazione delle diverse
classi energetiche di appartenenza dell’edificio e della
singola unità immobiliare, con la conseguenziale introduzione di nuovi software di calcolo ai quali i certificatori dovranno fare riferimento;
c) una parametrizzazione generale all’“edificio
ideale” caratterizzato da emissioni zero, rispetto al
quale, l’edificio concretamente considerato (sia esso, “vecchio” o “nuovo”), avrà un certo grado di
lontananza, con la conseguenza che maggiore è la
lontananza dal parametro ideale, minore sarà
l’efficienza energetica attribuita, mentre maggiore
sarà la vicinanza al parametro ideale, migliori saranno le prestazioni energetiche documentabili;
d) nuovi requisiti minimi di efficienza energetica
degli edifici che conducono alla previsione, non più
di classi energetiche “fisse” e genericamente standardizzate, ma a classi energetiche “variabili” che
saranno riferite con la naturale relativizzazione alle
caratteristiche del singolo involucro edilizio considerato, con la conseguenza che non sarà più possibile parametrare un edificio ad un altro avente caratteristiche apparentemente similari (sicché, ad
esempio, la classe “A” conseguita dal mio appartamento non necessariamente induce a ritenere che il
mio appartamento abbia prestazioni energeticamente migliori di altro appartamento limitrofo che, pur
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avendo conseguito solo la classe “B”, per il miglior
stato in cui trovasi, è “costretto” in quella classe in
quanto, per le proprie caratteristiche, avrebbe dovuto avere una maggiore vicinanza a quell’”edificio
ideale” caratterizzato da emissioni pari a zero);
e) nuovi sistemi di accreditamento per i certificatori
energetici;
f) l’eliminazione della marcatura temporale della
firma del certificatore sull’APE.
Tutto questo, sostanzialmente, impone nuove metodologie progettuali, utilizzo di sistemi
all’avanguardia, ricerca di fonti energetiche realmente alternative a quelle tradizionali, in pratica sin
dall’immediato, posto che al progetto edilizio compatibile con il rilascio del permesso di costruire,
ove dovuto, o con la S.C.I.A., nei casi di ristrutturazioni che non comportino la realizzazione di un
edificio del tutto differente da quello originario, devesi accompagnare una relazione tecnica rappresentata da una certificazione energetica “ante litteram”
che dia contezza, ancor prima dell’effettiva realizzazione edilizia da compiersi, di quali saranno i risultati da conseguire una volta che l’opera sia finita, con relativo possibile diniego della certificazione di agibilità qualora, nella definizione della realizzazione medesima, il progettista non abbia poi rispettato i presupposti indicati nella relazione energetica acclusa al progetto.
Pare evidente come, nell’ambito strettamente correlato all’operatività del notaio e alle contrattazioni
immobiliari, non si scorgano eclatanti novità rispetto al passato, se non quelle relative all’impossibilità
di servirsi di certificazioni energetiche facenti riferimento ai vecchi parametri, a partire da un preciso
calendario che parrebbe coincidere con le suesposte
date del 31 dicembre 2018 (edifici pubblici) e del
31 dicembre 2020 (edifici privati) per gli edifici di
nuova costruzione. Per gli edifici già esistenti resta
fermo il principio secondo il quale, se essi sono già
dotati di certificazione energetica, la stessa continua ad essere pienamente utilizzabile fino alla sua
naturale scadenza decennale (salvo, ovviamente,
che non siano di ostacolo ipotesi di decadenza della
certificazione stessa, di invalidità o di inefficacia
sopravvenute derivanti, ad esempio, da una radicale
modificazione degli ambienti, da una integrale sostituzione degli infissi, da interventi atti ad aumentare l’isolamento termico o ad alterare la trasmittanza termica, da interventi di sostituzione di impianti idrico-sanitari utilizzanti acqua riscaldata o di
sostituzione degli impianti termici, etc. ...).
Se, invece, manchino ancora della dotazione, la
41
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nuova certificazione necessaria ad essere allegata
all’atto notarile, nelle ipotesi legalmente previste,
dovrà rispettare i nuovi parametri, nonché le nuove
procedure di calcolo.
Se, fin qui, si è cercato di dare un panorama complessivo della situazione normativa relativamente
alla certificazione energetica, alla sua funzione e alla sua evoluzione, il compito che brevemente ci si
propone è quello di verificare quanto sia il peso effettivo che tale nuova documentazione possa assumere in relazione alla tutela degli interessi
dell’utenza del mercato immobiliare, in considerazione proprio di quel giudizio di “conformità” dal
quale si è partiti, in funzione di assicurare, attraverso l’osservanza della “conformità”, appunto, a dei
parametri di massima o, se si vuole, a dei presupposti di principio, la reale tutela di taluni interessi
dell’acquirente immobiliare.
È evidente come la “ratio” dalla quale il legislatore
italiano è partito, in dipendenza di quanto assunto
nel Protocollo di Kyoto e di quanto poi fatto suo in
dipendenza del panorama normativo delle Direttive
Comunitarie che si sono succedute in materia energetica e di tutela dell’ambiente, sia del tutto encomiabile. Come si è già accennato, la funzione della
certificazione energetica, oggi, è duplice: eliminare,
da un lato, nuove realizzazioni edilizie non rispondenti ai parametri di inquinamento massimo consentito e ai parametri di tutela ambientale, mediante
l’approntamento di progetti edilizi che, accompagnati da una certificazione virtualmente rispondente
ai risultati che la progettazione stessa andrà a generare, consentano la nascita di un panorama immobiliare davvero moderno, in quanto coerente con le
necessità di limitare l’inquinamento atmosferico e
l’inutile dispendio di energie nocive per l’ambiente.
Dall’altro lato, attraverso la certificazione energetica messa a disposizione dell’utente, tentare di incanalare la scelta dell’unità immobiliare da acquistare, a parità di prezzo, verso immobili che offrano
energeticamente parlando, migliori “performance”.
Il problema è che una tale evoluzione che oserei
definire di portata “civica” e “sociale” continua a
risultare mal digerita proprio da quella stessa
utenza in funzione degli interessi della quale, la
certificazione energetica medesima è stata introdotta. E non a torto!
Se, infatti, avessimo potuto immaginare che il certificato energetico avrebbe dovuto accompagnarsi
unicamente agli interventi di nuova realizzazione o
di restauro integrale, l’intera strutturazione della
fattispecie avrebbe assunto, anche agli occhi dei
Immobili & proprietà 2015
meno esperti, un significato sostanziale. In parole
povere, così come quando mi accingo ad acquistare
un elettrodomestico di nuova fattura, ho il diritto di
conoscere gli elementi prestazionali dello stesso
sotto l’aspetto del dispendio energetico e delle prestazioni, analogamente, allorché mi accingo a realizzare l’acquisto forse più importante della vita:
cioè la casa da adibire a residenza familiare o
l’edificio destinato a svolgere funzione strumentale
alla mia attività, avrò il diritto di conoscere tutte le
caratteristiche, in esse comprese, ovviamente quelle
attinenti al fabbisogno energetico necessario per
l’utilizzo standard dello stesso. E qui, a parità di
costi e di caratteristiche generali che mi hanno indotto verso una certa tipologia immobiliare, andrò a
preferire l’unità immobiliare che presenti caratteristiche energetiche rispondenti ai migliori dettami.
Ma, quando l’acquisto avesse ad oggetto un immobile risalente, la vetustà dello stesso, per sua stessa
natura, a causa delle diverse e superate tecniche costruttive, in dipendenza di una impiantistica e di rifiniture interne ed esterne che non possono dirsi
appunto moderne, non potrò attendermi che, dalla
certificazione energetica rilasciata, possano giungere risultati confortanti. In altri termini, per fare solo
un esempio, è come se volessi dotare la mia cucina
di un vecchio frigorifero a porta bombata, di quello
stile americaneggiante, tanto in voga negli anni ’50
e ’60, e pretendessi di acquistarne un esemplare
funzionante che attestasse le proprie caratteristiche
energetiche in classe “A” o, addirittura “A++”!
È palese, allora, come la funzione della certificazione energetica viva una doppia essenza. Per gli
immobili più datati, essa viene considerata come un
inutile appesantimento, burocratico ed economico,
alla contrattazione, idonea solo a mettere un ennesimo balzello tra gli interessi di chi vende e quelli
di chi compra. Laddove, al contrario, tale certificazione comincia, ma solo da recente, ad acquisire
certo apprezzamento nella contrattazione di unità
immobiliari nuove. Mercato ove, tra l’altro, la crisi
economica imperante, induce l’utenza a considerazioni “latu sensu” economiche, con riferimento
all’effettiva esistenza di un rapporto coerenziale tra
l’ammontare della spesa cui si va incontro e le effettive aspettative derivanti dall’acquisto effettuando, che non mettono affatto da parte anche gli
aspetti legati agli impianti termici, idrici e sanitari,
nonché alle modalità di coibentazione degli ambienti, dei piani di calpestio, del tetto e dei muri perimetrali.
A codesti limiti, va aggiunta l’insensibilità di un le42
Gli Speciali
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gislatore che, se per una parte, ha dettato norme
piuttosto rigide sul tema energetico e sulle modalità
di realizzazione delle relative certificazioni, omette,
in maniera sistematica, quei pressanti controlli su
taluni autori delle certificazioni stesse che hanno
consentito, ad oggi, perfino la redazione di certifica-
Immobili & proprietà 2015
zioni energetiche compiute “a distanza”, senza alcun
tipo di sopralluogo sullo stato reale dell’immobile
ma semplicemente acconsentendo ad una mera immissione di dati (teorici) in un software informatico
che poi, naturalmente, non potrà che generare certificazioni prive di una sostanziale veridicità.
43
Gli Speciali
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Le patologie dell’oggetto
del contratto in ipotesi
di ritardata consegna
di Antonio Scarpa - Consigliere della Corte di cassazione
L’obbligo essenziale del venditore è quello di “consegnare la cosa al compratore”, sicché egli è obbligato a
custodirla e risponde per gli eventuali deterioramenti.
Obbligo di consegna della cosa
L’obbligo fisionomico incombente sul venditore
quale effetto del contratto di compravendita non è, a
ben vedere, quello di “far acquistare la proprietà della cosa o il diritto” al compratore, essendo questa
conseguenza tipica discendente in via automatica
dalla conclusione del negozio nella sua normale veste traslativa, quanto quello di “consegnare la cosa al
compratore” stesso, come stabilisce l’art. 1476, n. 1,
c.c. È, infatti, la consegna l’unico comportamento
dovuto dall’alienante in funzione dell’esercitabilità
del diritto trasferito all’acquirente1, a meno che la
cosa non si trovi già nella disponibilità di
quest’ultimo al momento della stipula; così come il
pagamento del prezzo costituisce l’unico obbligo incombente sul comparatore.
L’art. 1477 c.c. aggiunge che la cosa deve essere
consegnata nello stato in cui si trova al momento
della vendita, con gli accessori, le pertinenze ed i
frutti ad essa relativi, salvo che questi siano stati
espressamente esclusi.
In particolare, l’obbligazione del venditore di consegnare l’immobile alienato all’acquirente (la quale
non prevede, peraltro, forme solutorie vincolate) è
da qualificarsi “querable”, in quanto va eseguita nel
luogo ove è sito il bene, se sia stata convenuta una
consegna effettiva, oppure nel domicilio del medesimo venditore, se è stata convenuta una consegna
simbolica (mediante passaggio delle chiavi)2. È,
1
Cfr. G. Mirabelli, La vendita, Torino, 1988, 41 ss.
2
Il Codice civile del 1865 esplicitava le modalità di adempimento dell’obbligo di consegna del venditore di immobili: art. 1464 -
Immobili & proprietà 2015
perciò, necessaria la costituzione in mora tramite
intimazione o richiesta scritta per far valere il relativo inadempimento3.
Essendo la consegna condotta soltanto attuativa del
contratto di compravendita già perfezionato, essa
non può in alcuna misura rilevare allo scopo di delimitare l’esatto oggetto dell’alienazione4.
Allorché il contratto preveda un termine per il solo
pagamento del residuo prezzo e non anche per la
consegna del bene oggetto di compravendita, deve
desumersi, pertanto, che il venditore non possa rifiutare di trasferire materialmente all’acquirente il
potere di fatto sul bene, incorrendo altrimenti nella
violazione degli artt. 1476 n. 1 e 1477 c.c., laddove
l’acquirente legittimamente potrebbe ritardare il
versamento del corrispettivo5.
La giurisprudenza esclude che l’obbligazione di
consegna della cosa venduta spettante al venditore
determini un automatico trasferimento del possesso
a favore del compratore, come se si trattasse di un
costituto possessorio implicito nel negozio traslativo, sicché, ove l’alienante conservi la disponibilità
del bene, occorre accertare caso per caso, in base al
“Il venditore adempie l’obbligazione della consegna degli immobili, quando ha rimessi i documenti della proprietà venduta,
e le chiavi se trattasi di un edificio”.
La consegna delle chiavi, di solito considerata come riconsegna della cosa, non equivale, tuttavia, ad automatica estinzione
dell’obbligazione ex art. 1476, n. 1, c.c., ove ad essa non corrispondano l’effettivo rilascio dell’immobile e l’accertata insussistenza di impedimenti al recupero della sua piena disponibilità:
cfr. G. Santarcangelo, La compravendita, Milano, 2000, 281.
3
Cass. 14 dicembre 1970, n. 2676, in Foro it., 1971, I, 392 ss.
4
Cass. 20 ottobre 1976, n. 3651.
5
Cass. 18 gennaio 1983, n. 460.
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Gli Speciali
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comportamento delle parti ed alle clausole contrattuali, che non siano di mero stile, se la continuazione dell’esercizio di fatto sulla res sia accompagnata
dall’animus rem sibi habendi, o configuri, piuttosto, una mera detenzione nomine alieno6.
È incontestabile, però, che l’obbligazione legale di
consegna, in quanto diretta a soddisfare l’interesse
concretamente avuto di mira dal compratore con
l’acquisizione della res, potrà dirsi adempiuta soltanto allorché questi abbia conseguito l’effettivo
possesso della cosa stessa.
Se le parti non hanno concordato i tempi e i modi
dell’esecuzione dell’obbligazione di consegna ex
art 1476, n. 1, c.c., il dato fattuale del permanere
della materiale disponibilità della cosa ad opera del
venditore assume, in sostanza, un significato neutro, potendo rilevare sia come inadempimento, sia
anche come forma di detenzione in nome del compratore, legittimata dalla stipulazione di un negozio
giustificativo collegato o successivo alla vendita
(quale, ad esempio, una locazione, un comodato o
un deposito), ovvero da una funzione di garanzia
dell’obbligo differito di pagamento del prezzo7.
Gli artt. 1476, n. 1 e 1477 c.c., peraltro, connotano
tipicamente in termini di detenzione la relazione
materiale corrente tra il venditore e il bene trattenuto, in quanto strumentale all’attuazione della prestazione di consegna, senza che occorra dar prova
di un’apposita ulteriore convenzione ad effetti obbligatori fra i contraenti8. Sicché neppure si comprende a pieno la cautela della giurisprudenza allorché raccomanda di accertare caso per caso, sulla
base delle pattuizioni espresse, se il venditore che
ritardi la consegna della cosa ne mantenga così il
possesso o la semplice detenzione, in quanto una
conservazione negoziale del possesso del bene sa6
Cass. 18 marzo 1981, n. 1613; Cass. 21 dicembre 1993, n.
12621; Cass. 24 giugno 1994, n. 6095; Cass. 15 febbraio 1996,
n. 1156; Cass. 18 aprile 2003, n. 6331; Cass. 21 marzo 2014,
n. 6742; Cass. 24 marzo 2014, n. 6893.
7
Cass. 12 dicembre 1975, n. 4080.
8
Cfr. in dottrina, per le diverse posizioni, R. Omodei Salè, A
proposito di talune ricorrenti massime giurisprudenziali in materia possessoria, in Riv. dir. civ., 2013, 4, 989 ss.; A. Luminoso,
La compravendita. Corso di diritto civile, VI ed., Torino, 2009,
140; G. B. Ferri, La vendita. Le obbligazioni del venditore e del
compratore, in Tratt. Rescigno, 11, III, II ed., Torino, 2000, 537;
M. Bianca, La vendita e la permuta, in Trattato di diritto civile, a
cura di F. Vassalli, Torino, 1993, 408; G. Ruoppolo, Trasferimento implicito del possesso nell’alienazione del diritto di proprietà, nota a Cass. 18 dicembre 1964, n. 2918, in Giust. civ.,
1965, I, 747; D. Rubino, La compravendita, II ed., in Trattato di
diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, XXIII,
Milano, 1962, 483.
Immobili & proprietà 2015
rebbe di per sé incompatibile con la volontà di trasferimento della proprietà, elemento essenziale della compravendita.
Responsabilità del venditore
fino alla consegna
Dagli artt. 1465 (che regola gli effetti
dell’impossibilità sopravvenuta nei contratti con effetti traslativi), 1476, n. 1, e 1177 (che specifica
come l’obbligazione di consegnare una cosa determinata includa sempre quella di custodirla fino alla
consegna) del codice civile si ricava che il venditore, il quale, pur avendo trasferito al compratore la
proprietà del bene a mezzo di semplice consenso,
non l’abbia ancora consegnato, è tenuto a custodirlo
e conservarlo con la diligenza del buon padre di
famiglia, in modo da essere in grado di effettuarne
la traditio all’acquirente al tempo convenuto. Di tal
che, ove il venditore non possa poi consegnare la
cosa per sopravvenuta distruzione o perdita, si libererà del suo obbligo solo provando che tali eventi
siano dovuti a caso fortuito o a forza maggiore, rimanendo in tale ipotesi, nonostante il perimento,
creditore per il pagamento del prezzo pattuito.
Allorquando, invece, il venditore non abbia conservato la cosa con la prescritta diligenza ed abbia,
perciò, reso impossibile la prestazione dovuta per
suo fatto colposo, non solo non potrà legittimamente pretendere dalla controparte il pagamento del
corrispettivo, ma sarà altresì tenuto a risarcire i
danni eventualmente cagionati al compratore con la
sua inadempienza9.
Il venditore che continui a custodire la cosa dopo la
conclusione del contratto deve, quindi, rispondere
per gli eventuali deterioramenti di quella, ma non
per effetto della garanzia per vizi (la quale si riferisce ai soli difetti già esistenti al momento della stipula), quanto in forza dell’ordinaria responsabilità
contrattuale per inesatto adempimento. La responsabilità del venditore custode suppone, pertanto, la
sua colpa, mentre il compratore non è soggetto per
quei deterioramenti ad alcun onere di denunzia preventiva, né alla prescrizione annuale.
Ciò vale pure in ipotesi di vendita di cosa futura (ad
esempio, immobile da costruire), nel senso che il
venditore, che sia inadempiente rispetto all’obbligo
contrattualmente assunto di consegnare il bene entro un dato termine, sopporta ogni rischio dovuto al
9
Cass. 28 aprile 1976, n. 1518.
45
Gli Speciali
Immobili & proprietà
ritardo nell’adempimento10.
Nella prestazione di facere, relativa all’obbligo di
consegna della cosa venduta, e che già comprende,
come visto, ogni attività necessaria a far conseguire
al compratore il possesso del bene, rimane così
compreso l’obbligo del venditore di custodire la cosa stessa, a sua volta tipizzato dall’art. 1177 c.c.
L’obbligo di custodia non si pone come particolare
criterio di responsabilità, ma concreta un’ulteriore
prestazione di facere, da valutarsi sulla base del regime previsto dall’art. 1218 c.c. Meglio ancora, poiché l’obbligo di custodia costituisce una prestazione
accessoria del venditore rispetto all’obbligazione in
cui si sostanzia il contratto di compravendita, non si
applicano le regole sulla responsabilità ex recepto,
aventi natura eccezionale, bensì quelle ordinarie sulla responsabilità per colpa, le quali prevedono come
normale, da parte dell’obbligato, la diligenza del
buon padre di famiglia11.
Se il compratore non compie quanto necessario per
rendergli possibile la consegna, il venditore può costituirlo in mora accipiendi, liberandosi dalla sua
obbligazione, ove si tratti di immobile, mediante il
ricorso alla procedura di cui agli artt. 1216 e 1209,
comma 2, c.c.
Il carattere strumentale dell’obbligo di custodia del
venditore rispetto a quello di consegna, perdurante
finché la cosa non venga trasferita materialmente al
compratore, postula che il bene sia conservato nella
consistenza materiale e giuridica sussistente
all’epoca del contratto. In tal senso, l’obbligazione di
custodire la cosa venduta viene descritta non come
obbligazione autonoma, ma come dovere di condotta
intrinseco all’obbligo di consegna, visto che, chiamando l’art. 1477 c.c. il venditore a consegnare il
bene nello stato in cui si trovava al momento della
vendita, rimangono a carico di questo pure tutte le
attività necessarie a conservare tale stato12.
Ci si domanda, in verità, se l’obbligazione di custodire gravante sul venditore sia davvero limitata alla
conservazione dello stato materiale del bene, o non
si estenda, piuttosto, al dovere di impedire mutamenti giuridici pregiudizievoli della condizione
dello stesso13.
10
11
Cass. 30 settembre 2009, n. 20998.
Cass. 27 ottobre 1981, n. 5618.
12
Ancora una volta, non sembra necessario ravvisare
un distinto fatto negoziale costitutivo della detenzione del bene mantenuta dal venditore, in maniera
da ricondurre l’obbligo di custodia per conto del
compratore alla stipulazione di un vero e proprio
contratto di deposito fra le parti14.
Né è dovuto dal compratore alcun compenso, distinto dal prezzo di vendita per la custodia della cosa prestata dal venditore, a meno che non sia così
previsto in apposito patto15. La stesse spese della
custodia, in quanto spese per la consegna, sono,
salvo patto contrario, a carico del venditore.
La custodia del venditore, quanto meno nella vendita immediatamente traslativa, non consente al medesimo di far uso della cosa, seppur da esso non derivi alcun danno effettivo al bene16.
Risponde, indicativamente, di inadempimento
all’obbligazione di adeguata custodia, in relazione
alla responsabilità per furti o rapine commessi
all’interno dell’immobile alienato ma ancora non
consegnato, il venditore che non offra prova liberatoria, dimostrando di aver adottato tutte le precauzioni suggerite dall’ordinaria diligenza17. Essendo
l’obbligazione di custodia del venditore accessoria
e connessa con quella principale, consistente
nell’impegno di mantenere la cosa venduta nello
stesso stato in cui si trovava al momento del contratto, egli dovrà, invero, evitare non solo le azioni
od omissioni personali ma anche, in esplicazione
del cosiddetto dovere di protezione, gli accadimenti
esterni, sia pure riconducibili al fatto doloso di terzi, che possano determinarne la perdita, il perimento o il deterioramento.
L’alienante mantiene, inoltre, la legittimazione passiva in relazione all’azione dell’acquirente per il risarcimento dei danni derivanti dal mancato godimento del bene compravenduto, seppure lo stesso
venga poi trasferito a terzi ancor prima
dell’adempimento dell’obbligazione di consegnarlo
all’originario compratore18.
la prassi notarile, nella stipula delle compravendite immobiliari,
adopera la clausola di stile secondo cui il bene viene ceduto
“nello stato di fatto e di diritto in cui esso attualmente si trova”:
cfr. al riguardo G. Iaccarino, Clausole sul “possesso” nella
prassi notarile, in Notariato, 2002, 1, 64 ss.
14
Cass. 28 aprile 1976, n. 1518.
15
D. Rubino, La compravendita, 496.
16
D. Rubino, La compravendita, 498.
Cfr. G. Mirabelli, La vendita, cit. 46. Si veda anche M.
Dell’Utri, Dovere di custodia, obbligazioni accessorie e causa
del contratto, in Giur. it., 1993, I, 2, 816 ss., nota a Trib. Verona
2 novembre 1992.
Cass. 30 settembre 2009, n. 20995, in Nuova giur. civ.
comm., 2010, I, 213 ss., 1593 ss., con nota di M. Mattioni, Obblighi di custodia nell’appalto e art. 1177 cod. civ.
13
18
D. Rubino, La compravendita, 498. Al riguardo, è noto come
Immobili & proprietà 2015
17
Cass. 29 marzo 2013, n. 7957.
46
Gli Speciali
Immobili & proprietà
È, inoltre, il venditore che non abbia ancora realizzato la consegna definitiva del bene, in adempimento dell’art. 1476, n. 1, c.c., ad esercitare, benché
non più proprietario, il potere fisico sulla cosa, cui
inerisce il dovere di custodirla ai fini della responsabilità di cui all’art. 2051 c.c.19.
19
Cfr. Cass. 9 ottobre 1996, n. 8818, in Giust. civ., 1997, I,
1895 ss., con nota di M. Proto, Spunti per una rilettura del contratto preliminare di compravendita con consegna anticipata.
Immobili & proprietà 2015
47
Gli Speciali
Immobili & proprietà
Le patologie del contratto
(inadempimento, vizi,
risoluzione)
di Alberto Celeste - Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di cassazione
Talvolta, nel concreto assetto negoziale, non tutto va come dovrebbe andare, poiché si registrano diverse
patologie (impreviste o meno) che si verificano nel momento genetico del contratto o sul versante funzionale del rapporto, ed i soggetti coinvolti si adoperano in vario modo o per mantenere il riequilibrio del sinallagma oppure per liberarsi definitivamente dagli impegni assunti; segnatamente, i rimedi approntati dal codice civile nei confronti dell’inadempimento vanno ricostruiti considerando la disciplina generale
dell’obbligazione e discendendo, poi, fino al reticolo della regolamentazione specifica dei singoli contratti;
in quello di compravendita, soprattutto qualora oggetto dell’accordo sia un bene immobile, occorre tenere
conto, inoltre, dei principi elaborati nel tempo dalla giurisprudenza, con approdi ermeneutici non sempre
collimanti, sicché, da tale integrazione, l’indagine conduce all’elaborazione di regole giuridiche che riflettono la combinazione di diverse disposizioni; trattasi di un lungo e progressivo fenomeno di adattamento e
stratificazione che comporta attualmente un sistema complesso ed articolato, che non può essere ridotto
all’apparente schematica alternativa tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione (salva comunque la pretesa risarcitoria), riservando a tale originario modello ipotesi operative alquanto marginali.
I vizi redibitori dell’immobile venduto
Il venditore, in forza dell’art. 1490 c.c., “è tenuto a
garantire che la cosa venduta sia immune da vizi
che la rendano inidonea all’uso a cui è destinata o
ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore”.
Circa la natura giuridica della garanzia per vizi, si
discute se essa sia da ricondurre alla garanzia in
senso tecnico o, invece, all’ordinaria azione di responsabilità per inadempimento; quest’ultima è la
tesi seguita dalla dottrina prevalente: segnatamente,
riguardo al contratto di compravendita, trattasi di
“una speciale responsabilità contrattuale del venditore, il cui fondamento è costituito dalla (oggettiva)
imperfetta realizzazione del risultato traslativo dipendente da un’inidoneità materiale della cosa venduta, preesistente alla conclusione del contratto”1; a
ben vedere, siamo in presenza di una garanzia collegata a cause preesistenti al contratto e, spesso, indipendenti dal comportamento del venditore e,
quindi, difficilmente ricollegabili ad un inadempi-
mento tout court di quest’ultimo; comunque, si è ritenuto che la stessa rientri nell’inadempimento di
natura “contrattuale”, riconducibile all’analogo
fondamento della garanzia per evizione, ossia ad
una violazione dell’impegno translativo considerato
comprensivo dell’obbligo del venditore di verificare che il bene trasferito abbia i requisiti necessari
alla sua utilizzazione2.
Ad ogni buon conto, i vizi - per cui il bene non è
“diverso”, ma appunto solo difettoso - consistono in
quelle “imperfezioni del processo di produzione,
fabbricazione, formazione e conservazione” che
rendono la cosa inidonea all’uso a cui è destinata o
ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore; in
questo senso si esprime la giurisprudenza3 la quale
è, altresì, ferma nel ribadire che tali vizi devono
preesistere alla vendita, almeno relativamente alle
cause generatrici, perché il difetto successivo si risolve in un normale inadempimento contrattuale
2
Galgano, Diritto commerciale e civile, II, Le obbligazioni e i
contratti, Padova, 2004, 348.
3
1
Luminoso, La compravendita, Torino, 1991, 191; Capozzi, Dei
singoli contratti, Milano, 1988, 72.
Immobili & proprietà 2015
Cass. 13 gennaio 1997, n. 244., in Foro it., Rep. 1997, voce
Vendita, n. 58; Cass. 19 ottobre 1994, n. 8537, in Arch. circolaz., 1995, 391.
48
Gli Speciali
Immobili & proprietà
che, come tale, dà vita alle ordinarie azioni di esecuzione e risoluzione, e non alle azioni tipiche previste dall’art. 1492 c.c.4.
Riguardo alla compravendita immobiliare - senza la
pretesa di esaustività - possono annoverarsi tra i vizi di cui sopra quelle carenze concernenti: l’errata
pendenza della rete fognaria; l’inadeguatezza recettiva dello scarico delle acque; le infiltrazioni
d’acqua dal tetto, dal lastrico solare o dai muri; il
distacco di intonaco, di rivestimento esterno, di piastrelle, o di pavimenti; il cedimento dei balconi;
l’inidoneità dell’impianto di riscaldamento.
I vizi di cui parla l’art. 1490 c.c. sono diversi dalla
mancanza delle “qualità promesse o essenziali”,
ipotesi disciplinata dall’art. 1497 c.c., e che si caratterizza per l’assenza di “tutti quegli elementi sostanziali che, nell’àmbito del medesimo genere, influiscono sulla classificazione della cosa in una
specie piuttosto che in un’altra”5 (senza escludere
che il difetto di qualità potrebbe legittimare anche
un’azione di annullamento per errore o dolo).
Un’altra distinzione che si impone è la diversa fattispecie della consegna di aliud pro alio, che si ha
quando la cosa “appartenga ad un genere del tutto
diverso o presenti difetti che le impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti”6.
La garanzia per vizi costituisce un effetto naturale
del contratto di compravendita, ma, vertendosi in
materia di diritti disponibili, sono senz’altro consentiti accordi di natura derogatoria.
Tali accordi, innanzitutto, possono avvantaggiare il
compratore, ampliando gli strumenti a sua disposizione, e cioè prevedendo l’aggiunta della normale
azione di esecuzione del contratto alle tipiche azioni ex art. 1492 c.c., sicché il compratore potrebbe
anche richiedere la sostituzione del bene consegnatogli7, sostituzione che, in mancanza di esplicito
patto, non è consentita, dato che le obbligazioni tipiche del venditore non hanno ad oggetto un facere
relativo alla materiale struttura della cosa venduta8.
4
Cass. 19 luglio 1983, n. 4980, in Foro it., 1984, I, 780, con nota di Troiano.
5
Cass. 21 marzo 1994, n. 2681, in Foro it., Rep. 1994, voce
Vendita, n. 65.
6
Cass. 31 marzo 1987, n. 3093, in Foro it., Rep. 1987, voce
Vendita, n. 73.
Di solito, comunque, gli accordi derogatori sono
sfavorevoli al compratore, nel senso che comportano esclusioni o limitazioni alla responsabilità del
venditore; l’autonomia delle parti, in materia, incontra alcune limitazioni, e non solo quelle ordinarie legate all’applicazione degli artt. 1229 e 1341,
comma 2, c.c.9: invero, secondo il comma 2
dell’art. 1490 c.c., il patto di esclusione o limitazione della garanzia per vizi “non ha effetto se il venditore ha in mala fede taciuto al compratore i vizi
della cosa”; il legislatore, in buona sostanza, sanziona il comportamento scorretto del venditore e,
parlando di mala fede, finisce con il ricollegarsi alla
regola generale dell’art. 1229 c.c., che appunto nega la liberazione del debitore responsabile per dolo
(oltre che per colpa grave); ciò posto, va precisato
che è il compratore, parte interessata, che deve provare l’esistenza dei presupposti di cui all’art. 1490,
comma 2, c.c., tra cui la mala fede del venditore, o
meglio del venditore e di chi agisca per lui, come il
commesso o il rappresentante.
Oltre che per scelta delle parti, la garanzia è esclusa
“se al momento al contratto il compratore conosceva i vizi della cosa”, ovvero se questi “erano facilmente riconoscibili, salvo, in questo caso, che il
venditore abbia dichiarato che la cosa era esente da
vizi”: così si esprime l’art. 1491 c.c. che, in fondo,
detta una disciplina analoga a quella prevista per
l’appalto, ove appunto la garanzia non è dovuta per
i vizi conosciuti o riconoscibili al momento della
consegna dell’opera, tranne se detti vizi siano stati
in mala fede taciuti dall’appaltatore; nella vendita,
però, alla riconoscibilità si sostituisce la “facile riconoscibilità” e, soprattutto, alla mala fede
dell’appaltatore si sostituisce la dichiarazione del
venditore il quale, sottolineando l’assenza dei vizi,
rende irrilevante l’altrui conoscenza o conoscibilità
dei vizi stessi.
Ciò premesso, va sottolineato che il vizio “facilmente riconoscibile” è quello accertabile con la minima diligenza, attraverso un esame superficiale del
bene, con la conseguenza che, negli altri casi, la garanzia sarebbe ugualmente dovuta; tale tesi limita
molto la responsabilità del compratore, esonerato
da ogni sforzo aldilà delle circostanze emergenti ictu oculi dall’esame del bene e delle quali sia in grado di rendersi conto, ma il compratore non è certo
tenuto ad un accertamento che implichi l’impiego
7
Cass. 4 settembre 1991, n. 9352, in Giust. civ., 1992, I, 3139,
annotata da Antinori.
8
Cass. 5 agosto 1985, n. 4382, in Foro it., Rep. 1985, voce
Vendita, n. 73.
Immobili & proprietà 2015
9
Cass. 23 dicembre 1993, n. 12759, in Foro it., Rep. 1993, voce Contratto in genere, n. 296; Cass. 23 marzo 1993, n. 3418,
in Foro it., 1993, I, 2517.
49
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Immobili & proprietà
di nozioni e mezzi tecnici, tranne forse il caso in
cui sia già in possesso di tali nozioni, anche se, ragionando in questo modo, vi è il rischio di soggettivizzare completamente la valutazione.
La dichiarazione del venditore deve essere “espressa”, non rilevando un comportamento concludente
dell’alienante, né le generiche rassicurazioni di
quest’ultimo sulla bontà della cosa.
Infine, sotto il profilo probatorio - analogamente al
contratto di appalto - deve ritenersi che spetti al
venditore provare il fatto “positivo ed impeditivo”
della riconoscibilità dei vizi, mentre spetta al compratore provare l’esistenza della dichiarazione del
venditore.
L’art. 1495 c.c. prevede un altro caso in cui la garanzia per vizi non sia dovuta, stabilendo che “il
compratore decade dal diritto alla garanzia, se non
denunzia i vizi al venditore entro otto giorni dalla
scoperta, salvo il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge”.
Dunque - anche in questo caso come per l’appalto il compratore, a pena di decadenza, ha l’onere di
denunciare i vizi del bene acquistato entro un congruo termine che, se stabilito dalle parti, non può
rendere eccessivamente oneroso l’esercizio del diritto, in virtù della regola generale fissata dall’art.
2965 c.c. (trattandosi di un termine di decadenza,
non è suscettibile di interruzione o sospensione,
salvo che le parti non abbiano convenzionalmente
contemplato un termine più ampio).
La “denuncia” è un atto giuridico in senso stretto, è
a forma libera (potendo essere effettuata anche a
mezzo telefono10), può provenire dal compratore o
anche da un terzo, e deve essere rivolta al venditore
o ad altra persona autorizzata a riceverla (come un
rappresentante); inoltre, non è necessario che essa
contenga una specifica indicazione dei vizi, che
possono essere indicati in un successivo momento11; anzi è preferibile che il committente si limiti
ad una denuncia generica, perché, se precisa solo
alcuni vizi, deve ritenersi che per i vizi non elencati
incorra nella decadenza12; di contro, se non denuncia tempestivamente alcuni vizi, deve escludersi
che, per questi ultimi, possa essere rimesso in ter10
Cass. 15 gennaio 1991, n. 328, in Foro it., Rep. 1991, voce
Vendita, n. 48.
mini dal sopravvenire di nuovi vizi.
Circa il dies a quo di decorrenza del termine per effettuare la denuncia, la legge parla genericamente del
giorno della “scoperta” dei vizi, sicché occorre una
più dettagliata distinzione tra l’ipotesi in cui il vizio
sia “riconoscibile” - e non “facilmente riconoscibile”,
condizione che esclude in radice l’operatività della
garanzia - oppure sia “occulto”: nel primo caso, infatti, il termine decorre dal giorno della consegna del
bene, momento in cui il compratore è posto in grado
di verificare la cosa venduta13, o addirittura decorre
anche prima, se il bene è stato già mostrato e sottoposto all’attenzione dell’acquirente14.
Passando ai vizi occulti, va rilevato che la decorrenza del termine di decadenza corrisponde al giorno della “scoperta” del vizio - non potendosi ragionevolmente pretendere che l’acquirente possa denunciare un difetto che ancora non conosce - che
non si realizza con la nascita di un semplice “sospetto” dell’esistenza del vizio, ma presuppone
l’acquisizione della certezza obiettiva e completa
dei vizi15.
Qualora il vizio sia costituito da un’imperfezione,
per la cui individuazione sia necessaria una qualche
competenza di carattere tecnico, il concetto di
“scoperta” va inteso come un apprezzabile grado di
conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della
loro derivazione causale dell’imperfetta esecuzione
dell’opera16, sicché, in queste ipotesi, il termine di
decadenza, dal quale decorre il successivo termine
di prescrizione, inizia a decorrere soltanto
dall’acquisizione della relazione del tecnico.
Secondo la giurisprudenza, in caso di contestazione,
spetta al compratore dimostrare l’esistenza e la tempestività della denuncia, la quale rappresenta una
condizione dell’azione17; al contempo, è pacifico che
la decadenza dalla denuncia non sia rilevabile
d’ufficio, ma debba essere eccepita dall’appaltatore,
13
Cass. 26 agosto 1993, n. 9008, in Foro it., Rep. 1993, voce
Vendita, n. 86
14
Cass. 13 aprile 1981, n. 2190, in Foro it., Rep. 1981, voce
Vendita, n. 87.
15
Cass. 14 febbraio 1994, n. 1458, in Foro it., Rep. 1994, voce
Vendita, n. 61; Cass. 14 maggio 1990, n. 4116, in Foro it., Rep.
1990, voce Vendita, n. 66.
16
11
Cass. 25 maggio 1993, n. 5878, in Foro it., Rep. 1993, voce
Vendita, n. 68.
V., sia pure in tema di appalto, Cass. 13 gennaio 2005, n.
567, in Foro it., Rep. 2005, voce Appalto, n. 60; Cass. 20 marzo 1998, n. 2977, in Danno e resp., 1998, 773, con nota di
Predazzi.
12
17
Cass. 7 dicembre 1981, n. 6479, in Foro it., Rep. 1981, voce
Appalto, n. 80, relativa alla fattispecie analoga in materia di appalto.
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Cass. 28 gennaio 1997, n. 844, in Foro it., 1997, I, 1472;
Cass. 12 marzo 1994, n. 2394, in Foro it., Rep. 1994, voce
Vendita, n. 60.
50
Gli Speciali
Immobili & proprietà
in conformità con la stessa regola generale di cui
all’art. 2969 c.c.18.
La giurisprudenza sembra oscillante sulla natura
dell’eccezione, se cioè “eccezione in senso proprio”
o “mera difesa”; sul punto, comunque, mutuando
quanto rilevato in materia di appalto, appare preferibile la tesi che si tratterebbe di eccezione in senso
proprio, ed analogo rinvio va fatto con riguardo al
risultato pratico della distinzione, che comunque lascia a carico del compratore l’onere di dimostrare la
tempestività della denuncia; idem circa gli effetti
pratici dell’affermazione circa la sussistenza di
un’attività di deduzione ed allegazione in capo al
venditore, tenuto ad allegare il decorso del termine
utile tra il giorno della scoperta del vizio ed il momento della denuncia: invero, in questa prospettiva,
sembra cadere l’apparente contraddizione delle sentenze che, discostandosi dall’orientamento dominante, ritengono che spetti al venditore dimostrare
il fondamento dell’eccezione19, poiché, alla fine,
reputano necessario che il compratore fornisca la
prova contraria e, quindi, in termini concreti, aderiscono all’orientamento che pone a carico del compratore l’onere di provare la tempestività della denuncia.
Così come nell’appalto, vi sono casi in cui la denuncia non è necessaria.
Il primo di questi casi è rappresentato dall’ipotesi in
cui l’onere di denuncia sia convenzionalmente
escluso, evenienza senz’altro ammessa nel settore
de quo, ove non si verte in materia di diritti indisponibili.
In aggiunta a quest’ipotesi pattizia, vi è quella stabilita
dal legislatore che, al comma 2 dell’art. 1495 c.c.,
esclude l’onere della denuncia “se il venditore ha riconosciuto l’esistenza del vizio o l’ha occultato”.
Il “riconoscimento” dei vizi può provenire sia dal
venditore che da un suo rappresentante e può essere
rivolto sia al compratore che ad un terzo; inoltre, esso
è un atto “a forma libera”, che può manifestarsi anche
in forma tacita o per facta concludentia (ad esempio,
allorquando il venditore provveda a riparare la
sa20), e che non presuppone l’ammissione della propria responsabilità per il vizio riscontrato, ammissione
rilevante solo nell’ottica dell’interruzione della prescrizione di cui al comma 3 dell’art. 1495 c.c.21.
Invece, se il venditore ammetta la propria responsabilità e si impegna ad eliminare i vizi, non solo si ha
un riconoscimento del debito avente efficacia interruttiva della prescrizione annuale di cui all’ultimo
comma dell’art. 1495 c.c., ma sorge addirittura un
nuovo obbligo del venditore, svincolato dai termini
della vendita e soggetto all’ordinaria prescrizione
decennale22; in altri termini, qualora il venditore si
impegni ad eliminare i vizi e l’impegno sia accettato
dal compratore, sorge un’autonoma obbligazione di
facere, che, ove non estingua per novazione la garanzia originaria, a questa si affianca, rimanendo ad
essa esterna e, quindi, non alterandone la disciplina,
conseguendone, in tale ipotesi, anche considerato il
divieto dei patti modificativi della prescrizione, sancito dall’art. 2936 c.c., che l’originario diritto del
compratore alla riduzione del prezzo ed alla risoluzione del contratto resta soggetto alla prescrizione
annuale, di cui all’art. 1495 c.c., mentre l’ulteriore
suo diritto all’eliminazione dei vizi ricade nella prescrizione ordinaria decennale23.
Infine, va ribadito che la legge non pone alcun limite temporale al riconoscimento, che, oltretutto, deve
ritenersi possa essere validamente effettuato anche
dopo il decorso del termine di otto giorni per la
semplice ragione che esso si concreta in una “rinuncia successiva” all’eccezione di decadenza, sicché, per svolgere la sua funzione effettiva, non può
essere vincolato al rispetto degli otto giorni24.
Quanto all’ “occultamento” dei vizi, tra i due orientamenti esistenti, appare preferibile quello secondo
cui occorre una specifica attività diretta a nascondere i difetti, non essendo sufficiente il mero “silenzio”25; invero, una diversa soluzione comporta il ri21
Cass. 13 giugno 1996, n. 5434, in Corr. giur., 1996, 1380,
con nota di Maienza; Cass. 25 marzo 1988, n. 2586, in Foro it.,
Rep. 1988, voce Vendita, n. 56.
22
Cass. 29 agosto 1997, n. 8234, in Foro pad., 1998, I, 344.
23
Come ribadito, di recente, da Cass. S.U. 13 novembre 2012,
n. 19702, che può leggersi, tra le altre, in Giust. civ., 2013, I,
1027, annotata da Vagni.
24
Cass. 13 gennaio 1995, n. 381, in Corr. giur., 1995, 607, con
il commento di Colombo.
18
Cass. 10 luglio 1987, n. 6031, in Foro it., Rep. 1987, voce
Vendita, n. 69.
19
V., tra le altre, Cass. 11 agosto 1990, n. 8194, in Foro it.,
Rep. 1990, voce Vendita, n. 65.
20
Cass. 20 febbraio 1997, n. 1561, in Foro it., Rep. 1997, voce
Vendita, n. 77; Cass. 12 giugno 1991, n. 6641, in 1991, voce
Vendita, n. 52.
Immobili & proprietà 2015
25
Cass. 4 marzo 1993, n. 2660, in Foro it., Rep. 1993, voce
Vendita, n. 75; cui adde Cass. 13 agosto 1997, n. 7545, in Foro
it., Rep. 1997, voce Vendita, n. 75, precisando che, perché si
possa avere occultamento dell’esistenza del vizio, non basta
che il venditore lo abbia taciuto, ma è necessario che egli abbia
compiuto interventi volti a renderne difficile la scoperta, essendo all’uopo necessaria un’attività diretta, con adeguati accorgimenti, a nascondere il vizio del bene venduto.
51
Gli Speciali
Immobili & proprietà
schio di rendere praticamente inutile l’eccezione di
decadenza dall’azione, poiché il committente potrebbe facilmente paralizzare tale eccezione deducendo l’atteggiamento omissivo dell’appaltatore;
va, poi, sottolineato che l’attività del venditore deve
essere tale da rendere impossibile al compratore di
avvedersi del vizio.
Oltre al termine di decadenza, la legge contempla
un termine di prescrizione dell’azione che, a mente
dell’ultimo comma dell’art. 1495 c.c., è di un anno
(e, quindi, dimezzato rispetto a quello vigente in
materia di appalto); ovviamente, il decorso del termine prescrizionale può interrompersi solo con
l’esercizio giudiziale del diritto, in pratica notificando al venditore l’atto di citazione, non essendo
sufficiente che il compratore invii una semplice richiesta, formulata in via stragiudiziale mediante lettera, di eliminazione del vizio o di riduzione del
prezzo.
Va ricordato che l’art. 1495, ultimo comma, c.c. fa
decorrere il termine annuale di prescrizione dalla
“consegna del bene”, concetto questo abbastanza
chiaro, che tuttavia non si applica allorquando la
consegna abbia preceduto la conclusione del contratto, poiché, in questo caso, è a tale ultimo momento che bisogna fare riferimento, considerato che
il richiamo normativo alla consegna presuppone la
perfetta coincidenza tra tale evento e la stipula del
negozio26.
Sotto altro profilo, non sembra revocarsi in dubbio
che il termine annuale di prescrizione sia assoggettato alle normali cause di sospensione ed interruzione della prescrizione27; in particolare, si è visto
che il riconoscimento dei vizi ad opera del venditore, se accompagnato dal riconoscimento della propria responsabilità in merito a tali vizi, costituisce
un riconoscimento del debito che, come tale, interrompe la prescrizione a norma dell’art. 2944 c.c.
Infine, non va dimenticato che l’efficacia di un atto
interruttivo come l’atto di messa in mora o la domanda giudiziale non può valere per tutti i rimedi
di cui all’art. 1492 c.c., ma solo per quelli espressamente menzionati nell’atto; analogamente a
quanto prescritto in favore del committente
dall’ultima parte dell’art. 1667, comma 3, c.c., anche l’ultima parte dell’art. 1495, comma 3, c.c. pre-
vede una norma di chiusura in favore del venditore,
il quale, nonostante non possa più esercitare (quale
attore o convenuto in riconvenzionale) le azioni ex
art. 1492 c.c. per il decorso del termine annuale di
prescrizione, può sempre paralizzare l’avversa pretesa di pagamento del prezzo di vendita se abbia
denunciato il vizio della cosa “entro otto giorni dalla scoperta e prima del decorso dell’anno dalla consegna”; trattasi di due requisiti temporali che non
sono alternativi ma complementari, la cui presenza
consente, però, l’esercizio di un’opportuna eccezione di inadempimento, che può spingere il venditore ad eliminare i vizi.
L’aliud pro alio
Prima di concludere il discorso sull’art. 1495 c.c.,
occorre ribadire che tale articolo si applica solo allorquando si è in presenza di “vizi” della cosa venduta, o, per effetto del richiamo operato dall’art.
1497 c.c., qualora la cosa venduta sia priva delle
“qualità promesse” o di “quelle essenziali per l’uso
a cui è destinata”; di contro, l’art. 1495 c.c., che è
norma di stretta interpretazione, per la sua specialità e per le preclusioni che comporta, non si applica
alla fattispecie della vendita di aliud pro alio, così
come non si applica ai vizi successivi, che non rientrano nella nozione di cui all’art. 1490 c.c., ed ancora, non si applica all’ordinario inadempimento
del venditore (che, per esempio, non abbia consegnato in tutto o in parte la cosa).
La giurisprudenza, peraltro, tende ad estendere la
nozione di aliud pro alio, ravvisando la fattispecie
non solo quando la cosa consegnata appartiene ad
un genere diverso da quello convenuto, ma anche
quando la cosa difetti delle particolari qualità necessarie per assolvere alla sua naturale funzione
economico-sociale28, o a quella particolare funzione
che le parti abbiano assunto come essenziale29.
Conseguentemente, diventa più difficile in concreto
distinguere l’aliud pro alio dalla mancanza di qualità: ad esempio, si è parlato di aliud pro alio in caso di vendita di un terreno edilizio rivelatosi poi
inedificabile30, e di consegna di un immobile privo
28
Cass. 3 agosto 2000, n. 10188, in Contratti, 2001, 262, con
nota di Enriquez.
29
26
Cass. 11 settembre 1991, n. 9510, in Foro it., Rep. 1991, voce Vendita, n. 57.
27
Cass. 6 febbraio 1989, n. 724, in Giur. it., 1989, I, 1, 1723;
Cass. 11 marzo 1981, n. 1384, in Foro it., Rep. 1981, voce
Vendita, n. 88.
Immobili & proprietà 2015
Cass. 23 marzo 1999, n. 2712, in Foro it., Rep. 1999, voce
Vendita, n. 67.
30
Cass. 21 dicembre 1994, n. 11018, in Giust. civ., 1995, I,
917; v., però, di recente, Cass. 30 maggio 2013, n. 13612, in
Contratti, 2014, 369, annotata da Rizzo, ad avviso della quale,
in caso di compravendita di un’area fabbricabile in funzione di
un determinato progetto edilizio, rivelatosi inattuabile per la mi-
52
Gli Speciali
Immobili & proprietà
di licenza di abitabilità31.
Sotto quest’ultimo aspetto, di recente, si è avuto
modo di puntualizzare che, nella vendita di immobili destinati ad abitazione, la mancata consegna
della licenza di abitabilità impone un’indagine tendente ad accertare la causa effettiva di tale situazione, posto che il suo omesso rilascio può dipendere
da molteplici cause, quali una grave violazione urbanistica, la necessità di interventi edilizi oppure
dall’esistenza di meri impedimenti o ritardi burocratici che non attengono all’oggettiva attitudine
del bene ad assolvere la sua funzione economicosociale, sicché l’eventuale relativo inadempimento
del venditore può assumere connotazioni di diversa
gravità senza necessariamente esser tale da dare
luogo a risoluzione del contratto32.
Anche in dottrina è stato molto acceso il dibattito
che ha riguardato il rapporto (non agevole) tra vizio, mancanza di qualità ed aliud pro alio; comunemente si definisce vizio “un’imperfezione materiale che incide sul valore o sulle possibilità di utilizzazione della cosa e dipende da anomalie del
processo di fabbricazione, di produzione, di conservazione”33; si ritiene, poi, che vi sia mancanza di
nore potenzialità edificatoria del fondo rispetto a quella sulla
quale il compratore aveva fatto affidamento, la responsabilità
del venditore, derivante dalla situazione di fatto prospettata,
non corrisponde ad un’ipotesi di vendita di cosa diversa da
quella pattuita, essendo il bene immutato sia nella sua materialità sia nella sua idoneità ad essere edificato, mentre la circostanza che sul suolo acquistato possa essere costruito un edificio di superficie minore rispetto a quella stimata incide unicamente sulle qualità promesse.
31
Cass. 11 febbraio 1998, n. 1391, in Riv. notar., 1998, 1008;
nel senso che il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha l’obbligo di consegnare all’acquirente il certificato di abitabilità, senza il quale l’immobile stesso è incommerciabile, e
che la violazione di tale obbligo non è sanata dalla mera circostanza che il venditore, al momento della stipula, avesse già
presentato una domanda di condono per sanare l’irregolarità
amministrativa dell’immobile, v., di recente, Cass. 23 gennaio
2009, n. 1701, in Riv. notar., 2009, 1280, commentata da Casu; v., però, Cass. 18 marzo 2010, n. 6548, in Guida al diritto,
2010, n. 17, 38, con nota di Pirruccio, secondo cui, nel caso di
compravendita di un’unità immobiliare per la quale, al momento
della conclusione del contratto, non sia stato ancora rilasciato il
certificato di abitabilità, il successivo rilascio di tale certificato
esclude la possibilità stessa di configurare l’ipotesi di vendita di
aliud pro alio e di ritenere l’originaria mancanza di per sé sola
fonte di danni risarcibili.
32
Cass. 22 novembre 2006, n. 24786, in Foro it., Rep. 2006,
voce Vendita, n. 105: nella specie, si era confermata la sentenza di merito che aveva ravvisato un’ipotesi di consegna di aliud
pro alio in relazione alla circostanza che il rilascio del certificato, di cui l’immobile mancava, avrebbe comportato la ristrutturazione completa del tetto, con una spesa pari a trenta milioni
di lire, equivalente a quasi la metà del prezzo di vendita
dell’immobile.
33
Così Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 1992, 127.
Immobili & proprietà 2015
qualità “quando la cosa, pur essendo quella sulla
quale le parti si sono accordate, non ha tutti i requisiti che in essa dovrebbero sussistere, secondo il
contenuto del contratto”, ed aliud pro alio quando
viene consegnato un bene di genere diverso da
quello pattuito34.
La differenza tra le varie qualificazioni non rileva
solo sul piano concettuale, bensì si riflette sul piano
dei rimedi esperibili secondo la disciplina codicistica, anche se vi è una certa tendenza ad uniformare
per quanto possibile la disciplina.
L’azione di risoluzione del contratto
Nello specifico, l’esistenza dei vizi legittima il
compratore all’esercizio di varie azioni contrattuali,
che, in virtù degli art. 1492 e 1494 c.c., sono: a)
l’azione di risoluzione del contratto, b) l’azione di
riduzione del prezzo, e c) l’azione di risarcimento
del danno35.
Dunque, il legislatore, per la compravendita, ha
previsto una disciplina specifica che, però, si ricollega ai principii generali, pur essendo connotata da
qualche peculiarità.
In particolare, va rilevato che, a prima vista, la pretesa risolutoria non presuppone la “gravità”
dell’inadempimento, ma è posta in linea meramente
alternativa all’azione di riduzione del prezzo, la
quale, a sua volta, non è un’azione contemplata dagli artt. 1453 ss. c.c.; e la più recente giurisprudenza, basandosi sul dato normativo, ha evidenziato la
deroga della disciplina speciale rispetto alla regolamentazione fissata dall’art. 1455 c.c.36.
Al contempo, la perfetta uguaglianza delle due azioni
edilizie, vincolate agli stessi requisiti e alternative
l’una all’altra, sembra escludere l’identificazione della domanda di riduzione di prezzo nell’àmbito della
normale domanda di adempimento del contratto37.
Un’interessante puntualizzazione al riguardo è arrivata di recente dalle Sezioni Unite38, ad avviso delle quali, in tema di compravendita, la disciplina della garanzia per vizi si esaurisce negli artt. 1490 ss.
34
Ferri, Trattato di diritto privato, Torino, 1984, III, 249.
35
In dottrina, tra i vari contributi sull’argomento, Rubino, La
compravendita, in Trattato di diritto civile e commerciale fondato da Cicu e Messineo, Milano, 1962, 849.
36
Cass. 11 aprile 1996, n. 3398, in Corr. giur., 1997, 75, con
nota di Gasparini.
37
Cass. S.U. 25 marzo 1988, n. 2565, in Corr. giur., 1988, 621,
con il commento di Carbone.
38
Cass. S.U. 13 novembre 2012, n. 19702, in Giur. it., 2013,
2257, con nota di Calvo.
53
Gli Speciali
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c.c., che pongono il venditore in una situazione non
tanto di obbligazione, quanto di soggezione, esponendolo all’iniziativa del compratore, intesa alla
modificazione del contratto od alla sua caducazione
mediante l’esperimento, rispettivamente, della actio
quanti minoris o della actio redhibitoria; ne consegue che il compratore non dispone - neppure a titolo di risarcimento del danno in forma specifica - di
un’azione “di esatto adempimento” per ottenere dal
venditore l’eliminazione dei vizi della cosa venduta, rimedio che gli compete soltanto in particolari
ipotesi di legge (garanzia di buon funzionamento,
vendita dei beni di consumo) o qualora il venditore
si sia specificamente impegnato alla riparazione del
bene.
Ad ogni modo, il reale elemento di novità insito
nelle “azioni edilizie” di risoluzione del contratto e
di riduzione del prezzo è rappresentato dal fatto che
esse sono del tutto svincolate dall’elemento della
colpa (principio che appare dominante), anche se,
sotto il profilo pratico, questa diversità non comporta alcuna conseguenza rilevante, poiché incide
solo sulla proponibilità dell’azione di risoluzione
per impossibilità sopravvenuta, non esperibile appunto per l’impossibilità da parte del debitorevenditore di dimostrare che l’inesatta prestazione è
dipesa da causa a lui non imputabile; l’altro corollario dell’affermazione dell’irrilevanza della colpa è
che l’eventuale clausola di esonero da responsabilità varrebbe solo per l’azione risarcitoria, la quale è
l’unica azione condizionata dall’esistenza della
colpa, che è solo “presunta”, in attuazione del principio guida dell’art. 1218 c.c., atteso che spetta al
venditore-debitore, ex art. 1494, comma 1, c.c., dimostrare “di avere ignorato senza colpa i vizi della
cosa”39.
Prima di passare ad analizzare le singole azioni, occorre ricordare quanto già detto, ossia che le ipotesi
di normale inadempimento del venditore, di vizi
successivi del bene, di consegna di aliud pro alio,
di inadempimento del venditore non rientrano
nell’àmbito di applicabilità degli artt. 1490 ss. c.c.
Più complesso è il discorso per l’inadempimento
consistente nel difetto delle “qualità promesse o essenziali”, inadempimento che se, da un lato, presuppone il rispetto delle condizioni e dei termini di
39
La giurisprudenza si rivela abbastanza concorde nel distinguere l’azione risarcitoria dalle altre azioni edilizie appunto facendo leva sulla necessità nel primo caso del requisito della
colpa, seppur presunta, v., tra le altre, Cass. 20 maggio 1997,
n. 4464, in Foro it., Rep. 1997, voce Vendita, n. 69; Cass. 19
luglio 1995, n. 7863, in Foro it., Rep. 1995, voce Vendita, n. 50.
Immobili & proprietà 2015
cui all’art. 1495 c.c., dall’altro, legittima l’esercizio
della sola azione risolutoria, che è l’unica richiamata dall’art. 1497 c.c. e che, nel caso di specie, è diretta espressione della regola generale degli art.
1453 ss. c.c.40; quanto all’applicabilità delle altre
norme di cui agli artt. 1490 ss. c.c. nella peculiare
ipotesi della “mancanza di qualità”, bisogna distinguere le norme quali l’art. 1492, comma 3, c.c. e
l’art. 1494 c.c., ugualmente applicabili siccome rispondenti a principii generali41, rispetto alle norme
quali l’art. 1491 c.c., non applicabili in quanto speciali.
Da ribadire, altresì, è che le azioni edilizie, aventi
chiara natura contrattuale, spettano solo al compratore, non potendo essere esercitate da un terzo, per
esempio il successivo acquirente del bene, il quale
non ha alcun rapporto negoziale con il venditore42.
Venendo all’azione di risoluzione del contratto che, per gli immobili presuppone che i difetti siano
“strutturali” - si noti che essa, in base all’inciso
dell’ultimo comma dell’art. 1492, comma 1, c.c., è
esclusa ove, “per determinati vizi, gli usi escludano
la risoluzione”, laddove tale richiamo sembra avere
un significato evidente, sottintendendo la volontà
del legislatore di volere evitare la risoluzione per
quei vizi che, nella prassi, non siano così gravi da
legittimare lo scioglimento del vincolo contrattuale,
anche se, su queste premesse, torna in gioco il problema del collegamento dell’azione redibitoria ai
principi generali dell’art. 1453 c.c. (problema che
sembra risolto in senso negativo dalla giurisprudenza più recente).
Aldilà di tale questione, la fondamentale differenza
rispetto alla normativa generale è che, in tema di
vendita, l’alternativa non è tra risoluzione ed adempimento coattivo del contratto, ma tra risoluzione e
riduzione del prezzo, rimedio specifico che rappresenta un modo pratico per garantire il mantenimento del contratto attraverso il riequilibrio sinallagmatico delle prestazioni; in buona sostanza, nella prima (azione redibitoria), la finalità è quella di porre
nel nulla il contratto, con il conseguente obbligo del
venditore di restituire il corrispettivo ricevuto e per
l’acquirente di restituire il bene oggetto della vendi40
Cass. 10 gennaio 1981, n. 247, in Foro it., Rep. 1981, voce
Vendita, n. 98.
41
V., rispettivamente, Cass. 23 gennaio 1988, n. 521, in Riv.
notar., 1989, 470, e Cass. 14 maggio 1981, n. 3190, in Foro it.,
Rep. 1981, voce Vendita, n. 84.
42
Cass. 21 giugno 1993, n. 6855, in Contratti, 1994, 41, con
nota di Inzitari; Cass. 28 luglio 1986, n. 4833, in Nuova giur.
civ. comm., 1987, I, 241, annotata da Moretti.
54
Gli Speciali
Immobili & proprietà
ta, mentre, nella seconda (azione estimatoria), il
contratto mantiene la propria efficacia, nel senso
che l’acquirente accetta il bene viziato ma pretende
che tale vizio sia valorizzato sul piano economico,
con la condanna del venditore a restituire una parte
del corrispettivo versato a titolo di prezzo.
In base al comma 2 dell’art. 1492 c.c., la scelta tra
le due azioni edilizie “è irrevocabile quando è fatta
con la domanda giudiziale”; in buona sostanza, il
legislatore non ha voluto dubbi interpretativi e, andando oltre allo stesso art. 1453 c.c. - che prevede
l’immutabilità della domanda risolutoria in domanda di adempimento - si è preoccupato di stabilire in
via assoluta il principio dell’irreversibilità della
scelta giudiziale, rendendolo operante in senso
“biunivoco”, indipendentemente dal tipo di azione
proposta (e, a fronte di tale rigore legislativo, parte
della giurisprudenza43 ha negato la stessa possibilità
della proposizione delle due azioni l’una subordinatamente all’altra).
Tuttavia, vi è un caso in cui sembra possibile il mutamento di domanda in corso di giudizio, cioè allorquando la cosa consegnata sia “perita in conseguenza dei vizi” ed il compratore sia esente da colpa; l’ipotesi ordinaria, contemplata dall’ultimo
comma dell’art. 1492 c.c., si riferisce al perimento
precedente all’inizio del giudizio, ma il principio
secondo il quale tale evento legittima l’azione di risoluzione del contratto deve essere senz’altro applicato qualora il perimento derivi da colpa esclusiva
del venditore ed il compratore incolpevole abbia
già proposto azione di riduzione del prezzo, poiché
altrimenti si premierebbe il venditore responsabile
del perimento e verrebbe addossato al compratore il
rischio della durata del processo44.
Il compratore non è legittimato a proporre l’azione
redibitoria, ma solo l’azione estimatoria, allorquando la cosa “perisce per caso fortuito o per colpa del
compratore, o se questi l’ha alienata o trasformata”,
secondo quanto disposto dall’ultima parte dell’art.
1492, comma 3, c.c. il quale, rispondendo ad un
principio logico, nega la risoluzione se sia impossibile la restituzione del bene e ciò non sia addebitabile, nemmeno in parte, all’alienante; peraltro,
l’inammissibilità della risoluzione nei casi di alienazione e trasformazione del bene non deve essere
ricondotta all’impossibilità di ripristinare la situazione nello stato vigente al momento della conclusione del contratto, bensì si deve ricollegare alla
volontà dell’acquirente di accettare la cosa sebbene
viziata, ragion per cui ogni utilizzazione del bene
che sia indicativa di tale volontà della parte acquirente preclude l’azione risolutoria45.
Dalla risoluzione del contratto derivano gli ordinari
effetti restitutori previsti dall’art. 1458 c.c. e, specificamente, dall’art. 1493 c.c., effetti che tendono a
ripristinare ex tunc la situazione antecedente al contratto di compravendita, ma è pur sempre necessaria
una specifica domanda ad hoc, non essendo implicite le domande restitutorie nella richiesta di risoluzione del contratto46.
Dunque, da un lato, il venditore è tenuto a restituire
il prezzo ricevuto, e, dall’altro, il compratore è tenuto alla restituzione della res; il debito del venditore è
un debito di valuta, da integrare con gli interessi legali dal momento del versamento47 e soggetto a rivalutazione monetaria solo in caso di prova del “maggior danno”48; di contro, il debito del compratore di
restituire la res sussiste solo qualora questa non sia
“perita in conseguenza dei vizi”, così dispone il
comma 2 dell’art. 1493 c.c., mentre in quest’ultimo
caso soccorre l’art. 1492, comma 3, c.c.
Altro problema che sorge dalla risoluzione del contratto di compravendita di bene immobile deriva
dalla circostanza che il venditore, per il periodo di
vigenza del contratto, non gode del bene che abbia
consegnato al compratore e, quindi, subisce un indubbio depauperamento, consistente nella mancata
percezione del reddito prodotto dal bene immobile;
43
In tal senso, le citate Cass. n. 3398/1996 e Cass. S.U. n.
2565/1988; contra, le citate Cass. n. 4444/1996 e Cass. n.
1457/1995.
47
Tale tesi appare dominante, fondata sul carattere ripristinatorio ex tunc della risoluzione, v., tra le altre, Cass. 18 gennaio
1991, n. 447, in Vita notar., 1991, 535.
44
48
Cass. 8 novembre 1991, n. 11892, in Corr. giur., 1992, 295,
con nota di Salomoni, la quale ha anche sottolineato che spetta
al compratore provare la propria assenza di colpa; cui adde
Cass. 12 maggio 1981, n. 3137, in Foro it., Rep. 1981, voce
Vendita, n. 83.
Immobili & proprietà 2015
45
A tale “rinuncia” alla risoluzione fa riferimento la giurisprudenza, v. Cass. 4 aprile 1998, n. 3500, in Guida al diritto, 1998,
n. 16, 120, con il commento di Piselli; Cass. 8 giugno 1994, n.
5552, in Arch. civ., 1995, 48; d’altronde, il naturale corollario di
tale orientamento è che, se non vi fosse tale volontà di rinuncia, si avrebbe la risoluzione e la restituzione del bene andrebbe fatta per equivalente.
46
In termini generali, v. Cass. 5 aprile 1990, n. 2802, in Foro it.,
Rep. 1990, voce Contratto in genere, n. 307; Cass. 9 dicembre
1988, n. 6677, in Foro it., Rep. 1988, voce Contratto in genere,
n. 402.
Cass. S.U. 4 dicembre 1992, n. 12942, in Corr. giur., 1993,
322, annotata da Di Majo, la quale, risolvendo il contrasto giurisprudenziale esistente in materia, ha escluso la rivalutazione
monetaria quale sanzione dell’inadempimento colpevole del
venditore.
55
Gli Speciali
Immobili & proprietà
orbene, se la risoluzione del contratto sorge
dall’inadempimento del compratore, è evidente che
questi sarà tenuto al risarcimento del danno commisurato al mancato godimento del bene da parte del
venditore, danno sempre esistente e che, nella prassi, è definito come “danno figurativo”; peraltro, secondo la giurisprudenza49, tale danno non va compensato con l’eventuale aumento di valore nel tempo dell’immobile, perché il principio della compensatio lucri cum damno postula che il vantaggio patrimoniale conseguito dal danneggiato sia effetto
immediato dell’inadempimento o del comportamento illecito; ma un analogo diritto al rimborso sembra
spettare al venditore anche se il contratto si risolva
per i vizi del bene, per difetto di qualità della res, per
consegna di aliud pro alio o, comunque, per altri
inadempimenti imputabili al venditore; in
quest’ultimo caso, però, non si può ragionare in termini di risarcimento del danno, non essendoci un illecito del venditore, ma piuttosto bisogna rapportare
la domanda al principio dell’indebito arricchimento,
con l’evidente corollario che il venditore nulla può
ottenere se agisce a titolo di risarcimento danni, ma è
necessario che, quantomeno, prospetti in fatto
l’azione di indebito arricchimento, a prescindere poi
dalla sua esatta qualificazione giuridica.
L’actio quanti minoris
Venendo all’azione di riduzione del prezzo (actio
quanti minoris), va ribadito che essa, quale alternativa dell’azione redibitoria, è legittima anche in
presenza di vizi gravi50; questa è una sostanziale
differenza con l’ipotesi dell’appalto, in cui vi è una
graduatoria tra le azioni, mentre, per il resto, si registrano analogie, in primo luogo, in ordine al fatto
che, così come il committente, è il compratore, parte interessata, che deve provare la diminuzione di
valore del bene conseguente alla presenza dei vizi;
inoltre, la riduzione di prezzo, proprio perché ha lo
scopo di salvaguardare l’equilibrio sinallagmatico
delle prestazioni, deve nascere dall’applicazione di
criteri oggettivi, nel senso che la riduzione del
prezzo deve essere rapportata alla percentuale di disvalore della cosa derivante dall’esistenza dei vizi51; infine, va segnalato che, una volta effettuata la
riduzione di valore, l’eventuale surplus di prezzo
49
Cass. 9 gennaio 1993, n. 139, in Arch. civ., 1993, 411.
50
Così testualmente Cass. 21 agosto 1985, n. 4471, in Foro it.,
Rep. 1985, voce Vendita, n. 72.
51
Cass. 21 luglio 1984, n. 4278, in Riv. giur. edil., 1985, I, 29.
Immobili & proprietà 2015
pagato deve essere restituito secondo le regole dei
debiti di valuta e, quindi, non va rivalutato se non
sussista la prova del “maggior danno” richiesta
dall’art. 1224, ultimo comma, c.c.52.
In pratica, la riduzione del prezzo convenuto o versato avviene previo accertamento della misura percentuale di incidenza del difetto rispetto al valore
del bene qualora quest’ultimo fosse risultato integro
e funzionante, con relativa diminuzione sulla base
di tale percentuale; in proposito, la legge non impone particolari criteri da seguire per la determinazione della somma dovuta per riduzione di prezzo
in relazione ai vizi della cosa venduta, ed il ricorso
a criteri equitativi e al prudente apprezzamento del
giudice, ancorché non previsto espressamente dal
legislatore nella disciplina normativa della vendita,
è consentito in questa materia sia in conformità
all’origine e alla tradizione storica dell’actio quanti
minoris, sia in applicazione di un principio generale, di cui la disposizione contenuta nell’art. 1226
c.c. costituisce una particolare specificazione in tema di risarcimento del danno53.
L’actio quanti minoris, peraltro, può accompagnarsi
alla domanda di risarcimento del danno, che comprende sia il danno emergente, consistente nelle spese necessarie per l’eliminazione dei vizi ed il minor
valore del bene, sia il lucro cessante, dimostrabile
anche con presunzioni, derivanti dalla mancata disponibilità per l’acquirente della maggior somma
corrisposta per l’acquisto e dall’impossibilità di avvalersene secondo le proprie abituali scelte economiche.
L’azione di risarcimento danni prevista dall’art.
1494, comma 1, c.c. presuppone, invece, la colpa
del venditore, responsabile per non essersi avveduto dei vizi del bene e che, appunto, per sottrarsi a
tale responsabilità, è tenuto a fornire la prova liberatoria di “avere ignorato senza colpa” tali vizi, non
accertati pur avendo prestato la dovuta diligenza;
ciò premesso, va sottolineato che anche tale azione
è condizionata dal rispetto delle condizioni e limiti
di cui all’art. 1495 c.c., trattandosi di azione nascente comunque dai vizi di cui all’art. 1490 c.c.
Sotto altro profilo, va ribadito che l’azione risarcitoria è destinata a tutelare il compratore laddove
non soccorra l’azione estimatoria (ad esempio, per
52
Cass. 6 febbraio 1989, n. 724, in Giur. it., 1989, I, 1, 1723;
Cass. 6 febbraio 1985, n. 846, in Foro it., Rep. 1985, voce
Vendita, n. 76.
53
Cass. 6 ottobre 2000, n. 13332, in Foro it., Rep. 2000, voce
Vendita, n. 53.
56
Gli Speciali
Immobili & proprietà
gli utili derivanti dall’utilizzazione del bene se non
viziato), sicché non è possibile accogliere una domanda di risarcimento danni che sia diretta ad ottenere la mera riduzione del prezzo, fatta salva la
possibilità di qualificare in termini di azione estimatoria la domanda del compratore.
Un cenno a parte merita l’ulteriore profilo risarcitorio previsto dall’art. 1494, comma 2, c.c., secondo
il quale il venditore è tenuto risarcire il compratore
anche i “danni derivati dai vizi della cosa”; trattasi
di danni ulteriori a quelli contemplati dal comma 1,
in quanto consistono in eventi lesivi ulteriori legati
alla difettosità del bene, quali, per esempio, il rallentamento dell’attività aziendale, ferimenti, ecc.;
ed è interessante rilevare come, nel caso di specie,
non soccorre il requisito della colpa, nel senso che
la responsabilità sembra avere carattere “oggettivo”, parlandosi soltanto del nesso di causalità tra i
danni ed i vizi della cosa; ad ogni modo, sia o meno
di responsabilità oggettiva, si verte sempre
nell’àmbito di un’azione contrattuale, nascente dal
contratto di vendita, che, come tale, non può tutelare diritti soggettivi assoluti54, con la conseguente
novità di una domanda formulata nel corso del giudizio in una prospettiva extracontrattuale ex art.
2043 c.c.
L’applicabilità nell’ipotesi del preliminare
Per completezza, va accennato alla questione relativa
al contratto preliminare, nel senso dell’applicabilità o
meno delle azioni previste in materia di compravendita nelle ipotesi di bene, oggetto della promessa, affetto da vizi.
In un primo momento, la giurisprudenza55 ha affermato che l’unico rimedio concedibile era quello
della risoluzione per inadempimento, in quanto
l’azione di riduzione del prezzo (o quello di eliminazione dei vizi, se ammissibile) costituiva un rimedio previsto esclusivamente in materia di compravendita.
Con una prima sentenza a metà degli anni ‘70, in
un caso di preliminare c.d. ad effetti anticipati, la
Suprema Corte56 ha ammesso il diritto del promissario acquirente di domandare l’esatto adempimen54
Cass. 2 agosto 1990, n. 7727, in Foro it., Rep. 1990, voce
Cassazione civile, n. 69.
55
In tal senso, le sentenze fino alla metà degli anni ’70, cui si
aggiungono talune isolate pronunce, v. Cass. 20 marzo 1999,
n. 2613, in Foro it., Rep. 1999, voce Contratto in genere, n.
486; Cass. 8 gennaio 1992, n. 118, in Giur. it., 1992, I, 1, 1462.
56
Cass. 28 novembre 1976, n. 4478, in Foro it., 1977, I, 669.
Immobili & proprietà 2015
to dell’obbligazione di consegna della cosa oggetto
del preliminare, chiedendo la condanna del promittente venditore all’eliminazione dei vizi della cosa;
ciò sarebbe ammissibile anche da parte di coloro che
pur escludono l’esatto adempimento per la compravendita definitiva, in quanto, nell’obbligazione di
stipulare il contratto definitivo, deve ritenersi inclusa
tutta l’attività necessaria ad assicurare la realizzazione dell’attribuzione patrimoniale traslativa.
A partire dagli anni ’80, la giurisprudenza si è
orientata, invece, nel senso di ritenere che, in presenza dell’inadempimento del promittente venditore consistente nella presenza di vizi nella cosa oggetto della promessa, il promissario acquirente può
o domandare la risoluzione del contratto preliminare, oppure chiedere l’esecuzione coattiva del contratto non concluso e, contestualmente, la riduzione
del prezzo dovuto in proporzione al minor valore
conseguente alla presenza dei vizi della cosa.
A fronte di ulteriori pronunce all’insegna del c.d.
dogma dell’intangibilità del preliminare, si giunge
al pronunciamento delle Sezioni Unite57, le quali,
sanando il precedente contrasto giurisprudenziale,
hanno precisato le condizioni in presenza delle quali, nell’ipotesi di preliminare di cosa da costruire, è
possibile fare ricorso all’azione ex art. 2932 c.c., e
sempre che il rimedio dell’esecuzione specifica non
sia escluso dal titolo: a) la predeterminazione della
cosa oggetto del trasferimento; b) l’avvenuta costruzione del bene; c) la sua sostanziale identità con
quello previsto nel preliminare; d) la mancanza di
impedimenti di fatto o di diritto, come la sopravvenuta distruzione del bene o l’alienazione dello stesso a terzi; e) l’esecuzione della prestazione a carico
della parte che agisce o la valida offerta della stessa, per la quale è sufficiente anche un’offerta secondo gli usi.
Quanto alla sostanziale identità del bene realizzato
con quello previsto nel preliminare, gli ermellini
hanno osservato che, soltanto se la difformità è di
portata tale da incidere sulla struttura e funzione del
bene o sulla possibilità di destinarlo all’uso pattuito, l’esecuzione coattiva ex art. 2932 c.c. verrebbe
effettivamente ad operare il trasferimento di un bene diverso da quello su cui si è formato il consenso
delle parti, modificando o sostituendo così la volontà espressa dalle parti nel contratto preliminare.
Viceversa, quando le difformità non siano sostanziali ed i vizi non incidano sull’effettiva utilizzabi57
Cass., Sez. Un., 27 febbraio 1985 n. 1720, in Giust. civ.,
1985, I, 1630.
57
Gli Speciali
Immobili & proprietà
lità del bene secondo le previsioni contrattuali, ma
soltanto sul valore del bene e su modalità secondarie di godimento, negare al promissario acquirente
la pronuncia costitutiva significherebbe consentire
al promittente venditore di sottrarsi agevolmente al
rispetto degli obblighi assunti, specie quando, per
puro calcolo economico, dettato dalle mutate condizioni di mercato, reputi conveniente lo scioglimento del vincolo, sia pure con il risarcimento del
danno.
Viene ammessa, così, la possibilità di cumulare
l’azione di esecuzione in forma specifica del contratto non concluso con l’azione di riduzione del
prezzo; quest’azione - secondo il supremo consesso
decidente - non è un’azione esclusiva del contratto
di compravendita, ma un rimedio di carattere generale per i contratti a prestazioni corrispettive, volto
a salvaguardare l’equilibrio sinallagmatico delle
prestazioni, come avviene, ad esempio, nel caso
dell’impossibilità sopravvenuta parziale, che attribuisce, in primo luogo, un diritto della controparte
a domandare soltanto una corrispondente riduzione
della controprestazione.
La soluzione accolta dalla Cassazione è condivisibile, perché porre la parte non inadempiente di
fronte all’alternativa secca tra agire per
l’adempimento coattivo ex art. 2932 c.c. e domandare la risoluzione del contratto significava lasciare
talune situazioni concrete prive di tutela giuridica,
oppure costringere la parte ad accettare una cosa affetta da vizi.
La risoluzione per inadempimento, infatti, può essere domandata soltanto quando l’inadempimento
di una parte abbia non scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’altra; può accadere che la
difformità sia tale da non consentire la risoluzione
per inadempimento per mancanza del presupposto
di cui all’art. 1455 c.c. ma che, contemporaneamente, tale difformità faccia sì che il contenuto del preliminare risulti diverso da quello della sentenza costitutiva; se, in questi casi, non si consentisse
ugualmente alla parte di agire ex art. 2932 c.c. e di
chiedere la riduzione del prezzo, non vi sarebbe rimedio allo squilibrio determinatosi tra le prestazioni corrispettive.
Sembra, però, che la giurisprudenza successiva si
sia soltanto parzialmente adeguata ai principi affermati dalle Sezioni Unite.
Invero, si registrano pronunce58 che negano comple-
tamente l’applicabilità analogica al contratto preliminare dei rimedi previsti in materia di compravendita definitiva, sicché il promissario acquirente, in
alternativa alla risoluzione del contratto, può domandare l’eliminazione dei vizi della cosa, al fine di
ottenere poi l’esecuzione in forma specifica.
Un secondo gruppo di pronunce59 aderisce ad
un’interpretazione di maggiore tutela del promissario acquirente, il quale, contestualmente e cumulativamente all’esecuzione specifica dell’obbligo di
concludere il contratto definitivo, può domandare alternativamente l’eliminazione dei vizi o la riduzione
del prezzo; in senso favorevole all’applicazione al
contratto preliminare dell’azione di esatto adempimento (nella forma dell’azione di condanna
all’eliminazione dei vizi), è stato, altresì, osservato
in dottrina60 che dalla promessa di vendere sorge, in
realtà, a carico del promittente un’obbligazione ad
ampio spettro che include qualunque prestazione,
anche di “fare”, necessaria ad assicurare la realizzazione del risultato finale conforme, anche sotto il
profilo qualitativo, a quello programmato con il preliminare, sicché dovrebbe coerentemente ammettersi
anche l’azione di esatto adempimento.
Vi è, inoltre, l’orientamento61 che, più fedelmente,
si riporta all’insegnamento delle Sezioni Unite, secondo cui, stante l’incompatibilità tra domanda di
esecuzione in forma specifica e richiesta di eliminazione dei vizi, il promissario acquirente, in luogo
della risoluzione del contratto, può proporre, oltre
alla richiesta di sentenza costitutiva degli effetti del
contratto definitivo, la domanda di riduzione del
prezzo62.
1993, voce Contratto in genere, n. 448.
59
Cass. 15 febbraio 2007, n. 3383, in Foro it., Rep. 2007, voce
Contratto in genere, n. 483, specificando che la presenza di irregolarità edilizie dell’immobile, non conosciute dal promissario
acquirente, integra vizi che legittimano la domanda intesa alla
loro eliminazione o alla riduzione del prezzo ragguagliabile alla
spesa sostenuta per la sanatoria; Cass. 15 dicembre 2006, n.
26943, in Foro it., Rep. 2006, voce Vendita, n. 66; Cass. 16 luglio 2001, n. 9636, in Contratti, 2002, 444, con nota di Besozzi;
Cass. 20 maggio 1997, n. 4459, in Riv. giur. edil., 1997, I, 889;
Cass. 26 aprile 1993, n. 4895, in Dir. e giur., 1994, 460, commentata da Salvatore; Cass. 17 novembre 1990, n. 11126, in
Giust. civ., 1991, I, 2751, annotata da Iannaccone.
60
Luminoso, cit., 26.
61
Cass. 19 aprile 2000, n. 5121, in Riv. giur. edil., 2001, I, 577;
Cass. 5 febbraio 2000 n. 1296, in Contratti 2000, 437; Cass. 26
gennaio 1995, n. 947, in Foro it., Rep. 1995, voce Contratto in
genere, n. 379; Cass. 24 novembre 1994, n. 9991, in Corr.
giur., 1995, 839, con nota di De Cristofaro.
62
58
Cass. 29 aprile 1998, n. 4354, in Foro it., Rep. 1998, voce
Vendita, n. 52; Cass. 22 luglio 1993, n. 8200, in Foro it., Rep.
Immobili & proprietà 2015
In argomento, di recente, Cass. 30 agosto 2013, n. 19984, in
Foro it., Rep. 2013, voce Contratto in genere, n. 436, ha puntualizzato che proposte, cumulativamente e contestualmente,
58
Gli Speciali
Immobili & proprietà
Secondo una pronuncia63, poi, il promissario acquirente può anche limitare la sua domanda giudiziale
alla sola richiesta di riduzione del prezzo, per procedere così alla stipulazione del contratto definitivo
solo successivamente sulla base del minore corrispettivo fissato dal giudice.
Non si è mancato, infine, di statuire64 che,
nell’ipotesi di preliminare di vendita di un appartamento, la presenza di vizi dell’immobile, consegnato prima della stipula dell’atto definitivo, abilita
il promissario acquirente, senza che sia tenuto al rispetto del termine di decadenza di cui all’art. 1495
c.c., ad opporre l’exceptio inadimpleti contractus al
promittente venditore - che gli chieda di aderire alla
stipulazione del contratto definitivo e di pagare
contestualmente il saldo del prezzo - oppure a domandare, in via alternativa, la risoluzione del preliminare per inadempimento, o la condanna del medesimo promittente venditore ad eliminare a proprie
spese i vizi della cosa.
una domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di
concludere un contratto di vendita ed una domanda di riduzione del prezzo per vizi della res, l’offerta del prezzo, prevista dal
comma 2 dell’art. 2932 c.c., non è necessaria, ove il pagamento, quale che risulti il prezzo ancora dovuto all’esito
dell’accertamento sull’esistenza dei vizi della cosa venduta,
non sia esigibile prima della conclusione del contratto definitivo.
63
Cass. 18 giugno 1996, n. 5615, in Corr. giur., 1997, 48, annotata da Palmieri.
64
Cass. 11 ottobre 2013, n. 23162, in Foro it., Rep. 2013, voce
Vendita, n. 61; Cass. 31 luglio 2006, n. 17304, in Immob. & diritto, 2007, fasc. 5, 77, con nota di De Tilla.
Immobili & proprietà 2015
59
Gli Speciali
Immobili & proprietà
Compravendita di immobili:
aspetti fiscali
di Paola Aglietta - Dottore Commercialista e Revisore Legale in Torino
Al momento della stipulazione di un contratto di compravendita immobiliare la legislazione tributaria prevede siano applicate alcune imposte e tasse, il cui pagamento è contestuale alla stipula del contratto ed il
notaio è incaricato di esigerle.
L’acquisto di un immobile rappresenta un momento impositivo giacché indirettamente manifesta una “ricchezza” da parte dell’acquirente e quindi giustifica a suo carico l’imposizione indiretta.
In determinate e specifiche ipotesi, anche per il venditore si verifica un aumento di ricchezza (il c.d. plusvalore) che giustifica l’imposizione diretta.
Il contratto preliminare
Con il contratto preliminare il venditore e il compratore si obbligano reciprocamente a stipulare un successivo e definitivo contratto di compravendita. Il
trasferimento del diritto di proprietà sull’immobile
avviene solo alla firma di quest’ultimo.
Obbligo di registrazione e imposte
Il contratto preliminare di compravendita deve essere registrato entro venti giorni dalla sottoscrizione. Se il preliminare è stipulato con atto notarile,
la registrazione viene eseguita dal notaio entro
trenta giorni.
Ai fini della registrazione sono dovute:
- l’imposta di registro in misura fissa pari a € 200;
- l’imposta proporzionale di registro dello 0,50%
sulle eventuali somme previste a titolo di caparra
confirmatoria;
- l’imposta proporzionale di registro del 3% sulle
eventuali somme previste a titolo di acconto sul
prezzo di vendita;
- l’imposta di bollo di € 16 ogni 4 facciate e comunque ogni 100 righe.
Pertanto, nel caso in cui nel contratto preliminare
sia previsto il versamento di una somma a titolo di
caparra, all’imposta fissa dovrà aggiungersi
l’imposta dell’0,50% in proporzione al valore versato dal promissario acquirente al promittente venditore. Analogamente si procede nel caso di versamento di acconto prezzo per il quale l’imposta proImmobili & proprietà 2015
porzionale è del 3 per cento.
Le imposte di registro proporzionali pagate in presenza di caparra confirmatoria o di acconti sul
prezzo sono successivamente detratte dall’imposta
dovuta per la registrazione del contratto definitivo
di compravendita.
Nel caso invece in cui le parti non concludano il contratto definitivo, ovvero il preliminare sia risolto per
mutuo consenso, non vi è alcuna possibilità di ottenere la restituzione o di recuperare l’imposta pagata: infatti, l’imposta di registro versata è da intendersi quali
corrispettivo di un servizio erogato dallo Stato.
Attenzione
Se per le somme versate in occasione della stipula
del contratto preliminare manca una espressa qualificazione, oppure se è dubbia l’intenzione delle parti sulla natura delle stesse, le somme vanno considerate acconti di prezzo.
ESEMPIO: imposte di registro per la registrazione
del contratto preliminare
Contenuto del contratto
Imposte
Il contratto contiene il solo
impegno del promittente
venditore a vendere e
l’obbligazione del promissario acquirente di comprare
ad una data futura
Contestualmente alla sottoscrizione del contratto preliminare, viene versato a titolo
di caparra l’importo di €
10.000,00.
L’imposta di registro è pari
a € 200,00.
L’imposta di registro è pari
a:
€ 200,00 (imposta fissa)
€ 50,00 (0,5% di €
10.000,00)
60
Gli Speciali
Immobili & proprietà
Contestualmente alla sottoscrizione del contratto preliminare, viene versato a titolo
di acconto l’importo di €
20.000,00.
Contestualmente alla sottoscrizione del contratto preliminare, viene versata una
caparra di € 5.000,00, nonché un acconto prezzo di €
10.000,00.
Totale € 250,00
L’importo di € 50,00 sarà
detratto dall’imposta di registro per il contratto definitivo di compravendita.
L’imposta di registro è pari
a:
€ 200,00 (imposta fissa)
€ 600,00 (3% di €
20.000,00)
Totale € 800,00
L’importo di € 600,00 sarà
detratto dall’imposta di registro per il contratto definitivo di compravendita.
L’imposta di registro è pari
a:
€ 200,00 (imposta fissa)
€ 25,00 (0,5% di €
5.000,00)
€ 300,00 (3% di €
10.000,00)
Totale € 525,00
L’importo di € 325,00 sarà
detratto dall’imposta di registro per il contratto definitivo di compravendita.
Contratto preliminare in caso di trasferimento
soggetto a Iva
In caso di trasferimento soggetto a Iva, il versamento di acconti sul prezzo rappresenta l’anticipazione
del corrispettivo pattuito: il cedente deve emettere
apposita fattura con addebito dell’imposta.
L’imposta di registro è dovuta in misura fissa pari a
€ 200.
La caparra confirmatoria non è invece soggetta ad
Iva, anche se prevista da un’apposita clausola contrattuale, in quanto non costituisce il corrispettivo di
una prestazione di servizi o di una cessione di beni.
Sulla caparra confirmatoria resta dovuta l’imposta
di registro proporzionale dello 0,5%.
Trascrizione del contratto preliminare
Con la trascrizione del contratto preliminare nei registri immobiliari, eventuali vendite dello stesso
immobile o la costituzione di altri diritti a favore di
terze persone non possono pregiudicare i diritti del
compratore.
La trascrizione avviene tramite intervento del notaio e sono previste le seguenti imposte:
- imposta di registro e imposta di bollo di € 155,00;
- imposta ipotecaria di € 200,00;
- tasse ipotecarie di € 35,00.
L’obbligo di registrazione in capo all’agenzia
immobiliare
Immobili & proprietà 2015
I mediatori immobiliari hanno l’obbligo di richiedere la registrazione delle scritture private non autenticate di natura negoziale stipulate a seguito della
loro attività di conclusione degli affari.
L’obbligo di procedere alla registrazione è previsto
sia nel caso di stipulazione di un vero e proprio accordo negoziale contenuto in una scrittura privata,
sia nel caso di accordo concluso sulla base di una
proposta accettata.
Il contratto di compravendita
Al momento della stipula del contratto definitivo di
compravendita avviene il trasferimento del diritto
di proprietà sull’immobile.
In via generale l’atto di compravendita
dell’immobile rileva ai fini delle imposte indirette
in capo all’acquirente (registro o Iva e altre imposte indirette) nonché ai fini delle imposte dirette in
capo al venditore.
Le imposte dovute in sede di acquisto variano, in
termini di tipologia e di ammontare, in base alle caratteristiche soggettive del cedente (privato o impresa) e in base alle condizioni oggettive
dell’immobile (immobile abitativo o strumentale).
Sono poi previste agevolazioni in caso di acquisto
di immobile con le caratteristiche “prima casa”.
Imposte indirette
Le imposte indirette: quadro generale
La disciplina normativa è complessa, giacché il genere di imposta e la misura del prelievo fiscale variano a seconda dei soggetti contraenti e
dell’oggetto della compravendita.
Le compravendite immobiliari sono rilevanti ai fini
dell’imposta di registro e delle imposte ipotecarie
e catastali, nonché, in determinate condizioni, ai
fini dell’IVA.
Secondo la regola generale, l’Iva e l’imposta di registro (proporzionale) sono alternative, nel senso
che l’applicazione di un’imposta preclude
l’applicazione dell’altra (cosiddetta “alternatività
iva/registro”).
Nell’ambito
dei
trasferimenti
immobiliari,
l’applicazione dell’una o dell’altra imposta è principalmente, ma non esclusivamente, connessa con la
qualificazione soggettiva della parte venditrice.
L’imposta di registro proporzionale si applica in
tutte le ipotesi in cui il venditore sia un soggetto
privato non imprenditore nonché in alcuni partico61
Gli Speciali
Immobili & proprietà
lari casi di vendita da parte di imprese, in considerazione del genere di bene compravenduto e di altre
specifiche circostanze (ad esempio temporali).
L’Iva si applica, invece, tendenzialmente e sempreché ricorrano talune circostanze, alle vendite effettuate da imprese, chiunque sia l’acquirente.
Nell’ambito di ogni tipo di imposta, vi è poi una
diversificazione di aliquote in considerazione della natura del bene e del soggetto (questa volta) acquirente e di eventuali particolari agevolazioni che
lo stesso può richiedere.
Imposte indirette: registro
L’imposta di registro si applica agli atti traslativi a
titolo oneroso della proprietà di beni immobili in
genere e agli atti traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento, compresi la rinuncia
pura e semplice agli stessi.
Procedura di registrazione
La registrazione deve essere eseguita presso il
competente Ufficio dell’Agenzia delle Entrate
nella cui circoscrizione risiede il notaio che ha
rogato l’atto.
La richiesta comporta la presentazione dell’atto
pubblico o scrittura privata autenticata in originale, di una seconda copia conforme e di una terza
copia in carata libera. Per le scritture private non
autenticate è richiesta la presentazione in due originali o dell’originale e di una copia. Per gli atti in
lingua straniera deve essere allegata una traduzione giurata.
Eseguita la registrazione l’Ufficio restituisce al richiedente un originale o una fotocopia conforme
annotata, conservando l’altro originale e la richiesta
di registrazione per dieci anni, decorsi i quali l’atto
viene trasmesso all’archivio notarile.
Dal 2004 è prevista l’obbligo per i notai di utilizzare il modello unico informatico (MUI) per gli
adempimenti di registrazione, trascrizione e voltura
degli atti di compravendita di immobili.
L’utilizzo di tale procedura permette tra l’altro di
rendere disponibili all’amministrazione finanziaria
e alle amministrazioni locali i dati degli immobili e
le informazioni utili ai fini delle imposte locali. Ai
fini IMU, ad esempio, il contribuente è esonerato
dalla presentazione della dichiarazione quando gli
elementi rilevanti ai fini dell’imposta dipendono da
atti per i quali sono applicabili le procedure telematiche attraverso il modello unico informatico.
Immobili & proprietà 2015
Soggetti obbligati solidalmente
I soggetti obbligati al pagamento dell’imposta di
registro sono:
- i pubblici ufficiali che hanno redatto, ricevuto o
autenticato l’atto;
- il soggetto che ha richiesto la registrazione;
- il soggetto nel cui interesse è richiesta la registrazione;
- le parti contraenti che hanno sottoscritto le denunce di registrazione o hanno richiesto provvedimenti
di urgenza;
- le parti interessate al verificarsi della condizione
sospensiva.
Tutte le parti contraenti sono responsabili solidalmente, unitamente al pubblico ufficiale, dunque
il notaio rogante, per il pagamento dell’imposta.
Il criterio della solidarietà passiva ha delle eccezioni
nelle ipotesi di fattispecie imputabile ad una sola delle
parti, come ad esempio nella decadenza dalle agevolazioni, oppure nel caso di contratti stipulati con lo
Stato, in cui l’imposta è a esclusivo carico dell’altra
parte, nei casi di espropriazione per pubblica utilità, di
trasferimento coattivo di beni, in cui l’imposta è pagata dall’espropriante o dall’acquirente senza diritto di
rivalsa.
Base imponibile
L’imposta di registro si applica nella misura indicata nella tariffa allegata al T.U. n. 131/1986.
In relazione ai trasferimenti di immobili, l’imposta
di registro può essere dovuta in misura fissa o proporzionale.
In generale, la base imponibile per l’applicazione
dell’imposta proporzionale di registro è data dal valore dell’immobile dichiarato nell’atto (prezzo). Anche quando la compravendita è soggetta a Iva, la base imponibile è costituita dal prezzo della cessione.
Tuttavia, in caso di compravendita di immobili a
uso abitativo e delle relative pertinenze, effettuate
nei confronti di persone fisiche che non agiscono
nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o
professionali, l’acquirente può scegliere - richiedendolo al notaio rogante - di calcolare l’imposta di
registro sul valore catastale del fabbricato, anziché sul corrispettivo pagato.
Tale criterio è applicabile anche all’acquisto di pertinenze (effettuato da persone fisiche), senza limitazione di numero, a condizione che il bene principale sia un immobile a uso abitativo e che nell’atto
di cessione venga data evidenza del vincolo pertinenziale.
62
Gli Speciali
Immobili & proprietà
Acquisto immobili abitativi da privati:
base imponibile
Immobile
Acquirente
Base imponibile
Acquisto
prima casa
e le relative
pertinenze
Persone
fisiche
Acquisto altri
immobili abitativi e pertinenze
Persone
fisiche
Immobili
diversi dagli
abitativi
Tutti
gli immobili
Tutti i soggetti
Valore catastale: rendita
catastale x 1,05 x 110
(rendita catastale rivalutata del 5% con applicazione del moltiplicatore
110)
Valore catastale: rendita
catastale x 1,05 x 120
(rendita catastale rivalutata del 5% con applicazione del moltiplicatore
120)
Prezzo di cessione
Soggetti Iva
Prezzo di cessione
Se l’ufficio ritiene che il valore venale dei beni trasferiti sia superiore a quello indicato nell’atto, provvede alla rettifica e alla liquidazione della maggiore
imposta dovuta (nonché delle sanzioni e degli interessi) e notifica al contribuente, entro due anni dal
pagamento dell’imposta proporzionale, un apposito
avviso. All’ufficio è preclusa la facoltà di accertamento, fatta salva la prova dell’occultamento del
corrispettivo, qualora si applichi la disciplina del c.d
“prezzo valore”.
Il “prezzo valore”: determinazione agevolata
della base imponibile
A partire dal 1° gennaio 2006, in presenza di determinati requisiti e di specifiche condizioni, la base imponibile per l’applicazione delle imposte di
registro, ipotecaria e catastale per i trasferimenti di
immobili abitativi, è costituita dal valore catastale,
a prescindere dal corrispettivo pattuito e indicato
nell’atto (sistema del prezzo-valore).
Scopo della disciplina è far in modo che nella contrattazione immobiliare prevalga una logica di trasparenza e così realizzare un prelievo fiscale equo.
In concreto, nel contratto definitivo di vendita il
prelievo di imposta viene calcolato sul solo valore
dell’immobile determinato con i meccanismi della
rivalutazione della rendita catastale, indipendentemente dal corrispettivo indicato e pagato (c.d. “valutazione automatica”).
Il sistema del prezzo-valore si applica ai contratti di
compravendita soggetti ad imposta di registro in
cui l’acquirente sia persona fisica che non agisca
nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o
professionali. Sono quindi soggette al prezzoImmobili & proprietà 2015
valore anche le cessioni effettuate da società, imprese o enti, purché nei confronti di “persone fisiche” e purché soggette a imposta di registro (non
IVA).
In sintesi, sono soggette al sistema del prezzovalore tutte le cessioni:
- soggette ad imposta di registro e non a Iva;
- a favore di un acquirente “privato”;
- aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo e relative pertinenze.
Perché possa utilizzarsi il sistema in commento occorre una precisa richiesta che la parte acquirente deve rendere al notaio nel corpo dell’atto di acquisto.
Il meccanismo del prezzo-valore si applica a condizione che nell’atto sia indicato l’intero prezzo pattuito. Se viene occultato, anche in parte, il corrispettivo pattuito, le imposte sono dovute sull’intero
importo di quest’ultimo e si applica la sanzione
amministrativa dal cinquanta al cento per cento della differenza tra l’imposta dovuta e quella già applicata in base al corrispettivo dichiarato, detratto
l’importo della sanzione eventualmente irrogata.
Imposta di registro: aliquote
Le attuali aliquote delle imposte di registro sono in
vigore dal 1° gennaio 2014 e sono articolate come:
- 2% per i trasferimenti con agevolazione “prima
casa”;
- 9% per gli altri trasferimenti immobiliari;
- 12% per i trasferimenti aventi ad oggetto terreni
agricoli e relative pertinenze a favore di soggetti
diversi dai coltivatori diretti e dagli imprenditori
agricoli professionali iscritti nella relativa gestione
previdenziale ed assistenziale.
L’imposta, comunque, non può essere inferiore a
€ 1.000.
Nei casi in cui l’imposta di registro è dovuta in misura fissa (ad esempio in caso di vendita soggetta a
Iva), si applica nella misura di € 200,00.
Aliquote imposta di registro
Articolo 1 Parte 1 Tariffa Allegata al T.U. 26 aprile 1986, n. 131
Dal 1° gennaio 2014
Atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili in genere e atti
traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento, compresi la rinuncia pura e semplice agli stessi, i
provvedimenti di espropriazione per
pubblica utilità e i trasferimenti coattivi
Se il trasferimento ha per oggetto case di abitazione, ad eccezione di quel-
9%
(con un minimo
di € 1.000,00)
2%
(con un minimo
63
Gli Speciali
Immobili & proprietà
le di categoria catastale A1, A8 e A9,
ove ricorrano le condizioni di cui alla
nota II-bis)
Se il trasferimento ha per oggetto terreni agricoli e relative pertinenze a favore di soggetti diversi dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali iscritti nella relativa gestione
previdenziale ed assistenziale
di € 1.000,00)
12 %
(con un minimo
di € 1.000,00)
Atti soggetti a imposta di registro e altre
imposte e tasse
Gli atti assoggettati all’imposta di registro e tutti gli
atti e le formalità direttamente conseguenti posti in
essere per effettuare gli adempimenti presso il catasto ed i registri immobiliari sono:
- esenti dall’imposta di bollo, dai tributi speciali
catastali e dalle tasse ipotecarie;
- soggetti ad imposta ipotecaria nella misura fissa
di € 50,00;
- soggetti ad imposta catastale nella misura fissa di
€ 50,00.
Imposte ipotecarie e catastali
Si tratta di imposte che colpiscono la trascrizione,
l’iscrizione, la rinnovazione, la cancellazione e
l’annotazione nei pubblici Registri immobiliari e
presso gli Uffici del Catasto. L’imposta catastale
comporta la registrazione al Catasto dei trasferimenti immobiliari eseguiti per operazioni uguali a
quelle previste per l’imposta ipotecaria e si paga
all’Ufficio del Catasto.
L’importo dovuto per imposte ipotecarie e catastali
è pari a:
- € 50,00 per ciascuna imposta, in caso di trasferimento di immobile abitativo, se il cedente è un privato o
un’impresa che vende in esenzione da Iva;
- € 50,00 per ciascuna imposta, in caso di trasferimento di immobile strumentale, se il cedente è un
privato;
- € 200,00 per ciascuna imposta, in caso di trasferimento di immobile abitativo, se il cedente è
un’impresa che vende con applicazione dell’Iva;
- rispettivamente il 3% e l’1% del valore di vendita,
in caso di trasferimento di immobile strumentale, se
il cedente è un soggetto IVA, indipendentemente
dall’imponibilità o dall’esenzione ai fini IVA.
Si tratta di imposte poste a carico di chi acquista un
immobile o altri diritti reali di godimento su beni
immobili (cioè di usufrutto, di servitù, di superficie,
di uso e di abitazione), che interessano anche le
successioni, le donazioni e le ipoteche.
Immobili & proprietà 2015
Imposte indirette: IVA
A seguito delle numerose modifiche normative che
hanno interessato nel tempo il settore immobiliare,
l’ambito di applicazione del regime fiscale dell’Iva
è piuttosto complesso.
Le cessioni di immobili effettuate da soggetti Iva
rientrano sempre nel campo di applicazione dell’Iva
e possono essere imponibili o esenti, a seconda delle condizioni oggettive dell’immobile e/o delle
condizioni soggettive del soggetto venditore.
Iva e cessione di immobili abitativi
Il trattamento Iva applicabile alle cessioni di immobili abitativi dipende dal soggetto venditore.
È imponibile Iva la cessione effettuata:
a) dall’impresa che, anche tramite imprese appaltatrici, ha costruito l’immobile o vi ha eseguito interventi di recupero e ristrutturazione, se:
- la cessione riguarda immobili non ultimati;
- la cessione è effettuata entro cinque anni
dall’ultimazione dei lavori;
- la cessione è effettuata oltre i cinque anni
dall’ultimazione dei lavori e l’impresa manifesta
espressamente l’opzione per l’applicazione dell’Iva
(in mancanza di opzione, la cessione è esente da Iva);
b) da altre imprese, se oggetto della vendita sono
immobili destinati ad alloggi sociali ex D.M. 22
aprile 2008, con espressa opzione per
l’applicazione dell’Iva (in mancanza di opzione, la
cessione è esente da Iva).
Sono invece esenti da Iva le cessioni effettuate:
a) dall’impresa che, anche tramite imprese appaltatrici, ha costruito l’immobile o vi ha eseguito interventi di recupero e ristrutturazione, se la cessione è
effettuata oltre i cinque anni dall’ultimazione dei
lavori e l’impresa non manifesta espressamente
l’opzione per l’applicazione dell’Iva;
b) da altre imprese:
- se oggetto della vendita sono immobili destinati
ad alloggi sociali ex D.M. 22 aprile 2008, senza
espressa opzione per l’applicazione dell’Iva;
- negli altri casi.
Iva e cessione di immobili diversi dagli abitativi
È imponibile Iva la cessione di immobile strumentale effettuata:
a) dall’impresa che, anche tramite imprese appaltatrici, ha costruito l’immobile o vi ha eseguito interventi di recupero e ristruttura ristrutturazione, se:
64
Gli Speciali
Immobili & proprietà
- la cessione riguarda immobili non ultimati;
- la cessione è effettuata entro cinque anni
dall’ultimazione dei lavori;
- la cessione è effettuata oltre i cinque anni
dall’ultimazione dei lavori e l’impresa manifesta
espressamente l’opzione per l’applicazione dell’Iva
(in mancanza di opzione, la cessione è esente da
Iva);
b) da altre imprese, se il cedente manifesta espressamente l’opzione per l’applicazione dell’Iva (in
mancanza di opzione, la cessione è esente da Iva).
Sono esenti da Iva le cessioni di immobili strumentali effettuate:
a) dall’impresa che, anche tramite imprese appaltatrici, ha costruito l’immobile o vi ha eseguito interventi di recupero e ristrutturazione, se la cessione è
effettuata oltre i cinque anni dall’ultimazione dei
lavori e l’impresa non manifesta espressamente
l’opzione per l’applicazione dell’Iva
b) da altre imprese, in assenza di opzione per l’Iva.
Aliquote Iva
In caso di compravendita soggetta a Iva, si applicano le seguenti aliquote:
- 4% in caso di acquisto di immobile abitativo non
di lusso, con le condizioni per le agevolazioni
“prima casa”;
- 10% in caso di acquisto di altri immobili abitativi
non di lusso;
- 10% in caso di acquisto di immobili abitativi “di
lusso”, sui quali l’impresa venditrice abbia effettuato interventi di recupero (purché ultimati e diversi
dalla manutenzione ordinaria);
- 22% in caso di acquisto di immobili abitativi “di
lusso”;
- 22% in caso di acquisto di immobili strumentali;
- 10% in caso di acquisto di immobili strumentali
sui quali l’impresa venditrice abbia effettuato interventi di recupero (purché ultimati e diversi dalla
manutenzione ordinaria).
Tabella di sintesi: tassazione trasferimento
immobili destinati ad abitazione e relative
pertinenze
Immobile
Cedente
Prima casa
Privato o impresa che
vende in esenzione Iva
Impresa che vende con
applicazione Iva
Immobili & proprietà 2015
Imposte
indirette
Registro 2%
Ipotecaria € 50
Catastale € 50
Iva 4%
Registro € 200
Ipotecaria € 200
Catastale € 200
Altra abitazione non di
lusso
Altra abitazione di lusso (A/1, A/8,
A/9)
Privato o impresa che
vende in esenzione Iva
Impresa che vende con
applicazione Iva
Privato o impresa che
vende in esenzione Iva
Impresa che vende con
applicazione Iva
Impresa che vende con
applicazione Iva e che
ha eseguito interventi di
recupero
Registro 9%
Ipotecaria € 50
Catastale € 50
Iva 10%
Registro € 200
Ipotecaria € 200
Catastale € 200
Registro 9%
Ipotecaria € 50
Catastale € 50
Iva 22%
Registro € 200
Ipotecaria € 200
Catastale € 200
Iva 10%
Registro € 200
Ipotecaria € 200
Catastale € 200
Tabella di sintesi: tassazione trasferimento
immobili strumentali
Cedente
Caratteristiche
immobile
Imposte
indirette
Privato
Tutti
gli
strumentali
immobili
Impresa che
vende in
esenzione Iva
Impresa che
vende con applicazione Iva
Tutti
gli
strumentali
immobili
Registro 9%
Ipotecaria € 50
Catastale € 50
Registro € 200
Ipotecaria 3%
Catastale 1%
Iva 10%
Registro € 200
Ipotecaria 3%
Catastale 1%
- fabbricati “Tupini”
- fabbricati sottoposti
a interventi di recupero
- fabbricati per ospitare collettività (scuole,
caserme,
ospedali
…)
Altri immobili strumentali
Iva 22%
Registro € 200
Ipotecaria 3%
Catastale 1%
Le agevolazioni per l’acquisto della prima
casa
L’acquisto della prima casa gode di particolari agevolazioni, sia nell’ipotesi in cui trovi applicazione
l’imposta di registro sia in quella in cui si applichi
l’Iva: le aliquote sono ridotte e le imposte ipotecarie e catastali sono dovute in misura fissa. Le
agevolazioni sono previste per quegli atti che comportano l’acquisto della proprietà, nuda proprietà,
diritto d’abitazione, uso o usufrutto.
Requisiti: abitazioni non di lusso
I requisiti richiesti per usufruire delle agevolazioni
fiscali per l’acquisto della prima casa sono quattro.
Il primo requisito, a carattere oggettivo, consiste
nell’essere la casa da acquistare una “abitazione
65
Gli Speciali
Immobili & proprietà
non di lusso”.
La definizione di abitazione non di lusso è legata
(ai fini dell’imposta di registro dal 1° gennaio 2014
e ai fini Iva dal 13 dicembre 2014), alla categoria
catastale in cui è classificato o classificabile
l’immobile e non più alle caratteristiche individuate
dal DM 2 agosto 1969. Sono considerate “di lusso”
le abitazioni accatastate come segue:
- abitazioni di tipo signorile (cat. A/1),
- abitazioni in ville (cat. A/8),
- castelli e palazzi di eminenti pregi artistici e storici (cat. A/9).
Pertanto, possono beneficiare del regime di favore
“prima casa” le abitazioni classificate nelle categorie catastali diverse da quelle di cui sopra e dunque:
- le abitazioni di tipo civile (cat. A/2);
- le abitazioni di tipo economico (cat. A/3);
- le abitazioni di tipo popolare (cat. A/4);
- le abitazioni di tipo ultrapopolare (cat. A/5);
- le abitazioni di tipo rurale (cat. A/6);
- le abitazioni in villini (cat. A/7);
- le abitazioni ed alloggi tipici dei luoghi (cat. A/11).
Le agevolazioni si applicano anche nel caso di trasferimento di immobile in corso di costruzione, in
presenza dei requisiti previsti dalla Nota II-bis
all’articolo 1 della Tariffa, Parte I, allegata al TUR,
sempreché l’immobile sia classificabile nelle categorie catastali di cui sopra.
Inoltre, le agevolazioni “prima casa”, sussistendone
le condizioni, si applicano anche in caso di acquisto
contemporaneo di immobili contigui e di acquisto
di un immobile contiguo ad altra casa di abitazione già acquistata dallo stesso soggetto fruendo
dei benefici “prima casa”, purché l’acquisto sia finalizzato a costituire un’unica unità abitativa, accatastata nelle categorie “non di lusso”.
Requisiti: la residenza dell’acquirente
Il secondo requisito consiste nell’avere la residenza anagrafica nel Comune dove l’immobile è sito
ovvero ivi stabilirla entro 18 mesi dall’acquisto oppure svolgere la propria attività (lavorativa o di studio) in tale Comune.
La dichiarazione di voler stabilire la residenza nel
Comune ove è situato l’immobile acquistato deve
essere resa, a pena di decadenza, dall’acquirente
nell’atto di acquisto. Ai fini della corretta valutazione del requisito della residenza, il cambio di residenza si considera avvenuto nella data in cui
l’interessato rende al Comune la dichiarazione di
trasferimento.
Immobili & proprietà 2015
L’obbligo di stabilire la residenza entro 18 mesi
può essere derogato esclusivamente nell’ipotesi in
cui il trasferimento è impedito da cause di forza
maggiore sopravvenute in un momento successivo
rispetto a quello di stipula dell’atto. L’ipotesi della
forza maggiore ricorre quando sopravviene un impedimento oggettivo non prevedibile e tale da non
potere essere evitato ovvero caratterizzato dalla non
imputabilità alla parte obbligata, inevitabilità e imprevedibilità. Non costituisce causa di forza maggiore l’imprevista protrazione dei tempi di realizzazione dei lavori di ristrutturazione dell’immobile
“agevolato”.
Se l’acquirente si è trasferito all’estero per lavoro, l’immobile deve essere situato nel Comune ove
ha sede o esercita l’attività l’azienda da cui dipende; per i cittadini residenti all’estero e iscritti
all’AIRE deve trattarsi di prima casa posseduta sul
territorio italiano, ubicata in qualsiasi Comune del
territorio italiano.
Per il personale delle Forze armate e delle Forze
di polizia la condizione della residenza suddetta
non è richiesta (ad esempio, un funzionario di polizia può acquistare un’abitazione con i benefici della
prima casa e mantenere la residenza in un Comune
diverso da quello ove l’immobile acquistato si trova).
È importante sottolineare che anche uno straniero
può usufruire del regime fiscale agevolato per
l’acquisto della prima casa, purché la compravendita avvenga al ricorrere dei requisiti qui elencati per
godere di tale agevolazione (segnatamente,
l’acquisizione della residenza presso il Comune italiano ove è ubicato l’immobile acquistato).
Si consideri poi che le agevolazioni prima casa non
dipendono dal fatto che l’immobile acquistato
sia destinato ad abitazione propria o familiare,
di modo che può essere acquistata con tali agevolazioni anche un’abitazione che verrà locata dopo
l’acquisto; ciò in quanto quello che la legge richiede è solo la residenza nel Comune e non presso
l’abitazione acquistata.
Altri requisiti
Il terzo requisito in capo all’acquirente è di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge di diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di un’altra casa di abitazione nel territorio
del Comune dove si trova l’immobile acquistato.
Infine, il quarto requisito è di non essere titolare,
neppure per quote (in tal caso rileva la contitolarità
66
Gli Speciali
Immobili & proprietà
di un immobile acquistato con il beneficio prima
casa) o in comunione legale con il coniuge, su tutto
il territorio nazionale, di diritti di proprietà o nuda
proprietà, usufrutto, uso e abitazione su altra casa
di abitazione acquistata, anche dal coniuge, usufruendo delle agevolazioni fiscali prima casa.
Pertinenze
Il regime fiscale agevolato “prima casa” si estende,
oltre all’acquisto abitazione, anche a quello di specifiche pertinenze, nel numero di una per ciascun
tipo: l’attuale normativa infatti consente che, unitamente alla casa, possano essere acquistati, con atto unico o con più atti separati, una sola pertinenza
per categoria C/2, C/6 e C/7 (cantina-magazzino =
C/2, un’autorimessa = C/6 ed una tettoia = C/7),
con applicazione delle condizioni agevolate.
La disciplina in esame si applica inoltre qualora la
casa oggetto del contratto sia ancora in costruzione
ovvero nel caso in cui si acquisti un fabbricato rurale adibito ad abitazione; l’ambito di applicazione
della norma non si estende tuttavia alle abitazioni di
fatto non catastalmente censite come tali (ad esempio: appartamenti censiti come uffici ma di fatto
adibiti ad abitazione).
Dichiarazioni del compratore
Nell’atto di acquisto il compratore deve dichiarare:
- di non essere titolare, esclusivo o in comunione
col coniuge, di diritti di proprietà, usufrutto, uso e
abitazione di altra casa di abitazione nel territorio
del Comune dove si trova l’immobile oggetto
dell’acquisto agevolato;
- di non essere titolare, neppure per quote o in comunione legale, su tutto il territorio nazionale, di
diritti di proprietà, uso, usufrutto, abitazione o nuda
proprietà, su altra casa di abitazione, acquistata, anche dal coniuge, usufruendo delle agevolazioni per
l’acquisto della prima casa;
- di impegnarsi a stabilire la residenza entro 18 mesi nel Comune dove è situato l’immobile oggetto
dell’acquisto, qualora già non vi risieda.
Se, per errore, nell’atto di compravendita queste dichiarazioni sono state omesse, è possibile rimediare
mediante uno specifico atto integrativo, redatto
secondo le stesse forme giuridiche del precedente,
in cui l’acquirente dichiara la sussistenza dei presupposti soggettivi e oggettivi per usufruire delle
agevolazioni fiscali.
Decadenza dal beneficio e credito d’imposta
Immobili & proprietà 2015
L’acquirente decade dai benefici “prima casa”
quando:
- le dichiarazioni previste dalla legge nell’atto di
acquisto sono false;
- non trasferisce la residenza nel Comune ove è situato l’immobile entro 18 mesi dall’acquisto;
- vende o dona l’abitazione prima che sia decorso il
termine di 5 anni dalla data di acquisto, a meno che
entro un anno non proceda al riacquisto di un altro
immobile da adibire a propria abitazione principale.
La decadenza dal beneficio comporta il pagamento
di una somma pari alla differenza tra imposta pagata e imposta che si sarebbe dovuto pagare senza
agevolazione “prima casa”, maggiorata di una sanzione pari al 30%, oltre agli interessi.
Non si perde l’agevolazione “prima casa” qualora,
in caso di cessione o donazione dell’immobile prima che siano decorsi cinque anni dalla data
dell’atto, si proceda entro un anno dalla data di
vendita a riacquistare un’immobile da adibire a
propria abitazione.
In questa ipotesi, inoltre, non soltanto si evita il pagamento dell’ulteriore imposta con la relativa sanzione, ma è possibile anche detrarre dalla somma
dovuta a titolo di imposta di registro per il nuovo
acquisto l’importo dell’imposta (di registro o sul
valore aggiunto) già pagata in occasione del primo
acquisto: è questo, in termini tecnici, il cosiddetto
“credito d’imposta”.
Il credito d’imposta spetta ai contribuenti che non
sono decaduti dal beneficio prima casa, ed è pari
all’ammontare dell’imposta di registro, o dell’IVA,
corrisposta in relazione al primo acquisto agevolato. In ogni caso non può essere superiore
all’imposta di registro o all’Iva dovuta in relazione
al secondo acquisto.
Il credito d’imposta spetta anche a coloro che hanno acquistato l’abitazione con atto soggetto ad Iva
anteriormente al 22 maggio 1993 (e che quindi non
hanno formalmente usufruito delle agevolazioni
c.d. prima casa) - ma non prima dell’entrata in vigore della Legge n. 168/1982 - se l’acquirente era in
possesso dei requisiti richiesti dalla normativa vigente in materia di acquisto della c.d. “prima casa”.
Il credito d’imposta può essere utilizzato:
- in diminuzione dell’imposta di registro dovuta in
relazione al nuovo acquisto;
- in diminuzione delle imposte di registro, ipotecaria, catastale, dovute sugli atti e denunce presentati
dopo la data di acquisizione del credito;
- in diminuzione dell’Irpef dovuta in base alla dichiarazione da presentare successivamente al nuovo
67
Gli Speciali
Immobili & proprietà
acquisto;
- in compensazione con altri tributi e contributi dovuti in sede di versamenti unitari con il modello
F24 (usando il codice tributo 6602).
Per poter usufruire di tale credito di imposta, l’atto
di acquisto del nuovo immobile deve contenere:
- le dichiarazioni previste per l’applicazione dei benefici “prima casa”;
- l’espressa richiesta del credito d’imposta;
- l’indicazione degli estremi dell’atto di acquisto
dell’immobile su cui era stata corrisposta l’imposta
di registro o l’Iva in misura agevolate, nonché
l’ammontare della stessa;
- nel caso in cui per l’acquisto del primo immobile
sia stata corrisposta l’Iva ridotta in assenza della
specifica agevolazione “prima casa”, la dichiarazione di sussistenza dei requisiti che avrebbero dato
diritto a tale agevolazione alla data dell’acquisto
stesso;
- nell’ipotesi in cui sia stata corrisposta l’Iva
sull’immobile, la produzione delle relative fatture;
- l’indicazione degli estremi dell’atto di alienazione
dell’immobile.
Tabella di sintesi: requisiti per le agevolazioni
fiscali per l’acquisto prima casa
Abitazioni
non di lusso
Residenza
Non avere altri
immobili nello
stesso Comune
Non aver già fruito
dell’agevolazione
Si considerano non di lusso le abitazioni diverse da quelle accatastate
come A/1, A/8 e A/9
L’immobile deve essere ubicato nel
Comune in cui l’acquirente ha la propria residenza anagrafica o in cui intende stabilirla entro 18 mesi
dall’acquisto oppure nel Comune in
cui svolge la propria attività lavorativa
o di studio
L’acquirente non deve essere titolare
esclusivo o in comunione con il coniuge di diritti di proprietà, usufrutto,
uso e abitazione di un’altra casa di
abitazione nel territorio del Comune
dove si trova l’immobile acquistato
L’acquirente non deve aver già usufruito delle agevolazioni fiscali per
l’acquisto della prima casa (salvo il
caso della vendita con riacquisto entro un anno)
Beneficio “prima casa” e comunione legale
Ai fini fiscali, per ottenere l’agevolazione c.d.
“prima casa” sull’intero immobile trasferito viene
espressamente previsto che entrambi i coniugi devono rendere le dichiarazioni previste alla lettera
b) (assenza di altri diritti reali vantati su immobili
ubicati nello stesso comune) e c) (novità nel godimento dell’agevolazione) della nota II-bis del Testo
Immobili & proprietà 2015
Unico dell’imposta di registro (Circolare n.
38/E/2005 Agenzia delle Entrate).
Di converso, se la dichiarazione di spettanza dei
requisiti viene rilasciata da uno solo dei due coniugi, l’agevolazione spetta nella misura del 50%.
Se entrambi i coniugi, in regime di comunione legale, possiedono i requisiti per fruire
dell’agevolazione “prima casa”, l’agevolazione
spetta sull’intero valore dell’immobile (ossia su entrambe le “quote” riferite ai due coniugi).
Se invece i requisiti per l’applicazione
dell’agevolazione sono posseduti da uno solo dei
coniugi, ad esempio perché l’altro coniuge già possiede un’abitazione acquisita fruendo dei benefici
prima casa, l’agevolazione compete solo per il
50% del valore dell’abitazione acquistata.
Per ogni acquirente ed in relazione alla sua quota, si
deve accertare la presenza o meno dei presupposti
dell’agevolazione.
Imposte dirette
Le plusvalenze da cessioni immobiliari poste in essere dalle persone fisiche costituiscono “redditi diversi” e, a seconda dei casi, possono concorrere a
formare il reddito complessivo, oppure essere assoggettate a tassazione sostitutiva o, infine, non subire tassazione alcuna.
Le plusvalenze realizzate nell’esercizio di impresa
commerciale e di arti e professioni sono invece
soggette alle norme che regolano tali tipologie reddituali. In questa sede se ne tralascia la trattazione.
Il venditore “privato” e gli aspetti fiscali
Le plusvalenze da cessioni immobiliari in capo alle
persone fisiche costituiscono “redditi diversi”.
Vige il criterio di cassa, ovvero ai fini fiscali è rilevante l’effettivo incasso del corrispettivo e non è
sufficiente la stipulazione dell’atto notarile.
Cessione di immobili acquistati da più di 5 anni
e altri casi esclusi da tassazione
La cessione a titolo oneroso di un immobile acquisito da più di 5 anni non comporta alcuna tassazione diretta in capo alla persona fisica.
Se l’immobile è stato acquisito a seguito di donazione, il periodo di 5 anni decorre dalla data
dell’atto di acquisto del bene stipulato dal donante.
Sono in ogni caso escluse da tassazione le plusvalenze da cessione di:
- immobili acquisiti per successione;
68
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Immobili & proprietà
- fabbricati adibiti per la maggior parte del periodo
intercorso tra l’acquisto e la cessione ad abitazione
principale del cedente oppure dei suoi familiari.
Cessioni di immobili acquistati da meno di 5
anni: tassazione ordinaria
Le plusvalenze realizzate a seguito di cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti
da non più di 5 anni sono “redditi diversi” da assoggettare a tassazione ordinaria.
La plusvalenza è ottenuta dalla differenza tra il
corrispettivo complessivo della cessione e il valore
di acquisto del bene oppure il suo costo di costruzione. Mentre il corrispettivo è semplicemente fissato nell’atto di vendita, diverso può essere il valore di acquisto fiscalmente rilevante.
Il valore di acquisto fiscalmente rilevante è determinato secondo le regole sintetizzate nella tabella
che segue.
Titolo
di acquisto
Valore fiscalmente rilevante
Acquisto
a titolo oneroso
Acquisto per
donazione
Prezzo di acquisto, altri costi inerenti,
manutenzioni straordinarie
Prezzo di acquisto del donante, altri
costi inerenti, manutenzioni straordinarie
Spese di costruzione (compreso la
demolizione di fabbricati) e altri costi
inerenti
Costruzione
Il contribuente deve approntare un prospetto in cui
elenca tutte le spese e conservare la relativa documentazione al fine di soddisfare le eventuali richieste
di chiarimenti o documenti dall’amministrazione finanziaria. I costi inerenti sono tutti quelli che hanno
attinenza con l’acquisto dell’immobile, ad esempio:
- il costo dell’atto notarile di acquisto (o di donazione),
- le imposte di registro, ipotecarie e catastali,
- l’imposta sul valore aggiunto,
- le spese per prestazioni professionali;
- le spese per perizie di rivalutazione;
- le spese per la costruzione/ristrutturazione edilizia;
- i compensi per l’intermediazione di vendita.
Cessioni di terreni edificabili
Sono sempre soggette ad imposizione le plusvalenze derivanti dalla cessione di aree edificabili, a prescindere dal titolo di acquisto e dalla sua data.
In particolare, si applica la tassazione separata,
salvo opzione per la tassazione Irpef ordinaria, da
Immobili & proprietà 2015
esercitare nella dichiarazione dei redditi.
La tassazione separata comporta l’assoggettamento
della plusvalenza ad Irpef con l’aliquota corrispondente alla media del reddito complessivo netto del
contribuente nel biennio anteriore all’anno in cui è
avvenuta la cessione.
In alternativa, è possibile optare per la tassazione
Irpef ordinaria. Non è invece applicabile l’imposta
sostitutiva del 20%.
Imposta sostitutiva
In alternativa alla tassazione ordinaria, a patto che
siano rispettati alcuni requisiti, il cedente può chiedere al notaio rogante in sede di atto l’applicazione
di un’imposta sostitutiva pari al 20% sulla plusvalenza (introdotta con Legge 23 dicembre 2005,
n. 266, art. 1, comma 496).
Le condizioni necessarie per poter applicare
l’imposta sostitutiva sono che:
- la cessione avvenga tra soggetti privati che non
svolgono attività commerciali, artistiche o professionali;
- la cessione abbia come oggetto un immobile a
uso abitativo e le relative pertinenze;
- il cedente ne faccia espressa richiesta.
Il venditore pertanto (solo ove sia una persona fisica
che non agisce nell’esercizio di impresa, arte o professione) può scegliere di pagare sulla plusvalenza
realizzata un’imposta sostitutiva dell’imposta sul
reddito del 20% esprimendo al notaio rogante tale
volontà in sede di atto di compravendita e versando
direttamente nelle mani del notaio stesso l’importo
corrispondente a tale imposta: sarà quindi il notaio a
curare tutti gli adempimenti relativi (pagamento/comunicazione all’Agenzia delle Entrate).
La clausola contrattuale
Dichiarazione del venditore sulla plusvalenza
Ai sensi dell’art. 1, comma 496, della L. 23 dicembre 2005,
n. 266, parte venditrice richiede al Notaio che sulla plusvalenza generata dalla vendita del bene in oggetto, pari a
complessivi € …… in deroga alla disciplina di cui all’art. 67,
comma 1, lettera b) del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, si
applichi l’imposta sostitutiva del 20% (venti per cento), autoliquidata in complessivi € ……
Detta somma viene consegnata al Notaio per provvedere al
relativo versamento e darne comunicazione all’Agenzia delle Entrate.
Norme antielusive e dichiarazioni da inserire
nel contratto
Con D.L. n. 223/2006 (convertito nella L. 4 agosto
2006, n. 248), nell’intento di operare un “contrasto
69
Gli Speciali
Immobili & proprietà
all’evasione fiscale”, è stato previsto l’obbligo per le
parti di rendere nell’atto di cessione dell’immobile
apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà
recante l’indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo.
Con le medesime modalità ciascuna delle parti ha
l’obbligo di dichiarare se si è avvalsa di un mediatore e, in caso affermativo, ha l’obbligo di dichiarare l’ammontare della spesa sostenuta per la
mediazione, le analitiche modalità di pagamento
della stessa con l’indicazione del numero di partita
Iva o del codice fiscale dell’agente immobiliare.
In caso di omessa, incompleta o mendace dichiarazione di tali dati si applica la sanzione amministrativa da € 500 a € 10.000 e, ai fini dell’imposta
di registro, i beni trasferiti sono assoggettati ad accertamento di valore.
L’obbligo introdotto ha una duplice finalità:
1) rendere tracciabile il pagamento ed evitare pratiche elusive, già largamente diffuse nei trasferimenti
immobiliari e dirette ad occultare in parte il corrispettivo reale del trasferimento allo scopo di conseguire indebiti risparmi fiscali;
2) dare evidenza del pagamento di provvigioni afferenti alla mediazione immobiliare, onde evitarne
l’occultamento al fisco e conseguente sottrazione
alla tassazione.
Responsabilità solidale per il pagamento
dell’Iva
La legge finanziaria per l’anno 2008 ha introdotto
una nuova ipotesi di responsabilità solidale limitatamente alle cessioni immobiliari soggette a Iva
(art. 60 bis, comma 3 bis, d.P.R. n. 633/1972, aggiunto dall’art. 1, comma 164, L. n. 244/2007): allo
scopo di scoraggiare l’evasione, venditore e acquirente sono solidalmente responsabili per il
pagamento dell’Iva. Perciò nel caso in cui
l’importo del corrispettivo indicato nell’atto di
compravendita e nella relativa fattura sia diverso da
quello effettivo, l’acquirente, anche se è un privato
senza partita Iva, risponde in solido con il venditore
per il pagamento dell’imposta relativa alla differenza tra il corrispettivo effettivo e quello indicato,
nonché della relativa sanzione.
Per evitare tale responsabilità solidale e la conseguente sanzione, l’acquirente soggetto privato deve
entro 60 giorni dalla stipulazione dell’atto di compravendita, regolarizzare la violazione versando la
maggiore imposta e presentare all’ufficio territorialmente competente copia dell’attestazione di paImmobili & proprietà 2015
gamento e delle fatture oggetto della regolarizzazione. Se l’acquirente è un soggetto Iva oltre a versare la maggior imposta deve provvedere a presentare una fattura integrativa entro 30 giorni da quando ha registrato la fattura irregolare ricevuta.
La nuova agevolazione per l’acquisto
o la costruzione di abitazioni destinate
alla locazione
È prevista, a favore delle persone fisiche che non
esercitano attività commerciali, una nuova deduzione dal reddito complessivo Irpef per l’acquisto
di unità immobiliari residenziali da destinare successivamente alla locazione. L’agevolazione è stata
introdotta con il D.L. 12 settembre 2014, n. 133
(entrato in vigore il 12 novembre 2014).
Deve trattarsi di:
- immobili di nuova costruzione, invenduti alla data
del 12 novembre 2014, oppure di
- immobili sui quali sono stati effettuati interventi
di ristrutturazione edilizia o di restauro e di risanamento conservativo (interventi indicati nell’art. 3,
comma 1, lett. d e c del d.P.R. n. 380/2001).
Gli acquisti agevolati sono quelli effettuati dal 1°
gennaio 2014 al 31 dicembre 2017.
L’agevolazione consiste in una deduzione pari al
20% del prezzo di acquisto dell’immobile risultante dall’atto di compravendita, nel limite massimo
complessivo di spesa di € 300.000, e degli interessi
passivi dipendenti da mutui contratti per l’acquisto
delle stesse unità immobiliari. La deduzione deve essere ripartita in otto quote annuali di pari importo (a
partire dall’anno in cui viene stipulato il contratto di
locazione) e non è cumulabile con altre agevolazioni
fiscali previste per le stesse spese.
Calcolo della deduzione dal reddito Irpef
Limite massimo di spesa
Deduzione complessiva 20%
Numero rate annuali deduzione, a partire dall’anno di stipula del contratto di
locazione
Importo deduzione massima annua dal
reddito ai fini Irpef
€ 300.000,00
€ 60.000,00
8 rate
€ 7.500,00
Fermo restando il limite massimo complessivo di €
300.000, l’agevolazione spetta anche per la costruzione di un’abitazione su un’area edificabile già
posseduta.
In sostanza, si possono portare in deduzione anche
le spese sostenute dal contribuente persona fisica,
non esercente attività commerciale, per prestazioni
di servizi, dipendenti da contratti di appalto, per la
70
Gli Speciali
Immobili & proprietà
costruzione di un’unità immobiliare a destinazione
residenziale.
Condizioni per poter usufruire dell’agevolazione
Condizioni
In dettaglio
L’unità immobiliare non deve essere “di lusso”
non deve essere classificata
o classificabile nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9
l’unità immobiliare deve essere a destinazione residenziale e non deve trovarsi nelle zone territoriali omogenee
classificate E (Decreto del
Ministro dei lavori pubblici 2
aprile 1968, n. 1444), vale a
dire, in parti del territorio destinate ad usi agricoli
l’immobile deve conseguire
prestazioni energetiche certificate in classe A o B (allegato 4 delle Linee Guida nazionali per la classificazione
energetica degli edifici di cui
al Decreto del Ministro dello
sviluppo economico 26 giugno 2009 o normativa regionale, laddove vigente).
entro sei mesi dall’acquisto o
dal termine dei lavori di costruzione, l’immobile deve
essere concesso in locazione, per almeno otto anni
continuativi, a un canone
non superiore a quello indicato nella convenzione riportata nell’art. 18 del d.P.R. n.
380/2001, o a un canone
non superiore al minore importo tra il canone concordato (Legge n. 431/1998) e
quello stabilito dalla legge
che ha istituito i canoni speciali (Legge n. 350/2003). La
deduzione, comunque, non
viene meno se, per motivi
non attribuibili al locatore, il
contratto di locazione si risolve prima del tempo previsto e ne viene stipulato un
altro entro un anno dalla data di risoluzione
Sono parenti di primo grado i
genitori e i figli
L’unità immobiliare deve
essere a destinazione residenziale e non deve trovarsi in territori ad uso agricolo
Immobili di classe energetica A o B
Locazione entro sei mesi
dall’acquisto, per almeno
otto anni, a canone concordato
Tra locatore e locatario non
devono esserci rapporti di
parentela entro il primo
grado
L’agevolazione fiscale è riconosciuta anche quando
l’unità immobiliare acquistata sia ceduta in usufrutto, anche contestualmente all’atto di acquisto e anche prima della scadenza del periodo minimo di locazione di otto anni, a soggetti giuridici pubblici o
privati operanti da almeno dieci anni nel settore
dell’alloggio sociale. In tal caso, è però indispensaImmobili & proprietà 2015
bile che venga mantenuto il vincolo alla locazione
con lo stesso canone sopra indicato e che il corrispettivo dell’usufrutto, calcolato su base annua, non
sia superiore all’importo dei canoni di locazione
(come sopra specificati).
Le modalità attuative per richiedere l’agevolazione
saranno stabilite con un apposito decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministero dell’economia e delle finanze.
Detrazioni fiscali su spese connesse
all’acquisto dell’immobile
Sono previste alcune detrazioni dall’Irpef in relazione a talune spese sostenute ai fini dell’acquisto
degli immobili.
Se ne riporta una breve sintesi.
Detrazione della provvigione
per intermediazione immobiliare
I compensi, comunque denominati, pagati a soggetti di intermediazione immobiliare per l’acquisto
dell’immobile da adibire ad abitazione principale
sono detraibili nella misura del 19% su un importo
massimo di € 1.000.
Detrazione degli interessi sul mutuo
per acquisto abitazione principale
In caso di accensione di un mutuo ipotecario per
l’acquisto dell’abitazione principale, propria o dei
familiari (coniuge, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo), è prevista una detrazione
dall’Irpef pari al 19% degli interessi passivi, degli
oneri accessori e delle quote di rivalutazione, pagati
all’istituto di credito.
La detrazione spetta su un importo annuo massimo
di € 4.000 e deve essere ripartita tra tutti gli intestatari del mutuo.
La detrazione spetta ai soggetti che sono contestualmente intestatari del mutuo e proprietari
dell’abitazione.
La detrazione spetta a condizione che l’immobile
sia adibito ad abitazione principale entro un anno
dall’acquisto.
Oltre agli interessi passivi, nel limite massimo di €
4.000 sono compresi anche gli oneri accessori alla
stipula del contratto di mutuo, tra i quali:
- l’intero importo delle maggiori somme pagate a
causa delle variazioni del cambio per mutui stipulati in altra valuta;
- la commissione che spetta agli istituti per la loro
71
Gli Speciali
Immobili & proprietà
attività di intermediazione;
- gli oneri fiscali, compresa l’imposta per
l’iscrizione o la cancellazione di ipoteca e l’imposta
sostitutiva sul capitale prestato;
- la cosiddetta “provvigione” per scarto rateizzato;
- le spese di istruttoria e di perizia tecnica;
- la penalità per anticipata estinzione del mutuo;
- le spese notarili, quali l’onorario del notaio per la
stipula del contratto di mutuo (con esclusione di
quelle sostenute per il contratto di compravendita) e
le spese sostenute dal notaio per conto del cliente
(per esempio, l’iscrizione e la cancellazione
dell’ipoteca).
Detrazione degli interessi sul mutuo
per la costruzione dell’abitazione principale
Gli interessi passivi su mutui ipotecari per la costruzione dell’abitazione principale sono detraibili
nella misura del 19%, su un importo massimo di €
2.582,28.
La detrazione riguarda gli interessi passivi, gli oneri
accessori e le quote di rivalutazione dipendenti da
clausole di indicizzazione per mutui ipotecari contratti a partire dal 1998 per la costruzione e la ristrutturazione edilizia di unità immobiliari da adibire ad abitazione principale.
Essa è ammessa a condizione che la stipula del contratto di mutuo, da parte del possessore a titolo di
proprietà o di altro diritto reale dell’unità immobiliare, avvenga nei sei mesi antecedenti o nei diciotto
mesi successivi all’inizio dei lavori di costruzione.
Legge di stabilità 2016 e interventi
in materia di fiscalità immobiliare
È iniziato l’iter di approvazione della Legge di Stabilità per il 2016 e la bozza del disegno di legge
contiene numerose modifiche in materia di fiscalità
locale sugli immobili.
È prevista anche la proroga degli attuali incentivi
per le ristrutturazioni e per gli interventi finalizzati
al risparmio energetico.
In questa sede si fa un rapido cenno sulle principali
misure all’esame, in attesa del testo definitivo, entro fine anno.
Proroga delle detrazioni 50% e 65%
La bozza del DDL Stabilità contiene la proroga fino
al 31 dicembre 2016 degli incentivi sulle spese di
ristrutturazione (detrazioni 50%) e sulle spese per il
Immobili & proprietà 2015
risparmio energetico (detrazioni 65%). La proroga
riguarda sia l’importo della detrazione sia la soglia
delle spese di € 96mila.
Inoltre, si prevede la proroga anche del bonus
sull’acquisto di abitazioni interamente ristrutturate
dalle imprese.
Per contro, è rinviato al 31 dicembre 2016 il termine entro il quale il governo dovrà riordinare e rendere stabile la normativa sugli incentivi.
IMU e TASI sulle abitazioni principali
È all’esame l’ipotesi di eliminare, dal 2016, l’IMU
e la TASI sugli immobili adibiti ad abitazione principale. La modifica di favore probabilmente non riguarderà gli immobili classificati nelle categorie catastali A/1 (dimore signorili), A/8 (ville) e A/9 (castelli e palazzi di pregio).
IMU e terreni agricoli dei coltivatori diretti
Dal 2016 potrebbe essere abolita anche l’IMU sui
terreni agricoli posseduti e condotti dai coltivatori
diretti e dagli imprenditori agricoli professionali
(IAP), ovunque ubicati. La materia è stata oggetto
di varie modifiche negli ultimi anni, con conseguenti difficoltà applicative.
In caso di esenzione da IMU, si applica la tassazione ai fini Irpef sul reddito dominicale.
IMU sugli immobili invenduti
La bozza del DDL Stabilità prevede l’aliquota IMU
dell’1 per mille sugli immobili merce delle imprese
costruttrici, non locati. I Comuni possono azzerare
l’aliquota o aumentarla fino al 2,5 per mille.
IMU sugli “imbullonati”
La rendita dei fabbricati produttivi (categorie D ed
E) comprende ad oggi anche gli elementi strutturalmente connessi, che ne accrescono la funzionalità e che si considerano parte integrante dei fabbricati stessi. Ne deriva che l’IMU colpisce il valore
complessivo del bene e dunque indirettamente anche i cosiddetti impianti “imbullonati”.
Ora, il DDL Stabilità prevede la modifica delle
modalità di determinazione della rendita, escludendo dalla stessa i cosiddetti “imbullonati”. Questa
misura renderebbe meno onerosa, dal 2016, la tassazione locale sui fabbricati produttivi.
72
Gli Speciali
Immobili & proprietà
Modi alternativi di acquisto.
La nuda proprietà e l’usufrutto
di Augusto Cirla - Avvocato in Milano
È una formula di investimento di medio-lungo tempo molto efficace. Il proprietario si spoglia della nuda
proprietà per assicurarsi un introito, mantenendo la possibilità di continuare a godere l’abitazione. Di contro l’altro soggetto acquista la nuda proprietà per concludere un buon investimento immobiliare, logicamente, con un esborso inferiore rispetto a quello per l’acquisto completo.
È frequente nella vendita di beni immobili la separazione della nuda proprietà dall’usufrutto, inteso
quest’ultimo come il diritto di usare la cosa altrui e
di trarne i frutti, rispettando però la destinazione del
bene (artt. 978 ss. c.c.). L’operazione può diventare
un buon punto di incontro tra le esigenze di un investitore a medio-lungo termine ed il proprietario
dell’immobile, che può in tal modo assicurarsi una
certa somma di denaro per il resto della vita pur
senza privarsi del godimento dell’immobile in cui
vive. Chi compra gode naturalmente di un consistente sconto sul prezzo reale della casa e pagherà
poi le imposte solo in proporzione al valore della
nuda proprietà acquistata.
La nuda proprietà è un caso di proprietà privata alla
quale non si accompagna un diritto reale di godimento del bene al quale è relativa. Si riferisce tipicamente a un immobile del quale si acquisisce la
proprietà, ma non il diritto di usufrutto.
Al cessare del gravame che menoma la piena proprietà, ad esempio all’estinzione dell’usufrutto, la
nuda proprietà si riunisce ipso facto ai diritti complementari, ricostituendo la pienezza potestativa.
La disciplina giuridica della nuda proprietà si ricava avuta considerazione alla disciplina della proprietà, per differenza da quella emanata per la regolazione dell’usufrutto.
L’usufrutto è un diritto reale minore consistente
nella facoltà di godimento di un bene uti dominus
(utilizzandolo per il proprio vantaggio, potendo
percepirne anche i frutti), limitata solo dal non poterne trasferire la proprietà principale ed al rispetto
della destinazione economica impressavi dal proprietario. La sua funzione è quella di permettere la
separazione temporanea del godimento della proImmobili & proprietà 2015
prietà rispetto ad uno stesso bene, ossia di rendere
possibile che un soggetto diverso dal proprietario
tragga per un certo tempo dal bene altrui alcune
delle utilità spettanti al proprietario.
Si tratta di un diritto reale di godimento su cosa altrui dal contenuto molto vasto: le facoltà
dell’usufruttuario hanno infatti un’estensione che si
approssima, pur senza raggiungerla, alla facoltà di
godere delle cose spettante al proprietario, al quale
residua la nuda proprietà.
L’usufruttuario di una unità immobiliare può abitarla o darla in locazione, ma non può mutarne la destinazione e né ovviamente cederne la proprietà.
Sino a quando l’usufrutto non giunge ad estinzione
il proprietario è privato della possibilità di usare la
cosa, al punto che il suo diritto, in quanto fortemente compresso, prende il nome di “nuda proprietà”.
All’usufruttuario spetta il diritto di godere di un bene di percepirne i relativi redditi mentre al nudo
proprietario spetta solo la proprietà spogliata del
potere di trarre utilità dal bene.
L’usufrutto costituito in favore di una persona fisica ha per lo più lo scopo di provvedere a necessità
personali dell’usufruttuario. Si pensi, ad esempio,
ad una persona anziana proprietaria dell’ immobile
in cui abita che decide di venderne la nuda proprietà e riservare per se e per il proprio coniuge
l’usufrutto al fine di ricavare in tal modo i mezzi finanziari per poter vivere più serenamente senza rinunciare ad abitare la propria casa: l’usufrutto si
estinguerà alla morte dell’usufruttuario, momento
in cui il nudo proprietario acquisterà la piena proprietà. Del pari dicasi per i genitori che si decidano
all’acquisto di una abitazione, intestando al proprio
figlio la nuda proprietà e riservandosi l’usufrutto,
73
Gli Speciali
Immobili & proprietà
oppure, se già proprietari, scelgano di donare al figlio la nuda proprietà mantenendo per loro
l’usufrutto.
La durata
L’usufrutto, per il fatto che incide in modo assai
consistente, limitandolo, sul diritto di proprietà, non
può essere eterno.
Una caratteristica essenziale dell’usufrutto è infatti
la durata. Il diritto di usufrutto è sempre temporaneo perché solo in tal modo la nuda proprietà conserva un significato e un valore. Questa temporanea
dissociazione tra proprietà e godimento può giustificare il ricorso all’istituto dell’usufrutto in situazioni come quelle sopra esemplificate ed in altre
ancora. Ecco la ragione per cui la legge impone limiti massimi nella durata dell’usufrutto, fissandola
nella vita dell’usufruttuario se costituito in favore
di una persona fisica (art. 979, comma 1, c.c.) e in
non più di trent’anni se in favore di una persona
giuridica (art. 979, comma 2, c.c.).
Nulla vieta di costituire l’usufrutto in favore di una
persona fisica per una durata fissa, sebbene anche in
tal caso esso si estingua con la morte
dell’usufruttuario nel caso in cui questa avvenga
prima della scadenza del termine. L’usufrutto deve
essere comunque costituito per un tempo determinato e qualora non venga pattuito nulla a riguardo la
durata non può eccedere la vita dell’usufruttuario.
Se il diritto di usufrutto spetta a più persone e una
di queste muore, il diritto si concentra in capo ai
superstiti.
L’usufrutto si estingue per:
- la scadenza del termine o per la morte
dell’usufruttuario (art. 979 c.c.);
- per rinuncia dell’usufruttuario;
- per consolidazione, quando cioè l’usufrutto e la
nuda proprietà si riuniscono in capo alla medesima
persona;
- per prescrizione, quale conseguenza del non uso
durato per oltre venti anni;
- per totale perimento della cosa su cui è costituito
(art. 1104 c.c.);
- per decadenza dovuti ad abusi dell’usufruttuario
(art. 1105 c.c.).
I poteri e i doveri dell’usufruttuario
Le minuziose regole sui poteri e i doveri
dell’usufruttuario e, per converso del nudo proprietario, si riportano al principio per cui
all’usufruttuario spetta l’utilizzazione temporanea
Immobili & proprietà 2015
della cosa e al nudo proprietario il diritto di vedersela restituita inalterata al termine dell’usufrutto,
per quanto possibile nella sostanza.
Essenza dell’usufrutto è il diritto a utilizzare la cosa
e a fare propri i frutti naturali (coltivazione del terreno, parti degli animali, ecc.) e civili, come per
esempio gli interessi sul capitale investito o il canone di affitto o di locazione: da ciò si desume che
l’usufruttuario può anche dare ad altri in locazione
o in affitto la cosa, ricevendone il canone.
L’usufruttuario può anche cedere il suo diritto: ciò
significa che egli può, mediante contratto, trasferire
ad altra persona il diritto di usufrutto. Resta tuttavia
la regola fondamentale che l’usufrutto si estinguerà
comunque e in ogni caso al momento della morte
del cedente, ovverosia dell’originario usufruttuario.
La cessione può tuttavia avvenire solo quando non
sia vietata dal titolo costitutivo (per esempio dal
contratto con il quale è stato costituito) o dalla legge (l’usufrutto legale dei genitori non è cedibile).
In caso di cessione è necessario che l’usufruttuario
dia comunicazione (notificazione) al proprietario
della cessione.
All’usufruttuario spetta il possesso sull’unità immobiliare al fine di esercitare su di essa il proprio
diritto (art. 982 c.c.) e pertanto può farne uso diretto
oppure concederla in locazione, percependone il
corrispettivo. Non gli è invece consentito di trasformare il bene modificandone la destinazione
economica che essa aveva al momento della costituzione dell’usufrutto (art. 981 c.c.), mentre gli è
permesso di apportare miglioramenti e addizioni,
intendendosi per tali le opere che pur incorporandosi con il bene, non si uniscono con esso, ma serbano
una propria entità distinta, risolvendosi in un incremento quantitativo: da luogo a addizioni, per
esempio, la sopraelevazione dell’immobile.
I doveri dell’usufruttuario sono comunque strumentali a quello di restituire al termine dell’usufrutto la
cosa inalterata nella sostanza (art. 1001, comma 1,
c.c.). Egli deve provvedere con diligenza alla conservazione e alla manutenzione della cosa, servendosene secondo l’uso al quale sono destinate.
L’art. 981, comma 1, c.c. dispone che
l’usufruttuario ha diritto di godere della cosa, ma
deve rispettarne la destinazione economica. L’art.
986, comma 1, nel disporre che l’usufruttuario può
eseguire addizioni, e pone il limite che esse non ne
alterino la destinazione economica.
L’art. 1001, comma 2, c.c. impone all’usufruttuario
l’obbligo di usare nel godimento della cosa la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176, comma
74
Gli Speciali
Immobili & proprietà
1, c.c.): obbligo che implica l’esigenza di mantenere il godimento nel limite necessario per la conservazione dell’integrità materiale della cosa e della
sua originaria destinazione economica, al fine di
poter restituire la cosa medesima, al termine
dell’usufrutto, inalterata nella sua essenza materiale
e nella sua sostanza economica.
Il limite al diritto che l’usufruttuario ha di godere
della cosa, limite rappresentato dal dovere di rispettarne la destinazione economica, dà luogo ad una
sua obbligazione verso il nudo proprietario.
L’usufruttuario che imprime al bene una destinazione economica diversa da quella in atto al momento in cui è sorto il suo diritto di goderne o che
eseguendo opere su questa, ancorché rimuovibili,
ne alteri la primitiva destinazione fa un uso del bene che non gli è consentito e perciò tiene una condotta che è rilevante ai fini dell’applicazione delle
disposizioni dettate dai commi 1 e 2 dell’art. 1015
c.c. in relazione alla gravità delle conseguenze che
in concreto ne derivino.
La possibile applicazione di queste sanzioni in caso
di mancato rispetto dell’obbligazione che
l’usufruttuario ha verso il nudo proprietario, sanzioni di cui il nudo proprietario ha il potere di provocare l’applicazione e che si traducono nella perdita o modificazione del contenuto del proprio diritto per l’usufruttuario, non esauriscono la valenza
negativa del suo comportamento, non escludono
cioè che l’usufruttuario sia tenuto al risarcimento
del danno in confronto del nudo proprietario, se
dalla alterazione della destinazione economica del
bene sia appunto derivato un danno. Ciò deriva
dall’applicazione dell’art. 1218 c.c.
La presenza di un danno consente poi che il risarcimento ne avvenga in forma specifica, in base
all’art. 2058 c.c., applicabile non solo nel campo
delle obbligazioni per risarcimento del danno da
fatto illecito.
pristino delle coperture impermeabili dei terrazzi).
Ai fini del riparto delle spese valgono i principi di
cui agli artt. 1004 e 1005 c.c., norme che prevedono
che le spese per la manutenzione ordinaria siano a
carico dell’usufruttario, mentre quelle riferite alla
straordinaria manutenzione siano a carico del proprietario, con diritto di costui di richiedere
all’usufruttuario gli interessi legali sulle somme
sborsate per tali spese, individuando altresì, attraverso un’elencazione inequivoca, la natura e la caratteristica delle stesse.
La legge non è però altrettanto chiara nell’indicare
il carattere ordinario o straordinario della spesa,
omettendo anzi di fornirne una precisa definizione
ed a volte nemmeno adottando una terminologia
uniforme al riguardo. Le spese si distinguono con
riguardo alla funzione che l’obbligazione di contribuzione persegue ed al fondamento da cui
l’obbligazione medesima trae: l’oggettiva differenza tra funzione e fondamento delle diverse spese
invero si riverbera sui soggetti ai quali i contributi
vengono imputati, perché alla conservazione sono
interessati i proprietari mentre all’uso (quindi al
godimento) chiunque lo eserciti. Dalla specifica
funzione e dal differente fondamento delle varie
spese si giunge quindi alla qualificazione delle stesse in ordinarie e straordinarie1.
L’intervento straordinario può consistere in una riparazione piuttosto che in una manutenzione, intendendosi per la prima l’opera che rimedia ad una
alterazione già verificatasi nello stato delle cose in
conseguenza dell’uso o per cause naturali, mentre
per la seconda l’intervento che previene
l’alterazione stessa.
Sono viceversa da considerarsi spese ordinarie
quelle di gestione e godimento (ovvero quelle d’uso
o di consumo) e quindi quelle inerenti all’ordinaria
manutenzione ovvero alla funzionalità del bene
comune, cioè finalizzate a garantire il normale uso
Il riparto delle spese
1
Nel corso dell’esercizio del proprio diritto, che deve
avvenire usando la diligenza del buon padre di famiglia, nel rispetto delle regole della tecnica,
l’usufruttuario dovrà provvedere al pagamento delle
imposte, dei canoni, delle rendite fondiarie e degli
altri pesi annuali che gravano sulla cosa, nonché accollarsi le spese e gli oneri relativi alla custodia,
all’amministrazione ed alla manutenzione ordinaria
del bene (ad esempio la sostituzione o la verniciatura
di porte o finestre, la tinteggiatura delle pareti o il riImmobili & proprietà 2015
Si veda sul punto Cass, 19 giugno 2000, n. 8292 secondo cui
“la funzione ed il fondamento delle spese occorrenti per la conservazione del valore capitale, vale a dire per la tutela o per il
ripristino della sua integrità, sono diversi rispetto alla funzione
ed al fondamento delle spese necessarie per il godimento. La
diversità oggettiva della funzione e del fondamento si riverbera
sui soggetti, ai quali i contributi vengono imputati, perché alla
conservazione sono interessati i proprietari; all’uso, chiunque lo
eserciti. Siffatta diversità si rinviene nell’art. 1104 c.c., il quale
distingue con chiarezza due specie di spese comprensive di
tutte le altre: le spese per la conservazione e quelle per il godimento (ovverosia per l’uso). Da questa disposizione si ricava
il principio, che regola il regime della imputazione e della suddivisione delle spese tanto in materia di comunione in generale,
quanto nella specifica materia dei condominio negli edifici”.
75
Gli Speciali
Immobili & proprietà
del bene o ad assicurare la regolare fruizione di un
servizio comune (per esempio le spese d’esercizio
per i consumi del servizio, per l’acquisto del combustibile, per i consumi della forza motrice, per
l’energia elettrica e l’acqua, per la pulizia delle parti comuni e similari).
Tra le spese ordinarie si annoverano quelle di conservazione e quelle invece di godimento. Le spese
di conservazione sono quelle destinate alla manutenzione dell’edificio condominiale e delle cose
comuni strutturali (es. tetto, muri, facciata e simili).
Le spese per la conservazione costituiscono delle
obbligazioni collegate in modo inscindibile alla
proprietà del bene, nelle quali cioè il nesso immediato tra l’obbligo e la cosa non è modificato dalla
interferenza di nessun elemento soggettivo
L’art. 1005 c.c. individua alcune delle principali riparazioni straordinarie, secondo un’elencazione
che, comunque, non è affatto tassativa, secondo il
costante orientamento giurisprudenziale.
La norma citata le definisce come “quelle necessarie ad assicurare la stabilità dei muri maestri e delle
volte, la sostituzione delle travi, il rinnovamento,
per intero o per una parte notevole, dei tetti, solai,
scale, argini, acquedotti, muri di sostegno e di cinta”. Le riparazioni straordinarie possono essere
identificate, più in generale, in quelle che non costituiscono effetto normale, a breve o a medio termine, dell’uso e del godimento della cosa, e consistono nella sostituzione o nel ripristino di parti essenziali della struttura della cosa, il cui costo risulta
sproporzionato rispetto al reddito normale prodotto
dalla cosa medesima.
Soccorrono in tal senso i principi generali , che
individuano negli interventi di riparazione straordinaria quelli di spettanza della proprietà di installazione di un bene, quelli necessari per la manutenzione non abituale degli impianti e delle cose
comuni in genere ovvero tutti quelle miranti a
conservarne nel tempo o a ricostruirne od innovarne la struttura2.
Non bisogna tuttavia dimenticare che qualora le
riparazioni straordinarie siano rese necessarie
2
È proprio avendo riguardo alla specifica funzione ed al differente fondamento delle diverse spese condominiali che si arriva
quindi alla divisione delle stesse in ordinarie e straordinarie. In
sintesi, tra le spese straordinarie si annovereranno le cosiddette spese di proprietà, ossia quelle inerenti all’installazione di un
bene, quelle necessarie per la manutenzione straordinaria degli
impianti e delle cose comuni in genere ovvero tutte quelle miranti a conservare nel tempo o a ricostruire od innovare la struttura del bene o dell’impianto comune (es. quelle di manutenzione straordinaria della guardiola, della facciata e simili).
Immobili & proprietà 2015
dall’inadempimento degli obblighi di ordinaria
manutenzione,
esse
sono
a
carico
dell’usufruttuario.
Il calcolo del valore del diritto reale
di usufrutto
Con l’acquisto del bene gravato di usufrutto cambia
naturalmente il valore dell’immobile, che viene
scontato di un importo che decresce con
l’aumentare dell’età dell’usufruttuario, poiché si
prevede rispetto alla vita media un minore numero
di anni in cui diventerà pieno l’esercizio dei diritti
di proprietà per l’acquirente. L’usufrutto vitalizio
dura fintanto che vive l’usufruttuario e, quindi, il
suo valore si calcola applicando un determinato
coefficiente (relativo all’età dell’usufruttuario) al
risultato del ragguaglio del valore della piena proprietà del bene considerato con il saggio legale
d’interesse. Perciò l’usufrutto “vale” quanto più
l’usufruttuario è giovane.
Età del beneficiario
(anni compiuti)
Coefficiente
Da 0 a 20
Da 21 a 30
Da 31 a 40
Da 41 a 45
Da 46 a 50
Da 51 a 53
Da 54 a 56
Da 57 a 60
Da 61 a 63
Da 64 a 66
Da 67 a 69
Da 70 a 72
Da 73 a 75
Da 76 a 78
Da 79 a 82
Da 83 a 86
Da 87 a 92
Da 93 a 99
95
90
85
80
75
70
65
60
55
50
45
40
35
30
25
20
15
10
Ad esempio dato € 200.000 il valore della piena
proprietà e in 51 gli anni dell’usufruttuario, si ha
che:
- l’usufrutto vale: 200.000 x 1% x 70 = € 140.000
- la nuda proprietà vale (specularmente): €
60.000
Nella tabella qui sotto, è possibile vedere che
l’usufrutto di un 51enne vale il 70% del valore
della piena proprietà.
76
Gli Speciali
Immobili & proprietà
Età del
beneficiario
(anni
compiuti)
Coefficiente
Valore
dell’usufrutto
Valore
della
nuda
proprietà
Da 0 a 20
Da 21 a 30
Da 31 a 40
Da 41 a 45
Da 46 a 50
Da 51 a 53
Da 54 a 56
Da 57 a 60
Da 61 a 63
Da 64 a 66
Da 67 a 69
Da 70 a 72
Da 73 a 75
Da 76 a 78
Da 79 a 82
Da 83 a 86
Da 87 a 92
Da 93 a 99
95
90
85
80
75
70
65
60
55
50
45
40
35
30
25
20
15
10
95
90
85
80
75
70
65
60
55
50
45
40
35
30
25
20
15
10
5
10
15
20
25
30
35
40
45
50
55
60
65
70
75
80
85
90
Le regole in condominio
La legge di riforma della disciplina condominiale
(L. n. 220/2012) ha apportato notevoli innovazioni
riguardo ai rapporti che intercorrono tra il condominio e l’usufruttuario ed il nudo proprietario.
La prima modifica riguarda l’avviso di convocazione dell’assemblea, nel senso che il sesto comma
dell’art. 1136 c.c. ora specifica che “l’assemblea
non può deliberare se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati”. Tra
questi ci sono sia l’usufruttuario che il nudo proprietario in quanto condomini a tutti gli effetti e
come tali tenuti, al pari degli altri, a concorrere alla
formazione della volontà del condominio.
È fuori dubbio quindi che sia l’uno che l’altro rientrino tra quegli aventi diritto che devono essere
convocati in assemblea. Il particolare rapporto che
lega l’uno all’altro rispetto alla proprietà e all’uso
del bene è certamente opponibile al condominio
che, nella persona del suo amministratore, non può
ignorarlo.
L’usufruttuario ha il diritto di partecipare
all’assemblea e di esprimere il proprio voto negli
affari che riguardano l’ordinaria amministrazione e
il semplice godimento delle cose e dei servizi comuni. Spettano invece al nudo proprietario tutte le
decisioni riguardanti le innovazioni, le ricostruzioni
e le manutenzioni straordinarie delle parti comuni
dell’edificio e pertanto anch’egli deve essere convocato in assembla.
Contrariamente a quanto accade per i conduttori
degli immobili concessi in locazione, dove l’onere
Immobili & proprietà 2015
della loro convocazione in assemblea fa capo esclusivamente al proprietario del bene locato,
l’usufruttuario ed il nudo proprietario devono essere
obbligatoriamente
convocati
a
cura
dell’amministratore. La presenza del conduttore in
assemblea è peraltro facoltativa e l’espressione del
voto da parte sua avviene in sostituzione di quello
che invece dovrebbe manifestare il proprietario.
Quella dell’usufruttuario è invece indispensabile
per la formazione delle maggioranza necessarie a
rendere valida la costituzione dell’assemblea e per
poter deliberare sugli argomenti che la legge attribuisce
alla
sua
esclusiva
competenza.
L’usufruttuario, in difetto di delega regolarmente a
lui conferita, non può essere sostituito dal nudo
proprietario nelle decisioni riguardanti spese o interventi che la legge pone nella sua esclusiva competenza. Né lui può sostituire il nudo proprietario,
qualora l’assemblea sia chiamata a deliberare di
opere di straordinaria manutenzione e di ricostruzione dei beni o dei servizi comuni. Ognuno di loro
è infatti titolare di un diverso ed autonomo diritto
che, seppur esercitatile in funzione della medesima
unità immobiliare, li legittima da un lato a partecipare - anche contestualmente - all’assemblea e
dall’altro ad esprimere la propria volontà non già in
sostituzione dell’uno o dell’altro, bensì in assoluta
autonomia e su materie diverse.
Neppure è data facoltà all’assemblea di introdurre
deroghe ai criteri di imputazione e di ripartizione
che la legge ha fissato per tali due diversi soggetti:
le spese a carico dell’usufruttuario devono essere
solo da lui deliberate, non potendo l’assemblea decidere invece diversa soluzione.3 Il nudo proprietario non è tenuto neanche in via sussidiaria o solidale al pagamento delle spese condominiali, né può
essere stabilita dall’assemblea una diversa modalità
di imputazione degli oneri stessi in deroga alla legge. Il pagamento degli oneri costituisce una obbligazione propter rem per cui la qualità di debitore
3
Come tutte le obbligazioni, nelle quali la qualità di debitore dipende da quella di proprietario o di titolare di altro diritto reale che traggono, cioè, origine dal diritto su una cosa - anche le
spese alle quali è tenuto l’usufruttuario si configurano come
obbligazioni propter rem, con la conseguenza che
all’assemblea dei condomini non è consentito interferire sulla
imputazione e sulla ripartizione. Per giurisprudenza consolidata, invero, le attribuzioni dell’assemblea in ordine alla ripartizione delle spese per le parti comuni sono circoscritte alla verifica
ed alla applicazione in concreto dei criteri fissati dalla legge, e
non comprendono il potere di introdurre deroghe ai criteri medesimi, atteso che tali deroghe, venendo ad incidere sui diritti
individuali dei singoli condomini, possono conseguire soltanto
ad una convenzione (Cass. 15 marzo 1995, n. 3042).
77
Gli Speciali
Immobili & proprietà
dipende da quella di proprietario o titolare di altro
diritto reale sulla cosa e che le norme relative alla
ripartizione delle spese tra usufruttuario e nudo proprietario sono opponibili al condominio, il quale anzi
è tenuto ad osservarle anche in sede di approvazione
dei bilanci, distinguendo le spese a carico del proprietario da quelle a carico dell’usufruttuario.
La delibera con cui il condominio approva il preventivo o il rendiconto per le spese, ordinarie e
straordinarie, deve, a pena di invalidità per contrarietà alle norme che disciplinano i diritti e gli obblighi dei partecipanti al condominio, distinguere
analiticamente quelle occorrenti per l’uso da quelle
occorrenti per la conservazione delle parti comuni.
In tal modo è possibile, se vi sono usufruttuari, ripartire tra i medesimi ed i nudi proprietari dette
spese in base alla natura delle stesse, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1004 e 1005 c.c. con una mera operazione esecutiva4.
Per quanto riguarda l’espressione del voto, il sesto
comma dell’art. 67 disp. att. c.c. conferma che
l’usufruttuario ha il diritto di esprimere il proprio
voto negli affari che riguardano l’ordinaria amministrazione e il semplice godimento delle cose e dei
servizi comuni. Spettano invece al nudo proprietario tutte le decisioni riguardanti le innovazioni, le
ricostruzioni e le manutenzioni straordinarie delle
parti comuni dell’edificio.
Il nuovo settimo comma del citato art. 67 disp. att.
c.c. però prevede un’eccezione, nel senso che il diritto di voto spetta comunque all’usufruttuario qualora il nudo proprietario si rifiuti di eseguire le ripa4
L’assemblea deve distinguere analiticamente le spese per
l’uso delle parti comuni (per la pulizia e la illuminazione delle
scale, degli atri e dei vestiboli, per il compenso al portiere e
all’amministratore; per l’esercizio degli impianti dell’ascensore,
del riscaldamento centralizzato e dell’aria condizionata etc.) e
le spese per la conservazione (manutenzione ordinaria e
straordinaria). L’obbligo di contribuzione a carico dei diversi
soggetti (gli usufruttuari ed i nudi proprietari) deriva per legge in
ragione della natura stessa della spesa. Anche se nel verbale
dell’assemblea non vengono specificamente indicati i soggetti
obbligati, l’imputazione e la ripartizione sono in re ipsa, in dipendenza della funzione e del fondamento della spesa.
Posto che, per legge, le spese devono essere imputate e ripartite secondo la funzione e il fondamento, in sede di approvazione del bilancio l’assemblea deve analiticamente distinguere
le spese per l’uso da quelle per la conservazione. Non è necessario, tuttavia, che debba anche ascriverle espressamente
ai diversi soggetti obbligati, essendo la imputazione implicita e
connessa con l’oggetto. Deve tuttavia negarsi l’invalidità della
delibera che, distinte analiticamente le spese secondo il fondamento e la funzione, non individua in modo espresso i soggetti tenuti a contribuire. Essendo la imputazione e la ripartizione fissate direttamente dalla legge, ascriverle ai soggetti obbligati diventa una mera operazione esecutiva (Cass. 21 novembre 2000, n. 15010)
Immobili & proprietà 2015
razioni del bene poste a suo carico ovvero ne ritardi
l’esecuzione senza giustificato motivo. In simile situazione, peraltro prevista espressamente dall’art.
1006 c.c., gli è data facoltà di farle eseguire a proprie spese e di richiederne il rimborso alla cessazione dell’usufrutto; del pari dicasi nel caso di migliorie (art. 985 c.c.) e addizioni (art. 986 c.c.). In
questi casi il legislatore della riforma, oltre al rimborso al termine dell’usufrutto, correttamente gli attribuisce anche il diritto di voto in assemblea in vece del nudo proprietario: è importante però che di
tutto ciò ne venga data comunicazione
all’amministratore affinché provveda ad inviare
l’avviso di convocazione sia all’usufruttuario che al
nudo proprietario.
Al di fuori di tale particolare fattispecie,
l’usufruttuario non può essere sostituito dal nudo
proprietario nelle decisioni riguardanti spese o interventi che la legge pone nella sua esclusiva competenza, salvo che gli sia conferita specifica delega.
Né lui può sostituire il nudo proprietario, qualora
l’assemblea sia chiamata a deliberare di opere di
straordinaria manutenzione e di ricostruzione dei
beni o dei servizi comuni. Ognuno di loro è infatti
titolare di un diverso ed autonomo diritto che, seppur esercitatile in funzione della medesima unità
immobiliare, li legittima da un lato a partecipare anche contestualmente - all’assemblea e dall’altro
ad esprimere la propria volontà non già in sostituzione dell’uno o dell’altro, bensì in assoluta autonomia e su materie diverse.
Neppure è data facoltà all’assemblea di introdurre
deroghe ai criteri di imputazione e di ripartizione
che la legge ha fissato per tali due diversi soggetti:
le spese a carico dell’usufruttuario devono essere
solo da lui deliberate, non potendo l’assemblea decidere invece diversa soluzione.
A carico dell’usufruttuario sono le spese ed, in genere, gli oneri relativi alla custodia, amministrazione e
manutenzione ordinaria della cosa, nonché le riparazioni straordinarie che si sono rese necessarie a seguito dell’inadempimento degli obblighi di ordinaria
amministrazione. Grava così sull’usufruttuario
l’obbligo di contribuire alle spese condominiali relative alla manutenzione ordinaria delle cose e dei servizi comuni, come il funzionamento dell’impianto di
riscaldamento e le piccole riparazioni all’ascensore in
quanto lavori di modesta entità e di costo non elevato
in relazione al reddito astratto dell’appartamento.
All’usufruttuario spetti il diritto di voto in tema di
nomina dell’amministratore e di determinazione del
suo compenso, mentre in caso di modifica delle tabel78
Gli Speciali
Immobili & proprietà
le millesimali è richiesta anche la presenza del nudo
proprietario.
Sono a carico del nudo proprietario tutte quelle spese che non siano prevedibili come effetto normale
dell’uso e del godimento della cosa, che consistano
nella sostituzione o nel ripristino di parti essenziali
della struttura della cosa, il cui costo risulti sproporzionato rispetto al reddito normale prodotto dalla cosa stessa.
Tale distinta legittimazione comporta che l’avviso
di convocazione debba essere inviato al nudo proprietario o all’usufruttuario a seconda che l’ordine
del giorno interessi l’uno o l’altro. L’errata convocazione dell’uno e dell’altro potrebbe portare alla
annullabilità delle eventuali delibere assunte.
Tutto ciò vale però ai fini della manifestazione del
voto in assemblea, nonché nel rapporto interno di
debito-credito tra nudo proprietario e usufruttuario.
Nel rapporto con il Condominio, la vera novità della riforma consiste invece nel prevedere la solidarietà tra l’uno e l’altro per il pagamento di quanto
da loro complessivamente dovuto al condominio. Il
nuovo legislatore, con l’aggiunta di un ultimo
comma all’art. 67 in esame, ha inteso in tal modo
porre al sicuro il diritto di credito del condominio,
legittimato ora a richiedere all’uno o all’altro
l’intera quota di spettanza delle loro unità immobiliare di riferimento5.
5
Il nuovo principio dettato dalla legge di riforma n. 220/2012 è
senza dubbio innovativo perché anche recentemente la Suprema Corte di Cassazione aveva avuto modi di affermare che
il nudo proprietario non è tenuto neanche in via sussidiaria o
solidale al pagamento delle spese condominiali, né può essere
stabilita dall’assemblea una diversa modalità di imputazione
degli oneri stessi in deroga alla legge. Il pagamento degli oneri
costituisce una obbligazione propter rem per cui la qualità di
debitore dipende da quella di proprietario o titolare di altro diritto reale sulla cosa e che le norme relative alla ripartizione delle
spese tra usufruttuario e nudo proprietario sono opponibili al
condominio, il quale anzi è tenuto ad osservarle anche in sede
di approvazione dei bilanci, distinguendo le spese a carico del
proprietario da quelle a carico dell’usufruttuario (Cass. 16 febbraio 2012 n. 2336; Cass. 28 luglio 2008, n. 21774).
Immobili & proprietà 2015
79
Gli Speciali
Immobili & proprietà
Modi alternativi di acquisto.
Il rent to buy
di Augusto Cirla - Avvocato in Milano
Attraverso programma di preparazione all’acquisto si diventa proprietari dell’immobile versando un canone
maggiorato. È il sistema del “rent to buy”, una vera e propria compravendita dove il cuore di tutto il sistema
è il contratto preliminare.
Le funzione del contratto di rent to buy
Il crollo del mercato della compravendita immobiliare ha assunto dimensione sempre maggiori e le
cause vanno anche ricercate nella stretta di vite imposta dagli istituti di credito nell’erogazione dei finanziamenti per l’acquisito di un immobile. Vendere oggi un immobile comporta difficoltà nettamente
maggiori di quelle che si incontravano anni addietro, quando invero l’acquisto del bene in proprietà,
soprattutto per le abitazioni, era diventato la logica
risposta al fallimento della normativa vincolistica
dettata dalla L. n. 392/1978. Il fenomeno non risparmia nemmeno la compravendita di immobili ad
uso “diverso dall’abitazione” perché l’imprenditore,
forse ancor più del privato, risente della crisi economica che sta interessando l’intero continente europeo: può dirsi invero che la sfiducia nella possibilità
di un rapido superamento della crisi ha innegabilmente allontanato la potenziale clientela del mercato
immobiliare non solo dall’affare, ma anche dalla ricerca dell’affare1.
Il che impone la ricerca di strumenti diversi per
consentire a chi è in momentanea difficoltà economica di comprare l’immobile dove abitare o svolgere la propria attività lavorativa. Può essere che non
si riesca ad ottenere un mutuo perché per il momento il lavoro è ancora precario oppure che non si
possa acquistare una nuovo immobile se non dopo
avere venduto libero quello che si occupa in proprietà.
Occorre, in buona sostanza, individuare nuovi
1
Sul punto vedasi un’interessante analisi della tematica di F.
Tassinari, in I Contratti, 2014, 822.
Immobili & proprietà 2015
strumenti contrattuali che siano in grado di attirare
l’attenzione, da un lato, del maggior numero di potenziali acquirenti che, diversamente, neppure si affaccerebbero sul mercato perché impossibilitati ad
acquistare; dall’altro dei potenziali venditori, disposti a privarsi da subito della disponibilità del bene a
fronte di una promessa di acquisto che comunque li
libera da subito da oneri e quant’altro.
La formula del rent to buy piace sempre di più perché è un pratico sistema che consente a chi vuole
acquistare il bene immobile di cominciare a condurlo in locazione verso un canone comprensivo
anche di una quota destinata a costituire un acconto
sul prezzo di vendita, che da subito viene determinato in modo immutabile.
È un nuovo tipo di contratto in cui si fondono un
contratto di locazione e un preliminare di vendita di
un immobile, che ha trovato specifico riconoscimento con il D.L. n. 133/2014 (c.d. “sblocca Italia”) convertito in L. n. 164/2014.
I problemi si risolvono dunque con la stipula di un
contratto che preveda, da un lato, la concessione in
locazione di un immobile per il rituale periodo previsto dalla legge verso un corrispettivo maggiore
(normalmente del 15-20%) rispetto a quello di mercato, che in parte però viene conteggiato come acconto sul prezzo di vendita del bene locato);
dall’altro l’impegno del proprietario locatore di
vendere l’immobile ad un prezzo già stabilito al
momento della sottoscrizione del contratto, previa
determinazione della quota di canone che mensilmente verrà conteggiata come acconto sul prezzo
stesso. Non si tratta di una nuova figura di contratto
misto tra locazione e compravendita, bensì di un
contratto nuovo che ricomprende due modelli contrattuali tipici che mantengono le rispettive caratte80
Gli Speciali
Immobili & proprietà
ristiche e che trovano nella causa, appunto il trasferimento della proprietà del bene al conduttore, il loro unico collegamento.
Trattasi di una formula che sta sempre più trovando
applicazione a causa della difficoltà da parte del
normale cittadino di ottenere finanziamenti
all’acquisto, consentendogli di rinviare ad un momento futuro gli effetti finali dell’operazione di
compravendita. Da un lato permette quindi al potenziale acquirente di ottenere immediatamente la
disponibilità dell’unità immobiliare e di recuperare
per il pagamento del corrispettivo dell’acquisto tutto o parte di quanto versato per il godimento
dell’immobile; facilita nel contempo il potenziale
venditore nell’individuazione dell’acquirente, mettendo subito a reddito l’immobile.
C’è un potenziale venditore che, al fine di bilanciare lo svantaggio derivante dal proprio bisogno di
vendere rapidamente, deve trovare un compratore
con un urgente bisogno abitativo, senza avere la liquidità necessaria per comprare e non trovandosi
nelle condizioni di potere essere finanziato da istituti di credito per l’importo occorrente all’acquisto.
Questo potenziale compratore deve essere convinto
che è possibile, di fronte ad un venditore che ha bisogno di vendere in tempi rapidi, acquistare con
adeguata sicurezza giuridica tramite versamenti periodici corrispondenti a poco più di un ordinario
canone di locazione.
È una scelta contrattuale capace di consentire una
forma di finanziamento dell’acquisto, alternativo a
quello offerto dagli ordinari canali bancari di accesso al credito ipotecario o fondiario, oggi scarsamente disponibili.
La formula si adatta alle più svariate casistiche. Può
essere il privato a sceglierla, qualora decida di vendere il proprio immobile per acquistarne uno più
adatto alle proprie esigenze accollandosi un mutuo
e di accettare un futuro compratore che, entrando
subito nella detenzione del bene, gli verserà un importo mensile maggiore rispetto a quello di quello
di mercato sino a quando potrà accedere ad un finanziamento bancario e deciderà quindi di versare
il saldo del prezzo già pattuito. Più frequente il caso
del privato che acquista da un costruttore, interessato questo ad alleviare così i problemi
dell’invenduto e ad ampliare la potenziale clientela,
recuperando in tal modo una fascia media di mercato in quanto facilitata con questa formula
nell’acquisto della casa.
In entrambe i casi, l’acquirente potrà, tra l’altro,
dimostrare alla banca la sua capacità di fare fronte
Immobili & proprietà 2015
al pagamento della rata di mutuo, avendo egli, in
adempimento del contratto di “rent to buy”, puntualmente versato un importo mensile pari o addirittura superiore a quella che si appresta a richiedere: per la banca ci saranno dunque tutte le condizioni per concedere il mutuo, evitando ulteriori garanzie e senza coinvolgere terzi soggetti garanti.
Si è di fronte ad una operazione unitaria per mezzo
della quale un immobile viene concesso in locazione con la contestuale previsione di un impegno alla
successiva cessione dell’immobile ad un prezzo
prefissato dal quale andranno man mano dedotti gli
acconti già versati in uno con il canone, seppur separatamente quantificati rispetto ad esso. È un contratto di locazione con opzione all’acquisto, dove
viene concesso al conduttore la facoltà di comprare
l’immobile locatogli entro una determinata data e
ad un prezzo fisso ed invariabile già indicato al
momento della stipula del contratto.
Il punto di incontro tra le esigenze dell’una e
dell’altra parte può essere il più vario, dovendosi da
subito
decidere
il
prezzo
complessivo
dell’eventuale vendita, l’ammontare delle rate mensili e dunque la durata dei pagamenti stessi prima di
addivenire alla conclusione della compravendita,
nonché l’evoluzione futura del merito creditizio del
compratore, che può fare conto su una richiesta di
finanziamento di minore importo e magari con
condizioni più favorevoli oppure confidare in un
consolidamento della sua posizione lavorativa al
momento precaria.
Durante la fase preparatoria all’acquisto il futuro
acquirente si impegna a versare al venditore un importo mensile, di cui una parte viene considerata
come canone di locazione effettiva (e quindi a fondo perduto) e l’altra parte viene invece accantonata,
andando così a creare un deposito in conto di futuro
acquisto che, sommato all’acconto iniziale, andrà
poi scalato dal valore della compravendita (generalmente circa il 15% del valore dell’immobile).
L’opzione di base che il legislatore ha messo a disposizione dell’autonomia privata per realizzare gli
interessi di cui sopra si è detto è costituita da un
contratto di locazione regolato dalle norme dettate
dalla L. n. 431/1998 nel quale si innesta un contratto di compravendita ( oppure preliminare di compravendita) idoneo a computare in conto ed in diminuzione del prezzo pattuito tutto o parte dei canoni precedentemente versati.
Sono le parti che devono definire, in sede di contrattazione, le quote dei canoni da imputarsi al corrispettivo della locazione, che il concedente dovrà
81
Gli Speciali
Immobili & proprietà
poi restituire in caso di mancato esercizio del diritto
di acquistare la proprietà del bene entro il termine
stabilito (art. 23, 1-bis, legge di conversione n.
164/2014).
Alla fine del programma, al momento del rogito
all’acquirente resterà da saldare il restante prezzo
con ricorso ad un mutuo che avrà liberamente scelto (generalmente circa l’85% del valore
dell’immobile) e che gli verrà concesso con estrema tranquillità di copertura: sarà infatti semplice
per l’acquirente dimostrare all’istituto di credito
erogante di essere in grado di fare fronte comodamente al pagamento della rata pattuita, per il semplice fatto che durante il periodo locativo è stato in
grado di puntualmente versare, attraverso il meccanismo del rent to buy, una rata periodica pari o addirittura superiore a quella del mutuo che andrà a
chiedere. Per la banca ci saranno dunque tutte le
condizioni idonee per concedere il finanziamento,
senza necessità di fare sottoscrivere anche altre assicurazioni ovvero di coinvolgere terzi soggetti garanti.
I vantaggi del rent to buy per l’acquirente possono
così riassumersi:
- acquisto di una casa con pagamento dilazionato,
ottenendone subito la disponibilità;
- versamento di un canone di locazione comprensivo di una quota in acconto sull’acquisto;
- maggiora facilità nella richiesta del mutuo, riducendosi l’importo da farsi erogare;
- posticipazione della data del rogito, con possibilità nel contempo di vendere altro appartamento di
proprietà;
- posticipazione di tutte le spese che riguardano il
mutuo e il rogito notarile.
Quanto al venditore, si devono tenere presente da
un lato le difficoltà nelle vendite in conseguenza
della crisi in cui versa il mercato immobiliare, con
particolare riferimento a quelle che si incontrano
per ottenere l’erogazione di mutui da parte delle
banche; dall’atro c’è un innegabile aumento potenziale della clientela, posticipando la data del rogito
e congelando il prezzo della vendita in quanto in tal
modo si recupera la fascia media di mercato, facilitata nell’acquisto della casa senza ricorrere da subito al mutuo. A ciò aggiungasi l’immediata messa a
rendita dell’immobile attraverso la locazione e il
recupero più rapido dell’investimento, anche attraverso il risparmio sui costi di manutenzione e di
conservazione dell’immobile da subito locato.
Con la formula del “rent to buy” il venditore non
assume affatto la figura del finanziatore
Immobili & proprietà 2015
dell’acquirente (come invero potrebbe accadere
nella figura della locazione a riscatto), ma si limita
ad agevolare l’acquirente nella tempistica del rogito, congelando il prezzo della vendita ed ampliando
in tal modo la potenziale proprio clientela. Il “rent
to buy” permette dunque ai venditori di recuperare
la fascia media e di non tenere invenduti gli immobili: il che significa risparmio sui costi di manutenzione e recupero dell’investimento fatto attraverso
il percepimento di un canone di locazione e di un
quid in più mensile in acconto sulla vendita per la
quale il conduttore già si è prenotato.
Il conduttore che decide di esercitare l’opzione di
acquisto non necessita, a questo punto, di alcun accertamento dell’avvenuta conclusione del contratto,
in quanto gli effetti della vendita decorrono dal
momento in cui il locatore-promittente venditore riceve l’accettazione della proposta irrevocabile di
vendita già contenuta nell’opzione, secondo il meccanismo generale di formazione del contratto a distanza di cui agli artt. 1326 ss. c.c. Sono naturalmente salve le diverse pattuizioni concordate tra le
parti in contratto, quali appunto l’automatica conclusione, anziché direttamente della vendita, del
contratto preliminare di compravendita con indicazione preventiva del termine, successivo alla accettazione della proposta, entro la quale dovrà essere
stipulato l’atto definitivo a cura del notaio scelto
dall’una o dall’altra parte contraente. Nemmeno è
esclusa la possibilità di prevedere da subito acconti
sul prezzo o anche caparre confirmatorie, da versarsi prima delle vendita e tenuti ben distinti dai canoni di locazione pattuiti.
Il rent to buy può avere ad oggetto qualsiasi immobile, appartamenti, autorimesse, cantine, negozi, uffici, capannoni e terreni, compresi gli immobili in
costruzione, per i quali è necessario cancellare
l’ipoteca ed è possibile prevedere l’accollo del mutuo restante.
La forma del contratto
Con l’art. 23 del decreto “Sblocca Italia” n. 133/14
il rent. to buy diventa un contratto regolamentato ed
esce dunque dal campo della totale aticipicità che lo
aveva dapprima caratterizzato. Trattasi del “contratto di godimento in funzione della successiva
alienazione del bene” (così come definito dal citato
art. 23 del D.L. n. 133/2014), da stipularsi per atto
pubblico o per scrittura privata autenticata.
È innegabile la necessità che il “contratto di godimento in funzione della successiva alienazione di
82
Gli Speciali
Immobili & proprietà
immobili” contenga gli elementi contrattuali essenziali del futuro ed eventuale atto traslativo, a cominciare dalla determinazione del corrispettivo dovuto, come si ricava ancora dal richiamo all’art.
2932 c.c.
La delicatezza nella realizzazione di questo schema
contrattuale consiste nella definizione delle clausole che collegano i due diversi negozi al fine di non
far perdere a ciascuno di essi il loro carattere di tipicità e di creare un sistema di paracadute ed ammortizzatori che consenta alle parti di gestire comunque senza contenzioso eventuali situazioni critiche che si potrebbero verificare in un arco temporale cha va, nel suo normale percorso, dalla stipula
del contratto alla conclusione della compravendita.
Essenziale, per il funzionamento del “meccanismo”
negoziale, è altresì la predeterminazione della parte
di canone imputabile a corrispettivo, in assenza della quale si deve pensare di essere fuori dalla fattispecie di cui all’art. 23 del D.L. n. 133/2014.
Il contratto viene trascritto nei registri immobiliari
e diventa dunque opponibile a chiunque. In deroga
a quanto previsto dal codice civile (art. 2645 bis), il
nuovo decreto eleva l’efficacia della trascrizione, in
genere triennale, a tutta la durata del contratto e
comunque ad un periodo non superiore a dieci anni,
termine quest’ultimo entro il quale, sotto pena di
perdita di ogni effetto della trascrizione stessa, deve
intervenire l’atto definitivo di compravendita
dell’immobile.
Assume particolare rilievo la stipula del contratto a
mezzo di atto pubblico, in quanto, in forza delle
modifiche apportate dalla Legge n. 80/2005 all’art.
474 c.p.c., l’atto pubblico, a differenza che alla
scrittura privata autenticata, costituisce titolo esecutivo valido anche per procedere allo sgombero
dell’immobile, nel caso in cui il contratto di rent to
buy si risolva per inadempimento del conduttorefuturo promissario acquirente.
Il rilascio del bene da parte dell’occupante inadempiente è infatti uno degli aspetti più critici del rent
to buy, nel senso che è proprio la liberazione
dell’immobile che può penalizzare il promissario
venditore per i lunghi tempi in cui questa può in
concreto avvenire. Il proprietario dell’immobile,
nonostante i vantaggi che gli possono derivare dal
scegliere la formula del rent to buy, deve avere le
più ampie assicurazioni che, in caso di inadempimento , l’immobile gli venga restituito in tempo
brevi.
È pur vero che al mancato esercizio della facoltà di
acquisto da parte del conduttore, ovvero alla risoluImmobili & proprietà 2015
zione del contratto per mancato pagamento dei canoni, dovrebbe seguire l’immediata riconsegna del
bene locato, ma così non sempre accade: il che impone al locatore-promittente venditore di dare corso
alle opportune azioni giudiziarie per ottenere la liberazione dell’immobile, con tempi a volte molto
lunghi e con notevoli costi.
Innanzi tutto, il proprietario locatore non può avvalersi del mezzo del procedimento sommario (e rapido) dell’intimazione dello sfratto per ottenere dal
giudice un titolo esecutivo idoneo a legittimare poi
lo sgombero coatto dell’immobile, non essendo il
rent to buy un contratto di locazione e nemmeno
potendosi applicare ad esso, in via analogica, la
specifica disciplina dettato per la locazione, avendo
detto procedimento natura eccezionale. Né è pensabile imporre al malcapitato concedente di ricorrere
al giudice con le vie ordinarie, visto il lungo tempo
che dovrebbe attendere prima di ottenere il provvedimento di condanna al rilascio in danno
dell’occupante.
Sorgono a questo punto alcune problematiche legate all’atto pubblico quale titolo per il rilascio, nel
senso che si richiede al notaio rogante la massima
attenzione nella predisposizione dell’atto pubblico,
che deve essere il più possibile puntuale
nell’evidenziare gli obblighi di consegna e di restituzione del bene al fine di fondare poi l’azione esecutiva sul titolo negoziale.
Al notaio rogante è richiesta la massima attenzione
nella predisposizione dell’atto, con particolare riferimento agli obblighi di consegna e di riconsegna
del bene, così da dare pieno fondamento all’azione
esecutiva che andrà poi ad intraprendere il promittente venditore.
E così, nello specifico, nell’atto pubblico deve essere indicato, tra l’altro, il termine della consegna del
bene al conduttore e quello entro il quale dovrà riconsegnalo nel caso in cui la compravendita, per
qualsiasi motivo, non vada a conclusione. Non può
mancare l’esatta descrizione del bene consegnato e
lo stato i cui lo stesso dovrà essere consegnato,
nonché l’indicazione della persona a cui viene consegnato il bene e che dovrà poi provvedere alla riconsegna, anche se tale obbligo incombe invero su
chiunque si trovi nella detenzione dell’immobile
nel momento in cui il titolo viene coattivamente
eseguito. Ai fini della prova dell’inadempimento,
va precisato che, in caso di mancato pagamento dei
canoni o di esercizio della facoltà di acquisto nei
termini stabiliti, il contratto è risolto di diritto ai
sensi dell’art. 1456 c.c. Non meno importante è la
83
Gli Speciali
Immobili & proprietà
misura del corrispettivo mensile che il conduttore
dovrà versare, con precisa indicazione dell’importo
da imputarsi a canone di locazione e di quello invece da considerarsi come acconto del prezzo di vendita, se ed in quanto questa avverrà. Da ultimo, assumono rilievo anche gli obblighi del futuro promissario acquirente sin tanto che occuperà
l’immobile prima di manifestare la sua volontà di
acquistarlo.
La clausola risolutiva espressa
La tutela del venditore trova maggiore spazio con la
previsione, nel contratto, della clausola risolutiva
espressa del contratto stesso a fronte di un predeterminato inadempimento da parte del conduttorepromissario acquirente2. Una volta ritenuto, come si
deve ritenere, che l’atto pubblico costituisce di per
sé titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c., la previsione
nel contratto stipulato in tale forma di una clausola
risolutiva espressa legittima il concedente a procedere esecutivamente nei confronti dell’inadempiente
per ottenere la liberazione dell’immobile, senza dover sopportare le lungaggini di un processo di cognizione ordinario, non necessitando alcun accertamento da parte del giudice della gravità o meno
dell’inadempimento3.
La clausola risolutiva espressa di cui all’art. 1456
c.c. rappresenta infatti una forma di autotutela privata in relazione alla quale il prodursi dell’effetto
risolutivo è subordinato alla sola dichiarazione
dell’avente diritto di avvalersene e non anche alla
prova della gravità dell’inadempimento. Questo deve pur sempre essere imputabile alla controparte,
quanto meno a titolo di colpa che, ai sensi dell’art.
2
Un recente studio effettuato dal Consiglio Nazionale Notarile
(n. 283 del 28 maggio 2015) ha configurato nel contratto di rent
to buy redatto nella forma dell’atto pubblico come titolo esecutivo sia per l’espropriazione forzata e sia per l’esecuzione specifica per consegna o rilascio. In tale elaborato si sostiene che
“se il contratto di rent to buy ha la forma dell’atto pubblico e
contiene la clausola risolutiva espressa nel nostro sistema processuale esiste la possibilità per il proprietario-concedente
dell’immobile di agire legittimamente in sede esecutiva stragiudiziale … (omissis) e dunque, senza passare per un preventivo
accertamento giurisdizionale, sia esso a cognizione piena o
sommaria, del suo diritto”.
1218 c.c., comunque si presume. Spetterà semmai
al debitore provare, nell’instaurando giudizio di
opposizione all’esecuzione, che l’assenza di sua
colpa nel verificarsi dell’inadempimento.
Il creditore deve solo dimostrare, mediante il titolo,
l’esistenza del vinculum iuris e l’attualità del suo
credito, mentre il debitore che contesti il diritto di
procedere ad esecuzione forzata, assumendo che
non esiste mora o inadempimento colpevole, deve
dedurre tale fatto impeditivo come causa petendi
dell’opposizione e darne prova.
Quando la risoluzione del contratto si verifica di diritto a seguito della dichiarazione del creditore di
volersi avvalere della clausola risolutiva espressa,
la valutazione della incidenza dell’inadempimento
sull’intero contratto è stata già compiuta dalle parti,
la cui autonomia privata ha instaurato il collegamento tra i singoli inadempimenti considerati nella
clausola e la risoluzione dell’intero contratto, con la
conseguenza che tale collegamento non può essere
contestato né ai fini dell’accertamento giudiziale
sull’avvenuta risoluzione né agli effetti del risarcimento del danno.
Peraltro, non è esclusa la possibilità astratta di operatività della clausola risolutiva anche prima della
scadenza del termine di obbligazione al cui inadempimento è ricollegato l’effetto risolutivo, o, più
precisamente, la facoltà delle parti di provocare la
risoluzione nel caso in cui sia certo già prima della
scadenza di quel termine che la obbligazione non
potrà essere adempiuta. L’eventuale intempestività
della comunicazione stragiudiziale di volersi avvalere della risoluzione non preclude la possibilità di
successiva e tempestiva reiterazione, dopo la scadenza del termine di adempimento, di questa dichiarazione anche nel giudizio di merito4.
La risoluzione non avviene immediatamente, per il
solo verificarsi dell’ipotesi di inadempimento prevista dalla clausola risolutiva, ma per la dichiarazione di volersene avvalere. In altri termini,
l’inadempimento non esplica di per sé l’effetto risolutivo, ma lascia pur sempre sussistere la facoltà di
scelta, nell’altra parte, fra l’agire per ottenere comunque l’adempimento o provocare la risoluzione
3
Simile principio non può trovare però applicazione nel caso in
cui oggetto del contratto di rent to buy sia un immobile da adibirsi ad uso di abitazione, trovando ostacolo l’applicazione della
clausola risolutiva espressa nella possibilità per il conduttore di
sanare la morosità ex art. 55 L. n. 392/1978, sanatoria pacificamente ritenuta ammissibile anche in presenza, nel contratto,
di una clausola risolutiva espressa , trattandosi di norma dettata da esigenze di ordine pubblico e dunque inderogabile dalle
private pattuizioni.
Immobili & proprietà 2015
4
La dichiarazione del creditore della prestazione inadempiuta
di volersi avvalere dell’effetto risolutivo di diritto ex art. 1456
c.c. non deve essere necessariamente contenuta in un atto
stragiudiziale precedente alla lite, ben potendo invece manifestarsi legittimamente con un atto di citazione o con altro atto
processuale ad esso equiparato (Cass. 4 maggio 2005, n.
9275), quale può essere ad esempio, l’atto di precetto.
84
Gli Speciali
Immobili & proprietà
di diritto del contratto5.
Il che non significa che non sia ammessa una certa
tolleranza da parte del soggetto che subisce l’altrui
inadempimento, che risulta pienamente legittimato
ad averne inizialmente, in un’ottica di buona fede e
correttezza, principi cardine del nostro ordinamento
validi per ogni obbligazione specie per quelle di carattere contrattuale. La giurisprudenza è solida nel
sostenere la facoltà per il creditore di mutare il proprio atteggiamento successivamente o addirittura
contestualmente all’atto di tolleranza, laddove
l’inadempimento si protragga oltremodo6.
Con previsione, tra le clausole del contratto di rent
to buy, anche di quella di risoluzione espressa in
caso di inadempimento, al concedente è evitato
quindi di dovere fornire la prova del grave inadempimento, una volta manifestata la sua volontà di
avvalersene. La forma di atto pubblico del contratto
con la previsione in esso della clausola risolutiva
espressa in caso di inadempimento consentono al
concedente di evitare tutta la fase di giudizio prodromica all’ottenimento del titolo esecutivo ed di
richiedere subito l’intervento dell’ufficiale giudiziario per il rilascio dell’immobile.
La clausola deve essere tuttavia configurata in modo preciso, descrivendo con chiarezza il comportamento che ne costituisce l’oggetto: per altra via essa diviene di stile e perde ogni effettività, come nel
caso in cui le parti prevedano genericamente che
ogni e qualsiasi condotta inadempiente rispetto alle
obbligazioni contenute nel contratto cagioni la risoluzione di esso. In tale ottica, ancora va richiamata
l’attenzione che il notaio rogante deve prestare nel
prevedere con precisione i casi al verificarsi dei
quali scatta di diritto l’inadempimento che legittima
il concedente ad avvalersi della clausola risolutiva
espressa.
5
7
Una volta che la comunicazione di questo intento sia pervenuta alla parte inadempiente, si producono i medesimi effetti
che sono propri della domanda giudiziale di risoluzione: da un
lato, a far tempo da essa, l’eventuale offerta di adempimento
dovrebbe essere qualificata come tardiva e potrebbe dunque
essere legittimamente rifiutata dal contraente non inadempiente, dall’altro costui non potrebbe mutare la propria scelta, ormai
orientata alla risoluzione, domandando la manutenzione del
contratto (Torrente-Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 1985, 552).
6
In tema di clausola risolutiva espressa, la tolleranza della parte creditrice, che si può estrinsecare tanto in un comportamento
negativo, quanto in uno positivo, non determina l’eliminazione
della clausola per modificazione della disciplina contrattuale, né
è sufficiente ad integrare una tacita rinuncia ad avvalersene,
ove la parte creditrice contestualmente o successivamente
all’atto di tolleranza manifesti l’intenzione di avvalersi della
clausola in caso di ulteriore protrazione dell’inadempimento (ex
plurimis Cass. 31 ottobre 2013, n. 24564).
Immobili & proprietà 2015
L’inadempimento del contratto
L’avere il titolo esecutivo per agire facilita, ma però non risolve, il problema del rilascio
dell’immobile, perché spesso è proprio la fase
dell’esecuzione del rilascio ad essere la più lunga,
necessitando della presenza della forza pubblica per
eseguire lo sgombero e restando comunque la procedura condizionata dall’esecuzione di altre simili
magari già in corso, che impongono all’ufficiale
giudiziario di preferirle: ed i tempi si allungano.
Il contratto si risolve in caso di mancato pagamento, anche non consecutivo, di un numero minimo di
canoni, determinato dalle parti, non inferiore ad un
ventesimo del loro numero complessivo (art. 23,
comma 2, D.L. n. 133/2014). In questo caso
l’immobile deve essere restituito al proprietario,
che, se diversamente non è pattuito, acquisisce interamente, a titolo di indennità, i canoni percepiti.
Se invece l’inadempimento è del concedente, questi
deve restituire al conduttore-promissario acquirente
la parte di canone percepita quale acconto sul prezzo di vendita, maggiorato degli interessi legali.
In entrambe i casi è comunque fatta salva la facoltà
della parte adempiente di chiedere al giudice, ex art.
2932 c.c., la specifica esecuzione del contratto di
compravendita dell’immobile (art. 23, comma 3).
Infatti, nel caso di inadempimento dell’obbligo di
stipulare entro il termine previsto, ancorché non essenziale7, la legge prevede che il contraente non
inadempiente possa domandare al giudice
l’emissione di una pronunzia che tenga luogo del
contratto non concluso. La relativa domanda va trascritta, quand’anche promossa nel corso di un giudizio arbitrale8. Tale trascrizione possiede efficacia
Cfr. Cass. 13 maggio 2011 n. 10687 secondo cui
l’esperimento dell’azione di esecuzione in forma specificaci
sensi dell’art. 2932 c.c., dell’obbligo di concludere un contratto,
ove lo stesso sia contenuto in un contratto preliminare prevedente un termine per la relativa stipulazione e questo sia venuto a scadenza, non presuppone necessariamente la natura essenziale di tale termine, né la previa intimazione di una diffida
ad adempiere alla controparte, essendo sufficiente le sola condizione oggettiva della mancata stipulazione del negozio definitivo, che determina l’interesse alla pronunzia costitutiva, e non
anche necessario un inadempimento imputabile alla parte convenuta.
8
Tale costante affermazione trova il proprio sicuro fondamento
nella natura stessa della pubblicità immobiliare, la quale costituisce uno strumento approntato dall’ordinamento per rendere
opponibili ai terzi gli atti che vengono trascritti. La trascrizione
della domanda giudiziale diretta ad ottenere l’esecuzione in
forma specifica dell’obbligo a contrarre determina il cd. effetto
di prenotazione, per cui la trascrizione della sentenza “che ac-
85
Gli Speciali
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prenotativa, rendendo irrilevanti gli eventuali atti di
disposizione posti in essere nel tempo intercorrente
tra l’esecuzione della formalità pubblicitaria e quello della emissione della pronunzia che avesse ad
accoglierla9.
La disciplina riportata è integrata con una norma
speciale (art. 23, comma 6) che si preoccupa della
sorte del contratto in caso di fallimento di una delle
parti: se interessa il concedente, il contratto prosegue, “fatta salva l’applicazione dell’art. 67, comma
3 lett. c)”; se coinvolge il conduttore, il curatore
può sciogliere il contratto, ai sensi dell’art. 72 L.
fall., e trovano applicazione le norme sopra richiamate sull’inadempimento del conduttore medesimo.
Resta sempre il fatto che il bene viene restituito
nello stato manutentivo in cui si trova, usato cioè
per tutto il tempo in cui è rimasto occupato dal
conduttore inadempiente. Se costui, nell’uso del
bene, è stato diligente e scrupoloso, il pregiudizio
per la proprietà è limitato; qualora e invece, considerandosi già proprietario perché seriamente intenzionato all’acquisto, abbia apportato migliorie o
addizioni non facilmente rimovibili al momento del
rilascio, il danno allora aumenta e non è detto che
se ne ottenga il risarcimento.
Se poi oggetto del contratto di rent to buy è un immobile di nuova costruzione , questo comunque è
stato usato, talché non potrà essere rimesso sul
mercato come nuovo, con ogni ben comprensibile
conseguenza sulla quantificazione del prezzo di
vendita. Il che impone l’inserimento nel contratto di
apposite clausole che tengano indenne il concedente da simili pregiudizi, soprattutto nel caso in cui la
misura del corrispettivo corrisposto dall’occupante
sia uguale o di poco superiore al canone di mercato:
nulla impedisce quindi di prevedere la possibilità
per il concedente di richiedere il risarcimento del
maggior danno rispetto al corrispettivo versato e
trattenuto.
coglie la domanda prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite
contro il convenuto dopo la trascrizione della domanda” (art.
2652 c.c., comma 1, n. 2). Il principio trova pacifica applicazione anche nel caso di domanda di giudizio arbitrale finalizzata
all’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto
di compravendita immobiliare (Cass. 5 marzo 2013, n. 5397).
9
La trascrizione della domanda giudiziale di esecuzione in
forma specifica dell’obbligo di trasferire la proprietà di un bene
immobile, rendendo inopponibili al promissario acquirente le
alienazioni a terzi effettuate dal promittente venditore in epoca
successiva, rende anche “possibile” il trasferimento del bene in
favore del promissario acquirente, che, altrimenti, nel suddetto
caso di successiva alienazione dell’immobile, secondo i principi
generali non potrebbe più avere luogo (Cass. 24 novembre
2014, n. 24960).
Immobili & proprietà 2015
Le possibili alternative
Occorre dunque realizzare uno schema contrattuale
che definisca con precisione le clausole che collegano i due contratti ( locazione e preliminare di
vendita) in modo da mantenerne le rispettive caratteristiche e tipicità, senza nel contempo movimentare la fiscalità della vendita prima dell’effettivo
trasferimento della proprietà e, non da ultimo, prevedendo un sistema di protezione tale che consenta
alle parti di risolvere nel modo migliore le eventuali
insorgende contestazioni.
I contraenti sono liberi di scegliere la formula che
più soddisfa le rispettive esigenze.
La più semplice è quella del contratto di locazione
con opzione all’acquisto, dove viene concesso al
conduttore la facoltà di acquistare l’immobile locatogli entro una determinata data e ad un prezzo fisso ed invariabile già determinato al momento della
stipula del contratto, con l’intesa che, nel caso di
esercizio della predetta facoltà, una parte del canone versato verrà portato in diminuzione del prezzo
di vendita.
Trattasi per il vero di un formula che non pone il conduttore-futuro acquirente al riparo da possibili ipoteche e/o trascrizioni pregiudizievoli sull’immobile a
carico del proprietario e, ancor più grave, non gli riserva alcuna tutela in caso di fallimento del locatore
in quanto il contratto di opzione d’acquisto non è trascrivibile e potendo dunque il curatore sciogliersi dal
contratto (di opzione), senza che il conduttore abbia
alcun diritto di vedersi restituita la parte del canone
versata in diminuzione del prezzo d’acquisto.
Il contratto con opzione non garantisce nemmeno il
venditore, che non ha alcuna sicurezza circa
l’esercizio da parte del conduttore dell’opzione
all’acquisto, restando per contro lui impegnato a non
vendere a terzi l’immobile locato per tutta la durata
dell’opzione stessa. Inoltre, in caso di inadempimento del conduttore, può incontrare notevoli difficoltà
nel riottenere la disponibilità dell’immobile, con
conseguente pregiudizio per le possibilità di vendita
del bene a terzi: sotto tale profilo, è bene stabilire
una penale nel caso di ritardo nella riconsegna del
bene locato.
Un’altra tipologia usata è quella del contratto di locazione con patto di futura vendita. Trattasi di
uno schema contrattuale più complesso con il quale
il locatore promette di vendere al conduttore, che
promette di acquistare, l’immobile oggetto della locazione verso un determinato prezzo che verrà corrisposto, in tutto o in parte, attraverso il versamento
86
Gli Speciali
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dei canoni mensili: questi vengono quindi da subito
considerati come acconti sul corrispettivo pattuito
per la vendita.
Solitamente il futuro acquirente, nel prendere possesso del bene, versa un acconto al venditore pari al
5-6% del valore della compravendita. Il resto, in
tutto o in parte, lo verserà con importi mensili pari
ai canoni di locazione previsti nel contratto.
È sempre bene che il contratto venga stipulato con
atto notarile e trascritto nei Registri immobiliari,
così che il conduttore-promissario acquirente possa
comunque tutelarsi contro possibili pregiudizi derivati da iscrizioni pregiudizievoli sull’immobile (pignoramenti, ipoteche, ecc.) che possano danneggiarlo (sino ad impedirgli di rogitare) oppure, se
non altro, rendere più complicata la conclusione del
contratto definitivo.
Anche in tale tipologia di contratto il conduttore è
immesso nella detenzione del bene in forza di un
contratto di locazione e non già per una anticipazione degli effetti del contratto preliminare o addirittura di quello definitivo di compravendita. Se entro il triennio il conduttore ritiene di non riuscire ad
acquistare, continua a condurre il ben n locazione,
ben potendo però cedere ad altri, magari a prezzo
più elevato, la posizione contrattuale di potenziale
futuro acquirente.
Le due soluzioni possono dunque così riassumersi.
Quanto alla locazione con opzione all’acquisto:
- viene stipulato contratto di locazione ordinario e
un più contratto di opzione per l’acquisto del bene
locato;
- il conduttore ha la facoltà di acquistare e non
l’obbligo;
- il prezzo viene versato, in tutto o in parte, con i
canoni;
- in caso di fallimento del locatore il curatore può
sciogliere il contratto;
- il locatore comincia a percepire i canoni e riduce i
costi dell’immobile;
- il conduttore gode subito di un bene che ha la facoltà di comprare imputando i canoni ad acconto
prezzo.
Quanto invece alla locazione con preliminare
d’acquisto:
- si procede alla stipulato contratto di locazione ordinario e contestualmente ad un contratto preliminare di compravendita, così che il conduttore è obbligato a comprare ed il locatore a vendere;
- il prezzo viene versato, in tutto o in parte, con i
canoni;
- occorre porre a carico del conduttore anche le
Immobili & proprietà 2015
spese straordinarie;
- in caso di inadempimento del conduttore possono
sorgere difficoltà nel riottenere la disponibilità
dell’immobile. È bene stabilire una penale in caso
di ritardo nel rilascio;
- se il contratto preliminare si risolve il locatore non
deve restituire quanto percepito a titolo di canoni;
- in caso di fallimento, se il preliminare è trascritto,
il curatore non può sciogliere il contratto, quando si
tratti di abitazione principale dell’acquirente.
Chi vende non perde la proprietà della casa sino a
quando il prezzo non sarà interamente versato e nel
contempo ha maggiore certezza che il conduttore
acquirente, proprio in vista dell’acquisto del bene
locato, continuerà con puntualità a versare il canone, quale che fosse la rata di un mutuo.
Le differenze con l’affitto a riscatto
Con la formula del “rent to buy” il venditore non
assume affatto la figura del finanziatore
dell’acquirente, ma si limita ad agevolare
l’acquirente nella tempistica del rogito, congelando
il prezzo della vendita ed ampliando in tal modo la
potenziale propria clientela.
Il rent to buy è semplicemente un programma preparatorio attraverso il quale l’acquirente ha la possibilità di mettersi nelle condizioni di ottenere il
mutuo e nel contempo di godere del bene. Il venditore agevola semplicemente l’acquirente nella tempistica del rogito senza sostituirsi alla banca come
finanziatore.
L’acquisto programmato si basa principalmente sul
contratto preliminare di compravendita. È una vera
e propria compravendita che prevede il versamento
di un acconto iniziale e il versamento di una rata
mensile che va in parte a scorporare il prezzo
dell’immobile. Il rent to buy è dunque una compravendita trascrivibile.
Così non può dirsi invece per l’affitto con riscatto,
essendo questa una formula d’acquisto che basa il
suo funzionamento sull’utilizzo di un contratto di
locazione. I canoni mensili sono dei veri e propri
canoni di affitto ed al termine del rapporto locativo
l’inquilino ha la possibilità di “riscattare”
l’immobile e di ottenerne la piena proprietà. Tutte
le somme versate a titolo di canone di locazione
non vengono convertite in acconto sul prezzo della
compravendita, ma semplicemente dedotte dal
prezzo pattuito quasi a considerarsi come “sconto”
da parte del venditore. Il rent to buy, a differenza
dell’affitto con riscatto dove il venditore finanzia
87
Gli Speciali
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l’acquirente con un pagamento rateizzato sotto
forma di affitto, è un mezzo che il primo può usare
per agevolare il secondo nella tempistica del rogito
(posticipandolo) e nel congelamento del prezzo, lasciando comunque al mondo bancario il compito di
finanziarlo.
Con il rent to buy l’acquirente ha la possibilità di
crearsi uno “storico creditizio”, finalizzato a migliorare il proprio reating (punteggio) per ottenere
un mutuo con più facilità ed alle migliori condizioni di mercato (non solo in termini di spread ma anche in termini di costi accessori).
Si crea inoltre un “primo vantaggio finanziario”,
grazie al quale l’acquirente, versando mensilmente
al venditore un importo equivalente ad un normale
affitto, se ne vede accantonare il 50% come acconto
sul prezzo, elevando così il suo deposito iniziale
senza appesantire il proprio bilancio familiare. Si
crea anche un secondo “vantaggio finanziario”, derivante dalla posticipazione di tutti i costi e le imposte relative al mutuo ed al rogito notarile.
C’è comunque, di fatto, un periodo di prova durante
il quale, se mutano le esigenze, si può vendere
l’immobile ad un terzo soggetto con la semplice
cessione dai contratti, ottenendo magari anche vantaggio economico.
Gli aspetti fiscali
Si è visto che nel nuovo contratto del ret to buy introdotto con il decreto c.d. “Sblocca Italia” si fondono un contratto di locazione e un preliminare di
compravendita di immobile, in esecuzione ai quali
il proprietario consegna subito il bene al conduttore-futuro promissario acquirente verso il pagamento
di un corrispettivo che, decorso un certo tempo, andrà detratto, in tutto o in parte, dal prezzo di vendita, se ed in quanto questa si realizzerà.
La normativa sostanziale intervenuta a tipizzare il
contratto di rent to buy non ha disciplinato gli
aspetti tributari e fiscali inerenti la fattispecie e tale
compito è stato lasciato, come spesso accade, ad
una Circolare, la n. 4/E Agenzia delle EntrateDirezione Centrale delle Entrate, del 19 febbraio
2015.
Nella compravendita “Rent to Buy” è a escludere
qualsiasi intento elusivo: non si vuole rinviare la
tassazione di una vendita già conclusa, ma semplicemente affrontare la corretta tassazione nel momento in cui questa vendita, di cui oggi si sta solamente costruendo i presupposti affinché si possa effettivamente realizzare, si concretizzerà grazie
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all’ottenimento di un mutuo o al verificarsi della
vendita di un immobile usato.
Il venditore dichiara il proprio ricavo e paga le relative imposte solamente nel momento in cui lo ha effettivamente percepito. Così come è giusto che
l’acquirente paghi le proprie imposte sulla compravendita solamente nel momento in cui la riesce effettivamente a concretizzare, grazie all’ottenimento
del mutuo. Tutto questo, per quanto logico e condivisibile che sia, rischia di essere messo in discussione se non vi sono dei contratti assolutamente
perfetti.
Qualora il soggetto concedente agisca nella qualità
di imprenditore, occorre individuare la parte dei canoni imputata corrispettivo della locazione e quella
invece da imputarsi ad anticipazione sul prezzo della vendita. Quanto alla prima, la Circolare afferma
l’applicazione per analogia della disciplina prevista
in materia di contratti di locazione. Trattasi dunque
di operazione rilevante ai fini IVA, ai sensi dell’art.
6, comma 3, d.P.R. n. 633/1972 e che, sia in caso di
fabbricati abitativi e sia in caso di fabbricati strumentali per natura costituisce operazione esente
Iva, ai sensi dell’art. 10, comma 1, n. 8, d.P.R. n.
633/1972: salva l’ipotesi in cui il concedente sia
un’impresa di costruzioni o di ripristino e opti per il
regime di imponibilità Iva, nel qual caso il concessionario è tenuto a versare l’Iva sui canoni corrisposti.
La base imponibile è costituita dalla somma complessiva della quota dei canoni da imputare a corrispettivo per la concessione in godimento , riferita
all’intera durata della concessione in godimento. È
ammesso che l’imposta possa essere assolta una
tantum per l’intera durata contrattuale oppure annualmente, tenendo, quale base imponibile, la quota
dei canoni riferita al corrispettivo per la concessione in godimento per il singolo anno di durata contrattuale.
In caso di locazione esente da Iva, la quota dei canoni riferita alla locazione deve essere assoggettata
ad imposta di registro con aliquota del 2% (immobili abitativi) o dell’1% (immobili strumentali per
natura).
Per quanto riguarda invece la parte di canone da
imputarsi a corrispettivo per la eventuale cessione
definitiva del bene, il trattamento fiscale è del tutto
analogo a quello applicabile ai corrispettivi del contratto di vendita, con previsione anche delle imposte ipotecarie e catastali che sono escluse invece
nell’ambito del contratto di locazione.
L’aliquota Iva dovuta per gli immobili diversi da
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quelli rientranti nelle categorie catastali A/1,A/8 e
A/9 è quella ordinaria del 10% oppure, in presenza
dei presupposti per richiedere le agevolazioni
sull’acquisto dell’abitazione primaria , quella agevolata del 4%; per gli immobili rientranti nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9 aventi caratteristiche di abitazione di lusso l’aliquota è del 22%.
L’imposta di registro, se dovuta in misura proporzionale, è quella ordinaria del 9%, oltre ad imposte
ipotecarie e catastali nella misura fissa di € 50,00
per ciascuna di esse; in presenza dei presupposti per
l’ottenimento della agevolazioni prima casa quella
agevolata del 2%, oltre ad imposte ipotecarie e catastali. Se si tratta infine di beni strumentali per natura, l’unica aliquota applicabile è quella ordinaria
del 9%.
Quando il soggetto concedente è un privato che
non agisce nell’esercizio di impresa, arte o professione, la fattispecie del rent to buy è invece interamente attratta al regime dell’imposta di registro. La
Circolare chiarisce che per quanto attiene alla quota
dei canoni da imputare a corrispettivo per la concessione in godimento dell’immobile, valgono le
medesime regole dettate per il contratto di locazione e dovrà dunque essere applicata l’imposta di registro in misura proporzionale pari al 2%, sia che si
tratti di immobile di natura abitativa e sia che si
tratti di immobili strumentali per natura. Per la quota da imputarsi ad acconto della vendita, l’imposta
di registro da corrispondersi è in misura proporzionale pari al 3% computata sulla somma complessiva delle quote dei singoli canoni da imputarsi ad
anticipo per la cessione.
Tale versamento sarà scomputato dall’imposta di registro complessivamente dovuta al momento del trasferimento finale. Qualora l’imposta del 3% versata
sugli anticipi sia superiore all’imposta dovuta in sede
di cessione definitiva, il contribuente può chiedere il
rimborso della maggiore imposta versata.
Può accadere che anche nel contratto di rent to buy
si preveda il versamento di un deposito cauzionale,
che immediatamente versa il concessionario al
momento della stipula del contratto stesso.
Se tale versamento rappresenta effettivamente un
deposito cauzionale, con la sua tipica funzione di
garantire il concedente da eventuali danni e/o inadempimenti provocati dal concessionario durante
l’occupazione dell’immobile, la relativa tassazione
si inquadra nella corresponsione dell’aliquota dello
0,50% sull’importo della cauzione, da versare unicamente quando tale deposito sia effettuato da un
estraneo al contratto (art. 6, comma 1, TUR). AlcuImmobili & proprietà 2015
na tassazione ha invece luogo nel caso in cui la
cauzione viene versata dal diretto interessato al
contratto.
Resta però il fatto che con frequenza tale deposito,
per tacito accordo delle parti, fungerà poi quale ulteriore acconto nel momento del trapasso definitivo
della proprietà, con consequenziale tassazione quale corrispettivo della vendita e non già come deposito cauzionale.
La conseguenza che ne deriva è che, qualora il concessionario potesse poi, ai fini dell’imposta, godere
delle agevolazioni per l’acquisto prima casa, avrebbe un guadagno pari al 1% costituito dalla differenza tra il 3% che sarebbe dovuto se al deposito cauzionale fosse attribuita anche la funzione di acconto
sul corrispettivo finale ed il 2% dovuto invece in
sede di pagamento del corrispettivo al momento
della cessione a titolo oneroso dell’immobile.
La Circolare non si è espressa sul punto, neppure
con marginale riferimento a chiarire, se non altro
sotto il profilo sanzionatorio, la vicenda.
Può dirsi allora che è necessario, in presenza di attuazioni volte al versamento di un deposito cauzionale, questo venga contrattualmente definito nella
sua esatta funzione giuridica di garanzia, senza farlo
entrare nei meccanismi relativi ai corrispettivi per la
cessione definitiva e alle eventuali anticipazioni.
Solo a tali condizioni potrà essere conservata
l’imposizione tributaria più leggera effettivamente
riferibile al deposito cauzionale.
A ciò consegue la necessità di maggiore attenzione
da parte del notaio nel qualificare il deposito cauzionale nel rent to buy, ad evitare che interpretazioni presuntive possano condurre l’Erario a recuperi
impositivi privi di fondamento.
Imposte dirette
In caso di concedente persona fisica, la parte di canoni riferita alla concessione in godimento
dell’immobile deve essere assoggettata a imposizione in base alla disciplina dei redditi fondiari,
secondo le ordinarie regole previste per i redditi da
locazione. Ricorrendone le condizioni, si può esercitare l’opzione per il regime della cedolare secca.
In caso di concedente in regime di impresa, durante il periodo di locazione rileva i canoni di locazione, contabilizzando gli acconti sul prezzo come debiti verso il conduttore; solo nella successiva (ed
eventuale) fase di vendita dell’immobile emerge il
componente di reddito legato alla cessione.
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Trattamento fiscale dei canoni riferiti al godimento del bene
Concedente Tipologia di fabbricati IVA Registro Impresa
Abitativi
Esente
Proporzionale 2%
Impresa
Abitativi
Imponibile
Imposta fissa (€ 67 o 200
a seconda della forma
dell’atto)
Impresa
Impresa
Privato
Privato
Strumentali
Strumentali
Abitativi
Strumentali
Esente
Imponibile
Esclusa
Esclusa
Proporzionale 1%
Proporzionale 1%
Proporzionale 2%
Proporzionale 2%
Trattamento fiscale del corrispettivo della cessione
Cedente
Tipologia Tipologia di
cessione fabbricati
Iva
Registro
/
2%
50,00
50,00
/
9%
50,00
50,00
22%, 10%
o esente
200,00
3%
1%
Abitazioni prima casa 4%
200,00
200,00
200,00
Altre abitazioni
non di lusso
10%
200,00
200,00
200,00
Abitazioni di lusso
22%
200,00
200,00
200,00
Abitazioni prima casa
/
2%
50,00
50,00
Altri fabbricati
/
9%
50,00
50,00
Cessioni Prima casa
esenti da
Iva
Altri casi
Impresa
Privato
Fabbricati strumentali
Cessioni
soggette
ad Iva
Cessioni
fuori
campo
Iva
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Ipotecaria
Catastale
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