Psicologi: tra professione, scienza e pratica quotidiana

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Storia ed epistemologia
PSICOLOGI:
TRA PROFESSIONE, SCIENZA
E PRATICA QUOTIDIANA
Felice Perussia, Renata Viano
LO PSICOLOGO A TRE DIMENSIONI
Quando si parla di “psicologia” si fa spesso riferimento a due modalità principali
secondo cui il movimento psicologico si presenterebbe al giorno d’oggi: implicanti, rispettivamente, una valenza professionale e una valenza scientifica. Il che è
sicuramente corretto, da un certo punto di vista, poiché queste sono le due aree
concettuali che maggiormente ricorrono nella cultura ufficiale, e cioè la dimensione universitaria ovvero della ricerca di base, da una parte; e la dimensione del lavoro applicato ovvero dell’ordinamento professionale, dall’altra.
In realtà esiste almeno una terza dimensione rilevante della psicologia, che rappresenta anzi la caratteristica decisamente più pervasiva della disciplina. Si tratta
di quella che può essere definita come la psicologia “diffusa”, ovvero la psicologia
in quanto modo della condizione umana e in quanto strumento intellettuale di pensiero. E anzi, da molti punti di vista, la psicologia di base così come quella applicata sono per molti versi assai più legate a questa dimensione della disciplina, intesa come sensibilità diffusa, che non ai presunti rigori legati all’accademia piuttosto
che all’ordine professionale.
In effetti la psicologia, specie nella forma in cui la si usa nella vita quotidiana
ovvero nei modi in cui spesso la si insegna e la si studia, è un sistema teorico e
operativo che utilizziamo per rapportarci al mondo, ovvero una chiave di lettura
della realtà, cioè una forma di conoscenza e quindi di scienza.
Per gli psicologi, intesi come coloro che formalmente si propongono come professionisti della disciplina, è però anche una fonte di reddito, oltre che una forma
di costruzione della propria identità su cui organizzare una parte rilevante della propria vita.
Da questo punto di vista, la psicologia è dunque un modo di pensare, ma anche
un modo per guadagnarsi da vivere ovvero una professione.
Tale dimensione professionale riguarda però una minoranza assai ristretta di soggetti, se confrontata alle vere e proprie masse di persone che utilizzano il riferimento alla psicologia nella propria vita quotidiana e nell’interagire con le altre persone.
Paolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Storia ed epistemologia
L’attenzione degli psicologi, e particolarmente degli storici della psicologia, si è
rivolta principalmente allo sviluppo delle teorie e dei metodi di ricerca che hanno
permesso alla disciplina di acquisire una propria autonoma identità epistemologica.
La strada che la psicologia ha percorso è stata tracciata, tuttavia, da uomini in carne
e ossa (talvolta psicologi ufficiali e più spesso no), che l’hanno effettivamente costruita nella realtà di ogni giorno. Ed entrambe queste dimensioni sono sempre state
solo la punta dell’iceberg di una sensibilità diffusa nei confronti della soggettività
e di una serie di categorie concettuali che non sono propriamente né accademiche
né professionali ma che piuttosto appartengono alla vita quotidiana di tutti.
Dedichiamo comunque questo capitolo agli psicologi e alla pratica psicologica
concreta, in base alla considerazione secondo cui un buon principio, tra gli altri,
per capire che cosa sia una disciplina è quello di analizzare che cosa fanno e chi
sono coloro che se ne occupano. Ma lo dedichiamo anche un poco, almeno in
accenno, a quel sottofondo psicologico diffuso che costituisce le sconfinate e solide (per quanto sempre un po’ nascoste) radici anche della parte più visibile ed esibita della disciplina ufficiale.
I punti di riferimento su cui ci basiamo per le affermazioni espresse qui di seguito si ritrovano soprattutto in alcuni precedenti nostri studi (Perussia, 1994, 1999,
2003) basati sulla letteratura internazionale di ricerca. A essi rimandiamo, per ulteriori approfondimenti di ciò che qui semplicemente accenniamo, aggiornando in
parecchi punti questa nuova edizione del capitolo (2006).
Esistono, naturalmente, molte altre fonti possibili e aggiornate da cui ricavare
spunti relativi all’azione della psicologia nel mondo e sul mondo. Tra queste, cui
pure ci ispiriamo nella trattazione che segue, alcune riguardano la storia del movimento in campo internazionale (Koch e Leary, 1985; Ash e Woodward, 1987;
Freedheim, 1992; Mecacci, 1992; Sexton e Hogan, 1992; Cushman, 1995; Legrenzi,
1999; Luccio, 2000) e particolarmente negli Stati Uniti (Napoli, 1981; Evans,
Sexton e Cadwallader, 1992; Herman, 1995; Schorr e Saari, 1995; Kirschner, 1996;
Caplan, 1998; Rose, 1998; Capshew, 1999; Benjamin e Baker, 2003; Gundlach,
2004; Benjamin, 2005), altre il tema della formazione degli psicologi, soprattutto,
ma non esclusivamente, in Italia (Bartolomei e Wienand, 1979; Favretto e Majer,
1990; Puente, Matthews e Brewer, 1992; Lombardo, 1994; Perussia, Converso e
Miglietta, 1995).
Quanto segue è dunque anche uno schizzo sulla natura della psicologia, specie
in quanto professione, ma con speciale attenzione all’evoluzione degli psicologi italiani e con riferimento comparativo alla realtà psicologica parallela di altri Paesi.
A ogni modo, per tornare a quanto accennato, possiamo dunque dire che ci
sono almeno tre modi di esistere per quella che, nel gergo degli addetti ai lavori, viene solitamente definita come area dello “psi” (ovvero lo “psicologico” latamente inteso, con tutte le sue variazioni e sfumature e contaminazioni). In tutti
e tre questi modi, come anche nelle molte altre dimensioni che eventualmente
vi si potrebbero affiancare, viene sempre coinvolto chi appunto cerca di rapportarsi al mondo facendo riferimento a tale affascinante area di riflessione e di attività. Il che accade comunque: che lo si voglia oppure no, che se ne sia consapevoli oppure no.
Possiamo definire tali tre dimensioni nei termini canonici in cui le definisce la
modernità, e parliamo dunque di:
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1. la scienza psicologica, ovvero la ricerca scientifica in psicologia, quale viene realizzata soprattutto in ambiente universitario;
2. la professione psicologica, ovvero il lavoro dello psicologo in quanto professionista accreditato;
3. la psicologia laica e quotidiana in azione, ovvero la versione più diffusa della disciplina nella sua concretezza.
Per descrivere qui brevemente queste tre dimensioni seguiremo però, come è giusto, la loro effettiva sequenza, ovvero partiremo dall’ultima e andremo all’indietro.
Tutte e tre tali dimensioni possono comunque sussumersi in un concetto, che
è più basale rispetto alla volontà di dare a ciascuna di esse una dimensione strutturata e circoscritta: la psicologia è anche una scienza; è anche una professione; è
anche una modalità di azione quotidiana. Ma, soprattutto, la psicologia è un movimento di persone, le quali sono accomunate da una loro speciale (quanto a volte
controversa e ambivalente) sensibilità per l’interiorità e per l’altro, le quali si caratterizzano in primo luogo per il fatto di riconoscersi in una comune visione del
mondo, in un percorso di vita e quasi in una forma di spiritualità, dove lo “spirito” viene però chiamato “psiche”. La psicologia resta insomma, nonostante tutte
le sue buone intenzioni professionali ed epistemologiche prese a prestito dall’ingegneria e dalle speranze della scienza positiva, soprattutto un insieme di volontà,
di passioni e di speranze, molto prima che un insieme di scoperte scientifiche o
di tecniche.
UNA PRIMA DIMENSIONE DELLA PSICOLOGIA: LA THERAPEIA
Per capire davvero che cos’è la psicologia, e quindi per capire anche in che cosa
davvero consiste il mestiere contemporaneo dello psicologo, sarebbe necessario sviluppare un tema assai poco frequentato dalla formazione psicologica quale viene
tradizionalmente proposta in sede ufficiale (specie nell’accademia). Si tratta infatti di andare a vedere da dove realmente venga la psicologia (quella concreta e quotidiana di sempre, non quella teorica o sperimentale novecentesca), ovvero da dove
venga la psicologia in azione, quella che in effetti ciascuno di noi si trova a sviluppare nel momento in cui decide di dedicare almeno una parte della propria vita
a questo intrigante mestiere.
Una descrizione dettagliata della psicologia, nella sua lunghissima tradizione di
pratica operativa, non può essere certo contenuta in questa sede, dedicata principalmente a fornire un quadro introduttivo di larga massima. Cercheremo tuttavia
di evocare almeno in accenno qualche concetto, di carattere storico, epistemologico e pratico, indispensabile per capire, e quindi anche per esercitare, la professione. Elenchiamo dunque qualcuno degli aspetti principali qui di seguito, senza
certo pretendere di esaurirli ma limitandoci ad affermarli per punti e rimandando
ai testi citati per gli approfondimenti.
La pratica psicologica è antichissima. La professione psicologica, quale più o
meno la conosciamo oggi, ha preso questo nome abbastanza di recente: in modo
occasionale nella seconda metà dell’Ottocento e in modo relativamente più sistematico nella seconda metà del Novecento. In precedenza, tuttavia, ciò che i miglioPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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ri psicologi realizzano oggi (come pratica professionale concreta) veniva attuato
anche negli asclepideon greci oltre duemila anni fa; salvo che queste pratiche, allora, si chiamavano therapeia, e non nutrivano particolari pretese anatomo-fisiologiche, a differenza di quanto si tende invece a proporre nella modernità.
Il dato è complicato dal fatto che, tanto per fare un solo esempio, nel Settecento
sono state pubblicate centinaia di volumi sulla psicologia, salvo però intitolarli
alla morale, alla mente, all’antropologia pragmatica. Per cui chi cercasse un ordine degli psicologi o un concorso a cattedra di psicologia clinica prima di metà
Ottocento, non trovandoli, potrebbe ricavarne la falsa impressione che la nostra
disciplina allora non esistesse. Ma chi cercasse, nella sostanza anziché nella forma,
seri studiosi ed efficaci operatori della psiche, ovvero volumi fondamentali di psicologia (con la stessa impostazione e molti dei contenuti dei libri che si è trovato a studiare in università prima di avvicinare questo volume), avrebbe solo l’imbarazzo della scelta.
Alla base della pratica psicologica, come in parte anche della teoria, non stanno certo il laboratorio sperimentale o la redazione di libri concettosi sulla natura
dei sistemi mentali o simili, bensì la pratica concreta realizzata sul campo. Come
disciplina intellettuale e scientifica, la psicologia è nata nelle università (tardosettecentesche). Come professione scientifica, nel senso di mezzo per produrre reddito per lo studioso, è apparsa originariamente nelle università di fine Ottocento.
Come arte del prendersi cura delle sofferenze umane è cominciata almeno nel
Paleolitico. È insomma vero che prima è arrivata la psicologia e poi sono arrivati
gli psicologi; ma è vero anche che, da molto tempo prima, c’era la pratica psicologica (magari, come è avvenuto anche per la medicina o per l’avvocatura o per
l’economia o per tante altre discipline e professioni, sotto altri nomi).
La psicologia, almeno nei termini della pratica professionale in cui la conosciamo oggi, non nasce affatto nel 1879 col laboratorio di Lipsia dichiarato da
Wundt, ma almeno un secolo prima. La sua data di nascita può essere fatta risalire quanto meno attorno agli anni Settanta del Settecento, quando il medico
illuminista Franz Anton Mesmer sfida, nella cittadina di Ellwangen, padre Johann
Joseph Gassner a curare le persone con strumenti iatrofisici, e precisamente con
l’elettricità fisiologica (chiamata “magnetismo animale” da Luigi Galvani) anziché con metodi superstiziosi e preghiere considerate miracolose. E la prima associazione moderna di psicologi non è certo la American Psychological Association
(o qualche altro marchio del genere), bensì eventualmente la Société de
l’Harmonie de France, fondata nel 1785 dallo stesso Mesmer con Chastenet de
Puységur per dedicarsi alla cura “dell’uomo interiore”, come appunto suggeriscono i fondatori.
Negli ultimi secoli sono state prodotte molte teorie psicologiche: ciascuna con
un autore diverso, il quale vuole essere assolutamente originale e fonda una propria scuola che vuole essere assolutamente diversa dalle altre concorrenti. Autori
di questo tipo sono presenti a centinaia e centinaia nella storia della disciplina,
ammesso che non siano tanti quanti sono gli operatori dello “psi” (come qualcuno suggerisce). Le differenze fra tali operatori, fra i modi in cui operano e gli esiti
dei loro diversi interventi (anche sulla base dei molti tentativi sistematici di ricerca al riguardo) sono paragonabili grossomodo a quelle fra due gemelli (benché solo
raramente a quelle tra gemelli dizigoti).
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La pratica psicologica è sempre stata determinata molto più dal mercato che da
ragioni teoriche o epistemologiche. Il costituirsi di una professione d’aiuto è infatti sempre derivato in primo luogo dal fatto che questo aiuto viene richiesto da qualcuno, e non certo dalla disponibilità di strumenti efficaci per risolvere i problemi.
Questo è successo in tempi passati per la medicina (basti pensare all’uso prenovecentesco di salassi e lassativi) e succede da tempo per la psicologia: innumerevoli
psicologi si occupano, per esempio, di psicosi, di tossicodipendenze, di portatori di
handicap e simili, realizzando peraltro spesso interventi notevoli, ma certo senza
credere seriamente di possedere solidi strumenti per la guarigione dalla psicosi, dalla
tossicodipendenza, dall’handicap o simili.
Tale disposizione market-oriented della disciplina vale naturalmente anche per
la formazione alla psicologia, dove la domanda di “psi” da parte degli studenti ha
avuto la meglio su qualsiasi effettiva disponibilità di strumenti teorici e pratici,
trasferibili attraverso studi universitari, ovvero su qualsiasi realismo nella valutazione degli sbocchi professionali attesi (che, per molti fra quanti seguono studi
psicologici, sono sempre stati latamente “psicoterapeutici”). Basti pensare ai laboratori negli Stati Uniti all’inizio del Novecento, dove (analogamente a quanto è
avvenuto nei corsi di laurea italiani tardonovecenteschi) a masse di studenti con
attitudini spiritualistiche sono stati ammaniti, nella migliore delle ipotesi, il racconto ovvero la teoria (e men che mai la pratica) della “guarigione”, ma soprattutto una cura massiccia di fisiologia medica (con un riferimento allo “psico-”
appena appena formale) e tanti bei racconti di laboratorio sulle illusioni otticogeometriche e le sillabe senza senso. Lo stesso è successo anche nelle scuole di
psicoterapia, che parlano di formazione e auto-identità “clinica” a grandi numeri di futuri educatori, animatori, formatori, “riduttori del danno” e ricercatori di
mercato.
Nella pratica psicologica si è anche giocato spesso sull’ambiguità di una pratica
che vuole appartenere alla scienza sanitaria ma in cui manca quasi completamente la sequenza effettivamente medica di fisiologia, patologia, diagnosi e terapia. In
cui la diagnosi psicologica, ammesso che qualcuno la produca, non trova quasi mai
riscontri appunto fisiologici e in cui non di rado il paziente, indipendentemente
dal fatto che venga giudicato “ossessivo compulsivo” piuttosto che “anoressico isterico” o quant’altro, viene comunque messo sul lettino e interpretato nei sogni che
ha voglia di raccontare. In cui coesistono il mito della malattia mentale, per cui
lo psicologo ama parlare sempre nei termini para-diagnostici del DSM e professa
la dichiarazione implicita che tutti sono nevrotici (ovvero, che vale lo stesso in
una pregiudiziale sanitarista, che tutti si giovano dello psicologo), con il mito negazionista della normalità, la quale non esisterebbe affatto, pur essendo ciò che lo
psicologo promette (tra le righe) al paziente, una volta realizzata la guarigione dalla
nevrosi di cui sopra.
La pratica psicologica infine, e come corollario a tutto questo, è sempre stata
esercitata da persone che solo in qualche caso si sono anche definite come psicologi professionisti, ma che spesso si sono proposte in altra veste. Mentre infatti una parte degli psicologi vuole a tutti i costi definirsi come operatore sanitario
(anche se fa l’animatore), in camice bianco e dentro una qualche azienda sanitaria (secondo modalità professionali che sempre più ricordano l’impiego in banca
di una volta), la gestione del disagio psicologico quotidiano viene sempre più masPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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sicciamente attuata, e con esisti a volte considerevoli, da tutti i tipi di counselor
(non “psicologi”, almeno “ordinisticamente” parlando), medici, psichiatri, pedagogisti (più o meno clinici), sacerdoti, filosofi, avvocati, lettori di tarocchi, callcenter, amici e così via.
Ma la formazione contemporanea degli psicologi tiene assai poco conto di tale
psicologia concreta e diffusa, dedicandosi invece prevalentemente al modo di impostare i problemi tipico degli accademici. E il tipico accademico, generalmente,
anche quando tratta un tema apparentemente professionale o concreto, ragiona o
descrive qualcosa che non pratica, o almeno di cui non mostra quasi mai direttamente la pratica.
UNA SECONDA DIMENSIONE DELLA PSICOLOGIA: LA SCIENZA
Lasciando dunque sullo sfondo lo scenario appena evocato, veniamo alla psicologia in quanto disciplina accademica. Questa viene inventata poco dopo la seconda metà dell’Ottocento, più o meno nei termini in cui tendiamo a riconoscerla
oggi, nel regno di Francia da Théodule Ribot e nell’impero austro-ungarico da
Wilhelm Wundt.
Nel tempo, l’invenzione della Nuova Psicologia Scientifica (talvolta detta in
gergo NPS) viene però sempre di più attribuita alla sola figura del fisiologo positivista (tedesco), che verrà proposta poi come grande archetipo dello scienziato per
tutto il Novecento (da Einstein a Freud, da Schweitzer a Von Braun e così via).
Cosicché anche la straordinaria tradizione personologica dell’Ottocento francese,
da Janet a Bernheim a Taine, diventerà nota ai posteri, e agli studenti del XX secolo, solo nella sua traduzione in lingua tedesca (con modeste aggiunte originali),
realizzata appunto da medici appartenenti alla cultura di quella che allora era la
massima potenza militare mondiale. Per cui la versione ufficiale della scienza psicologica, quella che attualmente batte bandiera a stelle e strisce, finisce con l’essere stata fondata ufficialmente a Lipsia nel 1879, più o meno.
Sta di fatto che, tanto per fornire un solo dato, nel 1894 i lavori in campo
psicologico sono pubblicati per il 47% in tedesco, per il 22% in francese, per il
22% in inglese, per il 9% in altre lingue. Nel 1954 i lavori in campo psicologico sono pubblicati invece per l’85% in lingua (anglo)americana, per il 5% tedesca, per il 4% francese, per il 6% in altre lingue. Oggi gli Psychological Abstracts
censiscono almeno 100 000 lavori scientifici di psicologia all’anno. Da fine Ottocento a oggi gli articoli ufficialmente considerati di psicologia pubblicati nel mondo, secondo la banca dati PsycInfo della APA, hanno largamente superato i due
milioni di voci.
Vengono prodotte attualmente nel mondo alcune migliaia di riviste, tra quelle
che si definiscono scientifiche, di prevalente interesse psicologico. Gli Psychological
Abstracts censiscono circa 2000 riviste che contengono articoli di psicologia nel
mondo, in varie lingue, di cui almeno metà si dichiarano solo ed esclusivamente
psicologiche. In molti Paesi, non di madrelingua inglese, per mantenere il passo
della dominante cultura statunitense, con cui non pochi degli psicologi ufficiali si
identificano, vengono pubblicate direttamente anche riviste in lingua inglese (che
molti soci delle medesime società psicologiche locali non sono in grado di leggere
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correntemente). Mentre le pubblicazioni che non cercano di imitare lo standard
statunitense vengono considerate poco scientifiche almeno da una parte del sistema di finanziamento pubblico.
Per quanto riguarda il caso italiano (più recente), nel 1967 nasce la rivista
Psicoterapia e Scienze Umane che, fin dal titolo, propone una visione dell’intervento psicologico come paradigma interdisciplinare e come erede appunto della classica tradizione umanistica, più che della fisiologia biologica. Nel 1974 nasce il
Giornale Italiano di Psicologia, sdoppiato per qualche tempo (ma con scarso successo) nello Italian Journal of Psychology. Nel 1977 nasce la rivista Ricerche di Psicologia.
Nel 1982 cominciano le pubblicazioni di Psicologia Clinica (poi diventata Rivista di
Psicologia Clinica). A queste, che sono tra le prime della rifondazione post-sessantottesca, si affiancano ormai decine e decine di altre riviste, di varia ispirazione psicologica, che vengono prodotte con varia regolarità.
Nel 1983 il Governo federale statunitense investe circa 258 milioni di dollari
per finanziare la ricerca psicologica (di cui il 40% nella ricerca di base e il 60%
nella psicologia applicata). Con gli anni Novanta, pur con alti e bassi, negli Stati
Uniti il bilancio globale della psicologia come scienza (esclusa la pratica privata)
è certamente superiore ai 500 milioni di dollari l’anno, arrivando probabilmente a
superare il miliardo di dollari. A parte le istituzioni statali, oltre 20 000 fondazioni elargiscono finanziamenti alla psicologia.
Disponiamo anche di un attento studio sul prototipo dello psicologo ricercatore
eminente contemporaneo (cioè del leader di opinione all’interno del movimento),
il quale è ovviamente di lingua angloamericana (Simonton, 1992). Si tratterebbe
di un uomo (nel 96% dei casi), nato e cresciuto e formatosi quasi sempre negli
Stati Uniti, che ha vissuto (in media) fino a 71 anni, che ha studiato in una delle
università più importanti, dove lavoravano già (in media) 5 psicologi eminenti statunitensi, laureandosi in 3 casi su 4 sotto la guida di uno di tali personaggi e completando la propria formazione (Ph.D.) prima dei 28 anni d’età, operando successivamente in istituzioni dove agiscono numerosi altri psicologi eminenti. La prima
pubblicazione rilevante dello psicologo eminente medio appare verso i 30 anni (su
una rivista scientifica statunitense). Verso i 50 anni egli viene citato frequentemente nelle pubblicazioni specialistiche della sua comunità psicologica. Produce
l’ultimo lavoro importante verso i 63 anni d’età. Nell’arco della sua vita scientifica ha pubblicato in media 9 lavori significativi (principalmente articoli, ma anche
capitoli o libri) che vengono citati ancora, tra gli addetti ai lavori, decine di anni
dopo la loro prima apparizione.
Nell’arco dell’ultimo secolo, sempre secondo la stessa fonte, si è però verificato
un cambiamento nel profilo del tipico psicologo statunitense di rilievo, che è diventato sempre più nordamericentrico. Nelle sue pubblicazioni, le citazioni di lavori
prodotti al di fuori degli Stati Uniti sono diminuite drasticamente, così come la
pubblicazione di suoi articoli su riviste non americane. La quantità di citazioni
mediamente presenti in un singolo articolo è aumentata nettamente, riducendo la
preminenza di pochi singoli lavori (citati dai più), che invece appare evidente nei
primi decenni della disciplina. Sono diminuiti fino a un livello minimo i lavori firmati individualmente, a favore di quelli scritti a più mani. La citazione di lavori
presentati sotto forma di libro è diminuita, a favore di un enorme rilievo acquistato dagli articoli pubblicati su riviste. Il peso della presenza di maestri eminenti,
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durante la formazione dello psicologo rappresentativo, è diminuito, così come la
stretta correlazione tra importanza del singolo psicologo e importanza dell’università in cui è cresciuto.
UNA TERZA DIMENSIONE DELLA PSICOLOGIA: LA PROFESSIONE
Per capire la Psicologia Nuova (più o meno scientifica che sia) occorre evidenziare quanto, nel corso del Novecento, il suo punto di riferimento universale sia diventato, in modo pervasivo, soprattutto la cultura psicologica statunitense. Per rendersene conto basta sfogliare gli statuti delle diverse associazioni psicologiche nazionali, che ricalcano sempre quelli delle associazioni statunitensi, e più ancora i riferimenti bibliografici contenuti nelle pubblicazioni psicologiche edite in tutto il
mondo, dove è evidente l’egemonia quasi assoluta di contributi nordamericani
rispetto a quelli di qualsiasi altro Paese.
Lo Psicologo Nuovo del Novecento è infatti nato ricercatore universitario. Tale
origine si riflette ancora oggi in una certa quale diffidenza, specie da parte degli
accademici (cui peraltro è deputata la formazione anche degli psicologi intesi come
professionisti), nei confronti della pratica applicata (terapia compresa). Basti ricordare, a questo proposito, che l’esame della letteratura scientifica, per tutto il primo
mezzo secolo di vita della Nuova Psicologia, non evidenzia quasi nessuna idea di
applicatività. Per fare un esempio: la più autorevole storia della psicologia mai scritta, peraltro da uno psicologo accademico che aveva molto frequentato la medicina psicoanalitica (Boring, 1929-1950), si è sempre richiamata, nelle sue varie edizioni, alla sola tradizione detta sperimentale, senza praticamente citare riferimenti
clinici di rilievo.
Disponiamo inoltre di dati sulle opinioni degli psicologi ufficiali almeno a partire dalla fine dell’Ottocento, grazie a una serie di indagini condotte presso di essi
(conformemente alla tradizione di ricerca tipica della psicologia moderna). Alla
luce di tali dati si rileva che il riferimento diffuso alla pratica professionale extraaccademica, ma non ancora a quella che oggi viene definita (almeno in Italia)
come psicoterapia, compare in effetti, principalmente negli Stati Uniti, solo con la
Prima guerra mondiale (appunto mezzo secolo dopo la fondazione del leggendario
laboratorio di Lipsia). Praticamente è solo con il manifesto dei comportamentisti
di Watson (1913) che viene affermata pienamente, ancorché in sede specialistica,
la possibilità per gli psicologi di agire con fini pratici e in sedi diverse dall’università. In tale ben noto manifesto, Watson non parla di cura della malattia mentale, ma insiste decisamente sull’efficacia potenziale della psicologia scientifica nel
marketing, nelle vendite, nella pubblicità, nelle relazioni industriali, nella propaganda politica ecc.
Tornando alla dimensione, per così dire, americanista della psicologia (scientifica), si può ritenere che la funzione guida degli Stati Uniti dipenda in gran parte
dalla rilevanza numerica e politica della cultura statunitense. La psicologia, in particolare, si è sviluppata in quel Paese in modo eccezionale. Nel 1892, alla sua nascita, la American Psychological Association (APA) conta 7 soci. Nel 1904 ne raccoglie 71. Ma, sempre nel 1904, sono attivi negli Stati Uniti ben 49 laboratori di
ricerca in psicologia. Nel 1917 la American Psychological Association ha 360 iscritPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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ti, più di quelli della Società Italiana di Psicologia Scientifica mezzo secolo dopo.
Nel 1919 almeno 39 sedi universitarie statunitensi offrono un corso completo di
psicologia; mentre almeno 67 università possiedono un laboratorio di psicologia.
Già nel 1900 i Ph.D. (lauree molto specialistiche) in Psicologia rappresentano il
quarto gruppo più numeroso di Ph.D. negli Stati Uniti. Mentre a tutt’oggi il tasso
di crescita del gruppo professionale degli psicologi, in quel Paese, è secondo solo
all’insieme di quanti si occupano di computer e di informatica.
Altro particolare interessante: negli Stati Uniti la molla più potente di promozione della psicologia è sempre stata la guerra. Con la Prima guerra mondiale si
determina infatti lo sviluppo dei test e delle applicazioni della psicologia al sociale e all’industria. Mentre con la Seconda guerra mondiale (specie attraverso la
Veteran Administration) si afferma la cura psicologica, variamente definita come
terapia ma più spesso come counseling (particolarmente di gruppo).
Comunque, se ci si limita agli aspetti più generali, la storia degli psicologi, con
variazioni sul tema e con ritmi differenti, appare molto simile un po’ in tutto il
mondo. Tale evoluzione della disciplina e della relativa professione può dunque
venire sintetizzata in una progressione tipica.
In quasi tutti i Paesi occidentali il movimento della Nuova Psicologia Scientifica
si è evoluto più o meno secondo la medesima sequenza: nascita nella seconda metà
dell’Ottocento con alcuni pionieri, che si ispirano ai primi fisio-psicologi tedeschi;
filiazione da molte influenze diverse, quali la filosofia, la medicina, la biologia, la
religione, la sociologia, la pedagogia, la parapsicologia ecc; sviluppo della sperimentazione con il Novecento, specie per influsso nordamericano; tendenza ad arruolare a posteriori qualche classico filosofo o fisiologo locale (spesso poco noto altrove) nelle proprie file, descrivendolo come precursore eminente, o come vero inventore, della psicologia o di qualche suo settore; citazione degli stessi autori, spesso
statunitensi (non di rado, più esattamente, tedesco-americani), come punto di riferimento (ma con Freud in testa, pur nella propensione alla ricerca empirica e quantitativa); rilevanza quasi solo extra-accademica della psicologia applicata; crescita
costante e decisa della pratica professionale in genere e del counseling in particolare, ma solo nell’ultimo mezzo secolo; costante presenza di una difficoltà di fondo
connessa con le incertezze dell’immagine e del ruolo dello psicologo; complicati
problemi relativi al riconoscimento legale della professione; tendenza degli psicologi a sovrapporsi agli psichiatri e generale complessità di rapporti con il mondo
medico; controversie sulla pratica della terapia e dubbi sulla possibilità di una sua
esistenza separata dalla medicina (secondo alcuni) o dalla psicologia generica
(secondo altri).
L’IMMAGINE DELLO PSICOLOGO
Fra gli altri elementi di fondo che sono rilevanti per inquadrare la versione moderna dello psicologo, vi è quello secondo cui il movimento psicologico è costantemente percorso, in tutto il mondo, da un’endemica crisi d’immagine. Spesso le analisi e le ricerche dedicate al tema non vengono intitolate tanto alla “immagine”
dello psicologo bensì piuttosto alla sua ricorrente “mis-perception”. Tale immagine, con la sua intrinseca criticità, appare piuttosto costante nel tempo, almeno
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secondo i risultati delle ricerche sulla rappresentazione sociale dello psicologo
(Moscovici, 1961; Benjamin, 1986; Wood, Jones e Benjamin, 1986; Pediconi e
Rossi, 1998; Blandino, 2000).
Le ricerche mettono in evidenza, per esempio, oltre a una certa contraddittorietà di fondo, come il pubblico abbia in genere, e la tendenza pare crescere nel
tempo, un’immagine abbastanza positiva del movimento, con molti dubbi tuttavia riguardo alla effettiva utilità dell’oggetto di studio della psicologia stessa. Tale
immagine è diffusa in primo luogo nella classe media e alta (più che nelle altre
fasce socioeconomiche), tra le persone istruite e benestanti e urbane, ma soprattutto tra i molti che hanno avuto occasione di frequentare una qualsiasi forma
di istruzione o formazione (anche solo sotto forma di brevi corsi o letture) a contenuto psicologico.
La psicologia risulta essere una disciplina molto amata, benché venga spesso
criticata nei suoi singoli aspetti. Gli psicologi sono ben visti, ma vengono anche
considerati meno affidabili di altri professionisti, quali medici, economisti e ingegneri. Gli psicologi sono considerati “tipi strani”, più di quanto non avvenga per
altri specialisti. Da molti dati risulta anche che quei professionisti i quali si identificano maggiormente con il concetto di hard science (fisici, chimici, biologi e
anche medici) tendono a sviluppare un’immagine della psicologia meno favorevole di quella percepita dal pubblico in genere, o da altri professionisti scientificamente meno pretenziosi.
Non è chiaro quanto sia considerata socialmente utile la psicologia applicata ai
fatti della vita, al di là del suo interesse culturale; ma la fiducia nella sua efficacia
sembra essere tendenzialmente limitata. In ogni caso la richiesta di soluzioni psicologiche per problemi individuali (non di rado anche legati alla salute, oltre che
alle relazioni interpersonale e alla pratica lavorativa), che sono generalmente considerati di natura in larga parte psicologica, è molto diffusa nella popolazione.
In linea di massima il pubblico non distingue bene tra psicologi, psichiatri,
medici, counselor, assistenti sociali, sacerdoti e altri professionisti della salute
(mentale). Nel tempo, questa distinzione sembra però venire colta in termini un
poco più precisi.
Se si tiene conto delle ricerche che stimolano confronti diretti, basandosi su vari
indici di valutazione, gli psicologi sono considerati un po’ meglio degli psichiatri
ma peggio (o meno bene) dei medici. Lo psichiatra (rispetto allo psicologo) è percepito, in genere, come un professionista più pratico ed efficace nel concreto, oltre
che più orientato all’intervento sul paziente, benché meno scientifico. Appare generalmente noto al pubblico che lo psichiatra ha ricevuto una formazione medica,
ovvero che è l’unico professionista che prescrive farmaci (benché gli psicofarmaci
vengano generalmente richiesti al medico di base). Lo psicologo, di cui pure la
maggioranza ritiene in linea di massima che eserciti, come attività principale, la
terapia, rispetto allo psichiatra viene considerato piuttosto come un ricercatore, uno
scienziato del comportamento, uno studioso di opinione pubblica, uno che si occupa di educazione infantile, un somministratore di test.
Più in generale, il pubblico mostra evidenti difficoltà a capire che cosa sia uno
psicologo, se questi non si cura delle persone in termini più o meno clinici. La
ricerca psicologica di base raggiunge cioè, di fatto, una visibilità minima rispetto
alla componente clinica del movimento.
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Psicologi: tra professione, scienza e pratica quotidiana
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È stato sottolineato che i mezzi di comunicazione di massa rappresentano uno
strumento potenzialmente importante per comunicare una corretta immagine
dello psicologo al pubblico, anche se attualmente questo potenziale non viene
espresso al meglio. I media tendono peraltro a presentare solo una parte del movimento psicologico, sottolineandone le caratteristiche di intervento clinico (individuale), mentre testimoniano assai poco della dimensione di ricerca o di intervento non strettamente medico-sanitaria. Tale attitudine viene confermata da
numerose ricerche.
Per capire l’immagine dello psicologo risulta utile anche la constatazione secondo cui la psicologia come disciplina si è sempre confusa con lo psicologo come personaggio. A differenza di quanto avviene in altre scienze, in psicologia domina
infatti l’idea dello psicologo eminente (il grande scienziato, il “guru”). La storia del
movimento psicologico si confonde con la storia dei suoi autori e attori. Ciò vale
in misura massima nel caso della clinica.
La dominanza dei “grandi uomini” (anche sulle teorie) testimonia la dimensione personalistica del movimento psicologico e il suo dipendere dalle strategie intellettuali di singoli individui. Il fenomeno può tuttavia venire letto anche come una
interpretazione della scienza attraverso testimonianze individuali e personali. La
quale attitudine contrasta però con l’idea della comunità anonima di soggetti cooperanti in uno sforzo di definizione della realtà oggettiva, che invece rappresenta
una delle premesse fondative del movimento scientifico nel suo complesso.
Per cui dedicarsi alla professione di psicologo significa entrare a far parte di un
movimento dalle caratteristiche del tutto particolari, le quali, per quanto possa
apparire paradossale, non sono però molto studiate all’interno dei corsi di formazione in psicologia.
LO PSICOLOGO IN ITALIA
Anche la Nuova Psicologia Scientifica italiana è stata, più o meno per tutto il
suo primo mezzo secolo di vita, una disciplina universitaria a sfondo sperimentale. In questo settore ha avuto però un peso piuttosto significativo anche a livello
internazionale. Solo all’inizio, però. Si può dire infatti che la fase di relativa maggior rilevanza della psicologia nostrana è stata quella a cavallo tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Lo testimoniano efficacemente il testo di
Marhaba (1981) e le due migliaia di citazioni bibliografiche che vi sono riportate relativamente al periodo.
Anche in Italia la psicologia nasce come disciplina filosofica, con un riferimento al laboratorio sperimentale che è un’affermazione morale più che un fatto operativo. Solo qualche decennio dopo la sua nascita comincia a preoccuparsi anche
delle proprie applicazioni. Il movimento psicologico italiano si sviluppa a partire
dalla tradizione universitaria in psichiatria, antropologia, neurologia e filosofia.
Secondo Marhaba (1981) esso subisce, nel suo primo mezzo secolo di vita, l’influenza di alcune tradizioni principali: il positivismo evoluzionistico, il pensiero filosofico cattolico, la scuola di Wundt, quella di De Sarlo, il pragmatismo e l’epistemologia post-positivistica. I temi che caratterizzano la presenza psicologica scientifica italiana delle origini sono: i processi di coscienza e, particolarmente, la percePaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Storia ed epistemologia
zione; l’antropologia psicologica e lo studio del carattere; la psicopatologia; i fenomeni occultistici; la psicodinamica (non prima degli anni Dieci); la psicologia del
lavoro (dagli anni Trenta).
La nascita pubblica della disciplina, in Italia, viene sancita dal 5° Congresso
Internazionale di Psicologia tenutosi a Roma nel 1905, nonché dalle prime tre cattedre universitarie in Psicologia di Torino (Kiesow), Roma (De Sanctis) e Napoli
(Colucci). Nel 1910 nasce la Società Italiana di Psicologia, con meno di 50 soci.
Nel 1911 si svolge il primo congresso nazionale della Società Italiana di Psicologia,
a Torino. Nel 1914 viene istituita la quarta cattedra in Psicologia, a Padova (Benussi). Nel 1921 nasce la Società Psicoanalitica Italiana, di taglio latamente freudiano, con un solo psicoanalista tra i soci.
Con gli anni Venti comincia una certa decadenza della disciplina, almeno nella
sua versione accademica, nel nostro Paese. Nel 1916 l’insegnamento della psicologia viene abolito dagli istituti magistrali. Nel 1923 la riforma della scuola voluta dal ministro Gentile elimina la psicologia da tutte le scuole d’Italia. Nel 1938
viene tolto, per decreto, l’aggettivo “sperimentale” ai pochi insegnamenti universitari di Psicologia superstiti (ricoperti per incarico). Negli anni Trenta-Quaranta
sono presenti in tutto due cattedre universitarie di Psicologia, tenute entrambe da
allievi di Kiesow: a Milano (Gemelli) e a Roma (Ponzo). La successiva vera e propria cattedra di Psicologia verrà assegnata solo nel 1947, a Padova (Musatti). Ciò
significa che, dagli anni Venti ai primi anni Cinquanta, la psicologia in Italia
manca di sedi di formazione e non conta di fatto che poche decine di adepti, a
voler esagerare.
La rinascita del movimento psicologico è strettamente intrecciata con la Liberazione. Nel 1946 si tiene il primo congresso della Società Psicoanalitica Italiana.
Negli anni Cinquanta la Società Italiana di Psicologia perde il carattere di gruppo
misto fra psichiatri e filosofi per diventare istituzionalmente un’associazione di studiosi che si auto-definiscono solo come psicologi e che sono quasi tutti accademici. Nel 1969 la Società Italiana di Psicologia arriva a contare 336 iscritti.
Con gli anni Cinquanta si assiste allo straordinario sviluppo (prima negli Stati
Uniti e quindi, di riflesso, anche in Italia) degli psicofarmaci e particolarmente
delle sostanze chimiche psicotrope che svolgono, in vario modo, una funzione di
supporto nel trattamento della “malattia mentale”. Si ritiene in genere che la capacità sedativa degli psicofarmaci, pur con i loro limiti di “camicia di forza chimica”,
abbia favorito l’intervento integrativo da parte degli psicologi e in genere dei professionisti della salute, medici e non.
Tale ripresa postbellica è assai lenta, ma costante. Nel 1954 i professori di
Psicologia, in Italia, sono 9. Nel 1972 diventano 23 di ruolo, 20 aggregati, un centinaio di incaricati. Successivamente, il movimento psicologico italiano trova molti
punti in comune con le tendenze progressiste del movimento ideologico-politicoesistenziale che viene detto del “Sessantotto”. L’attenzione alla soggettività e la
preoccupazione per le varie forme di emarginazione sociale, assieme a uno sforzo
di ridefinizione della normalità e della devianza, pongono gli psicologi in consonanza con il diffuso movimento riformatore, o rivoluzionario o velleitario (a seconda dei punti di vista), che attraversa l’Italia.
Nel 1973 viene presentato il primo disegno di legge sulla professione dello psicologo, poi decaduto. Nel 1975 si tiene il 16° Congresso degli Psicologi Italiani a
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Psicologi: tra professione, scienza e pratica quotidiana
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Bologna, con una decisiva svolta di (pur drammatico) rilancio e di rinnovamento
o almeno di grande speranza.
Un segno di quei tempi è rappresentato dalla riforma psichiatrica italiana del
1978 (legge stralcio del 13 maggio), detta anche “legge 180” o “legge Basaglia”, la
quale porta all’abolizione (peraltro mai completamente realizzata) degli ospedali psichiatrici. Sempre in quell’atmosfera vengono eliminate le famigerate classi differenziali. I portatori di handicap entrano, salvo eccezioni, nella scuola di tutti. In
Italia l’assistenza al disagio mentale viene dunque trasferita, almeno programmaticamente, all’ospedale generale, alle famiglie d’origine e al “territorio”, benché l’organizzazione delle necessarie strutture pubbliche di supporto non venga quasi mai
realizzata.
Un altro momento determinante della ripresa psicologica italiana è rappresentato dal nascere di corsi di laurea specificamente dedicati alla disciplina.
Nell’anno accademico 1971/72 prendono avvio i primi due corsi di laurea in
Psicologia, a Roma e Padova, della durata di 4 anni. Nel 1974 cominciano a essere pubblicate anche riviste psicologiche di taglio più divulgativo, quali Psicologia
Contemporanea. Nel 1985 la durata del corso di laurea in Psicologia viene portata a 5 anni. Nascono nuovi corsi di laurea a: Palermo (1986); Bologna, Cagliari,
Torino, Trieste (1989); Firenze, Urbino (1992); Milano-Cattolica, Napoli (1993);
Milano San Raffaele, Parma (1996); infine Bari, Chieti, Roma Lumsa, Milano
Bicocca, Pavia ecc.
Attualmente, dopo la riforma degli studi universitari italiani promulgata nel 1999,
che prevede una laurea di primo livello della durata di tre anni e una laurea specialistica della durata di altri due, i corsi di laurea italiani in Psicologia sono decine e decine, sparsi un po’ per tutta la penisola. La formazione psicologica è però
presente nell’area centro-settentrionale del Paese più che al Sud.
Per quanto riguarda la presenza di insegnamenti accademici, nel 1991, in Italia,
i professori ufficiali di Psicologia erano diventati 406: 172 ordinari (42%) e 234
associati (58%). Nel 1996 diventano 497: 253 ordinari (51%) e 244 associati (49%).
Mentre, con la fine degli anni Novanta cambiano anche le modalità dei concorsi
universitari per diventare professore o ricercatore, che prendono un taglio meno
nazionale e più localistico.
Oggi, ovvero nel 2006, vedendone anche la distribuzione per settori e per fasce,
i professori universitari di Psicologia, secondo i dati del Ministero, sono diventati
ben 700 (con un incremento del 41% in 10 anni), così distribuiti: a Psicologia
generale, 100 ordinari e 84 associati; a Psicobiologia e psicologia fisiologica, 37
ordinari e 27 associati; a Psicometria, 10 ordinari e 28 associati; a Psicologia dello
sviluppo e dell’educazione, 57 ordinari e 57 associati; a Psicologia sociale, 45 ordinari e 52 associati; a Psicologia del lavoro e delle organizzazioni, 22 ordinari e 18
associati; a Psicologia dinamica, 29 ordinari e 42 associati; a Psicologia clinica, 42
ordinari e 50 associati.
Se consideriamo anche i ricercatori, le forze della psicologia accademica assommano invece attualmente a: Psicologia generale, 274; Psicobiologia e psicologia
fisiologica, 98; Psicometria, 64; Psicologia dello sviluppo e dell’educazione, 183;
Psicologia sociale, 154; Psicologia del lavoro e delle organizzazioni, 77; Psicologia
dinamica, 118; Psicologia clinica, 153. Per un totale di 1121 universitari di ruolo
a vario titolo.
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Storia ed epistemologia
LA FORMAZIONE
La Nuova Psicologia Scientifica del Novecento tende a coincidere con l’università,
e quindi con l’insegnamento. La dimensione educativa rappresenta infatti un elemento centrale nella vita dello psicologo, non solo per la formazione che questi
riceve, ma anche per quella che offre. Da molti indizi si direbbe infatti che lo psicologo è formato, e forma, in continuazione.
Per esempio, secondo un censimento degli psicologi statunitensi operanti negli
Stati Uniti condotto nel 1983, risulta che si svolgono attività di tipo educativo
nel 64% dei setting di attività principale degli psicologi. Tale percentuale rappresenta una misura di impegno professionale paragonabile solo a quella delle attività cliniche. Qualcosa di simile avviene anche in Italia, quanto meno con il sistema dei tirocini, degli stage, dei seminari (weekend), delle scuole private di psicoterapia, della formazione personale. In sostanza, anche dal punto di vista dell’insegnamento-apprendimento, il movimento psicologico è un circolo sociale che
continuamente si autoalimenta, sostenendosi, anche sul piano economico, in larga
parte da solo.
In tutto il mondo, la preparazione psicologica ufficiale (a parte quella concreta
che si realizza sul campo) presenta due anime principali: l’una universitaria (pubblica), l’altra professionale (privata). La componente accademica riguarda l’apprendimento teorico e di ricerca, nonché l’acquisizione delle qualifiche necessarie
per ottenere la certificazione legale alla professione, almeno nei pochi Paesi dove
questa esiste. La componente privatistica è invece relativa per lo più alla formazione personale di tipo clinico. Tale divaricazione è più rilevante in Italia che altrove (in particolare negli Stati Uniti), dove anche la preparazione clinica avviene
spesso all’interno di istituzioni universitarie (che però sono generalmente private)
o comunque di istituti privati simili a università (o a cliniche universitarie).
I percorsi formativi degli psicologi variano, anche di molto, da un Paese all’altro e da una sede all’altra. Esiste una certa tendenza storica all’omogeneizzazione
di questi percorsi, ma le strade tendono a rimanere comunque relativamente divergenti.
La varietà dei contenuti dei corsi formativi si collega, almeno in parte, al fatto
che le occasioni di lavoro che si offrono agli psicologi sono piuttosto varie e tendono a diversificarsi sempre più con il tempo. In altre parole: poiché la gamma
delle situazioni professionali in cui lo psicologo può trovarsi a operare si amplia di
anno in anno, anche il quadro della formazione tende a incorporare contenuti riferiti a realtà sempre nuove.
Un altro motivo di diversificazione, che interviene particolarmente nel caso della
formazione a sfondo terapeutico, deriva dalla molteplicità delle teorie cui gli psicologi si ispirano. In Italia, per esempio, i percorsi formativi postuniversitari (privati) che si offrono allo psicologo sono decine e decine, a seconda delle diverse
teorie (e sottoteorie) di riferimento in base alle quali sono stati costruiti, mentre
le sedi organizzate di terapia e di formazione sono ormai centinaia.
In generale, comunque, non sembra che si siano trovate modalità rigorose per
stabilire criteri di valutazione del training psicologico nelle sue molteplici variazioni, il che ha portato a sviluppare molte considerazioni critiche al riguardo
(Roe, 2002).
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Psicologi: tra professione, scienza e pratica quotidiana
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Il problema delle modalità specifiche di valutazione della formazione riguarda
in realtà tutte le discipline insegnate in università, ma nel caso della psicologia
è forse presente qualche problema in più. Da un lato, non esiste un corpus dottrinale di riferimento (l’equivalente di un manuale di chimica o di analisi matematica), di cui sarebbe relativamente facile verificare il livello di conoscenza nello
studente. Dall’altro si auspica, almeno da parte di alcuni, che la formazione abbia
un carattere esperienziale (di modificazione degli atteggiamenti, se non della personalità), che però risulta particolarmente difficile da valutare con qualunque tipo
di esame.
Inoltre, in una concezione dell’università come luogo deputato all’apprendimento di conoscenze, risulta difficile (oltre che, secondo molti, scorretto) introdurre
criteri di valutazione così opinabili, personali e per molti aspetti ideologicamente
condizionati come quelli, appunto, psicologici. Del tipo: lo studente ha imparato a
“gestire il transfert”? È in grado di osservare il gruppo senza “entrare in dinamica”
con esso? È veramente fedele alla “giusta linea” interpretativa? E via dicendo.
In ogni caso, come dato di fondo, la preparazione degli psicologi vede una tendenza, che è tanto italiana quanto internazionale, verso il prevalere dei clinici e
counselor ovvero degli applicativi rispetto ai ricercatori e agli accademici; l’affermarsi di un diffuso eclettismo terapeutico; il costituirsi di specializzazioni relative alla psicologia della salute nella direzione di una nuova, e sempre più diffusa, figura di psicologo “sanitario”. Anche l’autoprofilo dello psicologo anni
Duemila è quello di un professionista che si propone fondamentalmente come
uno psicologo pratico, il quale opera in primo luogo nella professione privata, ma
molto meno nella ricerca o nell’università, e che mediamente produce solo rare
pubblicazioni e ricerche.
Va peraltro notato che, dal punto di vista dell’attuale suddivisione ufficiale di
tutta la formazione universitaria italiana in quattro “classi di laurea” principali, pur
esistendo l’Area Sanitaria, quella Scientifica e quella Umanistica, il Ministero ha
comunque deciso di collocare le lauree psicologiche nell’Area Sociale, assieme alle
lauree disciplinari che hanno a che fare con il diritto, l’economia, la comunicazione, l’educazione, il turismo, lo spettacolo, la cooperazione, la pace ecc.
Venendo ai numeri della professione: negli Stati Uniti, negli anni Sessanta del
Novecento, ci sono oltre 15 000 diplomati in Psicologia all’anno. Negli anni Settanta sono circa 30 000. Negli anni Ottanta sono circa 40 000 (sempre all’anno).
Ai massimi livelli di formazione, negli anni Novanta ci sono circa 35 000 detentori di Ph.D. in Psicologia (più di metà nell’area clinica: terapia e counseling), a
un ritmo di circa 3000 nuovi Ph.D. in Psicologia all’anno.
In Italia, a partire dalla loro nascita negli anni Settanta, e in modo costante fino
a oggi, gli studenti che si affacciano al corso di laurea in Psicologia rappresentano
un gruppo decisamente numeroso. Negli anni Ottanta si registrano nel complesso
almeno 20 000 iscritti a Psicologia in uno stesso anno, sommando tutti i corsi di
laurea tenuti nelle varie università e tutti gli anni di corso, fuoricorso compresi.
Con gli anni Novanta e oltre, ovvero con l’apertura di nuove sedi, il numero globale aumenta, tendendo ormai a essere nell’ordine dei 50 000 studenti, di cui almeno 10 000 fuoricorso.
Con gli anni Duemila la propensione da parte dei giovani a seguire studi psicologici tende però a essere meno plebiscitaria. Il che può dipendere da varie cause,
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Storia ed epistemologia
tra cui: la diffusione dei numeri programmati all’accesso; la constatazione da parte
degli studenti del fatto che la psicologia accademica è fatta molto più di fisiologie
e di statistiche e di laboratori che non di capacità nel confrontarsi con situazioni
pratiche reali (ovvero: con le persone); la concorrenza di altre formazioni in qualche modo simili ma più attraenti, quali la comunicazione, la formazione ecc.
Più di metà dei laureati italiani in Psicologia segue poi qualche corso di formazione-specializzazione-perfezionamento postlaurea. In misura analoga, i laureati si
sottopongono a qualche forma di psicoterapia o formazione personale psicodinamica (o qualcosa del genere).
In generale, gli studenti di psicologia non sembrano molto convinti del tipo di
formazione che ricevono. I primi studenti di Roma invitati a valutare, in un compito a due scelte, se il corso di laurea avesse conseguito oppure no alcuni specifici obiettivi formativi, scelgono la risposta “conseguito”, in relazione ad alcuni
obiettivi elencati in un questionario, nella seguente misura: fornire strumenti di
conoscenza e controllo del proprio e dell’altrui comportamento (45%); fornire
un’adeguata formazione tecnico-scientifica (29%); fornire una formazione critica
(17%); fornire un’adeguata formazione teorico-pratica di base (12%); fornire un’adeguata formazione professionale (6%). In sostanza, per più di metà degli intervistati non viene raggiunto nessun obiettivo. L’utilizzo della preparazione acquisita
in università nella pratica professionale è stato possibile, secondo i laureati in
Psicologia a Padova tra il 1983 e il 1985: spesso o sempre (22%); qualche volta
(62%); mai (16%).
In tempi un po’ più recenti, a Torino, gli studenti che frequentano il corso di
laurea in Psicologia si dichiarano abbastanza soddisfatti di quello che stanno ricevendo, anche se buona parte di loro manifesta dei dubbi rispetto alla capacità del
corso a prepararli veramente alla professione (Perussia, 1993). Si evidenziano infatti varie perplessità, in quanto essi ritengono che una conoscenza veramente profonda della psicologia si possa conseguire solo al di fuori dell’università (affermazione
sottoscritta dal 52% dei frequentanti); che al momento dell’iscrizione a psicologia
si aspettavano, nel bene e nel male, qualcosa di diverso da quello che hanno trovato (39%); che dagli studi di psicologia hanno avuto meno di quello che speravano (24%).
Nonostante i molti limiti percepiti, avviene comunque che ben il 75% dei laureati in Psicologia a Padova tra il 1983 e il 1985, se dovesse tornare indietro nella
propria vita, si reiscriverebbe a Psicologia; solo l’8% si iscriverebbe a un altro corso
di laurea; il 13% non si iscriverebbe all’università; il 4% non si pronuncia. Più o
meno lo stesso accade negli Stati Uniti e un po’ in tutti gli altri Paesi dove sono
state condotte ricerche al riguardo. La percentuale di soddisfazione supera di solito il 90% tra quelli che hanno raggiunto il livello di Ph.D.
In conclusione: si tratterà forse di un meccanismo legato alla dissonanza cognitiva, ma i laureati in Psicologia tendono a dichiararsi comunque soddisfatti della
propria scelta (benché, in genere, non di molti suoi aspetti particolari) e in linea
di massima non vorrebbero tornare indietro nella loro carriera formativa per seguirne una diversa. Se consideriamo sia quelli che si dichiarano “molto” sia quelli che
si dichiarano “abbastanza” soddisfatti, non meno di tre quarti (e talvolta la quasi
totalità) degli psicologi avvicinati, in Italia e nel mondo, nell’ambito di varie indagini sembrano avere integrato piuttosto efficacemente le proprie aspirazioni esiPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Psicologi: tra professione, scienza e pratica quotidiana
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stenziali con la formazione ricevuta, particolarmente coloro che hanno intrapreso
la carriera di ricercatore o di psicologo clinico. Non pochi di questi avrebbero tuttavia desiderato una preparazione migliore, specie nel senso di una maggiore attenzione agli aspetti applicativi della disciplina.
Per quanto riguarda il caso italiano, potrà risultare interessante una citazione
ufficiale. Alla vigilia degli anni Novanta Holtzman (1989), già presidente della
International Union of Psychological Science, afferma autorevolmente che in Italia,
con il nuovo corso di laurea di 5 anni, con le scuole di specializzazione e la legge
di regolamentazione della professione, si è costituito “uno degli standard più elevati del mondo relativi alla professione psicologica” (p. 35). E ribadisce: “Il recente miglioramento nella formazione e nello status professionale degli psicologi italiani costituirà un ottimo modello di riferimento per altri Paesi” (p. 38).
Poi, con la moltiplicazione delle scuole private di psicoterapia e l’introduzione
del nuovo ordinamento universitario, la formazione psicologica in Italia è di certo
cambiata, ma non necessariamente in peggio.
LA LEGGE
Una strada particolarmente utile per capire lo psicologo contemporaneo è lo studio della normativa legale, prodotta durante il lungo processo di legittimazione
sociale del movimento nella sua versione contemporanea. Come nota Rosenzweig
(1982), esiste infatti un meccanismo circolare (virtuoso o vizioso che sia) che lega,
in tutto il mondo, lo status della professione psicologica con il suo riconoscimento legale. Avviene cioè che, quando la professione è socialmente percepita come
rilevante, viene anche inquadrata in un qualche regolamento. Nel contempo, per
il fatto stesso di venire regolamentata, la professione acquista rilievo e credibilità
sociale. Mentre, col venire legalizzata, tende anche spesso a diventare corporativa
e a irrigidirsi non solo nella definizione delle parcelle ma anche nelle modalità
legittimate di intervento.
In Italia capita di trovare riferimenti alla psicologia in leggi di vario livello e
argomento (Calvi e Lombardo, 1989; Carli et al., 1995). La definizione legale più
rappresentativa dello psicologo deriva, comunque, dalla legge che regolamenta
l’Ordinamento della professione di psicologo (DPR n. 56, 18-2-1989). La formulazione di questa legge ben riflette come viene concepita la figura dello psicologo nella
società italiana attuale. Tale concetto appare decisamente vago. Tutto quello che
se ne dice è infatti contenuto nell’articolo 1 (Definizione della professione di psicologo), che recita:
“1. La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alla
comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale
ambito”.
Tutto qui. In poche parole: psicologia è ciò che va sotto il nome di psicologia.
Non è dato di saperne di più.
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Storia ed epistemologia
Secondo la definizione della legge, la cura della malattia mentale è volutamente trattata a parte, nell’articolo 4 (Esercizio dell’attività psicoterapeutica), dove si dice:
“1. L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato a una specifica formazione
professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in
medicina e chirurgia, mediante corsi almeno quadriennali che prevedano adeguata
formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del decreto del Presidente
della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all’art. 3 del citato decreto del Presidente della Repubblica. 2. Agli psicoterapeuti non medici è vietato ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica. 3. Previo consenso del paziente, lo psicoterapeuta e il medico curante sono tenuti alla reciproca
informazione”.
Come si può notare, nella legge manca, nel bene e nel male, qualsiasi definizione del concetto di psicoterapia. Ci si riferisce infatti a tale attività, ma non la
si descrive. Benché la legge si intitoli esclusivamente all’ordinamento della professione, l’attività detta psicoterapeutica (che pure viene definita dai professionisti
come una parte rilevante dell’attività e dell’immagine dello psicologo) vi è trattata separatamente, e solo in termini di formazione professionale postuniversitaria
riferita anche a medici non-psicologi. Sembra cioè venire considerata come una
specie di psicologia-non-psicologia, con forti connotazioni sanitarie.
Ai medici, che pure rappresentano una categoria professionale non psicologica,
è dedicato specificamente un comma (il 2); e tale riferimento appare decisamente
paradossale, considerando che quello degli psicologi è un Ordine professionale cui
un medico, in quanto tale (se non è anche laureato in Psicologia), non può accedere. Si noterà poi che la formazione psicoterapeutica è definita “professionale”
(come dire: non scientifica, ma applicativa). Inoltre, nel caso della terapia, la preparazione medica (che spesso non prevede nemmeno un esame di Psicologia) è
considerata formazione propedeutica allo stesso titolo di quella psicologica.
L’attuale regolamentazione legale della professione di psicologo, almeno in Italia,
risente insomma decisamente di pregiudizi e di anacronismi vari. Si tratta però della
situazione reale, che secondo molti rappresenta comunque un’evoluzione (nel bene
e/o nel male) rispetto al passato.
LA PROFESSIONE
Anche lasciando da parte un esame dettagliato dell’uso della psicologia nei contesti professionali in genere (e quindi la sua diffusissima presenza in ambiti non ufficialmente psicologici), risulta piuttosto evidente che lo psicologo professionista è
una figura difficile da descrivere con esattezza, specie per quanto riguarda gli elementi che lo distinguono chiaramente da altre figure di professionisti i quali, pur
utilizzando appunto costrutti che fanno parte della tradizione psicologica, si qualificano in termini differenti. Vi sono infatti molti altri operatori, oltre allo psicologo, che utilizzano sistematicamente strumenti, concetti e setting, ovvero affrontano problemi almeno in parte analoghi a quelli tipici della psicologia.
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Psicologi: tra professione, scienza e pratica quotidiana
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L’insieme di tali attori, molto simili agli psicologi, comprende almeno due grandi categorie generali di professionisti: quelli che godono di credibilità sociale (ma
non nel campo specifico della psicologia) e quelli maggiormente discussi come
figure professionali. Al primo gruppo appartengono, per esempio, i sacerdoti, i
medici, i counselor. Nel secondo gruppo si collocano invece, per esempio, gli
astrologi, i chiromanti e in genere gli studiosi e gli utilizzatori della parapsicologia.
Gli elementi di continuità fra l’altra psicologia e la psicologia ufficiale riguardano, quanto meno: l’oggetto dell’intervento, che è in genere un disagio soggettivo;
le motivazioni del cliente, che sono spesso analoghe a quelle di chi si rivolge allo
psicologo; gli strumenti utilizzati, che vanno dall’ascolto, alla suggestione, all’ipnosi. Le differenze principali riguardano invece il curriculum formativo.
Sul tema generale della professione dello psicologo esistono diversi lavori anche
italiani (Perussia, 1994; Rossati e Ricciuti Biasco, 1998; Sarchielli e Fraccaroli,
2002). Alcuni di questi si riferiscono più specificamente all’intervento terapeutico,
sia in campo privato sia pubblico (Lo Verso et al., 1987).
Al di là di tutti questi problemi di distinzione, il numero degli psicologi patentati nel mondo è comunque andato via via crescendo. Tra il 1970 e il 1980 è più
che raddoppiato. Lo stesso è avvenuto dagli anni Ottanta a oggi. Nel 1982 si calcolava vi fossero circa 260 000 psicologi professionisti nel mondo. Attualmente sono
certamente oltre mezzo milione e probabilmente verso il milione, anche limitandosi solo a quelli iscritti a una qualche associazione o sindacato o corporazione ufficiale. Secondo alcuni dati comparativi, relativi agli anni Novanta, la densità degli
psicologi per milione di abitanti è, per fare qualche esempio: Olanda 884, Israele
568, Stati Uniti 521, Brasile 433, Italia 348, Argentina 323, Inghilterra 244,
Giappone 35, Zimbabwe 6.
Negli anni Ottanta l’American Psychological Association (APA) contava oltre
60 000 soci. Negli anni Novanta, i soci sono diventati più di 100 000. Nel 2006 il
numero degli iscritti all’APA assomma a circa 150 000. Nel 1962 il bilancio dell’APA è di circa un milione di dollari. Nel 1990 supera i 40 milioni di dollari.
Negli anni Duemila arriva ai 40 milioni di dollari solo con le quote di iscrizione,
mentre il bilancio ufficiale complessivo ha largamente superato, nel 2004, gli 80
milioni di dollari.
In Italia, fino alla legge che inquadra giuridicamente la professione di psicologo
nel 1989, risulta essere presente solo qualche decina (fino agli anni Sessanta) e poi
qualche centinaia (fino agli anni Ottanta) di persone che si auto-propongono come
psicologi. Con la metà degli anni Novanta si arriva ai 20 000 iscritti all’Ordine.
Attualmente, gli iscritti all’Ordine degli psicologi sono intorno ai 50 000, di cui
una parte rilevante (dalla metà ai tre quarti) appare interessata ad attività di tipo
clinico.
Nella storia del movimento psicologico professionale, la crescita della clinica è
stata esponenziale rispetto allo sviluppo della ricerca. Clinici e applicativi in genere sono oggi molto più numerosi di accademici e ricercatori. I ricercatori-insegnanti
negli Stati Uniti erano almeno il 60% degli psicologi professionisti negli anni Venti,
non più del 10% oggi. La svolta decisiva, in cui il numero degli psicologi accademici diventa certamente inferiore a quello dei professionisti non accademici, si è
verificata nella seconda metà degli anni Settanta.
Paolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Storia ed epistemologia
Una caratteristica importante e piuttosto originale della professione psicologica
è anche quella di annoverare al proprio interno un grande numero di donne. In
questo senso la psicologia rappresenta in tutto il mondo, tra le professioni scientifiche, quella a maggiore presenza femminile, ovvero quella che offre opportunità
scientifico-professionali più eque (indipendenti, cioè, dal sesso di appartenenza).
Negli Stati Uniti, le donne sono il 10% degli psicologi già nel 1910; diventano
il 40% nel 1950; sono oltre il 50% oggi. Anche in Italia le psicologhe sono oggi
ben oltre il 50% degli psicologi. In Brasile sono l’80%; in Egitto e Germania il
35%; in Giappone il 25%. La situazione appare simile un po’ in tutta Europa (Olos
e Hoff, 2006). Anche per quanto riguarda gli studenti dei corsi universitari italiani di Psicologia, pur con lievi differenze locali, le donne (costantemente attorno ai
tre quarti degli iscritti) prevalgono nettamente rispetto agli uomini (attorno a un
quarto).
In generale, presso gli psicologi è diffusa la convinzione che i laureati in
Psicologia non troveranno lavoro. La critica psicologica italiana si sofferma incessantemente sul tema della carenza di sbocchi professionali. Il corso di laurea in
Psicologia viene spesso indicato come un sinonimo di disoccupazione, sin dalla sua
nascita.
Contrariamente a tale diffuso pessimismo, i dati raccolti attraverso indagini sistematiche mostrano invece una realtà di segno decisamente opposto. Si verifica
insomma una curiosa dissociazione (forse di natura scaramantica), per cui gli studenti (così come i professori) ostentano scarsa fiducia nella possibilità di trovare
lavoro dopo il conseguimento della laurea in Psicologia, mentre i dati sui laureati
evidenziano che questi trovano in molti casi una occupazione (più che) dignitosa
o, comunque, che non se la passano peggio dei colleghi di molte altre facoltà.
Se si conduce un esame complessivo delle diverse realtà nazionali dei Paesi del
mondo, il tasso di disoccupazione tra gli psicologi risultava stabilizzato al di sotto
del 10% già negli anni Settanta (Rosenzweig, 1982). Esso appare del resto, allora
come oggi, generalmente inferiore a quello tipico di altre discipline (Lettere, Filosofia, Architettura, Scienze naturali, Giurisprudenza, non di rado anche Medicina,
Ingegneria ecc.).
I dati relativi ai laureati in Psicologia, a Padova, tra il 1975 e il 1980 evidenziavano che circa un terzo (34%) aveva trovato lavoro come psicologo nei primi
anni successivi al diploma. L’8-9% svolgeva il lavoro di psicologo contemporaneamente a un altro lavoro non psicologico. I laureati disoccupati completi, che non
lavoravano né in campo psicologico né in settori di attività non psicologica, passano da un quarto nei primi due anni dopo la laurea a un decimo a 3-5 anni di
distanza dal diploma. In altre parole: a 5-10 anni dalla laurea, la disoccupazione
degli psicologi italiani era tendenzialmente inferiore al livello fisiologico dell’insieme dei laureati di pari età.
Secondo gli ultimi dati disponibili, grazie al sistema AlmaLaurea, riferiti al 2005,
i laureati in Psicologia (vecchio ordinamento) risultano regolarmente occupati, a
tre anni dalla laurea, nella misura di circa l’84%, con un 9% in cerca di lavoro.
Secondo la stessa autorevole fonte, tanto per avere qualche punto di comparazione, gli occupati laureati nelle varie discipline sono all’incirca (sempre a tre anni
dalla laurea): Giurisprudenza 58%; Scienze (fisica, chimica, matematica ecc.) 66%;
Lettere e filosofia 76%; Economia e commercio 77%; Ingegneria 91%.
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Psicologi: tra professione, scienza e pratica quotidiana
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LA PROFESSIONALIZZAZIONE DELLO PSICOLOGO
La psicologia in quanto professione è cambiata continuamente, sin dalla sua rinascita moderna in versione scientifica, ma ha subìto un vero e proprio salto qualitativo e quantitativo soprattutto a partire dagli anni Sessanta del ventesimo
secolo. Già una quindicina di anni fa, Leahey (1991) sintetizzava: “gli psicologi,
a metà degli anni Ottanta, si possono trovare virtualmente ovunque, coinvolgendo la vita di milioni di persone” (p. 393). Per avere un’idea dello sviluppo
specifico degli psicologi, limitandoci al periodo fra il 1970 e il 1980, possiamo
citare qualche dato nazionale dei molti presentati da Rosenzweig (1982). Gli psicologi membri di società nazionali ufficiali sono passati, per esempio, in Venezuela
da 200 a 1900 (+850%); in Jugoslavia da 277 a 1903 (+587%); in Israele da 289
a 1750 (+506%); in Italia da 311 a 1360 (+337%); nella Germania ovest da 244
a 1050 (+330%); in Finlandia da 450 a 1323 (+194%); nella Germania est da
2030 a 5520 (+172%); in Canada da 1000 a 2300 (+130%); in Olanda da 1200
a 2752 (+129%); in Australia da 1300 a 2733 (+110%); in India da 227 a 475
(+109%); in Polonia da 1005 a 2000 (+99%); in Inghilterra da 4188 a 7690
(+84%); negli Stati Uniti da 27 250 a 49 046 (+80%). Nei decenni successivi,
fino a oggi, la tendenza non ha fatto altro che confermarsi, benché con crescite
percentuali minori.
Per quanto riguarda l’entità quantitativa del movimento psicologico professionistico, si nota peraltro che il numero degli psicologi non è mai stato conosciuto con
esattezza. Ciò dipende soprattutto dal fatto che anche le rilevazioni basate sulle
definizioni più codificate non riescono a comprendere in modo compiuto la quantità di persone che operano nel campo della psicologia (indipendentemente da una
qualche loro qualificazione professionale formale). E questo ha un peso molto rilevante, specie considerando la natura diffusa della pratica psicologica, ben al di là
dei tentativi protezionistici di limitare l’esercizio della disciplina solo a questa o a
quella associazione, che rappresenta una delle anime costitutive della nuova psicologia scientifica stessa.
Va peraltro sottolineato che in letteratura (sulla base di vari dati obiettivi e di
deduzioni indiziarie) si ritiene generalmente che la quantità di psicologi non catalogati nelle categorie ufficiali ammonti a un numero almeno pari (se non di molto
superiore) a quello degli psicologi ufficiali. Se dunque aggiungiamo un milione di
ulteriori operatori al milione di individui che si stima (molto a spanne) rappresentino attualmente il corpo formalizzato del movimento psicologico in servizio attivo nei diversi Paesi, è possibile giungere alla conclusione che verosimilmente gli
operatori psicologici presenti oggi nel mondo siano nell’ordine dei due milioni di
persone e probabilmente anche (molti) di più.
Per quanto riguarda il caso italiano, possiamo fare riferimento a diverse fonti,
pure in assenza di dati ufficiali veramente completi. Oltre ai laureati in Psicologia,
ci sono diverse centinaia di specializzati in psicologia ma laureati in altre discipline, nonché molti professori e ricercatori universitari di ruolo, psichiatri, medici e altri professionisti che non sono laureati né specializzati in psicologia, e che
spesso non sono iscritti all’Ordine degli psicologi, pur lavorando indubbiamente
nel settore. Il complesso degli individui non formalmente psicologi che agiscono
in Italia utilizzando strumenti psicologici, considerando anche i medici e gli psiPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Storia ed epistemologia
chiatri, ammonta probabilmente a non meno di 30-50 000 persone (giusto per
dare un vago ordine di grandezza).
Dal punto di vista dell’estrazione sociale, si può ricordare che la professione dello
psicologo, per il fatto stesso di essere appunto una professione, si collega necessariamente a un ambiente socioeconomico di tipo borghese (come si usa dire).
Analogamente a quanto avviene per tutte le professioni, anche l’esercizio della psicologia presuppone in linea di massima un livello di istruzione elevato, e cioè un
contesto familiare sufficientemente solido da permettere di intraprendere un lungo
percorso di studi. La scelta di psicologia apre altresì la strada a una carriera di tipo
intellettuale che non produce guadagni immediati, e consiste in un’attività lavorativa relativamente disinteressata, nel senso che risulta in genere (anche quando
va abbastanza bene) meno redditizia rispetto ad altre professioni classiche (medici,
odontoiatri, avvocati, ingegneri, laureati in economia e commercio ecc.), o almeno agli esponenti di queste che raggiungono i più alti livelli di successo economico. In poche parole: lo psicologo è necessariamente, per quanto con tutte le eccezioni del caso, un esponente della classe media e alta, con una propensione solo
moderata verso il guadagno.
In sintesi, sommando i dati relativi all’età con quelli che definiscono il livello
socioeconomico, l’area di residenza e di attività ovvero i contesti di formazione, lo
psicologo, un po’ in tutto il mondo, è fondamentalmente un tipico esempio di
young urban professional, ovvero, come si è detto in termini coloriti, uno yuppie;
peraltro, come già notato, soprattutto uno yuppie donna.
Su un piano generale, i principali settori di intervento degli psicologi, secondo
la American Psychological Association, sono: insegnamento, ricerca, terapia, servizio pubblico, consulenza. La pratica della psicologia sembra peraltro progredire
verso una crescente diversificazione.
Un dato caratteristico riguarda poi il fatto che la professione tende a venire svolta in modo discontinuo. La grande varietà di ambiti e di contesti di lavoro applicativi in cui è presente il movimento psicologico si accompagna infatti alla propensione del singolo psicologo a lavorare contemporaneamente in più settori. Da un lato,
si rileva una notevole presenza di lavoro part time. Dall’altro lato, si direbbe che
gli psicologi mostrino una certa disposizione a svolgere più attività una accanto all’altra. Il lavoro part time è diffuso specie fra i clinici, per i quali l’intervento diretto
sui pazienti rappresenta nella maggioranza dei casi un’attività solo secondaria.
Per esempio, secondo una ricerca sulla totalità dei laureati in Psicologia a Padova
tra il 1975 e il 1985, il 52% dichiara di svolgere attività nel campo terapeutico,
ma solo il 9% lo fa in modo esclusivo, mentre il restante 43% si occupa anche di
altro (Favretto e Majer, 1990). A metà degli anni Ottanta, secondo una ricerca
riportata dagli stessi autori sugli psicologi iscritti alla Società Italiana di Psicologia
nel Veneto, l’85% dichiara di svolgere una qualche attività terapeutica. Solo il 15%
lo fa tuttavia in modo esclusivo, mentre il restante 63% affianca alla terapia varie
altre attività.
Benché risulti piuttosto evidente, da molti dati di ricerca, che la scelta di dedicare gran parte della propria vita alla psicologia rappresenti un fattore significativo di soddisfazione esistenziale per chi la pratica, vi sono tuttavia anche problemi
tipici di questo lavoro, i quali peraltro non sembrano interferire con il livello di
gratificazione di base. Come dato di fondo, si direbbe che gli psicologi sono sodPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Psicologi: tra professione, scienza e pratica quotidiana
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disfatti quasi per definizione, mentre non perdono quasi mai la speranza di ottenere il meglio (secondo loro criteri soggettivi), indipendentemente dal fatto che la
realtà quotidiana presenti ostacoli e difficoltà. Come avviene per altre scelte ideologico-filosofiche in senso lato, lo psicologo sembra infatti credere nella Psicologia
(con la P maiuscola) come ideale di riferimento, anche se può nutrire sentimenti
molto meno favorevoli verso la psicologia reale di tutti i giorni.
Il rapporto fra entusiasmo e disillusione pare strutturarsi in un gioco dialettico
che vede alternarsi i due atteggiamenti, benché secondo una progressione relativamente irreversibile. Da alcuni dati di ricerca tenderebbe cioè, nella carriera dello
psicologo, a presentarsi una sequenza stadiale di percezione del proprio lavoro che
appare piuttosto ricorrente. Tale sequenza si sviluppa tipicamente in 5 stadi: ingresso, acquisizione di identità, dubbio, reimmersione, uscita. In altre parole: c’è una
prima fase di curiosità in senso lato culturale ed esistenziale, cui segue una scelta
di vita in relazione alla disciplina (formazione), poi una crisi (connessa al disincanto che si lega al primo impatto con la pratica professionale), quindi una stabile identificazione (forse meno entusiastica di quella iniziale ma assai più solida),
cui segue prima o poi l’inevitabile fine.
Un problema di fondo, tipico del lavoro psicologico, è quello dell’esaurimento
(burn-out), imparentato appunto con i momenti di crisi. È stato notato che i motivi di tale disagio possono riguardare in particolare, oltre all’interferenza di problemi personali irrisolti, anche la presenza di aspettative inadeguate prima di intraprendere la professione, così come di un conflitto tra gli obiettivi che si pone l’individuo e quelli che persegue l’organizzazione in cui questi si trova a operare (Meyer,
1982; Hannigan, Edwards e Burnard, 2004).
Le variabili professionali negative incontrate più spesso tra gli psicologi che operano nelle istituzioni statunitensi vengono indicate in: conflitti interpersonali, situazioni a rischio per sé e per gli altri, impedimenti, soprattutto istituzionali, che rendono difficile una prestazione veramente di qualità, problemi nel parlare in pubblico, difficoltà a gestire il tempo, situazioni legalmente non del tutto chiare, controversie di vario tipo, problemi di sviluppo e di reddito professionale, inadeguato
riconoscimento del proprio lavoro.
I maggiori motivi di disagio nella pratica clinica privata riguardano invece: i
limiti di tempo, l’incertezza economica, l’incertezza relativa al mantenimento di una
clientela pagante, i problemi legati alla gestione imprenditoriale dell’attività, il
sovraccarico di lavoro, le difficoltà organizzative legate al training e quelle relative allo sviluppo di carriera, la monotonia nel lavoro.
Lo strutturarsi dell’interazione psicologica è connesso poi all’intervento di numerose altre variabili, anch’esse definibili genericamente come elementi del setting,
che possono dare luogo a svariati problemi. Va sottolineato, peraltro, che questa
serie di difficoltà è particolarmente acuta nel caso della relazione uno-a-uno, ma si
presenta in ogni attività dello psicologo, indipendentemente dalla specializzazione
prescelta. È poi da notare che tali problemi della relazione si manifestano in qualsiasi professione dove il cliente ha un rapporto individualizzato con il professionista, sia egli medico, avvocato, architetto o quant’altro.
Tornando all’intervento psicologico, poiché questo è un rapporto tra persone,
pare logico attendersi che esso tenda a svilupparsi anche al di là della sua dimensione esclusivamente strumentale rispetto all’oggetto dell’intervento. Poiché, però,
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Storia ed epistemologia
la ragione del rapporto e la motivazione a instaurarlo sono fondamentalmente tecnico-professionali, alcuni ritengono che lo sviluppo della relazione in un senso più
personale rappresenti una deviazione e un pericolo. Tale preoccupazione origina
dalla possibilità che si instaurino confusioni di ruolo, così come dal fatto che il
rapporto psicologico è per definizione reciprocamente squilibrato (un soggetto si
trova per certi aspetti in posizione di superiorità rispetto a un altro che dipende
da lui), per cui lo svilupparsi di un rapporto personale può nascondere, al di là di
un’apparenza amichevole, la sostanza di una prevaricazione da parte di uno dei
due. La preoccupazione di fondo, diffusa nel pubblico così come tra gli addetti ai
lavori, è soprattutto che l’esperto, siccome pensa di conosce più cose del cliente
(e di dominare meglio i meccanismi della relazione), possa approfittarne anche in
modo scorretto.
Al di là dei suoi aspetti più folcloristici, o più drammatici, che hanno sempre
eccitato la curiosità popolare, la questione coinvolge molti problemi di fondo. Il
principale riguarda forse il tema (mai risolto) del plagio, ovvero della possibilità da
parte di un individuo (sia egli psicologo o paziente o quant’altro) di prevaricare
psicologicamente la volontà di un altro individuo. Non si può infatti pensare a un
plagio, se non si immagina uno stato di inferiorità nel plagiato (altrimenti vi sarebbe una situazione di non criticabile consenso).
I due temi principali che possono svilupparsi come motivi di controversia, almeno interiore, per gli psicologi così come per i clienti (e per tutte le situazioni di
rapporto professionale) sono il sesso e il denaro. A questi se ne aggiungono tuttavia altri, a essi complementari.
Un problema generale dell’esercizio professionale, in qualsiasi settore, nasce dal
fatto che la prestazione d’opera può rappresentare una realtà economica. La psicologia è infatti anche un mestiere, oltre che una condizione esistenziale, una scienza, una tecnica, un servizio o una missione (a seconda dei punti di vista). In quanto tale, rappresenta un mezzo di sostentamento per chi la esercita e una forma di
acquisto-consumo per chi se ne serve. Nell’interazione psicologica, in particolare,
acquisisce dunque un certo rilievo il problema dei pagamenti in denaro. Gli psicologi mostrano una certa resistenza a trattare questo tema, che pare in contrasto
con la disposizione a un intervento di assistenza disinteressata che sembra sottostare in parte alla scelta di questa disciplina. La questione rappresenta, anzi, uno
dei maggiori motivi di disagio nel proprio lavoro, tra quelli indicati da numerosi
psicologi (Lasky, 1984).
L’interazione professionale, in quanto rapporto almeno temporaneamente intimo
fra due persone, si presta inoltre a suscitare fantasie relative a interazioni particolarmente coinvolgenti, specie (ma certo non esclusivamente) quando riguarda soggetti di sesso diverso. Il pubblico ama dunque fantasticare di una propensione alla
promiscuità, specialmente da parte degli operatori che si occupano della salute, fisica o mentale, degli individui.
Il caso dello psicologo non è che un esempio fra i tanti di questo archetipo, benché forse reso più stimolante, sul piano fantastico, dalla natura sessuale (a parole)
dell’interazione psicologica (in particolare quando viene coltivata nei termini del
transfert), quale viene proposta soprattutto dalla psicoanalisi. A questi vissuti si
collega anche il tema, più squisitamente (ma non esclusivamente) psicologico della
suggestione, specie nella forma della persuasione occulta, che si ritiene rappresenPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Psicologi: tra professione, scienza e pratica quotidiana
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ti uno strumento posseduto dallo psicologo e potenzialmente utilizzabile in una prospettiva di seduzione del cliente. La questione appare decisamente complessa, anche
perché si collega al gioco delle rappresentazioni collettive, in termini di fatti e di
valori, di molti aspetti della relazione interpersonale.
La regola generale, sostenuta dai codici di regolamentazione etica per l’esercizio
della professione, tende a negare pregiudizialmente la liceità dell’instaurarsi di rapporti stretti fra persone che intrattengono una relazione di natura terapeutica o formativa, come scelta morale di principio più che come risultato di indagini specifiche (Ethics Committee of the American Psychological Association, 1988;
Committee on Women in Psychology, APA, 1989). Questa regola appare diffusa,
pur con modeste variazioni tra Paese e Paese, in molte culture dove si è radicata
la pratica psicologica (Coleman, 1988).
Un ulteriore aspetto caratteristico del costituirsi di una professione è dato poi
dalla sua strutturazione deontologica. Tutte le professioni si armano infatti di decaloghi, prontuari, galatei e dichiarazioni di buone intenzioni, le quali hanno il compito di suggerire ai loro cultori il comportamento più corretto da tenere nelle diverse occasioni. Per quanto concerne il movimento psicologico, la costituzione di un
codice etico di condotta professionale ha avuto una lunga storia, specie negli Stati
Uniti. L’esempio nordamericano è stato seguito un po’ in tutto il mondo.
Attualmente “Codici deontologici riguardanti l’attività della psicologia professionale sono stati adottati da almeno 18 dei 45 membri nazionali della International
Union of Psychological Science (IUPSyS) e in tutti tranne uno dei 16 membri
della European Federation of Professional Psychologists’ Associations (EFPPA)”
(Holtzam et al., 1987, p. 34).
Un altro problema etico abbastanza sentito, ma cui non è stata attribuita finora una grande attenzione, è quello di mettere il paziente nelle condizioni di esprimere un consenso circostanziato (informato) sul professionista. In effetti, il paziente si affida a uno psicologo (o almeno così si auspica che accada) sulla base delle
qualifiche professionali ufficiali di quest’ultimo, come avviene nel caso della scelta di un qualsiasi professionista appartenente a categorie socialmente e legalmente
certificate. Tuttavia, mentre nel caso di un avvocato o di un ingegnere si può presumere che vi sia una certa uniformità tecnico-teorica, per cui un professionista
vale sostanzialmente l’altro (a pari livello di formazione e di esperienza), nel caso
dello psicologo, che può appartenere alle scuole più disparate, questa presunzione
di uniformità risulta essere assai meno certa.
Tale dimensione qualitativa della pratica professionale, variamente definibile
come morale o etica o deontologica, ha portato a un dibattito crescente tra gli addetti ai lavori. Sul tema sono stati dunque prodotti recentemente vari rilevanti
contributi con riferimento tanto alla cultura italiana (Battaglini, Calabrese e Stampa, 1999; Calvi e Gulotta, 1999; Parmentola, 2000; Calvi, 2002) quanto a quella
statunitense (O’Donohue e Ferguson, 2003; Knapp e Vandecreek, 2005).
LA PROFESSIONALIZZAZIONE DEL CLIENTE
La psicologia in quanto professione esiste in quanto esiste una clientela che si
rivolge ai suoi professionisti. Un secolo fa gli psicologi erano solo ricercatori e
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Storia ed epistemologia
praticamente non esistevano clienti da psicologo. Al giorno d’oggi capita invece
che molte persone, in tutto il mondo, ricorrano allo psicologo per interventi di
varia natura.
In effetti però, come già abbiamo ricordato, la clientela esisteva (eccome!) anche
nei secoli passati, ma non si rivolgeva agli psicologi, i quali formalmente non esistevano quasi. Esisteva però, da sempre benché in forma più rilevante negli ultimi
due secoli a questa parte, un vasto pubblico di persone interessate a essere accudite nei propri disagi di carattere “nervoso” o “morale”, come venivano detti allora.
Queste persone si indirizzavano tuttavia agli psicologi del tempo, che allora venivano chiamati medici o sacerdoti o quant’altro.
Per quanto riguarda, come esempio paradigmatico, la cura psicologica del disagio mentale, che pure è diffusissima in Europa almeno dalla seconda metà del
Settecento, va sottolineato che questa non viene riferita allo psicologo fino a non
più di un mezzo secolo fa. Il Nuovo Psicologo Scientifico del Novecento, essendo appunto un accademico sperimentalista, non viene infatti considerato quasi da
nessuno come un potenziale medico delle malattie mentali; come è anche piuttosto ovvio.
Per cui, almeno fino alla Seconda guerra mondiale, i (ben pochi) clienti individuali degli psicologi relativamente ufficiali erano in larga maggioranza bambini, particolarmente con difficoltà di apprendimento, o adolescenti ritenuti devianti (Sundberg, Tyler e Taplin, 1973). Facevano moderata eccezione i militari con
nevrosi di guerra e gli psicotici, i quali ultimi venivano trattati però in ambito
medico-psichiatrico. In sostanza, il cliente adulto quasi normale, che rappresenta il paziente tipico dello psicologo contemporaneo, è una presenza che emerge
veramente solo in questi ultimi 30-40 anni (o anche meno). Prima di allora, il
cliente psicologico, salvo limitate eccezioni, era definito fondamentalmente dalla
sua assenza.
In tutti i processi storici di affermazione sociale relativi a qualche categoria professionale, pertanto, si è verificato anche un contemporaneo meccanismo di professionalizzazione del cliente, nel senso che questi è stato socializzato e istruito a
rivolgersi a specifiche categorie di soggetti (professionisti) in relazione a propri specifici vissuti o problemi (Dewar, 1978).
Perché la professione esista formalmente, si deve insomma costituire un linguaggio comune tra professionisti e clienti, in parte attraverso un’azione voluta di
pubbliche relazioni da parte dei primi e in parte per il riflesso che sui secondi esercita la cultura di appartenenza. Per cui, sull’onda di tale processo circolare, entrambi si trovano a condividere uno stesso schema di rapporto, teorico e operativo, che
determina la specifica interazione. Non è il medico, per esempio, che produce la
malattia, anche se c’è molta polemica sulle malattie iatrogene. Tuttavia, perché esista una malattia nel senso moderno del termine, è necessario che vi siano dei professionisti-scienziati che la definiscono (diagnosi) e che se ne occupano in un modo
percepito come efficace (cura per la guarigione).
L’originario affermarsi del movimento psicologico presso le istituzioni (università,
amministrazioni, aziende) è stato legato, almeno in parte, alla capacità degli psicologi di proporsi come solutori di problemi, anche indipendentemente dalla loro
capacità di ottenerne effettivamente il superamento. Mettere cappello sopra un settore di complessità della vita, anche senza possederne la chiave, ha spesso rapprePaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Psicologi: tra professione, scienza e pratica quotidiana
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sentato l’origine di una professione. Il fatto che gran parte dei pronostici risulti inesatta, o che molte preghiere non vengano esaudite, non ha mai rappresentato un
vero impedimento per veggenti e sacerdoti così come, per molti secoli, medici e
cerusici hanno applicato terapie spesso inutili o puramente suggestive senza per questo perdere la propria clientela.
Va infine considerato che una componente della professionalizzazione del cliente è la sua socializzazione al tipo di intervento che la categoria propone. Il fatto di
rivolgersi a uno psicologo rappresenta infatti un uso sociale che l’individuo deve
in qualche modo imparare, o quanto meno di cui deve avere sentito dire qualche
cosa. Agiscono in questo senso i già citati mezzi di comunicazione di massa, che
frequentemente parlano di problemi psicologici e di interventi dello psicologo, ma
un peso assai rilevante è rappresentato dai gruppi di appartenenza e di riferimento. Il dato è messo in grande evidenza da una serie di ricerche che mostrano come
i clienti siano fondamentalmente persone che, prima di rivolgersi allo psicologo,
hanno già avuto qualche esperienza, anche solo indiretta (attraverso persone vicine o letture), con la psicologia.
Come avviene per lo psicologo, anche la definizione del suo complementare (il
cliente) è un tema complesso. Quand’anche se ne possa stimare, molto approssimativamente, il numero, resta il problema di scegliere dei criteri utili per descriverlo. I clienti appartengono infatti a categorie umane assai diverse, che possono
venire classificate in vari modi. Ci sono quelli privati e quelli pubblici, quelli lievi
e quelli gravi, quelli con patologie eminentemente organiche e quelli che subiscono costrizioni quasi solo di natura ambientale, quelli nient’affatto malati, quelli che
si presentano per conto proprio e quelli che vengono inviati per intervento di altri,
quelli che pagano personalmente e quelli che sono assistiti da un’assicurazione o
simile ecc.
Oggi come oggi, una buona metà della popolazione nordamericana ritiene che
la psicologia abbia avuto una qualche influenza sulla sua vita. Gli statunitensi adulti che ricevono assistenza relativa alla salute mentale, per lo più da parte di psicologi, sono fra i 5 e i 10 milioni l’anno. In Italia, attualmente, i clienti di una
qualche forma di terapia non-biologica sono stimati almeno nell’ordine delle decine di migliaia. I pazienti diretti degli psicologi sono valutabili in almeno 30-40 000
persone. Si può stimare che nel mondo ci siano almeno 10-20 milioni di clienti
individuali (attuali o passati). Molte decine di milioni di persone nella loro vita
hanno avuto qualche contatto diretto con psicologi.
Un po’ in tutto il mondo il cliente privato tipico è adulto (25-45 anni), di classe media e alta (per istruzione e livello socioeconomico), già familiarizzato con la
psicologia (l’ha letta o studiata), conosce qualcuno che è già stato dallo psicologo,
è affetto da disagi esistenziali più che da malattie mentali. Un buon quarto dei
pazienti è rappresentato da altri psicologi (o professionisti similari: medici, counselor, operatori dei servizi, insegnanti ecc.) in formazione.
Dal punto di vista dei motivi più diffusi del disagio, appare evidente che il cliente tipico dello psicologo contemporaneo non è la personificazione dei grandi quadri clinici di cui si legge nei trattati classici di psicopatologia. Quella che prevale
oggi è insomma la problematica esistenziale, ovvero la “crisi”. Il quadro della sintomatologia del paziente medio suona dunque in questo modo:
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Storia ed epistemologia
“Si tratta molto spesso di una persona che sta vivendo una vicenda relazionale difficile e dolorosa, che può essersi inserita improvvisamente nella sua storia, quale una separazione, l’abbandono o la perdita del partner, o può invece essersi protratta per anni
prima di esprimersi in un disagio acuto, come in certi sistemi relazionali familiari: i
sintomi diventano allora crisi d’ansia, fobie, depressione” (Brighetti et al., 1986, p. 60).
Ci si riferisce a delle nevrosi varie e quasi sempre, appunto, alla depressione,
oltre che ai disturbi della sfera sessuale e psicosomatici. Una parte degli operatori
preferisce non parlare affatto di disturbi o malattie da cui cercare di guarire, bensì
di crescita o di formazione personale che si cerca di coltivare.
Dai dati di ricerca si rilevano, infine, alcuni altri elementi interessanti. In particolare, la maggioranza dei clienti abbandona la terapia dopo poche sedute, anche
se una parte rimane invece a lungo, creando la (parzialmente) falsa impressione di
una certa stabilità. Inoltre, il cliente tende ad attribuire l’eventuale scarsa efficacia
dell’intervento a se stesso molto più che allo psicologo, il che tende a confermare
il professionista nella saggezza della propria azione, indipendentemente da ogni evidenza sulla sua reale efficacia.
L’intervento terapeutico riguarda del resto solo una parte, rilevante ma relativamente limitata, del lavoro psicologico. I clienti degli psicologi sono infatti diventati assai numerosi, un po’ in tutti gli aspetti della società contemporanea. Le persone sottoposte a test psicologici durante la loro vita, specie negli Stati Uniti, sono
milioni. Il numero di bambini e di ragazzi che hanno usufruito della consulenza
psicologica nelle scuole è incalcolabile. I committenti di ricerca (applicata in senso
lato) crescono continuamente, sia nel campo del marketing, sia in quello dell’opinione pubblica e dei consumi, sia in quello delle comunicazioni di massa. È cresciuta nettamente la richiesta di intervento psicologico sia nel campo della consulenza aziendale, sia in quello delle risorse umane (basti pensare al tema della formazione), sia in quello della psicologia di comunità in genere.
Gli psicologi operano abitualmente nel campo della giustizia (soprattutto minorile, ma anche ordinaria), tanto penale (prevenzione, processo, riabilitazione ecc.)
quanto civile (divorzi, affidamenti, definizione di responsabilità ecc.). Vi sono molti
altri settori della vita quotidiana in cui gli psicologi intervengono massicciamente:
dalla criminologia all’ergonomia, dalle forze armate all’ambiente, dal campo della
salute a quello del traffico, dello sport ecc.
Al giorno d’oggi, la presenza dello psicologo è diffusa un po’ in tutte le situazioni dove entra in gioco la soggettività. Il cliente dello psicologo è infatti diventato ormai l’individuo in quanto tale. Benché l’utilità del riferimento alla psicologia nel trattare ogni situazione che abbia a che fare con il soggetto umano (con il
cittadino) si affermi solo progressivamente e con relativa lentezza, si può ritenere
che non vi sia ormai settore della vita umana in cui l’intervento psicologico non
sia apprezzato e sempre più richiesto.
Una parte di questa clientela si rivolge allo psicologo direttamente: è il caso del
paziente-cliente vero e proprio, così come del committente di ricerca (l’azienda,
l’unità sanitaria locale ecc.). Un’altra parte, decisamente crescente, utilizza la collaborazione dello psicologo in modo relativamente indiretto, attraverso la mediazione dell’istituzione cui appartiene (scuola, azienda ecc.) o cui si rivolge (ospedale, agenzia pubblicitaria ecc.). Da questo punto di vista, molti psicologi preferiscoPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Psicologi: tra professione, scienza e pratica quotidiana
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no parlare oggi, dopo il paziente delle origini e dopo il cliente della psicologia postbellica, più propriamente dell’utente (dello psicologo), in quanto fruitore dei servizi psicologici nelle loro molteplici e continuamente rinnovate forme.
UN GRANDE FUTURO DIETRO LE SPALLE
Che cosa il futuro potrà riservare alla psicologia: è naturalmente impossibile prevedere oggi. Benché lo psicologo ami lasciar credere di saper definire il futuro (comportamento) della gente, anche intervenendo su di esso, la preveggenza non è ancora entrata nel prontuario della professione. Tuttavia, sembra di poter intravedere
alcune linee di tendenza abbastanza chiare in materia.
Il movimento psicologico sembra infatti avere ormai raggiunto, nel mondo occidentale così come in Italia, un buon livello di strutturazione sia come disciplina
scientifica sia come mestiere. Rimangono molte difficoltà e incomprensioni, ma è
chiaro che la psicologia si è trasformata in una professione, benché in continuo
divenire.
Tra i problemi maggiori si possono evidenziare le questioni relative alla definizione legale, al ruolo dello psicologo, ai rapporti con gli altri professionisti, particolarmente con i medici, e con le istituzioni.
Tra gli elementi più positivi, che meglio fanno sperare per il futuro, si possono
annoverare altresì: il notevole livello di soddisfazione che gli psicologi professionisti esprimono (pur con varie ambivalenze) verso il proprio mestiere; il crescere del
numero di persone che traggono giovamento (almeno soggettivo) dall’intervento
psicologico; la percezione progressivamente sempre più favorevole che il pubblico
sembra avere del nostro intervento.
Un altro fenomeno che pare essere sempre più diffuso è quello di una pratica
latamente psicologica esercitata in contesti e da soggetti che non necessariamente
appartengono a questa o quella consorteria ufficiale della professione. Il che sarebbe determinato tanto da fattori legati all’evoluzione scientifica e pratica della psicologia quanto a ragioni legate alla sociologia della cultura e al marketing dei servizi (Fox, 1995; Kvale, 2003).
Questa tendenza appare evidente in tutto il mondo, ma in termini anche più
chiari in Italia, dove un Ordine professionale psicologico esiste (caso quasi unico
al mondo, analogamente a quello dei notai piuttosto che dei giornalisti) e cerca di
impedire l’uso della psicologia agli altri professionisti della relazione. Tale Ordine,
con la continua insistenza sulla psicologia come cura della malattia mentale non
realizzabile dagli psicologi bensì dalla curiosa categoria ibrida degli psicoterapeuti
(che comprende medici non-psicologi), ha peraltro teso a indirizzare sempre più la
psicologia verso l’area della sanità. Il che ha prodotto migliori contratti per quanti operano nel Servizio Sanitario Nazionale, ma non ha certo favorito la libera professione di tutti gli altri.
Sta di fatto che la psicologia, in quanto disciplina scientifica e teorica e pratica, sembra godere di un successo crescente, mentre lo psicologo ufficiale (in quanto professionista formalizzato) sembra perdere terreno, nelle attività diverse dalla
cura della nevrosi o della psicosi, a favore di altri professionisti, che si occupano
delle persone senza pretendere che queste siano mentalmente malate.
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Storia ed epistemologia
Se dunque lo spazio dello psicologo in quanto esclusivista di un marchio professionale depositato sembra progressivamente ridursi, lo spazio della psicologia in
quanto strumento di conoscenza e di miglioramento della condizione umana sembra allargarsi grandemente. E questo fa certo ben sperare per il futuro di questa
disciplina che, almeno per noi che la pratichiamo, appare davvero come una delle
missioni più affascinanti cui dedicare la propria vita.
LETTURE CONSIGLIATE PER L’APPROFONDIMENTO
LUCCIO, R. (2000). La psicologia: Un profilo storico. Roma-Bari: Laterza.
LEGRENZI, P. (a cura di) (1999). Storia della psicologia. Bologna: Il Mulino.
MECACCI, L. (1992). Storia della psicologia del Novecento. Roma-Bari: Laterza.
PERUSSIA, F. (1994). Psicologo: Storia e attualità di una professione scientifica. Torino: Bollati
Boringhieri.
PERUSSIA, F. (1999). Cent'anni dopo. A che cosa serve la psicologia? Milano: Guerini.
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