1. Introduzione 2. Motivazioni, emozioni, affetti, cognizioni e sentimenti

Psichiatria e Psicoterapia (2015) 34, 4, 239-258
PAURA E IPERCONTROLLO.
LO STUDIO DI OSSESSIONI E COMPULSIONI IN SEDICI CASI CLINICI
Paolo Giardina
1. Introduzione
I criteri diagnostici per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo proposti dal Manuale Diagnostico
e Statistico dei Disturbi Mentali, quinta edizione, DSM-5 (American Psychiatric Association
2013) definiscono le ossessioni come pensieri, impulsi, immagini ricorrenti, intrusivi, indesiderati
che causano ansia o disagio marcati che il soggetto tenta di prevenire, ridurre o neutralizzare
con pensieri o azioni ripetitive definite come compulsioni. I sintomi del Disturbo OssessivoCompulsivo, cioè le ossessioni, le compulsioni e ciò che esse provocano, sono dunque,
componenti della vita psichica (pensieri, impulsi, immagini, azioni, ansia, disagio) descritte
deliberatamente senza far riferimento ad alcuna teoria esplicativa.
Psicologi e psicoterapeuti cercano da tempo di giungere a formulare teorie esplicative
dei processi e dei fenomeni psichici sani e patologici proponendo un’alternativa ai modelli
diagnostici strettamente descrittivi, nosografici e ai modelli terapeutici prettamente sintomatici
propri della psichiatria più rigidamente organicista. Tuttavia lo sforzo che si sta producendo in
tal senso da più di un secolo tende ancora a inciampare e arenarsi sulla eccessiva importanza data
ad alcune componenti della vita psichica (i pensieri/cognizioni, le azioni/comportamenti), sulla
poca rilevanza attribuite ad altre (le motivazioni), sulla nebulosa e confusa definizione di altre
ancora (le emozioni e gli affetti).
Il mio personale sforzo teorico e clinico consiste nel cercare di giungere a una più completa
definizione della funzione delle componenti della vita psichica e del loro dinamico interagire
funzionale/adattivo/sano o disfunzionale/disadattivo/patologico. In un mio recente lavoro
(Giardina 2015) ho esposto alcune concezioni al riguardo, nel secondo paragrafo di questo
contributo le riprenderò in breve ampliandole. Nei paragrafi successivi cercherò di illustrare
come tali concezioni possano permettere la formulazione di un’ipotesi eziopatogenetica sul
Disturbo Ossessivo-Compulsivo (paragrafo 5) attraverso l’analisi di sedici casi clinici (paragrafo
4) preceduta da una breve, parziale rassegna della letteratura sul tema (paragrafo 3).
2. Motivazioni, emozioni, affetti, cognizioni e sentimenti
Senza voler entrare troppo nel merito del dibattito sulla filosofia della mente (Paternoster
2010) che a partire dalla remota ipotesi dualistica di Cartesio (lo scambievole rapporto tra res
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cogitans e res extensa attraverso la ghiandola pineale) non ha cessato di porre quesiti sul rapporto
mente-cervello, è necessario, comunque, chiarire preliminarmente che le concezioni che andrò ad
esporre si riconducono alla teoria dell’identità psico-fisica mente-cervello inquadrata nella più
ampia cornice del funzionalismo. Ad ogni stato mentale corrisponde uno stato cerebrale, posti in
una tale, stretta, reciproca interazione da costituire un unico insieme: ben venga, dunque, anche
l’interazione tra la psicologia, che studia la mente, e le neuroscienze, che studiano il cervello, fino
a costituire un unico, armonico patrimonio di conoscenze. Ogni stato mentale, inoltre, svolge una
sua funzione causale e finalistica nel regolare i rapporti tra organismo e mondo esterno attraverso
processi costituiti da percezioni (in-put), elaborazioni interiori, comportamenti (out-put). In tali
processi è necessario comprendere le funzioni svolte dalle componenti motivazionali, emotive,
affettive e cognitive della vita psichica.
Associando a ciò la teoria dell’evoluzione, si giunge a considerare la struttura (cervello) e la
funzione (mente) articolati in un lento, continuo sviluppo. “Riducendo la questione ai minimi
termini, per primo si evolse un sistema nervoso primitivo, che constava solo del midollo allungato
e che non era particolarmente ‘intelligenteʼ, mentre i mammiferi superiori si evolsero per ultimi,
avevano una corteccia cerebrale più elaborata ed erano più intelligenti. Poiché l’evoluzione
opera sempre su quanto già esiste, il sistema nervoso più recente, quello dei primati, ha in sé
tutte le strutture arcaiche dei progenitori primitivi. Il cervello è quindi organizzato a strati, come
una cipolla, e ciascuno strato riflette uno stadio della sua storia evolutiva” (Donald 1991).
Seguendo, infine, l’ipotesi evoluzionistica del cervello tripartito di Mc Lean (1973), si
ritiene che la struttura encefalica si sia sviluppata nel tempo su tre livelli: rettiliano, limbico,
neocorticale. Tre linee di funzionamento interconnesse che arrivano a produrre comportamenti
definibili, secondo una mia personale rielaborazione terminologica, rispettivamente come:
riflessi (rettiliani), istintivi (limbici), consapevoli (neocorticali).
I comportamenti sono l’esito finale della spinta prodotta da Sistemi Motivazionali, anch’essi
evolutisi nel tempo, attivati da in-put sensoriali (rettiliani) di provenienza ambientale e
somatica, in-put emotivi (limbici), in-put cognitivi (neocorticali). Se a livello rettiliano la spinta
motivazionale è costituita da un impulso che immediatamente produce un comportamento riflesso,
a livello limbico, in modo più complesso, l’impulso stesso origina un affetto che si traduce in
comportamento istintivo. Al livello più alto di funzionamento il cervello neocorticale, capace di
produrre pensieri razionali, analizza la spinta motivazionale traducendola in desiderio, qualora
la ritenga valida e adattiva, e come è possibile che interagisca con il cervello limbico favorendo
un confronto e un’integrazione tra pensieri ed emozioni nella fase di analisi degli in-put, così
è possibile che operi nella fase di analisi degli out-put favorendo confronto e integrazione tra
pensieri e affetti. Operazioni rese complesse dalla non facile integrazione tra sistemi cerebrali
evolutisi in tempi diversi oggi prevalentemente qualificate come processi di mentalizzazione al
termine dei quali si pone la produzione di comportamenti consapevoli. Quando tali processi di
mentalizzazione non si attivano, va da sé che possano prodursi comportamenti riflessi rettiliani
o istintivi limbici in via diretta.
L’importanza del ruolo delle motivazioni per la comprensione delle psicopatologie è stata
ampiamente evidenziata e teorizzata da vari autori (Maslow 1954; Gilbert 1989; Liotti 1994,
2001; Cortina e Liotti 2014; Lichtenberg 1989; Lichtenberg, Lachmann, Fossahage 1992,
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Paura e ipercontrollo
2011). L’elaborazione concettuale che ho mantenuto come principale riferimento è la Teoria
dei Sistemi Motivazionale Interpersonali (SMI) definita da Liotti (attaccamento, accudimento,
antagonistico, cooperazione paritetica, sessuale) di cui ho cercato di approfondire e precisare
i fattori di attivazione e disattivazione integrandoli, inoltre, con due Sistemi Motivazionali
Personali (SMP), il primo finalizzato alla cura di sé (attivato dalla percezione di uno stato
di fame, sete, stanchezza, eccitazione sessuale dovuta a fattori interni (ormonali), malessere
fisico, malessere emotivo, pericolo derivante da fattori ambientali), il secondo finalizzato alla
realizzazione di sé (attivato dalla percezione di uno stato di insoddisfazione relativo al proprio
sapere o alla propria produzione di opere) (Giardina 2015). Sempre utilizzando il quotidiano
confronto con quanto emergeva dal lavoro clinico ho, infine, esteso agli altri SMP/SMI l’analisi
dei possibili, diversi pattern di attivazione individuati dai classici studi sul SMI attaccamento:
sicuro, evitante, iperattivo (ambivalente), rifiutante (disorganizzato) (Bowlby 1969, 1973, 1979,
1980, 1988; Holmes 1993; Attili 2007).
Per arrivare a definire una Teoria delle Emozioni (Giardina 2015) i riferimenti sono stati
molteplici a partire dalle prime intuizioni filosofiche (Cartesio 1994, Spinoza 1992), per
proseguire con i fondamentali contributi dell’evoluzionismo (Darwin 1872, Pievani 2012), fino
ai più recenti sia prettamente psicologici (Plutchik 1994, Borgna 2001, Ferro 2007, Barone 2007)
che derivanti dall’ambito delle neuroscienze affettive (Ledoux 1998; Damasio 1999, 2003;
Panksepp 2009; Siegel 1999, 2009).
Passando dalla teoria alla pratica clinica è stato, tuttavia, indispensabile cogliere quanto
emergeva dall’analisi dei vissuti delle persone in psicoterapia. Così, di seduta in seduta, è emerso
con crescente chiarezza che le emozioni segnalano, a livello limbico, con il loro linguaggio
muto e primordiale, privo di pensieri e parole, quale sia lo stato dell’organismo rispetto al
raggiungimento delle mete dei SMP/SMI: la gioia corrisponde alla percezione che la meta
motivazionale è stata raggiunta, la paura alla percezione che ciò non sia possibile perché alla
persona mancano energie e capacità sufficienti, ancor più in caso di pericolo e minaccia, la
rabbia corrisponde alla percezione che qualcosa o qualcuno impedisca il raggiungimento della
meta motivazionale, la tristezza alla percezione che questa non è stata raggiunta o è stata persa.
Così come le emozioni svolgono, dunque, la funzione di in-put limbici, gli affetti ne
costituiscono gli out-put. Se la gioia segnala il raggiungimento di una meta motivazionale, l’affetto
ad essa collegato è solitamente un “andar verso” l’oggetto gratificante, un amare declinato
in vari possibili modi a seconda del SMI interessato (amore genitoriale/accudimento, filiale/
attaccamento, amicale/cooperazione paritetica, erotico/sessuale). Alla paura può facilmente
corrispondere un “andar via”, alla rabbia un “andar contro” (odio, risentimento), alla tristezza
uno “star fermi” in attesa che la meta motivazionale possa essere raggiunta o riottenuta in un
secondo tempo.
Tuttavia, non sempre le corrispondenze sono così dirette né, soprattutto, adattive e salutari.
Su questo snodo ruota gran parte della psicopatologia: l’elaborazione delle emozioni in affetti
può portare a una successiva produzione di comportamenti che, invece di rendere più facile il
raggiungimento di mete motivazionali possibili, ne allontana il conseguimento con il prodursi
di ulteriori e più penose emozioni disturbanti e il perpetuarsi di circoli viziosi sempre più
patogeni. Tali evenienze risultano tanto più probabili quanto più i SMP/SMI presentino assetti
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di base evitanti, iperattivi o, ancor più, rifiutanti. In tali dinamiche possono intervenire, in modo
più o meno penetrante ed efficace, i pensieri (cognizioni) del cervello neocorticale portando
consapevolezza e favorendo efficaci processi di mentalizzazione e problem solving.
Dall’interazione tra pensieri ed emozioni e tra pensieri e affetti nascono ciò che abitualmente
possiamo definire sentimenti che rappresentano, dunque, emozioni consapevoli o affetti
consapevoli. Ogni qualvolta un’emozione o un affetto non sono espressi nel solo loro puro,
muto linguaggio interiore, ma si manifestano corredati da valutazioni e giudizi, prendono la
forma di sentimenti. Il senso di colpa, ad esempio, è inquadrabile come sentimento trattandosi
di un’emozione di tristezza (percezione limbica della perdita di una meta motivazionale)
accompagnata da pensieri neocorticali giudicanti con i quali la persona attribuisce la perdita
stessa a propri demeriti e responsabilità. Proseguendo con gli esempi, il disprezzo è anch’esso
un sentimento che ha alla base un “andar contro” (affetto) accompagnato da pensieri neocorticali
giudicanti fortemente critici rispetto all’esecrabile condotta dei soggetti verso i quali è diretto.
Accanto a una Teoria delle Emozioni e a una Teoria degli Affetti è, quindi, possibile fondare
una Teoria dei Sentimenti.
L’obiettivo finale è giungere a una teoria delle psicopatologie che nei prossimi paragrafi
riguarderà, nello specifico, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo come nel mio precedente lavoro
ha riguardato i Disturbi Depressivi (Giardina 2015).
Una considerazione ancora: sistemi motivazionali, emozioni, affetti, cognizioni, sentimenti,
comportamenti (e con essi anche il cervello e il corpo che ne sono il substrato materiale) hanno
assetti di base, modalità consuete di funzionamento che continuamente, ma perlopiù lentamente,
cambiano nell’interazione con gli assetti attuali, modalità di funzionamento attive nel momento
presente. L’insieme degli assetti di base rappresenta, in sostanza la personalità di un individuo.
Ciò riconduce alla fondamentale distinzione filosofica tra particolari e universali (Paternoster
2010): viviamo eventi mentali, occorrenze di stati mentali momentanei unici e irripetibili (assetti
attuali) che circolarmente interagiscono con proprietà mentali, tipi di stati mentali (assetti di
base) sedimentati nella nostra memoria.
Nel “gioco” tra particolari e universali si situa il nucleo delle psicopatologie così come il
potenziale psicoterapeutico.
3. Dall’uomo dei topi all’uomo dei chiodi
Attraverso un excursus, necessariamente breve e parziale, sulla letteratura relativa al Disturbo
Ossessivo-Compulsivo focalizzato principalmente sui contributi del cognitivismo evoluzionista
e della psicoanalisi con cenni al comportamentismo, all’ipotesi etologica e al cognitivismo
giungerò, in questo paragrafo, a porre tre questioni fondamentali alle quali cercherò di dar
risposta nell’ultimo paragrafo attraverso lo studio dei sedici casi clinici presentati.
Per il comportamentismo le compulsioni costituiscono atti di elusione volti a ridurre uno
stato d’ansia e tale concezione si avvicina molto a quella etologica che le considera “attività
di sostituzione” (un colombo assetato becca compulsivamente e apparentemente senza motivo
il suolo non potendo raggiungere l’acqua schermata da un vetro) che svolgono una funzione
omeostatica volta a stemperare lo stato d’eccitazione conseguente a una frustrazione (Dèttore
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1998).
Il cognitivismo razionalista, in estrema sintesi, pone gli schemi relativi all’immagine di sé
(ad esempio, “perfetto” o “inetto”) e gli schemi relativi al rapporto con gli altri (“amabile”,
“non amabile”) come livello cognitivo profondo da cui scaturiscono credenze (“se sarò perfetto
potrò essere amato”) e, in successione, pensieri automatici (“non devo assolutamente sbagliare
questo compito per ottenere affetto”) che determinano stati emotivi e comportamenti propri del
Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Dèttore 1998).
Più complessa e innovativa la prospettiva proposta dal cognitivismo evoluzionista (Liotti
2001) esemplificato dal caso dell’Uomo dei Chiodi la cui ossessione era centrata sulla paura
di arrecare danno agli altri perdendo il controllo di sé e inserendo inavvertitamente dei chiodi
nelle bottiglie di grappa da lui confezionate. La compulsione consisteva in ripetuti controlli
delle bottiglie stesse per scongiurare la presenza dei chiodi. Tale sintomatologia rappresentava
metaforicamente la traduzione in conoscenza esplicita della conoscenza implicita del soggetto
relativa al rapporto tra sé (pericoloso e amnesico) e l’altro (ferito o ucciso dalla sua disattenzione):
“…l’Uomo dei Chiodi sembra incapace di riflettere tanto sui contenuti della mente degli altri che
tentano di spiegargli come i suoi timori siano infondati (il che suggerisce un deficit di teoria della
mente), quanto sulla qualità metaforica dei propri processi mentali che generano le immagini
intrusive (il che suggerisce un deficit di monitoraggio metacognitivo). Deficit di teoria della
mente e deficit metacognitivi, a loro volta, suggeriscono una riduzione delle capacità di elaborare
informazioni nella memoria operativa” (Liotti 2001; p. 64). La sua organizzazione di coscienza,
inoltre, ruotava attorno a un nucleo centrale di significato: il senso inflazionato di responsabilità
personale da cui derivavano due abnormi modalità di elaborazione della coscienza (la fusione tra
pensiero e azione e il deficit di memoria delle azioni). Il pattern d’attaccamento disorganizzato
(alla madre era morto un figlio mentre era incinta del soggetto al sesto mese di gravidanza),
viene considerato il fattore eziologico primario di tutto ciò e, quindi, del Disturbo OssessivoCompulsivo dell’Uomo dei Chiodi, in comorbilità con un Disturbo Dissociativo. In ultima
analisi, “… nella prospettiva cognitivo-evoluzionista, la psicopatologia consiste essenzialmente
in una serie di ostacoli che strutture e processi cognitivi, abnormi per rigidità o per difettoso
sviluppo, pongono al riconoscimento e dunque alla regolazione delle emozioni” (Liotti 2001;
p. 113).
In altri contributi del cognitivismo il Disturbo Ossessivo-Compulsivo viene connesso con
pattern d’attaccamento diversi da quello disorganizzato: “… il tipo di relazione che una persona
con organizzazione di tipo ossessivo ha avuto con i genitori si può ricondurre all’attaccamento
ansioso-evitante (pattern A) o all’attaccamento resistente-ambivalente (pattern C)” (Bara et al.
1996; p. 251).
Tale ipotesi, compresa in un capitolo dedicato dagli stessi autori all’organizzazione cognitiva
di tipo ossessivo, viene citata nella rinnovata edizione dell’opera in cui era inserita, ma il
capitolo rivolto all’analisi del Disturbo Ossessivo-Compulsivo è in essa realizzato da altro
autore (Mancini 2005) che nella descrizione del profilo interno dell’attività ossessiva torna
a dare massima importanza ai pensieri/cognizioni che ricorsivamente guidano la valutazione
degli eventi di innesco del disturbo e ai comportamenti su cui poggiano i tentativi di soluzione,
riconducendo essenzialmente la vulnerabilità al Disturbo Ossessivo-Compulsivo, in base a una
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rivalutazione della letteratura, a un eccesso di severità morale imposto al soggetto nelle sue
prime relazioni affettive.
“Cesare mi amava, io piango per lui; egli era fortunato, io ne gioisco; era prode, e io lo
onoravo; era ambizioso, e io l’ho ucciso”. Questa la citazione che Freud (1909) fa delle parole
di Bruto nel “Giulio Cesare” di Shakespeare per esplicitare la dinamica implicita che sottende
il Disturbo Ossessivo-Compulsivo. L’Uomo dei Topi, affetto da tale nevrosi, si era ritrovato a
pensare e, quindi, inconsciamente e colpevolmente a desiderare che il padre e l’amata potessero
essere sottoposti alla tortura in cui un vaso contenete topi affamati viene tenuto a lungo
applicato all’ano della vittima con le conseguenze immaginabili. Il padre e l’amata: persone
consapevolmente adorate, inconsciamente odiate, il primo per la severità con cui aveva represso
i suoi bisogni sessuali infantili, la seconda per un iniziale rifiuto al suo corteggiamento anni
prima. Il conflitto tra l’amore consapevole e l’odio rimosso viene considerata, in sintesi, la base
eziologica del Disturbo Ossessivo-Compulsivo.
Già prima Freud (1907) aveva esplicitato il valore difensivo, rassicurativo, protettivo delle
“azioni ossessive” (compulsioni) rispetto all’odio rimosso, definendo la nevrosi ossessiva una
sorta di religione privata e la religione, con i suoi rituali salvifici, una nevrosi ossessiva universale.
L’anno successivo (Freud 1908) aveva individuato in ordine, parsimonia e ostinazione gli
elementi del carattere ossessivo derivanti dalla fissazione alla fase dell’erotismo anale nello
sviluppo psicosessuale.
Successivamente (Freud 1913) individua la componente sadico-anale che meglio giustifica
la presenza di impulsi aggressivi nella nevrosi ossessiva: in assenza di un maschile/femminile
che maturano con la genitalità, nelle fasi pregenitali è presente una tendenza attiva (pulsione di
appropriazione che in ambito sessuale viene definita sadica) e di una tendenza passiva, anale.
In “Totem e tabù” (Freud 1912-13) ripropone in ambito psico-antropologico il conflitto tra
l’amore (esplicito) e l’odio (inconscio) come base delle ambivalenze affettive che si riscontrano
in gruppi sociali di varie epoche e latitudini nei confronti dei sovrani (da proteggere ma da cui
anche proteggersi) e dei morti (spesso nell’inconscio dei parenti albergano pulsioni aggressive
nei loro confronti che suscitano sensi di colpa).
Rado (1977) molti anni dopo porta qualche variazione sul tema e traduce il conflitto amoreodio in obbedienza-ribellione ritenendo che l’ira ribelle provochi inconsciamente quelle
ossessive, “orribili tentazioni” di danneggiare gravemente le persone amate o commettere atti
riprovevoli di vario genere che atterriscono la coscienza determinando una retroflessione dell’ira
stessa con conseguenti sensi di colpa e compulsivi rituali espiatori.
Spaçal (1989) partendo, invece, dalla constatazione che “non esiste una teoria psicoanalitica
unificata della nevrosi ossessiva” analizza le tappe fondamentali dello sviluppo delle concezioni
al riguardo aggiungendo a quelle di Freud e Rado le tesi di Shapiro che a metà degli anni sessanta,
riconducendosi alla “sfera dell’Io libera da conflitti” teorizzata da Hartmann più di venti anni
prima, ritiene che le nevrosi siano generate da diversi stili cognitivo-percettivi non condizionati
da conflitti o da contenuti rimossi in base ai quali si strutturano specifiche forme caratteriali.
Successivamente Gabbard, nel tentativo di rendere compatibili dati di ricerca che
fanno ipotizzare una componente biologica del Disturbo Ossessivo-Compulsivo e ipotesi
psicodinamiche, ripropone la tematica freudiana del conflitto amore-odio: “Un altro prodotto
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della regressione è lo scioglimento della tranquilla fusione tra pulsioni aggressive e sessuali
che è caratteristica della fase edipica. Sentimenti di amore e di odio non sono più fusi, pertanto
il nevrotico ossessivo-compulsivo è in genere tormentato da un’intensa ambivalenza. La
presenza simultanea di sentimenti di amore e di odio rende il paziente consumato dal dubbio
su quale dovrebbe essere il corso appropriato delle proprie azioni, e, come Amleto, paralizzato
dall’indecisione” (Gabbard 1994; pp. 252-253).
Lo stesso Gabbard, tuttavia, in un’edizione successiva del suo lavoro (Gabbard 2000)
toglie tale affermazione dalla sua trattazione e nella recente, nuova edizione basata sul DSM-5
(Gabbard 2014) non dedica più le sue attenzioni al Disturbo Ossessivo-Compulsivo nonostante
il maggior risalto che il DSM-5 stesso gli attribuisce inquadrandolo in una cornice diagnostica
autonoma, differenziata da quella dei Disturbi d’Ansia nella quale era sempre stato collocato.
Il panorama delle teorie, ripercorso velocemente e solo in parte, risulta così ampio e variegato
che diventa difficile, oggi, avere le idee chiare sull’eziologia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo
tanto che contributi volti a favorire una conoscenza del disturbo anche per chi ne è affetto (Fricke,
Hand 2004), si limitano a elencare un’ampia serie di fattori di rischio (ereditarietà, educazione,
situazioni di vita difficili, apprendimenti precoci, struttura di personalità, pregresse condizioni
di vita sfavorevoli, fattori biologici) che appaiono piuttosto generici, aspecifici, sostanzialmente
validi per molti altri tipi di disturbo psichico, senza che vengano individuati precisi fattori
eziologici.
Dal confronto tra le teorie fornite in letteratura e le tante, personali difficoltà incontrate nel
trattamento psicoterapeutico dei casi di disturbo ossessivo-compulsivo sono giunto a definire
le seguenti questioni critiche che sono servite da stimolo per avviare il tentativo di formulare
un’iniziale ipotesi eziopatogenetica del Disturbo Ossessivo-Compulsivo che tenga conto di tutte
le componenti della vita psichica e delle dinamiche che ne caratterizzano l’interazione:
1. cognizioni e comportamenti sono componenti fondamentali delle dinamiche psichiche,
come hanno messo in evidenza il cognitivismo, il comportamentismo e l’approccio
etologico, ma nel formulare un’ipotesi eziologica di un disturbo psichico, si può
trascurare la comprensione della funzione svolta dalle motivazioni e la dinamica che
porta all’elaborazione delle emozioni in affetti?
2. Il cognitivismo evoluzionista ha cercato di completare il “racconto” del Disturbo
Ossessivo-Compulsivo aprendo all’analisi delle dinamiche motivazionali ed emotive del
SMI attaccamento. È possibile che l’assetto degli altri SMI non eserciti alcuna influenza
e che il solo attaccamento disorganizzato (Liotti 2001) o gli attaccamenti ansiosoevitante e ansioso-ambivalente (Bara et al. 1996) siano determinanti per l’originarsi del
Disturbo Ossessivo-Compulsivo? È sufficiente, inoltre, considerare le motivazioni e i
bisogni interpersonali (SMI) senza considerare il peso e l’importanza di motivazioni e
bisogni più strettamente individuali e personali (SMP)?
3. In tutti i casi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo si ritrova, alla base, il conflitto amoreodio (Freud 1909) o obbedienza-ribellione (Rado 1977)? La rabbia e l’odio sono, dunque,
l’emozione e l’affetto dominanti e destabilizzanti nelle dinamiche di questo disturbo?
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4. Ossessioni e compulsioni in sedici casi clinici
Si tratta di sette donne e nove uomini, età media 34 anni (22 anni il più giovane, 55 il maggiore),
seguiti nell’ambito della mia attività clinica in un servizio pubblico di salute mentale. Quindici
rispondono ai criteri diagnostici individuati dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi
Mentali-5 (American Psychiatric Association 2013) per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo,
quattro in comorbilità con il Disturbo Borderline di Personalità, uno con l’Agorafobia. Il caso n.15
presenta una diagnosi di Disturbo Schizoaffattivo in cui la sintomatologia ossessivo-compulsiva
è, tuttavia, imponente e fondamentale nella comprensione dello sviluppo del disturbo.
Per motivi di spazio e di rispetto della privacy la descrizione sarà sintetica ed essenzialmente
centrata sull’individuazione dei SMP/SMI e delle emozioni dominanti i relativi assetti di base,
evidenziando come ciò si connetta alla sintomatologia ossessivo-compulsiva e sia collegato ad
aspetti della storia personale e relazionale di ognuno.
Caso 1. L’assetto motivazionale di base è caratterizzato dall’iperattivazione del SMP finalizzato
alla cura di sé e del SMI attaccamento che portano a vivere come primari il bisogno di proteggersi
dallo sporco, portatore di malattie, e l’esigenza di avere frequenti e consistenti conferme sul piano
affettivo, molto più che sul piano sessuale, da parte della moglie. La paura intensa e protratta
di non riuscire a raggiungere le alte mete dei due SMP/SMI si concretizza in pensieri ossessivi
sulla facilità con cui gli abiti e le scarpe utilizzate fuori casa possano veicolare pericolosi germi
nell’ambiente domestico e su tormentosi dubbi relativi all’essere poco considerato e amato dalla
moglie. Le vie di fuga sono precluse, la pulizia della casa e il mantenimento del rapporto con
la moglie sono mete irrinunciabili per evitare che il suo sistema di vita possa disgregarsi. Il
modo migliore per sedare la propria paura è l’ipercontrollo: compulsioni igieniche per abbattere
i rischi di malattie infettive, ipervigilanza compulsava sulla moglie per cogliere da gesti e frasi
la conferma di essere costantemente nei suoi pensieri. Tutto era peggiorato da quando la nascita
del figlio, pochi anni prima, aveva assorbito molte delle attenzioni della moglie accentuando,
allo stesso tempo, l’esigenza di proteggere la casa da microbi infestanti. La scarsa affettuosità
sperimentata nella famiglia d’origine, oltre a determinare in gran parte l’iperattivazione del SMI
attaccamento, aveva orientato il SMI accudimento su posizioni evitanti con conseguenti, scarse
capacità di base nell’esprimere affetto. Così, al timore di non ricevere attenzioni si sommano
dubbi ossessivi sulle capacità di darne sia al figlio che alla moglie e sulla possibilità che perda
il controllo prendendo decisioni insensate che lo allontanino dalla famiglia per avviare nuove
relazioni.
Caso 2. La storia personale racconta di un attaccamento esasperato alla madre e alla sorella
maggiore fin dall’infanzia e potenti vissuti di gelosia nei loro confronti; attorno, nel tessuto
sociale, prevale il principio della possessività amorosa che comporta l’alto rischio di subire l’onta
del tradimento. Appena adulto le esigenze di lavoro lo spingono al nord sulle tracce di un parente.
Una ragazza, ovviamente di diversi anni più grande, diviene la fonte totale delle sue incolmabili
esigenze affettive sostenute da un SMI attaccamento e un SMI sessuale fortemente iperattivi. La
paura di non riuscire a tenere la fidanzata legata a sé produce ossessioni ricorrenti. La meta è
troppo importante e la paura non può tradursi in fuga: l’ipercontrollo rappresenta per lui il modo
migliore di gestire la situazione e produce compulsioni volte a indagare con domande frequenti
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e insistenti la vita sentimentale passata della fidanzata per verificare la coerenza dei suoi racconti
ritenuta prova di affidabilità per l’oggi. Un SMI accudimento sicuro, contrariamente al caso
precedente, gli evita dubbi sulla propria affidabilità.
Caso 3. Nel salotto della casa degli zii, dove ha trascorso periodi importanti dell’infanzia,
sedie e divani rimanevano protetti dal cellofan che li aveva avvolti fin dalla nascita; i suoi giochi
avevano vita breve: se graffiati perdevano valore e venivano accantonati. Da allora, estrema
attenzione nella cura della propria persona e dei propri oggetti, vissuti come estensione di sé.
L’iperattivazione del SMP finalizzato alla cura di sé spicca nel suo assetto motivazionale di
base. La paura di non riuscire a proteggere se stesso e le sue cose lo accompagna costantemente
negli anni. Se hai paura, scappi. Ma se scappi da ciò che è vitale, muori. Conviene controllare,
controllare ancora, ripetere i controlli. Nascono le compulsioni, di cui non riesce a liberarsi e
che lo impegnano per ore, sul rischio di infiltrazioni d’acqua piovana, sul puntino di muffa che
può allargarsi a dismisura su tutta la parete, sulla scorticatura di un muro da cui può entrare un
insetto. Fuori di casa tutto torna normale.
Caso 4. Cresciuto in una famiglia in costante emergenza economica, in costante crisi
relazionale, la sorella maggiore con problemi di tossicodipendenza, la minore disabile. In
adolescenza entra nel ruolo di artefice del riscatto familiare. Un SMI attaccamento frustrato
lo porta a maturare un SMI finalizzato alla realizzazione di sé iperattivo al servizio di un SMI
accudimento altrettanto iperattivo. Si diploma, poi il lavoro in cui investe tutte le sue energie;
le amicizie e gli amori non lo interessano. Ma i lavori, oggi, sono precari. Ad uno segue un
altro, ma dopo qualche anno si azzerano, rimane disoccupato. La paura di non essere in grado
di realizzarsi e accudire la famiglia si fa profonda. Non si può fuggirla, al mattino si ripresenta
puntuale, lo schiaccia nel letto fino a tardi o se trova la forza di alzarsi diventa panico e impotenza.
Ogni giorno la fiducia nelle proprie capacità decresce, si aggrappa al controllo, alla ripetizione
del controllo, si riversa sul compulsivo mantenimento di ordine e simmetria su alcuni oggetti
della sua stanza, nel tentativo inconsapevole di non smarrire l’efficienza di cui ha assolutamente
bisogno.
Piccole differenze apparentemente casuali sono lo specchio di una ben più significativa
diversità nell’assetto motivazionale di base. In quest’ultimo caso la ricerca di simmetria in
alcuni oggetti della casa è l’espressione della ricerca di un’efficienza che appaghi l’esigente SMP
finalizzato alla realizzazione di sé. Nel caso precedente il preservarli rappresenta un’estensione
di sé e la risposta all’iperattivazione del SMP finalizzato alla cura di sé.
Casi 5 e 6. In entrambe le due madri l’assetto motivazionale è essenzialmente caratterizzato
da un’iperattivazione del SMI accudimento con paure e ossessioni relative all’incapacità di
svolgere il loro ruolo finendo per arrecare grave danno ai figli. Eguale l’esito, ma diversa la genesi
dell’iperattivazione del SMI accudimento. In un caso molto sollecitata da un SMI attaccamento
gravemente traumatizzato nell’infanzia da ripetute scene familiari di intensa aggressività: il
matrimonio precoce e l’altrettanto precoce nascita dei figli sono stati il “bene rifugio” ricercato
e raggiunto fuggendo dalla famiglia d’origine. Nell’altro, invece, i forti bisogni di maternità,
di accudimento di un figlio, si connettono con frustrazioni relative alla realizzazione di sé: una
laurea non tramutatasi in professione. Per entrambe è molto, troppo importante dimostrare di
essere brave madri. Nel primo caso per avere la certezza di differenziarsi dalla famiglia d’origine
Psichiatria e Psicoterapia (2015) 34,4
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Paolo Giardina
ed evitare ai figli le proprie sofferenze infantili. Nel secondo caso per essere vista, apprezzata,
stimata dal marito, dai genitori e suoceri, per avere una seconda possibilità di realizzare se
stessa attraverso un figlio ottimamente curato ed educato. Quando le mete sono alte e di vitale
importanza la paura di non raggiungerle si innalza fino ad esprimersi in ossessioni. In nessuna
delle due madri, tuttavia, si sviluppano compulsioni significative, probabilmente per la scarsa
presenza di strumenti adattivi quali la ripetizione e il controllo nel proprio bagaglio esperienziale
e cognitivo di base.
Due casi, dunque, di Disturbo Ossessivo, ma non Compulsivo, essenzialmente classificabili,
a mio avviso, come casi di Fobia in cui l’invasività e intrusività delle ossessioni, elemento
distintivo rispetto alle tradizionali fobie, è, in realtà, semplicemente riconducibile all’intensità
della paura, alla sua apparente incomprensibilità, che la rende ancor più spaventante, e alla sua
difficile eludibilità data la natura del suo oggetto (i figli non sono i ragni che l’aracnofobico può
più facilmente evitare).
Caso 7. Sintomatologia analoga ai due precedenti casi, ma l’intensa paura di essere una madre
incapace e pericolosa nasce da un SMI accudimento evitante associato a un SMI attaccamento
iperattivo con sostanziale dipendenza affettiva dai genitori. La signora, ai limiti dell’età fertile,
con un desiderio di maternità mai realmente accarezzato, si era ritrovata inaspettatamente in
dolce attesa con conseguenti vissuti di inadeguatezza. Aveva coraggiosamente accettato la
sfida di crescere il bambino sebbene il partner, conosciuto da poco e frettolosamente sposato,
le apparisse ancor meno predisposto a svolgere un ruolo genitoriale. Spesso assente di sera per
motivi di lavoro, la signora si ritrova da sola, a fine giornata, ad accudire il figlio di pochi mesi. La
paura di non essere all’altezza della situazione, di perdere il controllo e far del male al bambino
cresce e si intensifica, diventa ossessiva. Le vie di fuga sono precluse. L’iperattaccamento ai
genitori risulta utile, più efficace dell’ipercontrollo: nelle sere in cui si sente molto spaventata ha
l’intelligenza emotiva di chiedere aiuto ai genitori che non glielo rifiutano. Anche in questo caso
non si sviluppano, dunque, compulsioni significative.
Casi 8 e 9. Ancora due casi di “orribili tentazioni” in cui, però, non è in primo piano
l’iperattivazione del SMI accudimento, ma del SMI attaccamento in particolare nei confronti del
genitore del sesso opposto, una figura, in entrambi i casi, dalla quale i due soggetti, sebbene ormai
adulti, sono molto dipendenti attendendo, da sempre, conferme gratificanti che talvolta arrivano
alternandosi, però, a critiche e giudizi feroci e schiaccianti. La rabbia che ne scaturisce non può,
tuttavia, essere espressa verso figure così importanti venendo, perciò, a crearsi il classico conflitto
amore-odio, obbedienza-ribellione. La propria rabbia fa paura, molta paura, trattandosi di due
persone con un SMI antagonistico evitante, miti e spaventate dalla violenza e dall’aggressività
che tante volte hanno visto nel volto, nei gesti e nelle parole dei loro due genitori e che temono di
poter replicare. Non si prospettano facili vie di fuga, i legami con i due genitori risultano troppo
stretti e coinvolgenti per poter essere sciolti. In un caso non si producono compulsioni con il
permanere prolungato e disturbante delle ossessioni aggravate da aspetti culturali religiosi che
portano ad associare la percezione della propria rabbia alla presenza di una diabolica malvagità
interiore. Nell’altro, invece, le compulsioni, frequenti e ripetute, consistono essenzialmente in
gesti scaramantici di annullamento dei propri cattivi pensieri: la rabbia e la presunta, potenziale
malvagità interiore vengono magicamente associate a oggetti simbolici, al fumo delle sigarette
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Paura e ipercontrollo
che uccide, alla plastica con cui la vittima potrebbe essere soffocata. La compulsione a lavarsi le
mani dopo aver fumato e dopo aver toccato oggetti di plastica momentaneamente seda la paura
di perdere il controllo e essere violenta.
Caso 10. Rappresenta una variazione dei due precedenti con il conflitto amore-odio
maggiormente orientato verso i rapporti sociali e reso più esplicito da un’iperattivazione del SMI
antagonistico difficile da conciliare con l’iperattivazione del SMI di cooperazione paritetica.
Vicende personali e familiari ne rendono chiara l’origine: ripetuti atti di bullismo subiti durante
le scuole elementari a causa di una già evidente omosessualità, una violenza sessuale subita
in adolescenza da un adulto finita sui giornali, vissuta con forte senso di umiliazione possono
essere più che sufficienti per suscitare una forte, cronica rabbia e rendere iperattivo il SMI
antagonistico, creare una fame di giustizia, un bisogno di rispetto delle regole, di un codice
etico da osservare scrupolosamente da parte propria e degli altri con conseguente iperattivazione
del SMI di cooperazione paritetica. Tutto è molto chiaro nella sua mente, ma ciò non lo aiuta
a integrare il bisogno di un rispetto ferreo delle regole con la rabbia di fronte alle trasgressioni
altrui che lo porterebbe a violare a sua volta le regole della civile convivenza. La paura di
perdere il controllo ed essere violento cresce molto in alcuni periodi ed è ineludibile. Non ci sono
vie di fuga. Il timore, la quasi certezza di essere cattivo si scontra con la consapevolezza di fondo
di essere buono. L’ipercontrollo è lo strumento più efficace che sia in grado di utilizzare. Produce
compulsioni di annullamento in cui frasi e gesti ripetuti più volte consentono di autorassicurarsi
diluendo la paura della propria aggressività potenziale.
Casi 11, 12, 13, 14. Si tratta di casi in cui il Disturbo Ossessivo-Compulsivo è in comorbilità
con il Disturbo Borderline di Personalità essenzialmente caratterizzato dal fatto che i soggetti,
nel loro ruolo di figli, sviluppano attaccamenti iperattivi spesso frustrati da genitori molto
incostanti, incoerenti o addirittura spaventanti nell’accudire. La rabbia che ne segue sollecita
il SMI antagonistico, di base anch’esso iperattivo, e il genitore diventa, in quel momento, un
nemico, non più solo una figura protettiva temporaneamente frustrante. Contrariamente alla
dinamica borderline pura, in cui la rabbia costantemente domina l’assetto emotivo, nei casi
borderline/ossessivo-compulsivi dopo l’episodio rabbioso insorge di nuovo, primeggiando,
la paura potente di perdere la meta del SMI attaccamento con conseguenti forme di controllo
riparative volte al ricongiungimento con le figure di attaccamento. È quel che accade, con
qualche variazione nell’intensità e nella gravità dei sintomi, in questi quattro casi. Le fasi
in cui si alternano il prevalere della rabbia, per l’attaccamento frustrato con “scivolamento”
verso l’attivazione del SMI antagonistico, e della paura, con riavvicinamento alle figure di
attaccamento, sono ben distinte ed evidenti per il susseguirsi di sintomatologie caratterizzate da
discontrollo e ipercontrollo.
Nel primo caso, il più grave, il rapporto con i genitori è drammatico, ad altissima emotività
espressa e le fasi di rottura e riavvicinamento si succedono nell’arco di qualche giorno: abuso di
alcolici, in un primo tempo, poi condotte cleptomaniche, abbuffate, violenza verbale lasciano il
posto a drastiche restrizioni alimentari, ossessiva cura del proprio corpo, compulsiva, esasperata
organizzazione del proprio tempo nel corso della giornata.
Nel secondo caso, di media gravità, le due condizioni si alternano in periodi più ampi, di
mesi: il discontrollo si manifesta essenzialmente attraverso condotte tossicomaniche alle quali
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Paolo Giardina
seguono condotte di rigido autocontrollo con interruzione delle relazioni sociali, paure che
producono ossessioni dismorfofobiche, compulsive restrizioni alimentari ed esasperati controlli
sull’estetica del proprio corpo.
In tutti i quattro casi è presente una iperattivazione del SMP finalizzato alla cura di sé con
un investimento sul corpo che ha un valore chiaramente regressivo nel disperato tentativo
di mantenere nel tempo una condizione di vita di tipo adolescenziale. In tutti i quattro casi i
soggetti vivono con i genitori e non lavorano, nonostante ne abbiano piena capacità, con qualche
sporadico, pseudo-tentativo di vita autonoma.
Nel terzo caso la sintomatologia è molto meno intensa, il discontrollo si esprime attraverso
sporadici abusi alcolici, qualche reazione violenta e iniziali scelte di vita alternativa, di rottura
rispetto alla conservatrice tradizione familiare, che dopo poco abortiscono con un ritorno
regressivo e ipercontrollato alla vita familiare in cui riemergono paure ossessive e compulsioni
riguardo al proprio aspetto, alla propria identità, al giudizio che gli altri potrebbero esprimere
su di lei.
I primi tre casi sono evidentemente al femminile, l’ultimo è al maschile e la componente
ossessivo-compulsiva è preponderante rispetto alla borderline che si manifesta nelle poche
circostanze in cui i genitori, esasperati dalle richieste di accudimento, diventano minacciosi
e spaventanti. Ne derivano violenze verbali e crisi clastiche agite dal soggetto, seguite da un
veloce ritorno al più rigido degli ipercontrolli, scandito da numerosissimi rituali compulsivi
che costellano e riempiono l’intera giornata, molti dei quali relativi alla cura del proprio corpo
attraverso un esasperato impegno fisico.
Per comprendere l’importanza degli assetti motivazionali di base nelle dinamiche
psicopatologiche, si può notare che la diagnosi funzionale differenziale del caso 10 rispetto a
questi ultimi, pur partendo dalla comune iperattivazione del SMI antagonistico, è riconducibile
all’assenza di un’iperattivazione del SMI attaccamento, che esclude la dipendenza dai genitori,
e alla presenza di un’iperattivazione del SMI di cooperazione paritetica che riduce il rischio di
effettive condotte antisociali.
Rispetto ai casi 8 e 9, invece, è la mancanza, in essi, dell’iperattivazione del SMI antagonistico
che determina la paura della propria rabbia ed evita il discontrollo delle fasi borderline.
Caso 15. Le dinamiche motivazionali si sviluppano su un continuum con passaggi fluidi
da attivazioni sicure a evitanti, iperattive, rifiutanti attraverso infinite gradazioni d’intensità.
Allo stesso modo le forme psicopatologiche sfumano l’una nell’altra. In questo caso di Disturbo
Schizoaffettivo la dinamica borderline, illustrata nei casi precedenti, si era inasprita già
nell’infanzia fino a determinare il passaggio da un attaccamento iperattivo a un attaccamento
prevalentemente rifiutante dove la figura di attaccamento era, appunto, rifiutata e violentemente
attaccata a ogni suo minimo difetto di accudimento. Dalla storia clinica emerge come anche
i SMP finalizzati alla cura e alla realizzazione di sé fossero esageratamente iperattivi già
nell’infanzia, connessi al forte bisogno di attaccamento, all’intenso desiderio di essere accettato,
amato, adorato da una madre esigente e ambiziosa, genitore unico, in assenza di una figura
paterna. Ricostruendo retrospettivamente la storia personale e familiare, l’iniziale, più grave
scompenso si colloca nel periodo delle scuole medie quando il metodo di studio basato su
estenuanti ripetizioni per memorizzare intere pagine di testo non funzionava più e non garantiva
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Paura e ipercontrollo
l’irrinunciabile, massima realizzazione di sé, gli atti di bullismo subiti frustravano pesantemente
la preservazione e la cura di sé dando inizio ad angoscianti vissuti persecutori. L’iperattaccamento
alla madre avrebbe dovuto curare le sue ferite e consolarlo dagli insuccessi, ma veniva anch’esso
pesantemente frustrato per l’entità del sostegno richiesto in relazione alle già scarse capacità
di contenimento emotivo ed accudimento da parte della madre che reagiva, dunque, in modo
ipercritico e ulteriormente svalutativo nei suoi confronti generando circoli viziosi patologici.
Nell’impossibilità di raggiungere mete così elevate era, dunque, maturato un assetto motivazionale
di base nel suo complesso prevalentemente rifiutante con conseguente disinvestimento e fasi di
ritiro psicotico caratterizzate da rinuncia a qualunque attività, intere giornate trascorse a letto,
grave trascuratezza nell’igiene personale. Nelle fasi di parziale riattivazione motivazionale e
di iniziale superamento del ritiro, sollecitate dall’avvio del trattamento terapeutico, riemergeva
l’intensa paura di non riuscire a raggiungere le elevate mete dei suddetti SMP/SMI con strenui
tentativi di ipercontrollo compulsivo finalizzati a difendersi da pericoli esterni reali o simbolici
e incessanti richieste di accudimento alla madre con le abituali, insoddisfacenti risposte da parte
sua. Il ritiro subentrava di nuovo facilmente di fronte alle rinnovate frustrazioni. La precocità
di tali dinamiche e l’intensità delle emozioni di paura e rabbia avevano determinato precoci
dissesti anche dell’assetto cognitivo con ideazioni deliranti e capacità di mentalizzazione e
problem solving gravemente compromesse. In tal modo una dinamica borderline e una dinamica
ossessivo-compulsiva se precoci, intense, diffuse su più SMP/SMI, possono trasformarsi in una
dinamica psicotica producendo i connessi disturbi.
Caso 16. Caso emblematico che illustra il passaggio dalla dinamica fobica alla dinamica
ossessivo-compulsiva. Il SMI attaccamento iperattivo di questa giovane ragazza esprime
l’elevato bisogno di protezione, più che di affetto, rispetto all’intensa paura nei confronti dei
pericoli del mondo esterno in gran parte indotta dalla madre (timore di subire danni e aggressioni
quanto più ci si allontana dal sicuro ambito domestico, accentuato timore del giudizio altrui). La
sintomatologia che ne scaturisce è di tipo agorafobico con conseguente imponente ritiro in casa
(per due anni prima dell’inizio del trattamento) senza che, tuttavia, si sviluppino sintomi psicotici,
probabilmente grazie al fatto che il ritiro domestico non era affatto avversato, soprattutto dalla
madre, in connessione con un SMI finalizzato alla realizzazione di sé evitante, o addirittura
rifiutante, sia nella madre che nella figlia, che non creava contraddizione con lo starsene chiusi
in casa, contrariamente a quanto avveniva nel caso precedente. Nel momento in cui è costretta
a uscire, per assoluta necessità o stimolata dall’inizio del trattamento terapeutico a cui era stata
forzatamente avviata dal padre, scatta la dinamica ossessivo-compulsiva: non potendo più
rispondere alla paura con il ritiro, che le è precluso, utilizza l’ipercontrollo espresso attraverso
specifiche e particolari compulsioni.
Nella dinamica fobica l’emozione di paura si traduce nell’affetto dell’andar via dalla meta
motivazionale che il soggetto sente di non aver gli strumenti e le energie per raggiungere. Il
comportamento che ne consegue è di allontanamento e fuga. Nella dinamica ossessivo-compulsiva,
bloccate le vie di fuga da fattori esterni (persone, situazioni) o da fattori interni (l’importanza
e l’irrinunciabilità delle mete motivazionali) la paura si traduce nell’affetto dell’andar verso la
meta motivazionale, ma utilizzando l’ipercontrollo come strumento per contenere la paura stessa
e fronteggiare le situazioni.
Psichiatria e Psicoterapia (2015) 34,4
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Paolo Giardina
5. Ipotesi eziopatogenetica del Disturbo Ossessivo-Compulsivo
Come già si può intravedere nell’esposizione dei casi clinici, l’elemento saliente che emerge
dalla loro analisi è la presenza della paura come emozione dominante e dell’ipercontrollo come
risposta a essa. La paura è l’emozione indicativa della percezione, da parte del soggetto, della
mancanza o dell’insufficienza di proprie capacità, risorse, energie nel tentativo di raggiungere
specifiche mete motivazionali. Se tale condizione emotiva risulta intensa e/o frequente e/o
duratura, diventa, ovviamente, dolorosa e invalidante tanto da meritare, in clinica, la definizione
di ansia che altro non è, dunque, che l’elevazione di un’emozione a rango di sintomo.
In tale condizione critica la dominante emozione di paura/ansia viene solitamente elaborata
nell’affetto dell’andar via dalle mete irraggiungibili e frustranti con produzione di comportamenti
che possono andare dall’evitamento fobico (caso n.16) al ritiro psicotico (caso n.15). Il tutto
accompagnato dai connessi costrutti cognitivi relativi all’immagine di sé tendenzialmente
svalutativi. Cosa accade, tuttavia, quando le mete motivazionali sono irrinunciabili per la loro
importanza (SMP/SMI iperattivi) o ineludibili perché il vivere le ripropone costantemente
sbarrando le vie di fuga? L’affetto elaborato non può più essere l’andar via, ma necessariamente
deve essere l’andar verso e un comportamento adattivo consolidatosi in milioni di anni di storia
evolutiva è, in questi casi, il controllo funzionale di ciò che stiamo facendo e di ciò che sta
accadendo nel tentativo di potenziare le nostre possibilità di raggiungere le mete riducendo
le paure connesse. Se, tuttavia, la paura è molto intensa e difficile da contenere, il controllo
funzionale può diventare un compulsivo ipercontrollo disfunzionale.
In estrema sintesi, questa dinamica sembra costituire il nocciolo centrale del Disturbo
Ossessivo-Compulsivo.
È tipico al riguardo, ad esempio, il viraggio di alcuni soggetti ipocondriaci che per anni
evitano medici e ospedali diventando fanatici di visite, controlli e cure quando viene loro
diagnosticato un effettivo disturbo: l’iperattivazione del SMP finalizzato alla cura di sé e la
paura/ansia derivante dal percepire di non avere le risorse per mantenere un pieno controllo
sul proprio stato di salute li porta inizialmente all’evitamento fobico che diventa ipercontrollo
compulsivo quando la meta-salute non può più essere elusa perché la presenza di una reale
malattia sbarra la strada della fuga fobica. In altri casi, invece, la fuga fobica prosegue, pur di
fronte a una reale malattia, radicalizzandosi in forme di negazione e di rifiuto delle cure.
Curiosando nelle biografie di personaggi storici, è noto che ci si possa imbattere in casi
clinici di sorprendente chiarezza. Martin Lutero, personaggio tormentato sottoposto a svariate
interpretazioni psicologiche di cui una di impostazione psicoanalitica che riconduce le sue
problematiche al rapporto con il padre (Erikson 1958), mi è parso un illuminante caso di grave
Disturbo Ossessivo-Compulsivo da lui stesso risolto attraverso un’intelligente ristrutturazione
cognitiva dalla quale è scaturito non solo il superamento della sua personale crisi, ma addirittura
il concepimento dei principi di base per l’avvio della riforma protestante di cui è stato artefice
e protagonista. Fortemente motivato alla cura/salvezza di sé, sembra fosse terrorizzato, negli
anni giovanili in monastero, dalla paura di non riuscire a pentirsi sinceramente dei propri
peccati continuando, anzi, ad avere la tentazione di peccare ancora di più contro Dio. Così,
compulsivamente pregava ed espiava in vario modo senza trovare soddisfazione: “...ero l’uomo
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Paura e ipercontrollo
più disperato della terra: notte e giorno non facevo altro che piangere e disperarmi e nessuno
poteva porvi rimedio… tutta la mia vita non era altro che digiuni, veglie, orazioni, sudori. Ma sotto
le apparenze di quella santità e di quella fiducia nella mia propria giustizia, nutrivo una continua
diffidenza, dubbi, timori, e un desiderio di odiare e bestemmiare Dio” (Miegge 1964). Finchè,
rileggendo le Epistole di San Paolo ai Romani, coglie un provvidenziale rimando al Vangelo: “il
giusto vivrà per fede”, Dio ci giustifica mediante la fede, se si ha fede si è perdonati. Ampliando
tale concetto Lutero fonda la dottrina della “giustificazione per fede” perfezionata anni dopo con
la concezione del “servo arbitrio” che attribuisce alla volontà di Dio e non alle scelte del singolo
il dono della fede stessa e, quindi, la salvezza eterna. La salvezza eterna, appunto, meta del suo
iperattivo SMP finalizzato alla cura di sé, non appariva più così irraggiungibile e non incuteva
più così tanta paura perché non più dipendente dai propri insicuri mezzi e dalla propria incerta
volontà, ma dal volere divino. Annullata la paura, annullate le compulsioni. Una ristrutturazione
cognitiva di forte impatto terapeutico.
Certamente non tutte le persone che vivono forti e prolungate emozioni di paura clinicamente
significative finiscono per utilizzare l’ipercontrollo compulsivo come risposta a esse e non
tutte, dunque, sviluppano un disturbo ossessivo-compulsivo. Le modalità di reazione possono
essere varie e diverse sebbene essenzialmente riconducibili ai quattro orientamenti affettivocomportamentali già illustrati nel secondo paragrafo: andar via incrementando i tentativi di fuga
fobica che possono estendersi fino al ritiro psicotico e alla disattivazione motivazionale che si
associa al disgusto verso le relative mete (SMP/SMI rifiutanti); andar verso cercando in vario
modo, non solo con l’ipercontrollo, di raggiungere le mete motivazionali e superare le paure
(la ricerca di un aiuto, di una terapia, ad esempio); andar contro cercando di superare ostacoli
e impedimenti soprattutto se accanto alla paura coabita la rabbia (percezione che il mancato
raggiungimento delle mete dipenda da fattori esterni); star fermi, soprattutto se la paura si associa
alla tristezza (percezione di perdita di una meta motivazionale) dando luogo a comportamenti di
passiva, sofferente attesa e, visti dall’esterno, di inspiegabile inattività.
Perché, dunque, alcune persone attivano l’ipercontrollo e altre no? Essenzialmente sotto
l’influenza di variabili cognitive legate all’apprendimento che le esperienze di vita familiari
e sociali possono aver favorito. La ripetizione come forma di acquisizione di conoscenze e il
controllo come forma di risposta ai pericoli sono modalità potenzialmente funzionali e adattive
che spesso vengono proposte, insegnate e variamente apprese e acquisite a seconda della
permeabilità del ricevente in quel dato momento o periodo. Le persone che già nell’infanzia
le avevano assimilate come dominante e rigida modalità di risposta risulteranno, dunque, più
esposte al rischio di un successivo, disfunzionale utilizzo dell’ipercontrollo compulsivo.
Ritornando ai casi clinici esposti e alle tre questioni poste inizialmente, si può, in sintesi,
affermare che:
1) essendo il nostro agire adattivo sempre e invariabilmente dettato da uno scopo, finalizzato
al raggiungimento di una meta, appare irrinunciabile considerare l’importanza degli
assetti motivazionali nel determinismo psichico e nella genesi delle psicopatologie. Allo
stesso modo sembra che non si possa prescindere da una più specifica comprensione
della dinamica emozioni-affetti: l’inevitabile frustrazione delle mete motivazionali nel
corso della vita produce emozioni che, come il dolore a livello somatico, svolgono la
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Paolo Giardina
funzione di segnalare a livello limbico tale critica condizione di insoddisfazione; il
modo in cui i vissuti emotivi vengono elaborati, producendo essenzialmente quattro
tipologie di affetti e conseguenti comportamenti, rimane lo snodo critico dal quale
possono emergere adattamenti funzionali o disadattamenti patologici.
2) Grazie agli sviluppi portati dall’approccio cognitivo-evoluzionista arriviamo, dunque,
a considerare l’importanza dei Sistemi Motivazionali Interpersonali. Ciò che emerge,
tuttavia, dall’analisi dei sedici casi presentati è che né il SMI attaccamento può essere
ritenuto l’unico ad avere un ruolo eziologico nella genesi dei disturbi ossessivocompulsivi, né si possono trascurare i bisogni strettamente individuali e, dunque, le
dinamiche relative ai Sistemi Motivazionali Personali;
3) Il conflitto amore-odio, obbedienza-ribellione, pur essendo alla base di alcuni casi
di Disturbo Ossessivo-Compulsivo in cui, essenzialmente, non si realizza una buona
integrazione tra le istanze del SMI attaccamento e del SMI antagonistico (casi dal n.8
al n.15) non dà ragione di vari altri casi in cui le dinamiche eziopatogenetiche risultano
diverse, riconducibili ad altri Sistemi Motivazionali: il SMP finalizzato alla cura di sé
(casi 1 e 3), il SMP finalizzato alla realizzazione di sé (caso 4), il SMI attaccamento
senza attivazione del SMI antagonistico in caso di frustrazione (casi 2, 7 e 16), il SMI
accudimento (casi 5 e 6). In questi ultimi due, in particolare, risulta evidente come
non sia in atto un conflitto amore-odio o obbedienza-ribellione in cui le emozioni di
rabbia, gli affetti ostili e i comportamenti aggressivi sono faticosamente trattenuti.
L’essere aggressivi, in realtà, è ciò che queste due persone temono, che assolutamente
non desiderano neppure nelle pieghe più profonde del loro inconscio, né questa può
essere considerata, sempre e comunque, la prova dell’effettiva inconscia esistenza di
tale affetto riconducendoci invariabilmente al fatto che l’inconscio sia in ogni caso
diametralmente opposto ai contenuti mentali coscienti, ritenendo la formazione reattiva
un obbligatorio meccanismo di difesa che necessariamente spieghi ciò che desideriamo
che sia spiegato. Quanto più temono la loro aggressività, tanto più ossessivamente la
pensano arrivando anche a fantasticare terribili scene in cui perdono il controllo in
preda a raptus di follia. Probabilmente ciò costituisce anche un catartico, compulsivo
modo per avere la conferma che pur rappresentandosi quelle scene, pur sollecitando
immagini così spaventanti, non finiscono per passare all’atto. Importante, a questo
proposito, la diagnosi differenziale rispetto ai casi in cui l’effettiva presenza di un SMI
antagonistico iperattivo e di forti, prolungate emozioni di rabbia tradotte in affetti di
odio non stemperati da adeguate cure, possano dar luogo ad agiti realmente violenti.
Sul piano psicoterapeutico la linea di condotta che deriva dall’ipotesi eziopatogenetica esposta
è evidentemente ispirata al tentativo di far progressivamente emergere gli assetti e le dinamiche
motivazionali, emotive, affettive, cognitive e comportamentali del soggetto favorendone la
consapevolezza e stimolandolo alla paziente ricerca di nuovi, migliori adattamenti. È basilare
il riconoscimento dell’emozione di paura come motore delle proprie ossessioni così come
della funzione protettiva svolta dall’ipercontrollo attraverso le compulsioni, ma è altrettanto
importante cogliere il valore e il significato delle paure/ossessioni connettendolo con la propria
gerarchia di bisogni motivazionali.
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Paura e ipercontrollo
Le aperture sulla storia personale sono indispensabili per rappresentarsi come il proprio
modo di funzionare si sia costruito nel tempo e come le idee e le cognizioni sull’immagine di sé
siano andate progressivamente costruendosi di pari passo con le esperienze emotive producendo
un modo di essere, di comportarsi che, in una logica spesso autoreferenziale, conferma negli esiti
il mondo di esperienze interiori già sedimentate determinando rigidità e circoli viziosi.
Lo snodo fondamentale della psicoterapia è, tuttavia, costituito dal lavoro sull’elaborazione
delle emozioni in affetti e, quindi, in comportamenti che possano risultare più adattivi
favorendo il raggiungimento di mete motivazionali realisticamente alla portata e riducendo,
dunque, sostanzialmente la pressione delle emozioni come segnalatori limbici di uno stato di
insoddisfazione.
Andar via, andar verso, andar contro, star fermi sono i quattro possibili moti affettivi e
comportamentali. Nessuno di loro è più funzionale, adattivo, sano degli altri. Si tratta (per ognuno
di noi) di capire e scegliere attimo per attimo quale sia più opportuno cercare di promuovere per
favorire la nostra esistenza.
Nello specifico caso del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, come abbiamo visto, la paura
che, di fondo, ne caratterizza le dinamiche emotive è solitamente elaborata in un andar verso
utilizzando lo strumento dell’ipercontrollo. La psicoterapia consiste nella ricerca di possibili
alternative che in modo più elastico possano ricondursi a tutti e quattro i possibili moti affettivi.
Talvolta può risultare più adattivo l’andar via, il rinunciare a mete motivazionali rassegnandosi
alla loro irraggiungibilità o l’andar verso ma utilizzando modalità almeno in parte diverse
dall’ipercontrollo. Lo star fermi è spesso improduttivo, ma saper attendere talvolta porta a
insperati cambiamenti dovuti al modificarsi delle condizioni esterne o a una rielaborazione
interiore che necessitava di una pausa di inattività. L’andar contro spesso dettato da emozioni
di rabbia che sovrastano quelle di paura porta frequentemente ad esiti distruttivi, anche se in
svariate circostanze l’attaccare permette il raggiungimento delle proprie mete dissolvendo paure
che sembravano insuperabili.
La psicoterapia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo non differisce, in sostanza, da quella di
tutti gli altri disturbi, più o meno gravi, sempre essenzialmente caratterizzati da un accumulo
nocivo di emozioni (paura, rabbia, tristezza, talvolta anche la gioia) non riconosciute nel loro
significato, trascurate e non curate o trattate con modalità disadattive che procurano ulteriori
frustrazioni con conseguente incremento delle stesse, dolorose emozioni.
La ricerca di elaborazioni interiori più consapevoli che portino a produrre moti affettivocomportamentali più adattivi si afferma come nucleo centrale di ogni percorso psicoterapeutico.
Il lavoro clinico e teorico prosegue con l’intento di trovare modalità innovative che siano non
solo più efficaci, ma anche più efficienti nel promuovere tali processi.
Riassunto
Parole chiave: sistemi motivazionali, emozioni, affetti, disturbo ossessivo-compulsivo
L’Autore, nel tentativo di superare i limiti di un approccio diagnostico rigidamente nosografico,
di un indirizzo terapeutico esclusivamente sintomatico e l’arenarsi dello sviluppo di forme più efficaci
di psicoterapia dovuto a una incompleta o confusa definizione delle componenti della vita psichica, in
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un’ottica funzionalista ed evoluzionista propone un modello di funzionamento della mente che attribuisca
la necessaria importanza alle motivazioni dell’agire umano e porti chiarezza tanto nella definizione delle
diverse funzioni svolte dalle emozioni e dagli affetti quanto nella comprensione della dinamica che ne
caratterizza l’interazione.
Applica tale modello allo studio di ossessioni e compulsioni in sedici casi clinici finendo per proporre
un’ipotesi sull’eziopatogenesi del Disturbo Ossessivo-Compulsivo preceduta da una breve rassegna di parte
della letteratura prodotta al riguardo.
FEAR AND HYPERCONTROL.
THE STUDY OF OBSESSIONS AND COMPULSIONS IN SIXTEEN CLINICAL CASES
Abstract
Key words: motivational systems, emotions, affections, obsessive-compulsive disorder
The Author, in an attempt to overcome the limitations of a rigidly nosographic diagnostic approach,
of an exclusively symptomatic therapeutic trend and the stranding of the development of more effective
forms of psychotherapy, due to incomplete or confused definition of the components of psychic life, in
functionalist and evolutionist perspective, proposes a working model of the mind that attaches the necessary
importance to the motivations of human action and brings much clarity to the definition of the different
functions performed by the emotions and affections in the understanding of the dynamics that characterises
their interaction.
Applying this model to the study of obsessions and compulsions in sixteen clinical cases, with the aim
of proposing a hypothesis on the etiopathogenesis of Obsessive-Compulsive Disorder, preceded by a brief
review of some of the related literature produced.
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