Agenzia SIR – SERVIZIO INFORMAZIONE RELIGIOSA

Agenzia SIR – SERVIZIO INFORMAZIONE RELIGIOSA
www.agensir.it
Progetto IdR e NEWS
martedì 4 giugno 2013 (n. 40)
Tema: ISTANBUL S’INFIAMMA
TURCHIA
NOTIZIA
È un invito alla “moderazione e al dialogo” quello che giunge da monsignor Ruggero Franceschini, presidente della
Conferenza episcopale turca (Cet), che al Sir commenta la mobilitazione popolare che da qualche giorno infiamma
Istanbul, ed altre decine di città turche. Manifestazioni che nate, all’inizio, contro l’edificazione di un centro
commerciale nel parco Gezi, polmone verde di Istanbul, si sono via via trasformate in proteste, anche violente, contro
il governo del premier Tayyip Erdoðan. La repressione della polizia è stata dura ed ha provocato l’intervento del
presidente Abdullah Gul che ha affermato che “le reazioni devono essere commisurate al rispetto della legge e le
azioni dettate dal buon senso”. Da Iskenderun, “dove le proteste non sono ancora esplose” il presule, che è anche
arcivescovo di Smirne, ritiene che le manifestazioni siano un segno del “timore del popolo di andare verso uno Stato a
carattere religioso”. Nondimeno, aggiunge, esiste il rischio “di un eccessivo laicismo che pervade molti Paesi
occidentali”. Da qui l’appello al dialogo e alla moderazione per evitare ulteriori violenze.
Dello stesso avviso è monsignor Louis Pelatre, vicario apostolico di Istanbul, che giudica le rivolte “un segnale
d‘allarme” che il governo turco potrebbe prendere in considerazione, se vuole tutelare la stabilità che negli ultimi 10
anni ha favorito la crescita economica del Paese e il rafforzamento del suo ruolo internazionale. “In politica - afferma
- è sempre saggio seguire la prospettiva del compromesso per armonizzare le spinte e gli interessi rappresentati dai
diversi settori della società”. Da mons. Pelatre anche la conferma che le comunità cristiane turche non sono in nessun
modo coinvolte direttamente nei conflitti politici che si scorgono dietro le manifestazioni e gli scontri di piazza partiti
da Istanbul. è il luogo dove san Paolo fu tenuto prigioniero prima di essere condotto a Gerusalemme.
(da Sir Attualità, 3 giugno 2013)
APPROFONDIMENTI
- Clima pesante
Sale a tre il numero delle vittime degli scontri in Turchia ad una settimana dall'inizio dei disordini per difendere Gezi
Park minacciato dalla costruzione di un centro commerciale. La nuova vittima è un ragazzo di 22 anni deceduto in
ospedale dopo essere stato colpito da un colpo d'arma da fuoco durante scontri nel sud della Turchia al confine con la
Siria. Lo ha annunciato la televisione privata Ntv.
"È rimasto gravemente ferito da alcuni colpi sparati da una persona non identificata, spiega Ntv". Dopo essere stato
colpito è morto più tardi in ospedale. Secondo un parlamentare del partito di opposizione, Hasan Akgol citato da Ntv,
il ragazzo era membro del del Partito Repubblicano del Popolo (Chp). La polizia ha avviato un'indagine sulle
circostanze della morte. La prima vittima si chiamava Ethem Sarisuluk. È deceduto ad Ankara dopo essere stato
colpito da un colpo di arma da fuoco alla testa. La seconda vittima aveva 20 anni. Il ragazzo è morto ad Istanbul
investito da un taxi che si è lanciato contro la folla di manifestanti. Proprio ieri sera, durante una visita in Marocco, il
premier islamico Recep Tayyip Erdogan, spiegava: "La situazione in Turchia si sta calmando e al mio ritorno da questa
visita i problemi saranno risolti". Ma poco dopo la sua dichiarazione il piazza Taksim a Istanbul si riempiva nuovamente
di manifestanti e scoppiavano nuovi tafferugli che si sono visti anche ad Ankara. E più tardi anche nel sud del Paese.
A una settimana dall'inizio della protesta di Gezi Park contro la distruzione di 600 alberi nel cuore di Istanbul, quella
che ora è diventata la rivolta della Turchia laica contro il premier islamico Recep Tayyip Erdogan dilaga ogni giorno di
più in tutta la Turchia.
Piazza Taksim a Istanbul si è riempita nuovamente di giovani manifestanti e sono di nuovo scoppiati tafferugli, che si
sono visti in serata anche ad Ankara. Nella capitale Ankara, dove l'intervento della polizia è stato ancora più brutale
che a Istanbul, un giovane è stato colpito a morte alla testa da un proiettile, ha annunciato la Fondazione turca dei
diritti umani. Un altro ragazzo è morto a Istanbul dove un'auto ha investito un gruppo di manifestanti. In tutto il Paese
centinaia di migliaia di manifestanti da giorni scendono in piazza per chiedere le dimissioni del premier. La dura
repressione da parte della polizia ha suscitato condanna e allarme in tutto il mondo.
Il segretario di Stato Usa John Kerry si è detto "preoccupato" e ha chiesto un'indagine sul comportamento della
polizia. Gli Usa, alleati della Turchia, ha ammonito, "sostengono con forza il diritto alla libertà di espressione
compreso quello di protestare pacificamente". Monito analogo dalla Casa Bianca, che pure ha ribadito di voler
cooperare con Erdogan sul dossier della guerra civile siriana.
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Decine di migliaia di persone - molti giovani, tanti oppositori al governo Akp, ma anche moltissima gente comune hanno occupato pacificamente Taksim, la piazza simbolo della rivolta a Istanbul, da dove il governo ha ritirato la
polizia sabato pomeriggio. Polizia e manifestanti si sono tuttavia scontrati di nuovo questa sera a Besiktas, vicino alla
residenza sul Bosforo di Erdogan. Le forze antisommossa hanno caricato, usando anche gas lacrimogeni e idranti.
ERDOGAN: «NON È LA PRIMAVERA TURCA». Non si ferma la protesta in Turchia e la miccia verso l’esplosione della
situazione sembra accorciarsi, anche per la presenza delle prime due vittime: un giovane ucciso da un veicolo
scagliato contro la folla due giorni fa, e un altro ragazzo che, ad Ankara, è stato raggiunto alla testa da un colpo di
arma da fuoco ed è stato dichiarato «clinicamente morto».
Di sicuro, sono esplosive le dichiarazioni del premier Recep Tayyip Erdogan, che dopo aver definito Twitter un «male
per la società», ha dato la colpa delle proteste all’opposizione che fiancheggerebbe «gruppi estremisti», e a
«influenze esterne» non meglio specificate. «Non è in atto una Primavera turca», ha poi voluto sottolineare Erdogan –
poi partito per il Nord Africa, da dove tornerà non prima di quattro giorni. Una dichiarazione che si può ben leggere
nel suo contrario, ossia nella paura del premier di essere travolto da una rivolta inarrestabile. Da qui, il pugno di ferro
sinora dimostrato. Linea dura che preoccupa il mondo, a cominciare dagli Stati Uniti che ieri, nelle parole del
segretario di Stato John Kerry, hanno denunciato un «uso eccessivo della forza» contro i manifestanti in Turchia,
mentre dalla Casa Bianca il portavoce Jay Carney ha chiesto alle parti di evitare le violenze, sottolineando che «le
manifestazioni pacifiche sono vitali per la democrazia».
A Istanbul la gente è tornata a Gezi Parki, il luogo simbolo della protesta, poi, in serata, in migliaia hanno affollato di
nuovo piazza Taksim. Ci sono stati violenti scontri. E gli agenti hanno lanciato gas lacrimogeni. Ad Ankara la polizia ha
respinto con forza centinaia di persone che si erano radunate nel centro, mentre a Smirne un gruppo di studenti ha
cercato di occupare il rettorato dell’Università Ege. Sempre nella città egea, una sede dell’Akp, il partito islamicomoderato per lo sviluppo guidato da Erdogan, è stata incendiata da un gruppo di dimostranti.
Il clima è pesante, così tanto che ieri mattina, il presidente della Repubblica, Abdullah Gul, è intervenuto per la
seconda volta con una dichiarazione dai toni decisi. Già sabato aveva auspicato un atteggiamento più mite da parte
delle forze di sicurezza. «Democrazia non vuole dire solo vincere le elezioni – ha reso noto la Presidenza della
Repubblica –. Tutte le parti coinvolte devono usare buon senso e mantenere la calma». Ieri sera il capo di Stato ha
incontrato il capo dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu, che da giorni chiede al premier un passo indietro, accusandolo
di essere un tiranno come Bashar al-Assad.
Intanto però i feriti sono saliti a 170, e sono finora più di 1.500 le persone arrestate. Nei prossimi giorni sono previste
nuove iniziative. Oggi le principali sigle sindacali inizieranno uno sciopero che durerà 48 ore. Le più grandi celebrità
del mondo culturale turco hanno appoggiato la protesta e ormai la gente si raduna spontaneamente nei luoghi più
impensati anche grazie al tam tam dei social network. Ieri mattina erano a decine di fronte all’emittente Ntv per
protestare contro lo scarso interesse riservato alle manifestazioni e alla violenze delle polizia. Scarso interesse che
per la gente è vera e propria censura. «Non vogliamo una stampa partigiana» e «giornalisti venduti» sono stati gli
slogan scanditi, mentre sventolavano banconote di lire turche.
Nelle tre principali città della Turchia moderna in molti hanno iniziato ad appendere la bandiera nazionale fuori dalle
case. Un piccolo gesto, innocuo. Ma dal valore altamente simbolico. Finché le bandiere resteranno fuori la gente
continuerà a protestare.
(Marta Ottaviani - Avvenire, 4 giugno 2013)
- Appello alla moderazione
Si chiama parco “Gezy” e rischia di diventare la miccia che potrebbe fare esplodere la Turchia. Questo polmone verde
di Istanbul è stato scelto, dal premier Tayyip Erdoðan, come sede per l’edificazione di un centro commerciale. Con le
ruspe pronte già a sradicare 600 alberi, un gruppo di attivisti, il 31 maggio, si è mosso bloccando l’inizio dei lavori
all’interno del parco che si trova proprio dietro piazza Taksim, il cuore della città. Sit in, inizialmente pacifici, sono
stati duramente e brutalmente repressi dalla Polizia che pure aveva transennato la zona, portando i manifestanti ad
occupare la piazza vicina e a riversarsi lungo la principale arteria pedonale di Taksim, Ýstiklal Avenue o nelle strade
vicine. Lacrimogeni, spray urticanti, manganellate, idranti non sono bastati alla Polizia per disperdere le migliaia di
manifestanti che richiamati dai social network Twitter e Facebook continuavano a radunarsi e non solo ad Istanbul.
Rischio islamizzazione? Secondo alcuni commentatori il numero dei tweet inviati il 1 giugno sono stati 27,5 milioni,
contro la media giornaliera dei 9-11 milioni. Le proteste sono dilagate in oltre 60 città turche trasformandosi in
manifestazioni politiche contro il premier, reo di voler islamizzare il Paese. L’approvazione, proprio di recente, di
leggi che vietano le effusioni nei luoghi pubblici, il consumo di alcolici in prossimità delle moschee e delle scuole, e la
vendita dalla sera all’alba, sono state, infatti, apertamente contestate dalle forze laiche che temono la reislamizzazione del Paese che Ataturk, il padre della Turchia moderna, aveva concepito e voluto laico. Depositario di
questa laicità è ancora oggi l’Esercito. Una protesta, dunque, che sta assumendo sempre più una valenza politica, al
punto che c’è già chi si affretta a stabilire delle analogie tra piazza Tahrir del Cairo e piazza Taksim di Istanbul,
dimenticando, forse troppo in fretta, che in Turchia vige la democrazia e che chiunque dissenta dalle decisioni del
Parlamento eletto e del Governo può scegliere una coalizione diversa alle prossime elezioni amministrative e
presidenziali, che si terranno nel 2014. Quando in ballo ci sarà anche un possibile referendum sulla nuova carta
costituzionale. Nelle ultime votazioni, svoltesi nel giugno 2011, il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) del
premier Erdogan ha riportato quasi il 50% dei suffragi, il 26% al Partito repubblicano del popolo (Chp) e il 5,5% al
Partito di Azione nazionalista (Mhp).
L’appello alla moderazione delle comunità cristiane. In questa fase le comunità cristiane turche, una esigua
minoranza, non sono coinvolte, come afferma monsignor Louis Pelatre, vicario apostolico di Istanbul, per il quale le
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proteste vedono protagonisti gli studenti che godono dell’appoggio di settori legati ai vecchi apparati kemalisti. Ma
dietro le manifestazioni, aggiunge, “non si intravvede finora una reale alternativa politica al partito al potere, che
rimane forte e gode dell’appoggio della maggioranza della popolazione”, mentre l’esercito - in passato decisivo nella
definizione degli assetti politici turchi - mantiene una posizione defilata. Le accuse di islamizzazione che ad Erdogan
giungono da varie parti lo potrebbero indurre ad un cambio di strategia, lasciando maggiore spazio a quelle forze non
islamiste che pure appartengono al suo partito, l’Akp. “C’è da sperare che i fatti di questi giorni alimentino in tutti lo
spirito di moderazione, e non l’autoritarismo” è l’auspicio del vicario che ribadisce come “in politica sia sempre
saggio seguire la prospettiva del compromesso per armonizzare le spinte e gli interessi rappresentati dai diversi settori
della società”. Alla “moderazione e al dialogo” si appella anche monsignor Ruggero Franceschini, presidente della
Conferenza episcopale turca (Cet). Da Iskenderun, “dove le proteste non sono ancora esplose” il presule, che è anche
arcivescovo di Smirne, giudica le manifestazioni come un segno del “timore del popolo di andare verso uno Stato a
carattere religioso”. La forte crescita economica di questi ultimi anni, governata proprio dal partito del premier
Erdogan, - è il parere di molti analisti - potrebbe non bastare più per evitare al suo Governo un forte scossone.
(da Sir Attualità, 3 giugno 2013)
- È la libertà religiosa il vero nodo irrisolto
L’intenzione di abbattere gli alberi del parco Gezi nel centro di Istanbul per fare spazio al nuovo piano di sviluppo
urbanistico della città sembra proprio la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso della tensione che ormai era
da tempo latente in Turchia. Posti di fronte alla prospettiva di veder sparire un importante spazio verde in mezzo
all’immensa e caotica città sul Bosforo, centinaia di cittadini contrari alla scelta organizzano una manifestazione di
piazza. Molti sono giovani, ma la folla è composita. La polizia si presenta in massa, agisce con durezza, non solo
controlla e contiene, ma sceglie di reprimere la protesta, che a questo punto si allarga e cambia di forma. Aumentano
i giovani, ma arrivano anche i partiti laici di destra e sinistra, gli intellettuali, le donne. La polizia alza il livello della
repressione e si arriva ai veri scontri di piazza, alle macchine bruciate, alle decine di feriti e ai 1.700 arresti sparsi sul
territorio nazionale, proprio perché la protesta in 24 ore ha cambiato significato.
Il nuovo obiettivo non è più salvare gli alberi, bensì chiedere le dimissioni del premier Erdogan, accusato
dall’opposizione di allontanare progressivamente la Turchia dalla democrazia e soprattutto di porre sempre più a
rischio la famosa laicità dello Stato, posta da Ataturk a fondamento delle istituzioni. Molti in queste ore parlano della
recente legge che limita la vendita delle bevande alcoliche dalle 22 alle 6 del mattino. Quella che potrebbe sembrare
una semplice norma posta a tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, è stata infatti percepita dalla parte più laica
dell’opinione pubblica turca come l’ennesima indebita ingerenza reazionaria di stampo religioso nello stile di vita dei
cittadini, e ha sollevato forti proteste.
In realtà, il problema della Turchia sembra essere un po’ più strutturale, e proviene da più lontano. Sicuramente, la
polizia e il Ministero degli Interni turco hanno usato un livello di violenza difficilmente giustificabile contro le proteste
degli ultimi giorni. Altrettanto sicuramente, Erdogan si muove (sempre più) in maniera decisionista, prestando poco
ascolto alle ragioni dell’opposizione, anche a costo di spaccare il Paese. Tuttavia, il suo partito ha vinto le ultime
elezioni del 2011 con oltre il 50% dei consensi, mentre in Francia Hollande ha deciso di spaccare il Paese su un tema
così carico di conseguenze nel lungo periodo come il matrimonio gay potendo contare su un consenso elettorale molto
più esiguo.
Uscendo un attimo dagli avvenimenti più recenti, si riesce a comprendere come il punto centrale per cogliere la
natura delle tensioni che percorrono la Turchia sia lo scontro fra due visioni opposte del ruolo della religione nella
sfera pubblica, entrambe caratterizzate da scarsa tolleranza e poco spazio per la libertà religiosa. Da una parte, la
concezione di laicità che ha prevalso per decenni in Turchia era in realtà un laicismo di Stato che aveva relegato la
religione alla sfera privata e ostacolato le minoranze non islamiche, che non potevano contare sulla forza dei numeri.
Dall’altra parte, la concezione portata avanti dal partito di Erdogan, pur molto lontana dal fondamentalismo islamico,
è però essenzialmente una forma di teologia politica, in cui la religione trova naturale realizzarsi attraverso le forme
della politica, lasciando nuovamente poco spazio per le altre religioni e per la libertà delle persone. Servirebbe una
vera laicità dello Stato, rispettosa della libertà religiosa e del valore della religione. Forse potrebbe essere l’occasione
buona.
(Stefano Costalli – Sir Attualità, 3 giugno 2013)
…E intanto, per la Turchia si attendono ancora le decisioni dell’Ue
- Sulla strada dell’Ue
Dopo il 1989 quando il mondo comunista è crollato, l’Unione europea è riuscita ad affermarsi come l’unico spazio
regionale di stabilità e certezza. “Oggi, questa certezza viene messa in discussione e ci si chiede quale sarà il futuro
dell’Ue soprattutto per il Sud Est Europa che è la parte periferica e più sofferente dell’Unione” come rileva Othon
Anastasakis, direttore del Centro studi europei del College St. Antony di Oxford. Nike Giurlani, per Sir Europa, lo ha
intervistato in margine al convegno “Allargamento in prospettiva: Balcani-Turchia”, svoltosi nei giorni scorsi al
Parlamento europeo.
Che cosa rappresenta per i Balcani e la Turchia la Unione europea?
“L’Ue rappresenta l’unica opzione sensata per il futuro di quest’aerea, mentre altre alternative sono limitate e di
breve termine. La Commissione europea continua, giustamente, a monitorare progressi e riforme e il Parlamento a
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sostenere calorosamente il loro orientamento europeo, perché da questo dipende il futuro dell’economia europea e
del progetto europeo”.
Quali sono i principali problemi per i Paesi candidati e i potenziali candidati nell’area balcanica?
“Innanzitutto problemi di natura socioeconomica, dovuta al basso livello di sviluppo economico della regione,
all’instabilità politica, alla regressione democratica e al ritmo lento delle riforme. Inoltre, vanno valutati anche i
problemi bilaterali e le rivalità storiche tra i Paesi aspiranti e anche quelli tra gli Stati membri e i Paesi candidati che
creano ulteriori ostacoli al buon funzionamento del processo di allargamento della regione. Per quanto riguarda l’Ue,
ci sono anche problemi di riluttanza all’ampliamento e al coordinamento interno a causa della delicata situazione
economica in atto”.
Che cosa intende?
“Questa è la prima volta che l’allargamento dell’Unione europea viene condotto nel contesto di una grave crisi
economica che ha colpito la maggior parte dei membri della zona euro e ha un impatto su tutti i Paesi dei Balcani. Si
tratta di una grande sfida per la Commissione europea, e un test personale per il commissario Štefan Füle, per
produrre dei risultati reali in un momento in cui l’impatto e l’influenza della Commissione è in declino e il programma
di allargamento è offuscato dai problemi della zona euro”.
Come viene percepita la crisi economica e politica della Ue in questi Paesi?
“Ha scosso le loro credenze nella capacità di trasformazione dell’Ue. Ha decostruito alcuni miti che erano stati
dominanti prima della crisi. Le storie di successo dell’Europa meridionale (Spagna, Portogallo e Grecia) così come
quelle dell’allargamento (Slovenia, Ungheria e Cipro) sono ora viste come storie di instabilità, austerità e
disoccupazione. Da qui la perdita di attrattiva verso la Ue e l’ascesa di altri soggetti esterni che con il loro potere
economico (Cina), o il loro potere politico e risorse energetiche (Russia) sono diventate attraenti opzioni, nonostante
il fatto che il loro impatto e l’influenza sono più limitate e non possono sostituire l’approccio e l’impegno globale che
caratterizza la Ue”.
Un esempio?
“La Turchia che è un Paese candidato e un attore esterno dei Balcani, è attualmente l’unica realtà stabile
politicamente nei Paesi del Medio Oriente e del Mediterraneo, l’unico Paese che sta crescendo, potendo anche
vantare un’autonomia in politica estera. Nella configurazione globale attuale, il futuro europeo della Turchia non è
semplicemente una questione bilaterale tra questo Paese e l’Unione europea. Va tenuta presente anche l’influenza
del Medio Oriente, la sua instabilità prolungata, l’ascesa di politica energetica e il ruolo della Turchia come via di
transito principale per l’energia”.
Cosa si aspetta la società civile dai responsabili politici in Europa e nel proprio Paese, al fine di accelerare il
processo?
“La società civile nei Balcani può essere una fonte di azioni indipendenti e di controllo democratico, un canale
privilegiato per trasmettere all’Ue le paure e le preoccupazioni della gente della regione. Dovrebbero, inoltre,
cercare di mantenere la loro indipendenza dai governi centrali e dagli Stati, fungendo da ancore per un’azione più
autonoma e, al tempo stesso, preservare lo spirito europeo e democratico per i cittadini di quest’area. Dato che i
Paesi dei Balcani occidentali sono piccoli e interconnessi, gli attori della società civile dovrebbero lavorare a livello
regionale, al fine di produrre risultati più efficaci. Tuttavia, non si deve sopravvalutare il loro potenziale e la capacità
di produrre un vero cambiamento o influenzare il percorso verso la Ue”.
Come possono la società civile e le organizzazioni sindacali sviluppare iniziative comuni per un miglioramento
della situazione?
“Queste realtà devono lavorare insieme con la Commissione e il Parlamento europeo. È fondamentale operare una
riconciliazione, alla luce dei conflitti tra i vari gruppi all’interno e tra i Paesi dell’ex Jugoslavia. Questo è uno dei
compiti più importanti per progredire e fermare gli eccessi del potere politico”.
(da Sir Europa, 15 marzo 2013)
DOCUMENTI
------------------------------------------------------------------------------------------------------ Per l’Ue la Turchia è ancora “incompleta”
In Turchia il processo di riforma legislativo e istituzionale è “in corso ma è ancora incompleto”. A formulare il giudizio
è l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, in una risoluzione adottata oggi sulla base di un rapporto di
Josette Durrieu (Francia). Nella loro prima valutazione del Paese in cinque anni, i parlamentari, riuniti in plenaria a
Strasburgo fino al 26 aprile, riconoscono che è stato avviato un “importante processo di riforme” in una “complessa
situazione di transizione politica” per quel che riguarda il potere giudiziario e l’esercito, la questione curda e
l’instabilità regionale, in particolare nella vicina Siria. L’Assemblea accoglie di buon grado anche “i notevoli risultati
economici” registrati dalla Turchia in un contesto di crisi mondiale, e riconosce che il Paese è divenuto una potenza
regionale e uno “Stato di riferimento per i Paesi musulmani meno stabili della regione”. Tuttavia, si legge nella
risoluzione, la Turchia deve procedere anche alla riforma della Costituzione, proseguire quella del Codice penale, fare
progressi in materia di libertà di espressione, carcerazione preventiva, decentramento regionale e locale e
soprattutto “risolvere la questione curda”. L‘Assemblea ha deciso di continuare il dialogo post-monitoraggio con il
Paese, e ha assicurato il proprio sostegno al perseguimento delle riforme democratiche.
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“Abbiamo avuto un positivo, aperto e interattivo scambio di opinioni su tutta una serie di problemi, consapevoli che il
2013 riveste un ruolo importante nel rafforzamento delle relazioni tra l’Ue e la Turchia”. Questo quanto dichiarato da
Štefan Füle, commissario per l’allargamento e la politica di vicinato, a seguito del Consiglio di associazione UeTurchia. “Ho accolto con favore l’attuale slancio nei negoziati di adesione - ha continuato il commissario - e vedo la
possibilità di un’apertura per quanto riguarda il capitolo regionale già durante la Presidenza irlandese”, dunque entro
la fine di giugno. Füle ha spiegato che la Ue ha invitato la Turchia a fare dei passi in avanti anche per quanto riguarda
la politica sociale e l’occupazione. Per raggiungere questi obiettivi occorre però “responsabilità da entrambe le
parti”. “Ho accolto con favore le recenti riforme - ha sottolineato Füle - in particolare l’adozione del quarto
pacchetto di riforma della giustizia: una tappa importante sulla strada verso il pieno rispetto dei diritti
fondamentali”; ha poi rilevato che “ulteriori sforzi sono necessari”. Infine, l’esperto europeo ha evidenziato che
“l’attuazione del protocollo aggiuntivo potrebbe iniettare una nuova vita nel processo di adesione, diversi capitoli
potrebbero essere aperti e alcuni anche chiusi in tempi relativamente brevi”.
(da Sir Attualità, 23 aprile 2013)
- Un paese “difficile”
Chi conosceva poco la Turchia, ma in questi giorni ha seguito l’hashtag #occupygezipark, ha di sicuro notato che i
turchi scrivono con l’alfabeto latino, lo stesso in uso in gran parte del mondo occidentale. La Turchia è l’unico paese
del Medio Oriente – oltre a Israele – a non utilizzare l’alfabeto arabo: fu una decisione presa 90 anni fa, alla fine della
Prima Guerra Mondiale, dalla nuova classe dirigente che sostituì il governo del Sultano.
Usare l’alfabeto occidentale fu uno degli elementi della rapida modernizzazione della società turca negli anni Venti.
La modernizzazione, con cui i riformatori cercarono di trasformare la Turchia in un paese moderno ed europeo, portò
il paese ad essere uno dei più laici e secolarizzati del mondo. Recep Tayyip Erdogan, l’attuale primo ministro al
centro delle proteste di piazza di questi giorni, è il primo importante politico della storia recente ad essere
apertamente islamico e ad aver vinto diverse volte le elezioni. Buona parte delle proteste, secondo quasi tutti gli
osservatori, sono causate proprio dalla “strisciante islamizzazione” che Erdogan ha introdotto in Turchia negli ultimi
anni.
Le proteste di piazza Taksim e i cambiamenti di Erdogan hanno entrambi a che fare con i grandi mutamenti che sta
affrontando la Turchia: la crescita economica, le ambizioni in politica estera, la “ottomania” e le pressioni verso
l’islamizzazione. In tutto questo ha una piccola parte anche l’alfbeto latino, con cui i manifestanti hanno twittato in
questi giorni. Per capire tutto il quadro bisogna fare un grande passo indietro.
Un po’ di storia
Per circa quattrocento anni, tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo, la Turchia è stata la più grande superpotenza
del mondo a ovest della Cina. All’epoca non esisteva uno stato chiamato “Turchia”: esisteva l’impero ottomano (dal
nome della dinastia che lo governava). Al momento del suo massimo splendore dominava dal Marocco, ad ovest, fino
ai confini di quello che oggi è l’Iran a est. Dalla penisola di Crimea, a nord, fino ai confini meridionali dell’Egitto, a
sud.
Per molti secoli l’impero ottomano è stato per l’Europa “il nemico” per eccellenza. Decine di Papi si sono succeduti
supplicando od ordinando ai re europei di fare la pace tra di loro e di concentrarsi contro il vero nemico che
minacciava la cristianità. Non furono ascoltati spesso, e anche quando accadeva, gli sforzi europei si rivelarono inutili
o tragici. Quasi ogni volta che un esercito cristiano ne incontrava uno ottomano la battaglia si tramutava in una
rovinosa sconfitta. In questa lunga serie di sconfitte, tra le più gravi Nicopoli nel 1396, Costantinopoli nel 1453 e
Algeri nel 1541, le battaglie in cui vinse l’Occidente, come quella di Lepanto nel 1571, per quanto celebrate, furono
solo una breve parentesi.
Gli eserciti ottomani arrivarono per due volte, una nel Cinquecento e l’altra nel 1683, ad assediare la stessa Vienna
(sul secondo assedio di Vienna è da poco uscito un film di Renzo Martinelli, lo stesso regista di Barbarossa, il film in
cui appare come comparsa Umberto Bossi). Nel Settecento le cose cambiarono piuttosto rapidamente: i rapporti di
forza si invertirono e gli stati europei, la Russia e l’Austria in particolare, presero l’iniziativa.
Il diciannovesimo secolo e i primi anni del ’900 furono una continua umiliazione per l’impero ottomano: in pochi anni i
sultani persero l’Algeria, poi la Tunisia, gran parte dei Balcani e poi la Libia, conquistata dall’Italia insieme alle isole
greche del Dodecaneso. La Turchia era divenuta “il malato d’Europa”, una definizione che stava a significare come
l’impero ottomano fosse ormai un gigante con i piedi d’argilla, incapace di reggersi in piedi e la cui caduta avrebbe
causato più problemi di quanti ne avrebbe potuti risolvere.
Nel 1908 un gruppo di giovani ufficiali e intellettuali, che si erano soprannominati “i giovani turchi”, fece un colpo di
stato e costrinse il Sultano ad adottare una serie di riforme costituzionali e modernizzatrici. I giovani turchi erano dei
nazionalisti ammiratori della Germania e spinsero il Sultano in un’alleanza che trascinò l’impero nella Prima Guerra
Mondiale. Sconfitto insieme alla Germania, l’impero non sopravvisse alla guerra e con i trattati di pace firmati a Parigi
nel 1919 la Turchia perse tutti i territori che le rimanevano e venne ridotta agli attuali confini.
La modernizzazione
La fine della Prima Guerra Mondiale portò in Turchia una serie di scontri e disordini, sfociati in una guerra civile. Nel
1922 il movimento nazionalista turco, di cui facevano parte molti ex-giovani turchi, conquistò il potere. Il sultanato
venne abolito e in pochi anni la Turchia subì una rapida serie di drastiche riforme. Il leader di questo movimento fu un
ufficiale dell’esercito turco, Mustafà Kemal, che da allora venne soprannominato Atatürk, padre dei Turchi.
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Atatürk e gli altri nazionalisti credevano che la lunga serie di umiliazioni subite dalla Turchia fosse causata dalla sua
arretratezza e che l’unico modo per rimediare fosse seguire rapidamente il percorso che avevano tracciato i paesi
occidentali. Questo significava abbracciare tutto ciò che era europeo e abbandonare tutto ciò che ricordasse il
fallimentare passato imperiale: la religione islamica, il multiculturalismo e tutto il resto delle antiche tradizioni.
I riformatori imposero come unico alfabeto quello latino – in Turchia fino ad allora si era scritto soltanto in caratteri
arabi. Abolirono il sultanato e qualunque riferimento alla religione islamica nella nuova costituzione del paese. Uno
stato laico e secolare, secondo i riformatori, era l’unico modo di creare uno stato forte, in grado di riportare la
Turchia al posto che meritava tra le grandi nazioni. D’altro canto, nella loro concezione, uno stato doveva anche
essere una nazione: con una sola lingua e una sola cultura.
L’impero ottomano era stato inclusivo, aperto alle altre culture. Sotto il sultano vivevano greci, albanesi, bulgari,
armeni, curdi e arabi e per loro non era difficile raggiungere anche le posizioni più alte dell’esercito e della
burocrazia imperiali. Atatürk e gli altri riformatori decisero di rendere la Turchia uno stato esclusivamente turco e
questo significò sterminare gli armeni (lo sterminio cominciò già nel 1915) e perseguitare le altre minoranze, come i
curdi e i greci.
Il presente
La storia turca negli ultimi cinquant’anni è stata spesso turbolenta: ci sono stati attentati, repressioni, disordini e
colpi di stato. L’esercito si è sempre considerato il garante dello stato laico creato da Atatürk ed è più volte
intervenuto nella politica del paese. Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, i generali hanno compiuto tre diversi
colpi di stato. Nonostante l’esercito si sia sempre presentato come il difensore dei valori laici e occidentali della
Turchia, il suo nemico principale sono quasi sempre stati gli attivisti di sinistra e i comunisti, contro i quali vennero
organizzati i vari colpi di stato. In quegli anni l’esercito ha spesso compiuto esecuzioni, omicidi e torture con scopi
politici.
Le elezioni vinte nel 2002 dall’AKP, il partito di Erdogan, sono uno spartiacque nella storia recente della Turchia.
L’AKP, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo in turco, è un partito islamico da molti definito “moderato”, ma che
ha compiuto comunque gesti rivoluzionari per un paese laico come la Turchia. Nel 2008, ad esempio, Erdogan ha
abrogato la legge che vietava agli impiegati pubblici di indossare vestiti che fossero anche simboli religiosi, come ad
esempio il velo per le donne (la legge è stata successivamente bocciata dalla Corte Costituzionale). Più recentemente
è stata approvata una legge che limita il consumo di alcolici nelle ore notturne.
Erdogan si è scontrato anche con l’esercito. Attualmente diversi ufficiali, tra cui anche alcuni generali, si trovano
sotto processo o sono in prigione, accusati di aver pianificato dei colpi di stato o di aver compiuto altri crimini. Alcune
di queste accuse sono da molti ritenute delle montature, utilizzate da Erdogan per mettere sotto controllo l’esercito.
La politica di Erdogan in materia di religione e le sue azioni contro l’esercito sono soltanto una parte di quello che lui
e il suo partito hanno fatto negli ultimi dieci anni. La Turchia ha avuto una rapida crescita economica e ha cominciato
a far sentire la sua voce nelle questione dei suoi vicini mediorientali – la Turchia confina con la Siria, l’Iraq e l’Iran.
Questa nuova ascesa della Turchia al rango di potenza ha contribuito a quella che alcuni hanno definito “ottomania”.
Attualmente la soap opera più vista in Turchia è Il Secolo del Magnifico, una serie di complotti e intrighi a corte, in
qualche modo simile a Game of Thrones, ma ambientata nel Cinquecento, all’epoca del sultano Solimano, detto il
Magnifico. Il film che ha fatto più incassi nell’ultimo periodo è La conquista del 1453, che parla della conquista di
Costantinopoli – un film criticato anche in patria per i suoi toni nazionalisti. Le nuove uniformi della compagnia aerea
nazionale, la Turkish Airlines, sono di chiara ispirazione ottomana: fez – il tipico cappellino turco a tronco di cono,
vietato dai modernizzatori – e abiti molto castigati per le donne.
Secondo i critici di Erdogan, che lo hanno soprannominato “il Sultano”, anche la sua politica è macchiata da questa
nostalgica “ottomania”. Erdogan vorrebbe un ritorno a una Turchia fortemente islamizzata, con un ruolo di leadership
in Medio Oriente, una sorta di potenza regionale come era, appunto, in passato l’impero ottomano.
Lo scrittore turco Cinar Kaper sostiene in un articolo pubblicato di recente sull’Atlantic che l’obbiettivo di Erdogan sia
un altro. Quando alla fine dell’Ottocento il Giappone subì un rapido processo di modernizzazione simile a quello che
la Turchia avrebbe avuto cinquant’anni dopo, il motto dei riformatori fu: «tecnologia occidentale, spirito
giapponese». Secondo Kaper, il motto di Atatürk e di quelli che hanno proseguito la sua opera fino all’arrivo di
Erdogan poteva probabilmente essere riassunto in «tecnologia occidentale, spirito occidentale».
Per Kaper quella turca è stata una vera e propria imitazione, ma «se passi novant’anni a dire di essere una copia
dell’Occidente, allora l’Occidente non avrà ragione di guardarti come qualcosa di diverso da una copia scadente di sé
stesso». E questo non sarebbe un problema per una nazione soddisfatta dell’irrilevanza internazionale. Ma non è
questo il caso della Turchia di Erdogan. L’obbiettivo di Erdogan non è creare un nuovo impero regionale, ma non
essere irrilevante: e per non essere irrilevanti è necessario avere un’identità propria.
(da www.ilpost.it, 2 giugno 2013)
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