Estratti dei testi in catalogo DA LEO A LARRY I presidenti della Fender di Patrizia Bauer e Giorgio Masetti Zannini “È il 1962, e mentre quattro ragazzi di Liverpool cambieranno per sempre il modo di fare musica, in Italia atterra il rock and roll e con lui le chitarre Fender. La storia racconta di un incontro alla Musik Messe di Francoforte, la più importante fiera commerciale del settore, tra Don Randall, il genio commerciale dell’azienda californiana, partner di Leo Fender, e Giovanni Bauer, fondatore di M.Casale Bauer, simpatizzano immediatamente, parlano di musica, di come far arrivare in Italia le più “rock” tra le chitarre americane. Proprio a Bologna, in un magazzino non lontano da strada Maggiore dove ha sede il Museo della Musica, Giovanni Bauer carica alcune Fender sulla sua Porsche e comincia a girare l’Italia per farle conoscere, per venderle. “Non piacciono”, ricorda i commenti dei negozianti sulla forma strana del corpo di questa chitarra, e lui stesso nutriva qualche perplessità, “sembra un fantasma”. Ne vende una a Roma e una a Napoli, non un gran successo. Ma il cambio di passo è nell’aria. Alcuni musicisti, decisamente dei pionieri per l’epoca, imbracciano una Jaguar e girano in tournée l’Italia. La chitarra elettrica Fender comincia a piacere a chi è alla ricerca di nuove sonorità. Sono gli anni Sessanta, gli anni del boom economico, si lavora alacremente, anche di sabato, ma appena c’è un momento libero scatta l’ora per il divertimento. Soprattutto nasce un nuovo pubblico di giovani: la rivoluzione sta arrivando.”… ___________________________________________________________________________________ Il tuo bacio è come un Rock 50 anni di Fender e di musica italiana di Luca Beatrice Intro Era facile mettere su un complessino beat in quegli anni, non c’erano ancora i virtuosi, gli specialisti dei lunghi assoli, l’uso dei mille effetti per chitarra. Una Fender di accompagnamento, una solista, un basso e una batteria… Gianluca Morozzi, L’Emilia o la dura legge della musica, 2006 Irresistibile il materiale. Troppo forte la tentazione. E così diversi intellettuali, politici, scrittori non riescono a trattenersi: prima o poi sveleranno la loro insana passione per la musica italiana. Quella con cui siamo cresciuti, canticchiandola sotto la doccia o intonandola in coro durante la gita scolastica, ci siamo innamorati e delusi, ricordando un disco per l’estate o un festival di Sanremo, un concerto o una fotografia della giovinezza. E’ vero, la nostra generazione, quella dei nati negli anni Sessanta, figlia del baby boom e del primo benessere economico, si è nutrita quasi esclusivamente di rock and roll angloamericano, decisivo soprattutto nella scelta degli stili di vita da perseguire, rincorrere e adottare. Però la musica italiana, con le sue melodie, la propensione all’armonia, l’applicazione letterale del meccanismo prima strofa-seconda strofa-ritornello-terza strofa-ritornello si lega molto più intimamente all’esistenza privata di ciascuno di noi. Non c’è bisogno di avere posseduto tutti i dischi, “basta aver vissuto in Italia e avere un paio d’orecchie, e si assorbono certe canzoni per osmosi” scrive acutamente Gianluca Morozzi. Sarà forse questo il motivo per cui tanti professionisti di successo vi si sono cimentati, scrivendo libri densi di ricordi che inevitabilmente partono dalla memoria particolare di ciascuno per assumere i tratti della memoria collettiva e condivisa. A cominciare dalle bellissime pagine di Edmondo Berselli in “Canzoni”, quasi un testamento di un intellettuale fuori dagli schemi che amava il beat rivoluzionario arrivato un attimo prima del ’68, il calcio e le parole dei cantautori; oppure “La musica è leggera” di Luigi Manconi, attivista politico, profondo conoscitore dell’italica canzonetta (e non solo); per continuare con i numerosi testi di Gianni Borgna, già assessore alla cultura del Comune di Roma, autore tra l’altro di una dettagliata “Storia del festival di Sanremo”. E finire, almeno per il momento, con Gianluca Morozzi e i suoi romanzi di fiction, come “Despero” che tratta l’inevitabile fondazione di una rock band di provincia, che ognuno di noi ha avuto la tentazione di farne una, almeno una volta nella vita. Ma la colpa originaria va ancora una volta ascritta a un inglese, che almeno nella musica i britannici sono la Nazione Prima: è stato Nick Hornby, fanatico di dischi a 33 giri come delle imprese pallonare dell’Arsenal (il connubio canzoni-partite andrebbe sviscerato seriamente, una volta per tutte, sempre Morozzi “tutte le cose della vita si possono spiegare con il calcio, i fumetti e il rock”) a lanciare la mania delle playlist, ben prima che il fenomeno del download decretasse la crisi dell’unità di misura del vecchio LP. Ognuno di noi ha l’album, la canzone d’amore, il riff di chitarra (Fender of course), l’assolo di batteria, il testo preferito, ed è talmente una questione di gusto personale che è impossibile mantenere il distacco critico. Questo testo quindi sarà scritto in prima persona e rispecchia le opinioni del firmatario, contravvenendo alle regole della buona saggistica, dove i gusti personali, per quanto discutibili, mai si sovrappongono all’impianto teorico. Due osservazioni preliminari si rendono necessarie. La prima: nella musica in generale, e quella italiana non fa eccezione, raramente un genere finisce il proprio corso ma si modifica con il tempo assumendo questo o quel carattere nuovo. Ciò vale per il rock come per il melodico, per la dance mixatasi con l’elettronica, e gli stessi cantautori di oggi, che hanno contratto debiti con i loro nonni degli anni Sessanta, sempre più spesso si incontrano con il pop o con il rap. La seconda, questa più precipuamente italiana. Alto e basso/ mainstream e indie/ pop e rock/ canzone d’autore e musica leggera si mescolano in un continuum di cui è impossibile riconoscere i confini. E anzi, più la fusione si articola, più raggiunge risultati insperati e sorprendenti. Se nel mondo angloamericano il rock mostra uno specifico molto definito e preciso, in Italia, complice la lingua dolce, avvolgente e melodica, da mezzo secolo si è verificato ciò che accade anche nel cinema o nelle migliori serie tv: genere e autorialità, quando danno il meglio di sé, sono di fatto la stessa cosa.