Il lavaggio verde Di Giacomo Miele Il concetto del lavaggio verde L’espressione lavaggio verde deriva da greenwashing, neologismo derivante dalla sincrasi tra green (colore verde, simbolo dell’ecologia) e washing (lavare), è modellato sul verbo to whitewashing (imbiancare). Termine coniato dall’ambientalista newyorkese Jay Westervelt, che criticò le imprese del settore alberghiero per la pratica diffusa di collocare in ogni camera una greencard per promuovere il riutilizzo degli asciugamani con lo slogan « Salviamo il pianeta » senza che le stesse imprese mostrassero un impegno ambientale. Il lavaggio verde indica la strategia di comunicazione di aziende, organizzazioni e partiti che creano su di sé un’immagine ecologica per pubblicizzare prodotti ed eventi, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle loro attività e/o ai propri prodotti. Questa pratica mistificatoria causa un danno notevole poiché inganna i consumatori che vorrebbero scegliere prodotti concepiti con logiche sane, inducendo molti dubbi sugli acquisti ed aumentando la difficoltà nell’orientarsi verso prodotti ecologici. Inoltre può creare un senso di sfiducia verso le politiche economiche ecosostenibili, influenzando anche le aziende che le applicano. Le pratiche del greenwashing • Enfatizzare una singola caratteristica per classificare come verde un prodotto o un servizio, ignorando completamente altri aspetti importanti. • Omettere determinate informazione di cui l’azienda è in possesso come dati statistici, ricerche, studi ecc. o redendone difficile la reperibilità. • Comunicare caratteristiche green irrilevanti e/o non presenti nei disciplinari e nelle linee guida delle certificazioni ufficiali. • Investire in compensazione di CO2 per conferire al brand quella sostenibilità che di per sé non ha. • Inserire eco label false o di fantasia su annunci o confezioni. • Vantarsi di finanziare progetti socio-ambientali di nessuna importanza • Usare frequentemente termini come eco-friendly, sostenibilità, low impact, green, clean, etc senza una reale corrispondenza nella filosofia aziendale e nelle pratiche produttive. Norme anti-lavaggio verde nel mondo • In USA la Commissione Federale del Commercio (FTC) ha fornito severe linee guida contro i posizionamenti ambientali falsi e ingannevoli in pubblicità. • In Australia sono state varate sanzioni fino a 1,1 milioni di dollari per punire le aziende che comunicano comportamenti ambientali non corrispondenti a verità. • La Norvegia ha vietato all’industria automobilistica forme di pubblicità comparativa sui temi ambientali. • Il Regno Unito ha chiesto al Consorzio dell‘olio di palma Malese di ritirare l’annuncio apparso sulla BBC e giudicato ingannevole che definiva il prodotto "un regalo dalla natura, un regalo per la vita, che aiuta il pianeta a respirare e genera sostenibilità". • Inoltre l’agenzia che si occupa di messaggi ingannevoli, pubblica ogni settimana circa 30-40 sentenze e pareri. • In Francia, l'Agenzia di protezione dei consumatori ha stabilito che le automobili nelle pubblicità devono apparire in normali strade aperte al traffico dove sono usate abitualmente e non in luoghi green. Norme anti-lavaggio verde in Italia In Italia si è arrivati ad una norma solo nel marzo 2014, dopo la richiesta dell’UPA (Utenti Pubblicità Associati) e della Fondazione Sodalitas allo IAP (Istituto Autodisciplina Pubblicitaria), che ha dato una risposta positiva. Il nuovo articolo, il numero 12, è compreso nel Titolo I del Codice, tra le regole di comportamento, riferibile a qualsiasi tipo di comunicazione commerciale. L’articolo afferma che: - La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. - Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono. Dunque la nuova norma impone standard precisi di correttezza, affinché sedicenti claim ecologici non divengano frasi di uso comune, prive di concreto significato ai fini della caratterizzazione e della differenziazione dei prodotti. Snam: quando Il metano ti dà una mano Uno dei primi casi di lavaggio verde fu quello della SNAM (Società Nazionale Metandotti) che nel 1996 trasmise messaggi pubblicitari, pubblicati su giornali e trasmessi in tv, che promuovevano caratteristiche naturali ed ecologiche del metano. https://www.youtube.com/watch?v=lF_f40-aVFU La pubblicità, servendosi di claim come « Il metano ti dà una mano » o « Il metano è natura », rappresenta il metano come parte integrante della natura. Convinzione che non trova riscontro nella realtà, dato che il metano diventa un agente inquinante nel momento in cui viene usato: durante la combustione libera anidride carbonica, ossidi di azoto ed altre sostanze dannose per l'uomo e l'ambiente. A segnalare la presunta ingannevolezza dei claim furono la Federazione Nazionale Commercio Petroli, la società combustibili e sottoprodotti industriali SC.E.S.I. e la società FOCALIA combustibili e riscaldamento, in qualità di concorrenti. L’Antitrust condannò le pubblicità come pubblicità ingannevoli. Si trattò di una delle prime sentenze in ambito di pubblicità ingannevole che coinvolse l’Antirust. Il « greenwashing » dell’Unilever Nel 2013 l’associazione indipendente per la tutela dei consumatori Altroconsumo, segnala all’Antitrust una presunta pubblicità ambientale ingannevole per Cif Power Pro Naturals e Lysoform protezione natura, prodotti per l’igiene della casa distribuiti da Unilever. Per quanto riguarda la formula Power Pro Naturals, che contiene Cif Sgrassatore e Cif Bagno, l’associazione denuncia il fatto che venga pubblicizzata come detersivo naturale al 99-98%, mentre nella confezione i tensioattivi di origine naturale sono presenti in quantità molto basse, circa inferiori al 5%. Inoltre i prodotti contengono il bezisothiazolinone, un conservante che può causare malattie, e tre allergeni da pofumo: geraniol, limononene e linalool. La pubblicità di Lysoform Protezione Natura invece sostiene che i detergenti usati nel prodotto siano al 100& naturali. La lista degli ingredienti, presente sul sito, non conferma il claim utilizzato. Nell'elenco si trova infatti al secondo posto il cloruro di benzalconio, molto irritante per gli occhi e tossico per l'ambiente acquatico, al terzo il coco-glucoside: unico tensioattivo di origine naturale. Inoltre, sono presenti anche alcuni allergeni da profumo e diversi coloranti inutili ai fini della pulizia, impattanti sull'ambiente nonché fonte di potenziali allergie. Infine il sito della Unilever dichiara, in relazione ai prodotti sopra citati, che "La bottiglia è prodotta con materiale riciclabile". Si tratta semplicemente di un flacone da differenziare nel cassonetto della plastica, come tutti gli altri contenitori utilizzati per detersivi e detergenti. La pubblicità di Lysoform Protezione Natura https://www.youtube.com/watch?v=42NJBU7Kavg Impatto Zero Nel 2012 l’Antitrust condannò la Ferrarelle per pratiche commerciali scorrette a causa di una campagna pubblicitaria che a partire da una singola iniziativa ambientale, promuoveva come verde l'intera produzione. Nel 2011 l’azienda aveva preso parte al progetto Impatto Zero di Lifegate (rete italiana per lo sviluppo sostenibile), firmando un accordo volontario per la compensazione di parte delle emissioni di CO2 relative alla sua produzione. Un accordo che prevedeva il finanziamento di un programma per la salvaguardia di un'area forestale in Costa Rica. Lifegate ha quindi concesso alla Ferrarelle l’uso per due mesi del marchio zero, da mettere sulle bottiglie da 1,5 litri. La campagna è stata diffusa su diversi mezzi di comunicazione e sul sito Internet dell’azienda dove sono stati riportati tutti i dati dell’operazione. Nei claim volti a pubblicizzare tale iniziativa campeggiavano messaggi di questo tipo: «Ferrarelle rispetta la natura», «Ferrarelle la prima acqua minerale a impatto zero», «il primo progetto italiano che calcola e compensa le emissioni di gas a effetto serra generate da qualsiasi attività contribuendo alla creazione e tutela di foreste in crescita in grado di assorbirle» L’Antitrust ritenne tali messaggi fuorvianti, valutando così la campagna ingannevole e sancendo una multa di 30.000 euro alla Ferrarelle. L’azienda lasciò intendere ai consumatori che i loro prodotti avessero una caratteristica di totale compatibilità ambientale, il tutto riferendosi al proprio impegno temporaneo per la compensazione delle emissioni di CO2 per una parte marginale della produzione. Un modo per differenziare il proprio prodotto dalla concorrenza facendo leva sulle tematiche ambientali. « La rivoluzione mondiale » dell’Acqua Sant’Anna Anche l’acqua Sant’Anna è stata mutata con 30.000 euro dall’antitrust per aver promosso con enfasi eccessiva e dati non corretti, la sostenibilità delle sue bottiglie in plastica vegetale: le biobottle I messaggi pubblicitari incriminati vennero diffusi tramite la stampa, le etichette delle bottiglie e sul sito internet di Acqua Sant'Anna: «L'uso delle risorse sostenibili e la produzione eco-sostenibile combattono l'effetto serra, 650 milioni di bottiglie Sant'Anna Bio Bottle permettono un risparmio di 176.800 barili di petrolio con cui riscaldare per un mese una città di 520.000 abitanti e riducono le emissioni di CO2 pari a un'auto che compia il giro del mondo per 30.082 volte in un anno» i vanti ecologici pubblicizzati nei messaggi erano riferiti all'intera produzione annua (650 milioni di bottiglie a marchio Sant'Anna), mentre solo una parte del tutto marginale di acqua minerale era imbottigliata nella BioBottle (circa lo 0,2%). I benefici pubblicizzati non dipendevano solo dalle virtù della nuova bottiglia, ma erano stati calcolati anche considerando le attività di compensazione delle emissioni nocive messe in atto dall'azienda. Activia si libera dal cartone Nel 2011 la Danone venne segnalata dallo IAP. L’azienda infatti lanciò il messaggio pubblicitario in cui lasciava intendere al consumatore che l’eliminazione del cartone era totale e riguardava tutta la sua produzione. Invece l’iniziativa riguardava solo il packaging primario ed esclusivamente la confezione da quattro vasetti. I claim ingannevoli vennero diffusi nel sito dell’azienda, nei suoi canali Facebook e Youtube e in televisione. Affermano cose come «Sì, la nuova confezione di Activia è senza cartone, così ogni anno si risparmiano 800 tonnellate di carta» e «La natura vuole parlarci. Ascoltiamola. Activia l'ha fatto e ha tolto il cartone». L’azienda venne segnalata dallo IAP (Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria) che sottolineava inoltre che Inoltre Danone non ha tolto il cartone e la carta dalle confezioni di raggruppamento (quello che viene definito imballaggio secondario), né dalle confezioni di trasporto (imballaggio terziario). La pubblicità di Activia senza cartone https://www.youtube.com/watch?v=_G9j7gkUzys La Cola Cola e la plantbottle La multinazionale Coca-Cola è stata accusata di lavaggio verde per la campagna che è stata portata avanti per pubblicizzare la Plantbottle: un nuovo contenitore per la bevanda. Tuttavia il prodotto non rende una esatta immagine di quello che realmente è. Il nuovo packaging-eco infatti è una bottiglia che viene realizzata in parte con composti di origine vegetale. https://www.youtube.com/watch?v=r3DkP21Jkl8 Oltre all'eccessivo ricorso alla parola pianta, al colore verde e a un logo simile al simbolo del riciclo, la campagna marketing usa affermazioni come: «ha un impatto ambientale ridotto» oppure «è ecologica», senza un’adeguata documentazione di certificazione. La Coca Cola negli ultimi anni si sta muovendo verso un’immagine più verde, in modo da nascondere le numerose accuse da parte delle associazioni nutrizioniste, che accusano la multinazionale di distorcere la realtà dei fatti tramite la sua pubblicità, allontanando il pubblico dal fatto che il consumo di bibite gassate è tra le principali cause di diffusione dell’obesità giovanile. Shell: il lavaggio verde su scala mondiale Tra i casi più eclatanti di greenwashing spiccano quelli della Royal Dutch Shelll. La multinazionale operante nel settore petrolifero infatti è stata protagonista di molti tentativi di lavaggio verde attraverso campagne pubblicitarie suggestive o addirittura finanziando conferenze internazionali per lo sviluppo ambientale La Shell da molti anni viene criticata da molti gruppi ambientalisti per via delle sue attività che hanno gravemente danneggiato l’ambiente, tra queste: L’estrazione del petrolio dalle sabbie bituminose in Alberta (Canada) che ha distrutto la foresta boreale. La Shell realizzò anche uno spot che dichiarava che l’estrazione di petrolio in quell’area era sostenibile, nonostante le emissioni dovute all’estrazione e alla raffinazione siano fino a dieci volte superiori a quelle tradizionali. La violazione dei diritti umani e ambientali della popolazione degli Ogoni nel delta del Niger, zona con molti pozzi petroliferi. Dal 1958, quando Shell ha cominciato le operazioni in Nigeria, la devastazione ambientale è stata massiccia: perdite di gregge hanno impregnato terreni e inquinato i corsi d'acqua del delta, togliendo ai contadini e pescatori locali le fonti di sostentamento. La disoccupazione e la povertà sono aumentate. Polizia e militari hanno protetto l'azienda reprimendo ogni rivendicazione e protesta. Circa 80mila persone hanno perso la casa a causa delle operazioni militari e 2.000 persone sono state uccise. Il culmine della tensione è stato negli anni '90: nel '93 il Movimento per la rinascita dell'Ogoniland ha dichiarato la Shell "persona non grata" nel territorio e lanciato sabotaggi La Shell è stata criticata negli ultimi anni per i suoi tentativi di trivellare nell’Oceano Artico. I primi permessi arrivarono nel 2008, ma nel 2012 la Shell si fermò a causa di un guasto durante una trivellazione. Nel 2015 il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, dà l’autorizzazione a Shell di trivellare nell’Oceano Artico. Prima dell’autorizzazione dell’amministrazione Obama, molti ambientalisti hanno organizzato molte manifestazioni di protesta affinché alla Shell non fosse concesso ancora una volta di trivellare l’Artico. Nel 2014 Greenpeace pubblicò un video di denuncia contro l’attività della Shell nell’Artico, attaccando anche la strategia di marketing del gruppo petrolifero, accusato di collaborare con il colosso dei giocattoli Lego per costruire un vincolo di fedeltà con i bambini, in modo da conferire un volto rassicurante al proprio marchio, nonostante i danni causati all’ecosistema. Il video ottenne molto successo e fece tanto clamore (su Youtube ha raggiunto sette milioni di visualizzazioni). In seguito alla pubblicazione del video, Lego decide di divorziare dalla Shell. Il video di Greenpeace https://www.youtube.com/watch?v=qhbliUq0_r4 Eni si toglie la cravatta Nel 2007 l‘Eni lanciò un’iniziativa significativa per limitare le emissioni di CO2, dal nome Eni si toglie la cravatta: consiste nel non far portare la cravatta in ufficio ai dipendenti in modo da alzare di un grado la temperatura dei condizionatori. L’esito di questa campagna portò alla mancata emissione di 140 tonnellate di CO2, un risparmio trascurabile dato che le emissioni risparmiate equivalgono a quelle prodotte da venti italiani in un anno. L’Eni esaltò questa campagna e si presentò come una società che, come scritto sul sito, comprende la valutazione dell'impatto ambientale e sociale delle attività. Sul suo sito annovera diverse certificazioni ed audit ambientali. Ma Nonostante questi riconoscimenti, le denunce da parte di associazioni, cittadini, istituzioni pubbliche per le devastazioni ambientali e gli impatti sociali sulle comunità locali, sia in Italia che all’estero, continuano ad interessare l’Eni. Il comune di Noto in Sicilia, la val d’Agri in Basilicata o le raffinerie di Taranto sono tra gli esempi di inquinamento ambientale più gravi in cui l’Eni è stata causa conclamata, ma per i quali non si è ancora arrivati ad una condanna e ad un risarcimento degli enormi danni arrecati agli ecosistemi e alla popolazione civile. Così come i danni casati in Nigeria: tra le prime zone al mondo per le emissioni di anidride carbonica. Le contraddizioni di Expo 2015 Il tema selezionato per l'Expo 2015 è «Nutrire il pianeta, energia per la vita» e intende includere tutto ciò che riguarda l‘alimentazione, dall’educazione alimentare alla grave mancanza di cibo che affligge molte zone del mondo, alle tematiche legate agli OGM. Tuttavia fra i principali sponsor della manifestazione figurano aziende che da anni attuano politiche aziendali del tutto incompatibili con questi propositi. Si tratta di un caso mondiale di lavaggio verde a cui partecipano assieme istituzioni e multinazionali, le quali hanno sfruttato questa importante manifestazione mondiale per farsi pubblicità. All’interno dell’Expo di Milano vi sono molte operazioni di greenwashing che non vanno sottovalutate. McDonald’s in occasione della fiera dell’Expo presenterà il McVeggie, il nuovo panino vegetariano della catena di fast food. Questa mossa commerciale è volta ad attirare in modo temporaneo i vegetariani (i vegani no, poiché il panino contiene formaggio e uova). Tuttavia McDonald’s non ha nessuna intenzione di rinunciare alla carne né tantomeno di ridurne l'utilizzo. Infatti, proprio in contemporanea a McVeggie, McDonald's ha deciso di lanciare il panino McAngus Bacon. Il McVeggie potrà essere acquistato dal 20 maggio al 9 giugno, questo evidenzia come sul prodotto non venga riposta molta fiducia. Un’altra iniziativa di lavaggio verde nell’Expo di Milano, è rappresentata dalla realizzazione del campo di grano da cinque ettari dell’artista Agnes Denes, che sorgerà per alcuni mesi tra i grattacieli di Porta Nuova, nel cuore di Milano. L’iniziativa fa parte del progetto agricolo MiColtivo, the green circle. Si tratta di un’opera di Land art. L’operazione però non venne organizzata da agricoltori, produttori di prodotti tipiici e biologici, ma da aziende come la Sygenta, una multinazionale svizzera che produce semi e prodotti chimici per l’agricoltura, a favore degli OGM; la Fondazione Riccardo Catella, che promuove iniziative civiche e culturali volte a favorire la diffusione di pratiche nella progettazione e nello sviluppo del territorio. Questa iniziativa viene accusata di essere una speculazione da parte di chi ha come lavoro la cementificazione a discapito del verde e chi produce e supporta ciecamente i sementi OGM che rendono massimi i profitti, cancellando i contadini e l’agricoltura italiana di qualità. . In conclusione il brand Expo 2015 è ovunque, si può definire come un lavaggio verde glocale, che usa una comunicazione suggestiva per mostrare quanto sia sostenibile, partecipato e trasparente. Molte promesse di sviluppo e rilancio dei territori, quando i veri affari sono altrove: autostrade, ferrovie, centri commerciali. Expo mangia la terra: oltre 1000 ettari di terre fertili per le opere connesse e 100 ettari per la piastra espositiva. Expo sfama la criminalità: con un costo di 11 miliardi di euro conta già numerosi arresti per corruzione e su tutto sembra aleggiare lo spettro della mafia. Expo arricchisce le multinazionali: oltre 70 multinazionali presenti, fra cui Nestlè tra le prime aziende di imbottigliamento di acqua minerale al mondo; Mc Donald's; Monsanto, la multinazionale dei semi contestata dai piccoli contadini di tutto il mondo e che in Italia sostiene l'introduzione degli OGM; Mekorot, l’azienda idrica di Israele che, sottraendo illegalmente acqua dalle falde palestinesi, si è macchiata di gravi violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani. Alcune considerazioni finali Molte aziende sono più interessate alla comunicazione verde anziché alla produzione verde. Sembra che sia più importante attribuirsi velleità ecologiche che avere qualità ecologiche sia nella produzione e sia nella consumazione del prodotto. La pratica del lavaggio verde è ormai virale e riguarda sia le piccole aziende e sia le multinazionali. Quest’ultime ne hanno più necessità in quanto devono distogliere l’attenzione dei consumatori dalle vare critiche che gli vengono rivolte. Il risultato è che si crea un senso generalizzato di pessimismo e confusione nei consumatori, infatti il lavaggio verde ha avuto, quasi sempre, un effetto contrario suscitando molto scetticismo, in un periodo in cui si hanno molti mezzi per informarsi e si richiede la trasparenza. Tali pratiche tendono a creare un paradosso in cui i benefici della comunicazione ambientale possono ridursi notevolmente anche per le aziende che si comportano in maniera responsabile. Esse possono venire danneggiate dalle accuse di greenwashing ingiustamente. Evitare il rischio di greenwashing significa concepire la comunicazione per la sostenibilità non come mera strategia comunicativa, per millantare caratteristiche ecologiche inventate, ma come approccio da cui trarre motivazioni e risorse per rinnovare continuamente la propria licenza ad operare.