Recitare e non recitare*

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Anno I, numero 1 – Aprile 2011
Michael Kirby
Recitare e non recitare∗
Mario Prosperi, Kirby e l’attore
Michael Kirby, artista visivo, studioso e autore di teatro (1931-1997), ha
attraversato tutta l’esperienza del nuovo teatro americano ed ha avuto una
presenza attenta e costante anche nel nuovo teatro italiano. Le fondamenta
del suo pensiero teorico derivano principalmente dall’esperienza degli
happening. In secondo luogo dallo studio del Futurismo. Negli happening
fu presente di persona, con il fratello gemello E.T. Kirby, anche lui
professore di storia del teatro. La coppia dei gemelli Kirby, di origine
polacca, alti due metri, solenni e imprevedibili (una simile coppia mostrava
nei suoi spettacoli Kantor) fu presto familiare ai frequentatori di questo
genere di performance, che nasceva dall’arte visiva.
Non risulta che Michael Kirby o il suo gemello E. T. siano stati ‘autori’ di
happening, ma in compenso Michael sviluppò una vasta e compiuta analisi
di questa forma d’arte. Il suo saggio sul ‘Nuovo teatro’ comparve nel 1965
sulla «Tulane Drama Review», diretta da Richard Schechner, in un numero
curato dallo stesso Kirby che includeva testi e documenti di alcuni
happening più importanti o esemplari. Il libro Happening che ne derivò
(Happenings, An Illustrated Antology, Dutton, New York, 1965, trad. It.
Happening, De Donato, Bari, 1968) fu un notevole successo editoriale e
contribuì a rendere nota questa forma di performance. La parola happening
fu adottata su larga scala e applicata anche a sproposito (o per analogia) ad
‘accadimenti’ non solo artistici.
Quanto al Futurismo Kirby sentendosi innocente come americano rispetto
alla motivazione politica dei futuristi, insofferenti dei modi di una borghesia
decadente (tra i quali la democrazia), ne godeva l’aspetto di performance
diretta al pubblico, sintetica, senza filtri di ambientazione sociale e storica,
semplificata nella recitazione, privata di ogni debito verso letteratura e
psicologia. Michael Kirby si sentiva quasi fisicamente coinvolto
nell’intrusione che i futuristi compivano simultaneamente nel contesto di
varie arti, secondo la nozione di ‘sinestesia’, che voleva indicare proprio
quella reciproca influenza di motivi e di forme tra artisti di diverse
∗
L’articolo è pubblicato col titolo On Acting and Not-Acting in «TDR» vol. 16 , marzo 1972
(T-53), la traduzione italiana è di Mario Prosperi ed è fatta su gentile autorizzazione di «The
Drama Review».
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discipline. Michael Kirby dedicò al Futurismo la sua dissertazione per il
dottorato e ne trasse anche un libro (Futurist Performance, New York, 1971).
Il saggio che qui si pubblica in traduzione italiana, On Acting and Not-Acting
apparve nel 1972 su «The Drama Review» – diretta a quel tempo dallo stesso
Michael Kirby - e costituisce un documento importante e originale per vari
motivi:
1)
perché individua la tendenza generale del nuovo teatro a fare un uso
ridotto, ‘semplificato’ della recitazione a partire dal grado zero
rappresentato dagli happening;
2)
perché stabilisce un vocabolario e dei concetti guida per lo studio
della recitazione indipendenti dalla tradizionale concezione di un’arte
applicata al testo drammaturgico, e quindi strettamente dipendente da una
‘matrice’ o modello letterario da interpretare;
3)
perché il concetto base del suo studio, che è quello di un continuum
tra i due estremi del non recitare e del recitare, stabilisce nell’analisi della
performance una progressione di gradi e stadi dal più semplice al più
complesso, a seconda della ‘quantità’ di recitazione (o finzione) presente in
diverse forme di teatro. La drammaturgia, in questa analisi, anziché
precedere, segue.
Il passo successivo di Michael Kirby, fin qui testimone, ancorché partecipe,
del lavoro altrui, sarà quello – nel 1974 – di una proposta personale di
autore corredata dal manifesto teorico di una performance ‘strutturalista’.1
Ma andiamo con ordine. Nel campo della recitazione, il dominio del
‘metodo’ di Strasberg (mutuato da Stanislavskij) era ancora negli anni 60,
quando si diffusero gli happening, assoluto, sia in teatro che in cinema. Un
autore come Tennessee Williams era, rispetto a questo ‘metodo’,
l’equivalente di Cechov rispetto a Stanislavskij.
L’impegno sociale, anch’esso di matrice europea, era rappresentato da un
autore come Arthur Miller, che tuttavia non prevedeva una recitazione
straniata e critica mentre faceva l’occhietto a Hollywood. Il modello ‘epico’
fu assente negli Stati Uniti, malgrado la presenza in quel paese dello stesso
Brecht e di Piscator durante gli anni del nazismo e della guerra. Si possono
forse eccettuare alcuni sviluppi del Living Theatre, che si spiegano col fatto
che Judith Malina era stata allieva di Piscator a New York.
Ma il lavoro del Living entra nello studio di Michael Kirby con l’abbandono
di quei modelli e l’adozione di una forma analoga a quella degli happening,
in Mysteries (1964). L’esigenza di una ‘semplificazione’ del recitare, come
tratto essenziale del cambiamento in corso nel nuovo teatro, viene
rintracciata da Michael Kirby nei primi esperimenti dell’Open Theatre di Joe
Chaikin, che era in cerca di una recitazione adatta per il teatro dell’assurdo.
M. Kirby, ‘Manifesto of Structuralism’, «The Drama Review», vol. 19, n. 4, dicembre 1975,
p. 82
1
168 Michael Kirby, Recitare e non recitare
Impossibile usare la memoria emotiva di cui parla Strasberg nella deliberata
e trasgressiva sordità dello stile parodico di Ionesco.
Della componente esoterico-rituale, presente nel teatro ‘antropologico’ di
Richard Schechner, Michael Kirby si occupa en passant: un’amica argentina,
un architetto, gli ha riferito di aver assistito nel nord del Brasile a ‘cerimonie
di qualche tipo’. Del rapporto fede-recitazione gli è necessario liberare il suo
orizzonte come del rapporto letteratura-recitazione per legittimare la base
empirico-analitica del suo ragionamento. Questa base è la definizione di
‘recitazione’ come finzione, simulazione, rappresentazione, impersonazione.
La trance dei celebranti brasiliani, in cui i partecipanti al rito credono di
vedere gli spiriti degli antenati morti, essendo questa apparizione un fatto di
‘impersonazione’ (che appartiene alla definizione del recitare), altro non è
che ‘recitare’ malgrado quello che i partecipanti possano ‘credere’.
Devo confessare che questa equazione recitare = fingere mi ha disturbato un
po’. Nello sforzo che l’attore fa per essere credibile entra un difficile,
rischioso (e posso aggiungere raro) disvelamento di sé, ai livelli più
profondi e inconsci. Per Michael Kirby si tratta solo di uno stile (il
naturalismo) mentre la sua definizione vale ‘per ogni stile’. Questa
definizione guarda al momento in cui l’attore veste un giustacuore e una
gorgiera per ‘fingersi’ Amleto, assumendo la ‘matrice’ o il modello del
personaggio, anziché al momento in cui l’attore trova dentro di sé la verità
dei sentimenti che daranno vita all’icona letteraria di Amleto.
Il duello con l’Actor’s Studio e con il ‘metodo’ di Strasberg è su questo
all’ultimo sangue, ma Michael Kirby non esclude l’aspetto psicologico, solo
inverte ‘l’ordine dei fattori’: parte dal più semplice e procede verso il più
complesso. L’assunzione del personaggio può restare una semplice icona
(per esempio in una pubblicità): Michael Kirby parla di un’azione (di
recitare) ‘ricevuta’; sono le informazioni date dalla scena (ad esempio un
costume) che ‘fingono’ un personaggio; l’attore può restare se stesso. Solo se
si tratta di una interpretazione che mette in gioco sentimenti ed emozioni
questa sarà una recitazione ‘complessa’. Quello della complessità è lo stadio
terminale della scala, ma Michael Kirby non si stanca di ripetere che dire
‘stadio successivo’ o ‘più complesso’ non costituisce un giudizio di valore.
C’è solo ‘più finzione’, e ogni artista può scegliere il grado che preferisce.
Anzi, Michael Kirby, attraverso tutta la sua analisi, che riporta
costantemente l’origine del cambiamento agli happening, sembra suggerire
che ‘semplice è bello’, anzi ‘più bello’, se questa semplificazione è il tratto
essenziale del nuovo teatro. Un gruppo di artisti non letterari (pittori,
scultori, musicisti, danzatori) si incuneano ad un certo punto nel dominio
della drammaturgia e provocatoriamente lo rifiutano, azzerandolo; e
liberando in tal modo la performance dalle ‘matrici’ letterarie.
La performance di questi artisti rigenera, attraverso un salutare
azzeramento, una pratica teatrale (quella della sottomissione filologica al
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testo letterario) che risulta esaurita, ripetitiva e artisticamente in declino,
com’è in declino (aggiungo io) la ‘ragione forte’ in filosofia rispetto alla
‘ragione debole’, il maschilismo rispetto al femminismo, la guerra
imperialista rispetto alle lotte di liberazione dei paesi poveri. Michael Kirby
non entra volutamente mai nel campo dei giudizi politici. Gli verrà
rimproverato spesso come apolitico il suo atteggiamento sincronico e
formalistico, anziché diacronico e storicistico. L’arte della performance è da
lui analizzata con gli strumenti di una scienza empirica e descrittiva della
‘forma’ da cui sono escluse le valutazioni inerenti a ‘matrici’ non solo
letterarie, ma anche politiche (non accenna mai in questo studio, ad
esempio, a un tipo di happening come quelli denominati ‘teatro di
guerriglia’).
Allo stesso modo Michael Kirby non accetta, diversamente dall’amico
Schechner (e da Grotowski, e da Peter Brook), considerazioni di origine
antropologica. Abbiamo visto come riferisce di una celebrazione di
candomblé, non vedendovi che i connotati formali di una recitazione in cui
non entra il ‘credo’ dei partecipanti, qualunque esso sia (varrebbe lo stesso
per un rito induista o cristiano).
Ma era davvero Michael Kirby nel 1972, quando scrive questo saggio sulla
recitazione, alieno e distante da considerazioni drammaturgiche? Solo due
anni dopo, nel 1974, Michael Kirby, che non è mai stato come abbiamo visto
un ‘autore’ di happening, esordisce come autore di un testo drammatico.
Non ci sono qui segnali che lo annuncino? Nella progressione verso una
recitazione più complessa e perciò nei passaggi conclusivi del saggio,
Michael Kirby riferisce di una tendenza verso la semplificazione del recitare,
prima dell’esplosione del fenomeno happening, in alcuni esempi di
drammaturgie che elenca scrupolosamente.
Così cita lo studio di Joe Chaikin e del suo Open Theatre per trovare una
recitazione adatta al teatro di Ionesco; cita il Living Theatre precedente a
Mysteries e in particolare The Brig di Kenneth Brown (avrebbe potuto
ricordare anche The Connection di Jack Gelber). E soprattutto cita, ultimo
esempio, analizzato molto attentamente, benché europeo e non americano, il
lavoro del primo Peter Handke: Insulti al pubblico e Autodiffamazione. Lo
colpisce e lo attrae il fatto che l’attore non rappresenti alcun personaggio: sia
se stesso e semplicemente parli al pubblico, senza cornici o modelli a cui
obbedire. Il livello di finzione è minimo; le emozioni sono elementari. Ancor
più in My Foot, my Tutor, che è una pantomima senza parole, il testo è
un’elaborata, studiatissima didascalia che organizza una complessa
struttura di azione scenica, fatta di dettagli che ricorrono in modo
significativo.
Quando Michael Kirby affronta una creazione drammaturgica con Eight
People nel 1974, dunque, egli premetterà una dichiarazione-manifesto che
170 Michael Kirby, Recitare e non recitare
definisce il suo lavoro come ‘strutturalista’.2 Dalla forma degli happening
deriva l’impegno a considerare chi sta in scena come persona e non come
attore-interprete (benché ci sia un testo da recitare). Otto persone è il titolo; e
otto ‘persone’ sono i personaggi, ognuno col suo nome anagrafico. Le
battute di queste persone erano tratte anche, a volte, da modi di dire e di
parlare caratteristici delle persone stesse, che Michael Kirby aveva inserito
nel testo.
C’erano due americani, due italiani, un israeliano, un coreano, una canadese
e una cubana (almeno nella prima edizione dello spettacolo, che andò al
Festival di Ann Harbor). Nel testo, il plot (trama) e la narrazione non erano
‘portanti’ come in un normale ‘dramma’. Frammenti di una narrazione
erano messi in una sequenza la cui consecutio sfidava la mente degli
spettatori. Emergevano invece delle regolarità formali: l’azione di aprire un
ombrello compariva a intervalli regolari, e diverse persone la eseguivano in
diverse scene; così l’azione di rastrellare delle foglie; quella di portare in
scena una valigia; quella di strappare una banconota (un dollaro); quella di
parlare al telefono; quella di avviare un modello di motore o un
magnetofono, ecc. Vi erano anche battute che ricorrevano in bocca a vari
personaggi in contesti diversi.
Parlando di recitazione, questa doveva essere la più semplice possibile; le
persone dovevano essere quello che erano nella vita, chiamarsi con il loro
nome, parlare con il proprio accento, non far nulla che appartenesse ad una
identità immaginaria e comunque diversa dalla propria. Che Michael Kirby
avesse tolto un superobjective (finalità ultima) di tipo narrativo per portare
alla coscienza una qualità (anche bellezza) della struttura formale, non
significa che questa attentissima selezione di gesti, azioni e parole non
producessero una immagine complessiva: i rapporti frettolosi e superficiali
tra persone di culture diverse, il contesto affaristico, con accenni a una
presenza di malavita e di spionaggio industriale, la continua situazione di
‘transito’ (le persone stanno sempre per partire), fino alla conclusiva scena
che si svolge in un aeroporto, tutto parla di New York in un modo
estremamente preciso e puntuale.
Anche la costruzione per frammenti, la casualità con cui sembrano scelti i
numerosi dettagli, la misteriosità di un disegno generale e superiore su cui
si possono fare solo delle supposizioni, produce nello spettatore
un’attenzione vigile e inquieta, anche se l’emozione pare sospesa. Dunque
una recitazione semplice viene a produrre, per opera della drammaturgia,
un effetto molto complesso. Sono i connotati e le caratteristiche di uno stile.
Nel saggio che qui si pubblica, On Acting and Not-Acting, che precede –
ricordiamo – di due anni la scrittura di Eight People, l’empiria del metodo e
La traduzione italiana del testo di Eight people, Otto persone è pubblicata in Michael Kirby.
Teorico e autore strutturalista, numero monografico di «Biblioteca teatrale», n. 85, gennaiomarzo, 2008, p. 101
2
171 AAR Anno I, numero 1 – Aprile 2011
l’oggettività di un’analisi ‘valida per ogni stile’ contenevano però una
definita prospettiva che avrebbe generato uno stile.
•••
Michael Kirby, Recitare e non recitare
Recitare significa fingere, simulare, rappresentare, impersonare. Come
dimostrano gli ‘happening’ non ogni attività performativa è recitazione.
Benché vi fosse talvolta un uso di recitazione, chi partecipava ad un
happening non tendeva in genere ad essere altro che se stesso; non fingeva
(non ‘rappresentava’) di trovarsi in un tempo o luogo diverso da quello
dello spettatore. Camminavano, correvano, dicevano parole, cantavano,
lavavano i piatti, spazzavano, azionavano macchine e dispositivi di scena,
ma non fingevano né impersonavano.
Nella maggior parte dei casi, recitare e non recitare sono facilmente
individuabili e riconoscibili. In un’azione scenica noi sappiamo di solito
quando una persona sta recitando e quando no. Ma c’è una gradualità
continua di comportamenti e le differenze tra recitare e non recitare possono
essere davvero minime. In simili casi decidere per l’una o per l’altra
categoria può non essere facile. Qualcuno dirà che non è importante, ma in
realtà sono proprio questi casi intermedi che possono darci degli elementi
per una teoria della recitazione e farci penetrare nella natura di questa arte.
Esaminiamo la recitazione tracciando una linea continua di gradazioni tra i
due estremi del non recitare e del recitare. Cominceremo dal grado massimo
del non recitare, in cui chi sta in scena non fa nulla per fingere, simulare,
impersonare e simili, e ci muoveremo verso l’estremo opposto, in cui
comportamenti come quelli che definiscono la recitazione si mostrano in
prevalenza. Naturalmente, quando parliamo di recitazione ci riferiamo non
ad uno stile in particolare, ma ad ogni possibile stile. Non ci interessa, ad
esempio, il grado di ‘realtà’, ma quella che possiamo chiamare, per ora, la
quantità di recitazione.
NON RECITARE
RECITARE
_____________________________________________________________
Ci sono molte forme di performance che non fanno uso di recitazione. Molte
forme di danza (ma assolutamente non tutte) rientrano in questo caso.
Nell’estremo oriente, forme di teatro come il Kurombo e il Köken del Kabuchi
usano inservienti di scena che spostano oggetti, li portano via, aiutano gli
attori a fare in scena dei cambi di costume e perfino servono loro il tè. Il loro
172 Michael Kirby, Recitare e non recitare
abito li distingue dagli attori ed essi non hanno un ruolo nella struttura
narrativa. Ma anche se lo spettatore li ignora essi non sono invisibili. Non
recitano eppure sono parte dell’allestimento visivo.
Come vedremo quando saremo arrivati a quel punto della nostra scala,
recitare è un’attività: si riferisce al fingere, al simulare e simili che chi sta in
scena ‘fa’. Ma il rappresentare, il simulare e le altre attività che definiscono il
recitare possono essere anche applicate ‘a’ chi sta in scena. Il modo in cui un
costume crea un ‘personaggio’ può essere un esempio.
Lasciamo da parte per un momento la scena e consideriamo come può
funzionare nella vita di ogni giorno la gradualità di un ‘costume’. Se
qualcuno per la strada ha stivali da cowboy, come tanti, questo non basta
per identificarlo come un cowboy. Se porta anche un cinturone di cuoio e
perfino un cappello da cowboy, non lo vediamo ancora come un costume,
neanche a nord del Texas. È solo un modo di vestire. Ma se compariranno
sempre più elementi di un abbigliamento western (fazzolettone al collo,
sopracalzoni di cuoio e speroni, per esempio) noi arriveremo al punto che o
vedremo un cowboy o qualcuno che ‘impersona’ un cowboy. Il punto esatto
della gradazione in cui si verifica questa identificazione dipende da diversi
fattori, il più importante dei quali è il luogo o contesto fisico, e inoltre può
variare non poco da persona a persona.
L’effetto del vestire sulla scena è solo più marcato. Se qualcuno ha una
calzamaglia nera e stivali da cowboy può bastare perché sia identificato
come un cowboy. Questo naturalmente a causa del valore simbolico che al
costume conferisce la scena. È importante notare tuttavia fino a che punto la
simbolizzazione sia sostenuta e confermata (o contraddetta) dal
comportamento di chi sta in scena. Se si muove (recita) come un cowboy
l’identificazione si fa più rapidamente. Se resta uguale a se stesso
l’identificazione può non farsi affatto.
A questo punto della nostra scala tra recitare e non, ci interessano
soprattutto quelle persone che ‘non fanno’ nulla in scena per favorire o
confermare identificazioni. Quando qualcuno, come gli inservienti del
Kabuchi e del Nô, è solo se stesso in scena e non è incastonato, per così dire,
in modelli di personaggio, situazione, luogo e tempo dichiarati o
rappresentati, io mi riferirò a lui come ‘senza modello’. Se in questa nostra
scala noi ci muoviamo verso il recitare da questo grado estremo del non
recitare, si giunge a un punto in cui chi sta in scena non recita eppure il suo
costume rappresenta qualcosa o qualcuno. Chiameremo questo stadio
‘rappresentare senza modello’ o ‘simbolizzare senza modello’.
173 AAR Anno I, numero 1 – Aprile 2011
NON RECITARE
stare in scena
senza modello
RECITARE
rappresentare
senza modello
_____________________________________________________________
In Oedipus, a New York di John Perreault, il ‘principale performer’, come lo
chiama Perreault anziché dire attore, zoppica.3 Se abbiamo presenti il titolo
del lavoro e la storia di Edipo, possiamo pensare che questo performer
rappresenti Edipo. Ma non è lui che finge di zoppicare: un bastone è stato
legato «alla sua gamba destra sotto i suoi calzoni in modo che egli sia
obbligato a zoppicare». Quando il ‘principale performer’ maneggia un
registratore, come fa spesso durante lo spettacolo, non pensiamo che si tratti
di una rappresentazione di Edipo che fa funzionare una macchina: è un
performer ‘senza modello’ che fa qualcosa. Se brucia incenso e fa una lettura
di brani da I Ching, si può pensare che alluda all’oracolo di Delfi; le tre
strisce di nastro adesivo che il ‘principale performer’ fissa al pavimento
facendole convergere al centro dello spazio possono indicare il luogo,
all’incrocio di tre vie, dove Edipo uccise suo padre, e la gamba zoppa e gli
occhiali scuri che questo performer ha sempre nello spettacolo possono
essere dei riferimenti al personaggio di Edipo. Ma questo performer non si
comporta mai come altro da se stesso. Non rappresenta elementi di un
personaggio; compie solo alcune azioni.
Nel ‘rappresentare senza modello’ tutti i riferimenti sono applicati ‘a’ chi sta
in scena, non provengono ‘da’ lui. Come degli stivali da cowboy non
necessariamente connotano un cowboy, così l’azione di zoppicare può
costituire un’informazione senza stabilire che chi zoppica sia Edipo.
Quando, come in Oedipus, a New York, le indicazioni di personaggio e di
luogo sono deboli, intermittenti o assenti, noi vediamo una persona, non un
attore. Ma se gli elementi a lui applicati come riferimenti aumentano, è
difficile dire che egli non reciti, anche se non ‘fa’ nulla che possiamo definire
come recitazione. In un bar di New York nei giorni di Natale è possibile
vedere qualcuno che beve un caffè vestito da Babbo Natale; se la stessa
azione la vedessimo in teatro in una scena di interno rustico, potremmo dire
che ‘Babbo Natale beve un caffè nella sua casa al Polo Nord’. Quando i
modelli informativi sono forti, coerenti e si rinforzano a vicenda noi
vediamo un attore, per quanto il suo comportamento possa essere ordinario.
Questo stadio che rappresenta un nuovo passo nella nostra scala verso il
vero recitare, potremmo definirlo come ‘azione ricevuta’.
Cfr. J. Perreault, ‘Oedipus, a New York’, «The Drama Review», vol. 15, n.3, estate 1971, pp.
140-147
3
174 Michael Kirby, Recitare e non recitare
NON RECITARE
RECITARE
stare in scena
rappresentare
azione
senza modello
senza modello
ricevuta
___________________________________________________________________
Le comparse, che non fanno nulla se non stare in scena e camminare con
addosso un costume sono visti come ‘attori’. Basta che qualcuno cammini su
un palcoscenico che rappresenta una scena realistica per rappresentare una
persona in quel luogo (e forse in quel tempo) senza far nulla che potremmo
definire come recitazione. C’è la storia di quel critico che era andato dietro le
quinte per congratularsi con un attore e non si era accorto di essere visibile
dal pubblico dietro le finestre aperte della scena; ma poiché la storia in quel
momento non ne soffriva, fu visto dal pubblico come parte dello spettacolo.
Ma non è necessario che i comportamenti nella ‘recitazione ricevuta’ siano
sempre semplici. Ricordo di aver letto, qualche tempo fa, di uno spettacolo
in cui John Garfield (sono quasi certo che fosse lui, anche se non ricordo più
il titolo dello spettacolo) era una comparsa. Durante ogni recita giocava a
carte puntando soldi con alcuni amici. Giocavano per davvero, e l’articolo
che lessi riferiva quanti soldi ognuno avesse vinto o perso. In ogni caso,
poiché la mia memoria è incompleta, cerchiamo di immaginare una scena
che rappresenti un bar. In un angolo di questa scena alcuni uomini giocano
a carte per tutto il tempo. Diciamo che nessuno di loro ha battute e che non
reagiscono in alcun modo ai personaggi della storia. Non recitano; giocano
solo a carte; eppure noi vediamo anche loro come personaggi, benché
minori, e diciamo che anche loro stanno recitando. Non li distinguiamo
dagli altri attori.
Se, come io vorrei, noi definissimo il recitare come qualcosa che chi sta in
scena ‘fa’, piuttosto che qualcosa che viene fatto ‘per’ lui o ‘a’ lui, non
saremmo ancora arrivati nella nostra scala al recitare vero e proprio. Essere
‘attore’ di un’azione ricevuta è solo un titolo onorario, per così dire. Anche
se chi sta in scena ‘pare’ che stia recitando, in realtà non recita. Stare in scena
‘senza modello’, rappresentare ‘senza modello’ e compiere ‘azioni ricevute’
sono solo gradini della scala che porta dal non recitare al recitare. La
quantità di simulazione, rappresentazione, impersonazione e simili è
aumentata man mano che salivamo la scala ma, fino a questo punto,
nessuna azione è stata compiuta in scena in quel determinato modo che noi
definiremmo ‘recitare’.
Mentre il recitare, nella sua forma più completa, si definisce senza problemi,
il nostro compito nel costruire una scala continua sta nel designare quegli
stadi intermedi in cui il recitare ‘comincia’. Quali sono le caratteristiche più
semplici che definiscono il recitare?
175 AAR Anno I, numero 1 – Aprile 2011
NON RECITARE
RECITARE
stare in scena
rappresentare
azione
recitare
senza modello
senza modello
ricevuta semplice
___________________________________________________________________
Queste possono essere o fisiche o emotive. Se chi sta in scena fa qualcosa
per simulare, rappresentare, impersonare e simili, sta recitando, non
importa in quale stile e se il lavoro sia parte di una più completa
caratterizzazione o di un insieme organico di informazioni. Non è
necessario che sia messa in gioco un’emozione qualsiasi. La definizione può
solo dipendere dal tipo di cosa che si fa. (I giudizi di valore naturalmente
non c’entrano. Recitare è recitare sia che sia fatto bene, con cura, o no). Così
una persona che, come nel gioco delle sciarade, finge di indossare una
giacca che non c’è o finge di essere malato sta recitando. Il recitare si può
dire che abbia luogo nella più piccola e più semplice azione che sia intesa a
‘far credere’.
E tuttavia il recitare si manifesta più in termini emotivi che strettamente
fisici. Diciamo che, per esempio, stiamo assistendo a una recita di Paradise
Now del Living Theatre. C’è quella famosa scena in cui gli attori, ognuno per
suo conto, vanno verso gli spettatori e si rivolgono direttamente a loro come
persone: «Non posso viaggiare senza un passaporto… Non posso fumare
marijuana… Non mi posso togliere i vestiti…» e sembrano sinceramente
offesi ed indignati. Stanno recitando?
In questa azione sono solo se stessi, non interpretano personaggi. Sono in un
teatro, non in un luogo immaginario che si rappresenti in teatro. Ciò che
dicono è certamente vero: non si ha facoltà di viaggiare – almeno tra certe
nazioni e certe altre – senza un passaporto; il possedere marijuana è contro
la legge; e possiamo, credo, tutti garantire, che essi credono in quello che
dicono e che realmente questi divieti e queste limitazioni sono ingiuste. Il
recitare ha luogo esclusivamente nel loro coinvolgimento emotivo.
Talvolta avviene anche nella vita di ogni giorno che qualcuno ci ‘sembri’ che
stia recitando. Questo non significa che sia falso e disonesto o che viva in un
mondo immaginario, o che stia dando consapevolmente una falsa immagine
di sé e del suo carattere. Egli sembra solo consapevole che c’è qualcuno che
lo osserva – che sta come in scena – ed esprime con più energia, come
reazione, le sue idee, le sue emozioni, il suo carattere. Questo è ciò che
facevano gli attori in Paradise Now: esprimevano le loro convinzioni e le loro
emozioni.
Cerchiamo ora di formulare il problema in modo un po’ diverso. Parlare in
pubblico, sia improvvisando, sia seguendo uno scritto, può esprimere
emozione, ma non sarà necessariamente recitare. Eppure vi sono oratori che,
pur restando sinceri e fedeli al loro carattere, ‘pare’ che stiano recitando. In
176 Michael Kirby, Recitare e non recitare
quale punto questo recitare si mostra? Quando le loro emozioni sono
‘gonfiate’ per l’effetto da produrre sugli spettatori. Questo non significa che
chi parla sia falso o non creda in ciò che dice. Significa solo che sta
scegliendo e indirizzando un elemento di recitazione (cioè l’emozione) agli
spettatori.
In altre parole non conta se l’emozione sia creata per una necessità recitativa
o se sia solo amplificata. Un principio del ‘metodo’ (almeno come lo si
insegna in questo paese) è che l’attore usi, nell’interpretare la sua parte,
sentimenti o emozioni ‘reali’ che è capace di richiamare nella sua memoria.
È forse questo ‘uso’ dell’emozione che distingue il recitare dal non recitare?
Credo che questo sia un punto importante. Indica che il recitare ha una
basilare componente psichica o emotiva; e benché questa componente sia
presente in vari modi nelle varie forme del recitare (tranne ovviamente nel
caso di ‘azione ricevuta’), la sua presenza basta di per sé a distinguere il
recitare dal non recitare. Poiché questo elemento del recitare è mentale, si
può recitare anche senza muoversi. Non intento qui dire, come sopra, che
l’uomo immobile ‘riceva’ elementi di rappresentazione e che ruolo, relazioni
e luoghi gli siano imposti da informazioni presenti nella messa in scena. Chi
sta in scena senza muoversi può trasmettere atteggiamenti ed emozioni che
agiscono anche senza alcuna azione fisica.
Altri esempi di un recitare aurorale – come di un non recitare – possono
trovarsi nel famoso esercizio dello ‘specchio’, in cui due persone stanno in
piedi una di fronte all’altra ed una di esse a turno copia o ‘riflette’, come fa
uno specchio, i movimenti dell’altra. Benché si tratti di un esercizio usato
nella formazione di attori, il recitare in quanto tale non è necessariamente
richiesto. I movimenti di quella che, a turno, è la prima persona (quella che
propone il movimento) e perciò anche quelli della seconda (quella che lo
riflette) possono non rappresentare né voler ‘far credere’ alcunché. Ognuno
può semplicemente alzare e abbassare le braccia o girare la testa. I
movimenti possono essere completamente astratti.
È qui tuttavia che il rapporto che si percepisce tra chi sta sulla scena e ciò
che sta creando può essere considerato cruciale per una definizione del
recitare. Perfino dei movimenti ‘astratti’ possono essere personificati e
riferiti a qualche tipo di personaggio tramite gli atteggiamenti di chi sta in
scena. Se sembra voler dire: ‘Sono questa cosa’, anziché più semplicemente:
‘Faccio questo movimento’, noi lo accettiamo come ‘quella cosa’: sta
recitando.
D’altro canto, noi non accettiamo lo ‘specchio’ come un recitare, benché sia
una ‘rappresentazione’ della prima persona da parte della seconda. Manca
qui l’energia psichica che trasformerebbe l’astrazione in una
personificazione. Ma se venisse espressa un’intenzione del tipo: ‘Ti sto
imitando’, cioè se una variazione intenzionale o correzione ‘editoriale’
177 AAR Anno I, numero 1 – Aprile 2011
prendesse il posto neutro del copiare, lo specchio diventerebbe un attore,
anche nel caso che i movimenti dell’originale fossero astratti.
Lo stesso esercizio può facilmente includere il recitare in un modo più
ovvio. La prima persona, ad esempio, può fingere di radersi. Lo specchio,
nel riflettere queste azioni ‘simulate’, diventa un attore malgrado la sua
intenzione di essere neutrale. (Lo potremmo chiamare attore di una azione
‘ricevuta’ perché, come il ruolo e il luogo degli esempi precedenti, la
rappresentazione gli è stata imposta senza coinvolgere quella disposizione
creativa e quell’energia che sono necessarie per recitare. La sua recitazione,
come quella di una marionetta, è controllata dall’esterno). Se colui che
inizia, nell’esercizio dello specchio, indossa una giacca, non necessariamente
sta recitando; se lo ‘specchio’, non avendo una giacca, finge di indossarne
una, questo sarebbe recitare, e così via.
Man mano che procedevamo lungo la scala dal non recitare al recitare, la
quantità di rappresentazione, personificazione e simili è aumentata. Ora che
siamo arrivati al recitare vero e proprio, possiamo dire che anche questo
varia a seconda della quantità. Piccole ‘quantità’ di recitazione – come negli
esempi citati – occuperebbero lungo la nostra scala il posto dell’ ‘azione
ricevuta’ e noi potremmo avanzare lungo la stessa scala fino ad un ipotetico
‘massimo di recitazione’. In realtà la sola possibile alternativa sembrerebbe
essere una sanzione del tipo ‘sì o no’, ‘tutto o niente’, in base alla quale tutto
il recitare sarebbe teoricamente (se non qualitativamente) uguale e senza
differenze.
‘Quantità’ è una parola difficile da usare tuttavia in questo caso. Poiché,
specialmente per gli americani, pare scontato che ‘più è meglio’, ogni
riferimento alla quantità potrebbe essere preso per indicare un relativo
merito o valore. Sembra meglio perciò parlare di recitazione ‘semplice’ o
‘complessa’, con la speranza che questi termini possano essere accettati
come oggettivi e descrittivi e non come giudizi di valore. Dopo tutto
‘semplice’ e ‘complesso’ sono termini che possono essere applicati
abbastanza facilmente e senza un annesso giudizio di valore ad altre arti
performative, come la musica e la danza. Una ballata è relativamente più
semplice di una sinfonia; un comune fox-trot è molto meno complesso delle
danze di Fred Astaire nei suoi film. Vediamo di applicare lo stesso tipo di
analisi alla recitazione, ricordando che una recitazione ‘semplice’, come
quella che abbiamo visto nell’esercizio dello specchio, può essere ottima e
che una recitazione ‘complessa’ non è necessariamente ‘buona’ e anzi può
benissimo essere ‘cattiva’.
Recitazione ‘complessa’, dunque, sarebbe il gradino finale della nostra scala.
Ma che cosa intendiamo per recitazione ‘complessa’? In che modo il recitare
può essere ‘semplice’ o ‘complesso’?
178 Michael Kirby, Recitare e non recitare
NON RECITARE
RECITARE
stare in scena
rappresentare
azione
recitare
recitare
senza modello senza modello
ricevuta
semplice
complesso
___________________________________________________________________
La recitazione più semplice è quella in cui viene usato un solo elemento o
dimensione del recitare. L’emozione, come abbiamo visto, può essere la sola
area in cui ha luogo la finzione. Oppure, come nell’esercizio dello specchio,
solo un’azione come indossare una giacca può essere simulata. Altri esercizi
di recitazione tendono ad isolare vari aspetti del recitare, e testimoniano
come un comportamento di per sé complesso possa essere scisso in unità
‘semplici’.
La scala da semplice a complesso si applica ad ogni singolo aspetto del
recitare. L’emozione può essere resa in modo generale e senza cambiamenti,
o in modo specifico, con modulazioni e cambiamenti frequenti in un dato
periodo di tempo. Una stessa azione può essere compiuta in un modo
semplice o complesso. Nel gioco delle sciarade, per esempio, si può solo
‘suggerire’: qualcuno può suggerire che stia indossando una giacca; se i
partecipanti al gioco indovinano che azione sia, la finzione ha successo. La
stessa azione diventa più complessa se si aggiungono dettagli come la
rigidità della stoffa, la misura più o meno adatta, il peso della giacca,
eccetera.
(La parola ‘suggerire’ che qui è stata usata per il gioco delle sciarade ha una
connotazione negativa nel vocabolario tecnico del ‘metodo’ in America. Chi
pratica il ‘metodo’ non può accettare un elemento di recitazione che sia
relativamente isolato e non sia ‘giustificato’ e totalmente integrato con altri
elementi. In altri stili tuttavia, elementi di recitazione isolati sono
perfettamente accettabili e sono usati, tra l’altro, per focalizzare
l’attenzione).
La recitazione si fa complessa man mano che sempre più elementi vengono
incorporati nell’azione di ‘far credere’. Diciamo che l’attore che indossa una
giacca è parte di una scena: egli può scegliere di esprimere un’emozione
(paura, diciamo), delle caratteristiche fisiche (il personaggio che si
rappresenta è vecchio), condizioni esterne (c’è un sole splendente) e molti
altri elementi. Ognuno di questi potrebbe essere mostrato separatamente,
ma quando vengono presentati simultaneamente o in una stretta vicinanza
dell’uno all’altro, il recitare diventa complesso. Così è anche ovvio che
quando la parola si aggiunge al mimo la recitazione che ne risulta è più
complessa. La recitazione usata in una lettura scenica sarà verosimilmente
meno complessa che in un allestimento completo dello stesso testo; e così
via.
179 AAR Anno I, numero 1 – Aprile 2011
In parte, la complessità è frutto di bravura e abilità tecnica. Alcuni stili fanno
uso di un vocabolario altamente specializzato che è abbastanza complesso.
Ma questo non contraddice la nostra precedente affermazione che la
crescita da non recitare a recitare è indipendente da giudizi di valore. La
questione non è se chi sta in scena possa produrre una certa azione
complessa ‘bene’, ma se sia capace di produrla affatto. Chiunque può
recitare; non tutti possono farlo in modo ‘complesso’.
Eppure l’analisi del recitare secondo il criterio semplice/complesso non
distingue necessariamente uno stile da un altro, anche se può essere usato
per paragonare tra loro alcuni stili. Ogni stile ha un certo numero di varianti
se lo si misura con il criterio semplice/complesso, e quasi in ogni recita il
grado di complessità varia abbastanza da un momento all’altro. Sarebbe
impossibile dire, ad esempio, che uno stile realistico sia più complesso dello
stile espressionistico di Grotowski. Il realismo, nella sua forma più completa
e dettagliata, sarebbe certo considerato relativamente complesso. Eppure ci
sono diversi tipi di realismo; alcuni – come quelli usati in molti film –
richiedono molto poco all’attore e si possono considerare piuttosto semplici.
L’attore di cinema può fare molto poco: la macchina da presa ed il contesto
di informazione e ambientazione ‘recitano’ per lui. Per contro uno stile non
realistico come quello sviluppato da Grotowski può essere molto complesso.
Quando ho visto Il principe costante, mi sono reso conto di non aver mai visto
degli attori recitare ‘tanto’. Non perché esagerassero, ma avevo
l’impressione che ogni attore nel suo lavoro facesse posto simultaneamente
a molte cose. Durante i lunghi monologhi del principe, gli altri attori non
diminuivano la complessità del loro recitare; i loro corpi erano
continuamente usati in movimenti minimi ma numerosi e dettagliati. In
parte, almeno, questa complessità può essere spiegata con gli esercizi di
Grotowski che miravano a sviluppare l’abilità dell’attore nell’esprimere cose
diverse e perfino contraddittorie con diverse parti del corpo allo stesso
tempo. Va detto che altre compagnie che usano quello che possiamo
riconoscere come ‘stile Grotowski’ recitano in modo molto semplice.
Siamo arrivati così ad una scala che misura la quantità o il grado di
rappresentazione, simulazione, impersonazione e simili nei comportamenti
sulla scena. Benché i poli di questa escursione restino beninteso il non
recitare e il recitare, noi possiamo seguire un continuo, graduale aumento di
‘rappresentazione’ dallo stadio dello ‘stare in scena senza modello’,
attraverso il ‘rappresentare senza modello’, l’‘azione ricevuta’, fino al
recitare ‘semplice’ e ‘complesso’.
•••
Quanto al ‘credere’, sia lo spettatore sia chi sta in scena è possibile che
‘credano’, ma questo non influenza una oggettiva classificazione lungo la
180 Michael Kirby, Recitare e non recitare
nostra scala del recitare. Se chi sta in scena ritiene che quello che fa sia ‘reale’
o se lo spettatore ‘crede’ che ciò che vede sia reale, questo non cambia la
classificazione, ma suggerisce solo un altro parametro.
Vari tipi e stili di recitazione sono visti in realtà come più o meno realistici
ma, tranne che in termini di stile, la parola ‘realtà’ è di poca utilità se
applicata alla recitazione. Da un certo punto di vista ogni recitare è per
definizione ‘irreale’, in quanto consiste nel simulare, far credere,
impersonare e simili, ma da un altro punto di vista ogni recitare è reale.
Filosoficamente, uno spettacolo di teatro Nō è altrettanto reale (benché non
realistico) di una messa in scena cechoviana. Fingere e rappresentare, anche
in quei rari casi in cui non siano riconosciuti come tali, sono azioni reali
come qualunque altra.
La maggior parte degli spettacoli naturalmente, anche i più naturalistici,
non cercano di imbrogliare lo spettatore col fargli credere che quello che
guarda sia realtà, ovvero che non sia recitare. L’illusionismo scenografico e
la recitazione realistica non pretendono e non si aspettano di passare per
‘vita reale’; non più di quanto un quadro illusionista pretenda di essere
preso per ciò che rappresenta. In quasi ogni messa in scena noi vediamo la
persona reale e anche ciò che sta fingendo o rappresentando: l’attore è
visibile dentro il personaggio.
Dire che dalla scena non si ‘possa’ mai ingannare lo spettatore, tuttavia, non
sarebbe vero. Una completa illusione è possibile in teatro; la recitazione può
di fatti ‘mentire’ e la finzione può essere creduta e non vista come
recitazione. Questo accadeva in Little Trips di Norman Taffel. L’intera
performance consisteva in una transizione dal contesto dell’ ‘arte’ a quello
della ‘vita’. Molte persone vi credettero; anzi, alcuni non scoprirono mai che
il loro abbaglio contraddiceva, distruggendolo, ciò che gli attori avevano
prodotto di vero.
(In Little Trips le due persone sulla scena passavano da un livello piuttosto
semplice di recitazione, che qualcuno del pubblico avrebbe potuto ‘copiare’,
ad una forma di conversazione il cui realismo era forse accentuato dal
contrasto. Nei termini della nostra discussione sul recitare, tuttavia, è
importante notare che l’effetto di realtà non dipendeva interamente dalla
recitazione. Non è infatti solo il comportamento di chi sta in scena ma è
l’intera esperienza dello spettacolo che determina la reazione dello
spettatore. Ciò che in un contesto produce un’illusione non farà altrettanto
in un altro contesto, e quella stessa recitazione, in una diversa cornice,
sarebbe rimasta una ‘recitazione’).4
C’è un altro tipo di performance in cui lo spettatore non riconosce il recitare
per quello che è. Ricordo di aver conosciuto una signora argentina, un
architetto, che mi riferì le sue esperienze durante una cerimonia religiosa
4 Cfr. N. Taffel, ‘About Little Trips’, «The Drama Review», vol. 15, n. 3m estate 1971, pp. 106108 e V. Nes Kirby, ‘Little Trips: Documentation’, ivi, pp. 99-105
181 AAR Anno I, numero 1 – Aprile 2011
notturna di qualche tipo sulla costa settentrionale del Brasile. Ad un certo
punto apparvero dei celebranti in costume che furono creduti antenati
morti. E questo causò panico ai credenti perché le porte erano chiuse a
chiave ed essi credevano che se questi spiriti li avessero toccati sarebbero
morti anch’essi. Benché il fatto di credere influenzasse ovviamente la qualità
della loro esperienza, ciò non significa che finzione, impersonazione e simili
non fossero presenti in quell’azione. L’apparizione degli antenati ‘morti’ era
recitazione.
Anche se i celebranti avessero essi stessi ‘creduto’ di essere morti, si sarebbe
comunque trattato di recitazione. Il loro credere non avrebbe cambiato il
fatto oggettivo che si stava rappresentando qualcosa o qualcuno. Il che non
toglie che il ‘credere’ possa essere un aspetto importante del recitare in
alcune forme di teatro. Un principio del ‘metodo’ che è diventato un luogo
comune è che l’attore debba cercare di ‘credere vero’ ciò che il personaggio
sta facendo. Se riesce, anche lo spettatore potrà ‘crederlo vero’. E non si nega
che questa operazione abbia spesso successo. Il ‘tentativo’ di credere senza
dubbio raggiunge, o almeno si avvicina con qualche prevedibile sicurezza
agli scopi prefissi e può darsi che sia il miglior modo per risolvere questi
particolari problemi. Ma è altrettanto chiaro che il ‘credere’ non è un criterio
accettabile per un attore. Molto spesso l’attore, quando si accorge che lo
spettatore non ‘crede abbastanza’, protesta che lui invece ‘stava davvero
credendo’. La cosa importante è che anche quando chi sta in scena riesce a
credere, il suo recitare si continui a vedere. La scala dei vari gradi del
recitare misura il simulare, l’impersonare, il fingere e simili, ma è
indipendente dal ‘credere’, sia di chi recita sia di chi osserva.
•••
Durante gli ultimi dieci o dodici anni, il teatro negli Stati Uniti ha subito un
cambiamento più completo e radicale che in qualunque altro periodo della
sua storia. Almeno se parliamo di teatro come arte e non come artigianato,
commercio o intrattenimento. Questo, poiché in passato quasi tutto il teatro
americano è stato artigianato, commercio o intrattenimento, potrebbe non
essere straordinario, ma i cambiamenti sono stati impressionanti ed estesi.
Hanno riguardato ogni aspetto della messa in scena, compresa la
recitazione. Nell’autunno e nell’inverno del 1964 «The Drama Review» ha
potuto dedicare due numeri interi a Stanislavskij; ora il ‘metodo’ non ha più
il dominio assoluto che ebbe un tempo in questo paese, e alcune soluzioni
alternative stanno incontrando un grande interesse. Tutti oggi si rendono
conto che ‘recitare’ non significa più una sola cosa: cioè il tentativo di
imitare la vita in modo realistico e dettagliato.
Così un certo eclettismo o diversità di modi nell’affrontare la recitazione è
un aspetto del recente cambiamento nel teatro americano. Nei termini della
182 Michael Kirby, Recitare e non recitare
gradazione teorica che abbiamo tracciato tra recitare e non recitare, tuttavia,
possiamo essere più specifici: c’è stato, negli ultimi dieci anni, un cambio di
direzione verso il polo del non recitare nella nostra scala. Ciò significa non
solo che c’è stato un maggiore uso dello ‘stare in scena senza modello’ ma
che in diversi modi il recitare è diventato meno complesso. Una breve
elencazione di sviluppi recenti ci permetterà di esaminare i modi in cui ciò si
è verificato e ci fornirà insieme altri esempi delle diverse posizioni lungo la
scala dal non recitare al recitare.
Il singolo fattore più importante nei cambiamenti recenti di cui dicevamo è
stato il cosiddetto happening. Gli happening ormai sono parte della storia, è
indubbio; ma questo termine è correttamente usato, in senso storico e
sociologico, quando è riferito ad opere create come parte del movimento
internazionale degli happening all’inizio e a metà degli anni sessanta. (La
prima performance chiamata un happening fu creata nel 1959, ma altri
lavori più o meno simili l’avevano preceduta, e si tratta più che altro di un
termine di riferimento che funziona come slogan popolare.) La cosa che è
necessario notare, tuttavia, è che opere che, su basi essenzialmente formali,
possono essere definite happening, continuano ad essere create e che quasi
tutte le molte innovazioni prodotte dagli happening sono state applicate ad
un teatro narrativo, strutturato come informazione e recitato. Ora non è che
io desideri perpetuarne il nome, ma coloro che ritengono che gli happening
non siano stati importanti o che la forma di teatro caratterizzata come
happening non sia più viva solo perché la parola non è più in voga, sono dei
letterati che ignorano la natura della forma. In ogni caso, gli happening
possono aiutarci a spiegare molte cose degli sviluppi correnti nella
recitazione.
Sotto la diretta influenza degli happening ogni aspetto del teatro in questo
paese è cambiato: i testi hanno perso la loro importanza e gli spettacoli sono
spesso creazioni collettive; il rapporto nello spazio tra attori e pubblico è
stato alterato in molti modi diversi ed è diventato un fattore primario dello
spettacolo; si sono investigati nuovi modi di far partecipare il pubblico; si
sono usati spazi ‘reperiti’ anziché teatri per ambientarci gli spettacoli e a
volte vari spazi erano usati in sequenza per la stessa performance; si è data
una maggiore importanza ai movimenti e agli aspetti visivi (per non citare
un uso della nudità rapidamente commercializzato), eccetera. Sarebbe
difficile trovare un qualunque spettacolo d’avanguardia in questo paese che
non abbia mostrato l’influenza degli happening in un modo o in un altro.
Ma gli happening facevano poco uso del recitare. Come avrebbero dunque
qualcosa a che fare con i cambiamenti intervenuti nella recitazione? Un
modo per rispondere è esaminare il rapporto storico tra gli happening ed i
più importanti gruppi teatrali degli Stati Uniti. Si tratta di una storia recente,
ma le cose si fa presto a dimenticarle.
183 AAR Anno I, numero 1 – Aprile 2011
L’ultimo spettacolo che produsse il Living Theatre, prima del periodo di
esilio volontario in Europa, fu The Brig. Era un dramma realistico con aspetti
che si supponevano documentari e faceva un uso assoluto della ‘quarta
parete’: un’alta barriera di filo spinato occupava l’intera apertura del
boccascena e separava lo spettacolo dal pubblico. Quando il Living presentò
il successivo spettacolo a Parigi, nell’ottobre del 1964, lo stile e la forma, se
non la natura socio-politica del contenuto, erano radicalmente cambiati.
Mysteries and Smaller Pieces era un happening. (E anche un’altro spettacolo
prodotto in seguito, Paradise Now, può essere chiamato un happening).
Naturalmente non fu il Living a chiamare Mysteries un happening, e pochi,
specialmente in Europa, lo riconobbero come tale. (Claes Oldenburg, che fu
il primo che io conoscessi ad averlo visto, lo aveva identificato così; ma non
è così strano: qualche happening lui lo aveva visto). In ogni caso non c’era
nello spettacolo né un soggetto, né una storia, né una narrazione. Era diviso
in scene o compartimenti posti in una sequenza – in uno prevaleva il
movimento, in un altro il suono, in un altro il profumo d’incenso e così via.
In qualcuno c’era perfino recitazione. La performance era stata assemblata –
così pareva – da una breve scaletta che a sua volta era stata creata da un
lavoro di gruppo anziché da un singolo autore. (Quasi tutti gli happening
più importanti erano il prodotto dell’immaginazione di un artista, ma
spesso altri happening furono opera di gruppi, in cui ciascuno partecipava
con la sua specialità – musica, disegno, poesia, ecc. – e così questa forma si
guadagnò la reputazione, tra le altre cose, di essere una creazione di gruppo;
e come tale ispirò chi era insoddisfatto di dover lavorare su un testo
previamente scritto da un autore). Certe immagini, in Mysteries and Smaller
Pieces venivano da The Brig, ma per lo più venivano da fonti esterne al
gruppo ed erano identiche o simili a varie immagini viste negli happening.
In una delle ultime scene di Mysteries, tutti coloro che erano in scena
morivano. Cioè, fingevano di morire. La morte può essere simboleggiata,
ma essi scelsero di rappresentarla. Nessun recitare di questo tipo era stato
usato negli happening. Il Living scelse di usare elementi di recitazione nella
struttura di un happening. Ma si trattava di una recitazione non riferita a
personaggi, luoghi e situazioni – se non ai dettagli del contagio della peste
che era, come in Artaud, la causa della morte. Gli attori erano ognuno se
stesso che ‘moriva’ tra le file delle poltrone e sul palcoscenico.
Questa semplificazione del recitare è tipica di molto nuovo teatro. In realtà il
movimento verso l’estremo ‘senza modello’ (o della ‘realtà’) nella nostra
scala creò un certo sbalordimento quando la morte non fu più solo simulata
ma data realmente sulla scena. In alcuni suoi lavori simili ad happening,
Ralph Ortiz – e altri prima di lui – avevano decapitato polli vivi. Peter Brook
bruciò una farfalla in U.S.. (Si vedevano delle farfalle vive che volavano
fuori da una scatola, ma è dubbio se la farfalla bruciata fosse davvero viva.
Tagliare la testa ad un pollo rende la morte indubitabile; mentre quella di
184 Michael Kirby, Recitare e non recitare
una farfalla può essere ‘falsa’. ‘Non possiamo dire’, si legge nel testo di U.S.,
‘se sia vera o falsa’)
Una delle scene in Mysteries and Smaller Pieces era un esercizio di ‘suonomovimento’ preso dall’Open Theatre. Due file di persone stanno in piedi
una di fronte all’altra. Una persona della prima fila si muove verso l’altra
fila facendo una particolare combinazione di un suono con un movimento.
Una persona della seconda fila ‘prende’ il suo suono-movimento e quindi lo
modifica prima di passarlo a qualcuno della prima fila, e così via. Come
l’esercizio dello ‘specchio’ di cui abbiamo già detto, questo uso di un
esercizio di recitazione come parte di uno spettacolo è un modo di
semplificare il recitare concentrandosi su un solo o su pochi suoi elementi.
Nel nuovo teatro si è fatto spesso uso di esercizi, più integrati nell’azione, in
genere, che nell’esempio citato, e più per le loro qualità sceniche e la loro
espressività che per il loro valore di esercizi.
Credo che fosse proprio con questo esercizio che iniziavano i primi lavori
dell’Open Theatre. In questi pezzi, che andarono in scena dal dicembre 1963
fino al 1965, vari esercizi si combinavano con brevi atti nello stesso
programma. Sarebbe sciocco rivendicare una parentela con gli happening
per questi programmi di ‘varietà’, ma ci si domanda se la somiglianza tra
questi esercizi e un certo tipo di ‘gare’ e di lavoro orientato da ‘compiti’ –
come, tra gli altri, nel Judson Dance Theatre – non abbia suggerito la
possibilità di presentare al pubblico esercizi che erano nati per la scuola.
Difatti un’altra compagnia che mostrava in scena esercizi come parti di
presentazioni più ampie è The Performance Group. Nella loro prima uscita
in pubblico, durante un programma di beneficenza nel 1968, fu inscenata
una ‘Cerimonia di Inaugurazione’ composta di esercizi derivati da Jerzy
Grotowski con alcune aggiunte vocali. Questa ‘Cerimonia’ – che fu
abbandonata dopo che Grotowski ebbe visto lo spettacolo – era in Dionysus
in 69 al suo primo apparire. Lo stesso Grotowski non avrebbe mai mostrato
esercizi in uno spettacolo. Basta questo a sottolineare la complessità del suo
lavoro e quanto fosse diverso anche da quello delle persone che più ne
erano state influenzate in questo paese.
L’effetto che ebbero gli happening, tuttavia, sul lavoro di Richard Schechner
ci fa predatare la nascita del Performance Group. Il New Orleans Group, che
Schechner formò verso la fine del 1965, produsse un grande e spettacolare
happening nel 1966 e adattò quindi i vari mezzi tecnici e la relazione
pubblico-spettacolo di un happening ad una messa in scena ‘environmental’
(che usava uno spazio ‘reale’ come ambientazione) di Vittime del dovere di
Ionesco nel 1967. L’uso dei nomi reali degli attori, di materiali aneddotici
personali e simili, in Dionysus in 69, può essere visto come un tentativo di
spostarsi da una recitazione complessa verso lo stare in scena ‘senza
modello’ degli happening.
185 AAR Anno I, numero 1 – Aprile 2011
Gli happening si guadagnarono in qualche modo una reputazione di
esibizionismo; alcuni avevano certamente degli aspetti ‘camp’ (fascino
ironico del cattivo gusto). Fu probabilmente il loro uso di persone prive di
esperienza teatrale – la persona ‘reperita’ come attore – che ebbe la maggiore
influenza sul Theatre of the Ridiculous. John Vaccaro, il quale prese parte ad
almeno uno degli happening di Robert Whitman, ha spiegato quanto fosse
importante per lui quella esperienza. La qualità sfacciatamente casereccia di
molti happening fu anche un’ispirazione per molte persone che non
avevano alcuna simpatia per abbellimenti e rifiniture tecniche.
Non intendo qui suggerire che il movimento verso una semplificazione del
recitare sia dovuto interamente alla diretta influenza degli happening. Ci
sono stati molti fattori, tutti concomitanti: le improvvisazioni di Viola
Spolin, l’accento posto da Grotowski su confronto, disarmo psichico e ‘via
negativa’, la tendenza a sviluppare creazioni di gruppo, il desiderio del
primo Open Theatre di trovare delle tecniche applicabili al ‘teatro
dell’assurdo’. (Quanto all’Open Theatre va notato che, con Terminal, si
mosse verso una forma abbastanza simile a quella di alcuni happening, sia
come struttura sia come uso delle immagini).
Un’influenza tuttavia può essere anche indiretta. Gli happening hanno
contribuito per parte loro a creare una sensibilità artistica per cui ha valore
ciò che è concreto, in opposizione a ciò che è finto o simulato, e non c’è
desiderio di una trama o storia. L’autore più originale degli ultimi anni,
Peter Handke, ha lavorato in questa direzione. Benché il suo lavoro sia del
tutto diverso dalla gran parte del nuovo teatro in questo paese, ci possiamo
vedere lo stesso impegno per una recitazione più semplice.
Insulti al pubblico e Autodiffamazione di Handke sono testi drammatici
piuttosto insoliti, se pure si possono chiamare ‘drammatici’. Handke li
chiama ‘Sprechstücke’ (‘allocuzioni’). Non propongono luoghi e personaggi
come modelli. Vengono eseguiti su palcoscenici vuoti; gli attori non si
relazionano ad ambienti immaginari; sono solo se stessi; non sono vestiti in
qualche modo che connoti un personaggio e non interpretano personaggi. In
effetti Handke ha scritto dialoghi per attori che non necessariamente devono
‘recitare’. I suoi testi non richiedono finzione o emozione.
Sulla scena le persone parlano: hanno imparato a memoria ciò che Handke
ha scritto e hanno fatto delle prove. Ma questo di per sé non fa di una
persona un attore. Alcune persone dicono poesie, altre fanno discorsi, ma
non ‘recitano’. I musicisti anche provano le loro parti, si preoccupano di
tempi e di attacchi, ma nessuno di questi fattori definisce il recitare.
Sulla scena si fanno quasi esclusivamente affermazioni e dichiarazioni in
forma diretta che sono vere chiunque sia a farle. In Insulti al pubblico si parla
– al pubblico – dello spettacolo in corso: «Siete seduti su file di poltrone… Ci
guardate quando noi vi parliamo… Questo non è un miraggio… Le
possibilità del teatro noi non le usiamo». In Autodiffamazione i due speakers
186 Michael Kirby, Recitare e non recitare
(così li chiama Handke anziché attori) parlano di sé in prima persona: «Io
sono venuto al mondo … Io ho visto … Ho detto il mio nome». Non c’è
motivo di ‘recitare’ battute come queste.
In Autodiffamazione, tuttavia, se l’affermazione «Ho visto» venisse fatta da un
cieco, sarebbe non vera. O, per prendere un esempio meno faceto da
successive battute non altrettanto applicabili a chiunque, certe persone non
potrebbero dire, credendoci: «Sono venuto al mondo con l’afflizione del
peccato originale». La loro fede sarebbe una finzione. Ma anche un cieco
potrebbe usare la frase «Ho visto» in senso metaforico e Handke non
suggerisce che ogni battuta debba essere creduta vera da chi la dice. Ci sono
interpretazioni che eviterebbero ogni tipo di ‘recitare’.
D’altra parte queste osservazioni sono basate solo sul testo e non c’è testo,
incluse le ‘allocuzioni’ di Hanke, che proibisca di recitare. Diciamo che chi
parla può creare un’emozione. In Insulti al pubblico chi parla finge di essere
arrabbiato con gli spettatori, quando in realtà è felice che siano lì. C’è
dunque un elemento di recitazione. La messa in scena userà quella che
abbiamo chiamato ‘recitazione semplice’. Ma ci può essere un regista con cui
gli attori creerebbero una caratterizzazione ‘a tutto tondo’: la recitazione
diventerebbe complessa. E conoscendo la fame di recitare che hanno gli
attori, io dubito che ci sia mai stata una messa in scena di questi testi che
abbia evitato l’uso di recitazione.
In Il mio piede, la mia guida Handke impone una recitazione semplice
riducendo i mezzi a disposizione degli attori: i due personaggi non parlano,
usano una mezza maschera neutra e, per lo più, fanno movimenti ordinari
(che a volte sembrano straordinari perché contraddicono le aspettative e non
sono adatti al contesto). Nel testo ci sono personaggi – un tutore e il suo
pupillo – ma la gran parte dell’azione suscita la domanda: ‘Cosa è recitato e
cosa è reale?’. C’è un gatto nello spettacolo. A un gatto non si può insegnare
a recitare. Nelle istruzioni per la messa in scena, ‘il gatto fa quello che fa’.
La durata delle azioni dipende dagli attori, ma la lunghezza di una scena
dipende dal tempo realmente necessario perché l’acqua bolla per il tè. Il
tutore mangia una mela esattamente come se non stesse recitando: ‘come se
nessuno lo osservasse’. Poi sbaglia nell’affettare una barbabietola con una
grande affettatrice: ovviamente sta fingendo.
Questi testi di Peter Handke mostrano, tra l’altro, che anche un autore può
usare consapevolmente la gradazione del recitare-non recitare. Benché il suo
controllo sulla complessità del recitare – esercitato solo con la parola scritta
– sia scarso, tuttavia può sempre dire la sua sul grado e sul tipo di
recitazione che l’azione prevede. I primi lavori di Handke sono un
documento di un generale (ma non universale) orientamento degli artisti
contemporanei verso una recitazione semplice e verso l’area del non
recitare.
187 AAR Anno I, numero 1 – Aprile 2011
•••
Bisogna sottolineare che la gradazione dal non recitare al recitare non
intende stabilire o suggerire valori di alcun tipo. Obiettivamente, ogni
gradino della scala è ugualmente ‘buono’. È solo il gusto personale che può
far preferire una recitazione complessa ad una semplice o uno ‘stare in scena
senza modello’ al recitare. I vari gradi di impersonazione e rappresentazione
sono ‘colori’, per così dire, nella varietà delle umane espressioni: l’artista
può usare i colori che preferisce.
Malgrado gli esempi presi da Handke, l’importanza di tentare una
formulazione come questa di una scala tra il non recitare e il recitare sta nel
fatto che si tratta di uno strumento pratico di analisi teatrale in opposizione
a strumenti letterari. Le qualità e le caratteristiche di una recitazione
possono essere determinate solo nella messa in scena. Noi abbiamo una
grande eredità di analisi nel campo della letteratura drammatica, ma è vitale
e necessario sviluppare tecniche e metodi per l’analisi della performance.
Di tali analisi non abbiamo solo un bisogno filosofico e accademico. Così
come l’analisi letteraria ha molto contribuito alla drammaturgia scritta,
l’analisi della performance dovrebbe contribuire direttamente a tutte le arti
della scena. Dovrebbe essere a proposito, concreta, sommamente utile e
stimolante.
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