La musica d`organo in Italia dopo il Motu Proprio

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La musica d’organo in Italia dopo il Motu Proprio
Inviato da olimaioc il 21 Ottobre, 2009 - 20:01
Contributo per un inquadramento critico
Autore:
Fausto Caporali
Sezione:
Organo e Liturgia [1]
Un quadro d'insieme della musica organistica comparsa in Italia nel Novecento non può
prescindere da uno sguardo complessivo sull'evoluzione della musica liturgica e sacra in
generale; le divaricazioni che vi sono state in tempi relativamente recenti - il concerto come
momento a sè stante, per esempio, o la varietà di stili e di impegno dei compositori - sono
sorte da fattori che si spiegano in rispettive necessità, da esaminare ad ampio raggio. Questo
contributo, pertanto, intende indagare le caratteristiche e le ragioni ideali di un secolo di
musica organistica liturgica, tentandone una interpretazione il più possibile distaccata dagli
eventi e ricercandone le derivazioni storiche.
La novità evidente, per uno storico che affronti lo studio della musica liturgica sul crinale
fra XIX e XX secolo, è che le disposizioni ecclesiastiche che a vari livelli (diocesano,
episcopale, vaticano) disseminano gli ultimi decenni dell'Ottocento e culminano nel Motu
Proprio del 1903 [2], raggiungono lo scopo voluto, così che una riforma musicale che non
parte da istanze estetiche ma da auspici liturgici viene recepita dai musicisti operanti nella
Chiesa e per la Chiesa. Gli interventi che si erano registrati nella storia a partire, ricordando
per sommi capi, dalla costituzione Docta sanctorum patrum di papa Giovanni XXII del
1324, passando per il concilio tridentino, fino all'enciclica Annus qui di Benedetto XIV del
1749, avevano semplicemente individuato un problema di corrispondenze inadeguate ma
non erano riusciti ad evitare che la Chiesa facesse propria la musica mondana
sostanzialmente senza alcuna precisazione teologica o ricorrendo a statuti dirimenti; è
possibile ritenere che l'acquisizione della contemporaneità nel rito costituisse un sussumere
e nobilitare il dato materiale verso una prospettiva trascendente che la porta del bello
artistico rendeva accessibile e percorribile a chiunque, laddove il rito non era esplicato
altrimenti. Non le note in sé, ma il testo costituiva il differenziale di senso, a suggerire una
possibilità di salvezza per ogni situazione del vissuto. L'interscambio paritetico di topoi
linguistici fra ambiti - quello sacro e quello profano- quasi del tutto osmotici conferiva
valore aggiunto al rito, intendendo l'arte "sacra" (cioè inserita nel rito) come sublimazione
del quotidiano sia in un'ottica di preziosità artistica - il superfluo come affermazione di un
decoro e di un'importanza - sia come mezzo di esplicazione rituale secondo atteggiamenti
retorici condivisi nell'hic et nunc; il contenitore istituzionale aggiornava e intesseva la sua
presenza incardinandosi nel mondo attraverso ciò che poteva essere proposto come nuovo
nel tempo, la musica in primis, affidando i dati essenziali della fede anche alla percezione
estetica eloquentemente individuata; la comunicazione si imponeva nel fatto artistico e con
il fatto artistico, come evidenza simbolica di una presenza direzionata a realtà superiori. Il
binomio docere et delectare esprimeva una mistagogica della lode divina e la promozione
estetica della devozione mentre il mero diletto sensoriale, tutt'altro che rifiutato, si poneva al
servizio di un fine oltremondano: l'ambito liturgico realizzava in forma simbolica, anche
attraverso la musica, le indicazioni per un vivere virtuoso (affetti musicali di pietas e/o
travestimenti testuali) e l'armonia musicale era analogicamente l'immagine dell'opera
creatrice, regolatrice e redentrice della presenza divina.
La raccolta di testimonianze contro gli abusi dei musicisti nel corso della storia è stata
oggetto di evidenze cronachistiche recenti; quelle a favore del fenomeno musicale a servizio
del rito come esplicato sopra sarebbero molto più numerose, per non dire che un'attenta
ermeneutica delle fonti porterebbe spesso a precisare meglio l'ambito di critica al sistema
caso per caso. La storia mostra che la libertà di cui godeva l'artista concedeva la possibilità
di rappresentare il massimo di artisticità in relazione al testo; tale libertà era da intendersi
come utilizzo consapevole di mode condivise ed esibizione positiva di abilità intellettiveespressive: se il linguaggio era comune, il capolavoro disegnato laicamente permetteva la
stessa riuscita nel campo sacro o viceversa, pertanto l'autore grande nel profano era grande
nel sacro. Ciò che si palesa nel secolo appena trascorso è proprio l'assenza di musicisti
grandi nell'uno e nell'altro campo, mentre la significatività di un autore importante si è
esplicata nel "religioso" in senso lato ma non si è applicata alla liturgia se non in produzioni
del tutto episodiche.
Proprio la quasi totale assenza di contatti attivi e di relazioni imitative con la musica più
generalmente laica può essere, a nostro modo di vedere, una chiave di interpretazione per
tracciare i nessi critici di quanto è avvenuto per la musica sacra-liturgica e, parallelamente,
per quella organistica, nel Novecento.
Il Motu proprio e la musica liturgica e organistica.
Il Motu Proprio ha inteso definire dall'alto - la riforma è partita per iniziativa del clero come e quale dovesse essere la musica liturgica, l'ha imposta ai laici e ne ha invocato la
realizzazione artistica. Il problema di ridisegnare la musica nel rito diventò stringente
quando la Chiesa dovette fare i conti da una parte con una necessità di un'azione pastorale
da rinnovare, rinsaldare e approfondire, dall'altra con un primato che doveva ora rivolgersi
ed attuarsi nelle coscienze; a quel punto si dovettero indirizzare gli atteggiamenti individuali
verso una identificazione collettiva, dal momento che la secolarizzazione progressiva
sottraeva situazioni scontate. La riforma liturgica significativamente partì dalla musica - i
cui eccessi profani erano arrivati a svilire il rito stesso perché direttamente rapportabili ad
ambiti decisamente dionisiaci - sia perché, per le stesse disposizioni ecclesiastiche, i laici
non dovevano in nessun caso occuparsi di liturgia, sia soprattutto perché, essendo la musica
l'arte che è approntata normalmente da parte di laici di volta in volta nel rito e con evidenza
immediata quella che conferisce la valenza connotativa alla celebrazione, per prima fu
chiamata a esplicare il rito; essa chiamava il fedele ancora a una partecipazione almeno
emotiva - dunque sopperiva a un difetto di comunicativa nel rito stesso - dall'altra parte
stabiliva una distinzione che contribuiva a identificare e manifestare un'appartenenza: gli
aspetti trionfalistici o mistici della musica liturgica di quest'epoca possono essere compresi
in quest'ottica. E' proprio in questa linea di "separatezza" che occorre leggere la produzione
musicale sacra-liturgica di tutto il Novecento e vederne la valenza. L'arte musicale è
chiamata a distinguersi dal mondo, mentre i modelli del gregoriano e di Palestrina
costituiscono i termini di una possibilità creativa sottratta alla sensibilità del mondo e
incanalata in un'oggettività a-sensoriale, poiché la sovratemporalità dell'esperienza musicale
poteva segnare l'idealizzazione massima di un'appartenenza.
La musica organistica ha seguito la stessa parabola, trovandosi a doversi misurare con una
serie di indicazione di comportamenti nel momento in cui si calava nel rito, del tutto
opposta alla totale libertà di cui disponeva in precedenza; se l'organista una volta aveva
potuto esplicare la sua attività in rapporto al pubblico più che al rito, in rapporto alla vita
piuttosto che alla distinzione dal mondo, introducendo la sensorialità invece di assumere la
contrizione dell'interiorità, scegliendo i tempi del vivere piuttosto che il tempo del
soprannaturale, ora doveva rapportarsi prima al rito e poi agli ascoltatori, mutuando
agogiche e atteggiamenti da indicazioni precostituite e stabilite a priori; le vicende di
posizionamento dello strumento all'interno dello spazio-chiesa (vicino all'altare e non più in
controfacciata-palcoscenico) agli albori del secolo XX indicano chiaramente il mutato
ordine di rapporti ideali.
Gli artisti che consapevolmente fecero proprie le nuove istanze trovarono ispirazione e
modelli nelle correnti tardoromantiche europee e in minima parte nel melodramma
nostrano, rispetto ai quali in ogni caso lo strumento a disposizione iniziava a trovarsi
inadeguato. Mentre da una parte il rito costringeva il musicista a temperare l'orizzonte
espressivo e logistico, parallelamente cresceva la consapevolezza e l'importanza
dell'esecuzione pubblica.
L'istituzione del concerto, momento in cui l'io musicale poteva disporre di totale libertà di
modalità esplicative, compare all'incirca in quegli stessi anni. Ciò che il musicista
realizzava nella comunicazione in concerto non collimava, se non casualmente, con ciò che
apportava alla Liturgia. La dicotomia si è resa inevitabile perché la forma mentis del
musicista era intessuta ancora di personalismo romantico e andava sostanziandosi sia della
necessità del recupero storico sia della convinzione dell'intangibilità della musica del
passato; il rito, per contro, reclamava un contenimento del sè e un adattamento dell'altro.
Neppure l'improvvisazione poteva sopperire il concetto di atto artistico, ovvero di atto
chiaramente individuato e deciso secondo un'idea formale: quando consisteva nel
rifacimento di uno stile dominante, poteva essere aspetto accessorio e complementare
dell'attività creativa, quasi un tutt'uno, una sorta di laboratorio continuo dell'unica idea
creatrice - come era avvenuto nei secoli appena trascorsi; quando si trovò ad avere punti di
riferimento in continua evoluzione e ispirazioni linguistiche contraddittorie o si dovette
legare all'esplicazione rituale o allo stile delle composizioni vocali non più legate
all'evoluzione musicale, non è poi arrivata ad acquisire una importanza propria: proprio la
problematicità nel darle una forma (ossia di un quadro di riferimento di tempi e di strutture)
ne ha assimilato l'aspetto a quello di riempimento più o meno riuscito, tutt'al più legato a
un'ispirazione momentanea, alla brillantezza della tecnica manuale o alla bellezza dei suoni
impiegati.
Quale valutazione estetica?
Tutte le polemiche fra artisti e istituzioni ecclesiastiche, ancora oggi d'attualità, si possono
ricondurre al fatto che l'abitudine romantica all'invadenza dell'io compositivo (che non deve
avere regole, non può limitarsi a casacche imposte, che non può concedersi a una
applicazione compromissoria del suo dettato, che si impone all'originalità, ecc.) risulta
immediatamente incompatibile con gli strettissimi dettati del Motu Proprio; basta scorrerne
le disposizioni per leggere un divieto via l'altro, una seria di "doveri", un desiderio di
"correggere e istruire", di esigere l'"autocontrollo", eliminare anche l'apparenza di
protagonismo (ciò che in musica è sempre stato ed è legato all'esecuzione pubblica);
addirittura, per citare un particolare, vi fu la proibizione per gli organisti di improvvisare
durante le celebrazioni, perché veniva a mancare il controllo sul musicista, mentre
comparivano i comitati che redigevano liste di proscrizione per musiche ritenute indegne
benchè tolleratissime fino a qualche anno prima. Il fatto di mettere divieti può essere letto
come un chiedere uno spirito, una convinzione, un garantirsi l'identità. In tal modo si spiega
come mai fu netta, allora come oggi, la separazione fra stili di musicisti operanti nel mondo
e musicisti di chiesa; forse è da leggere anche in questo senso la crisi di un Perosi che, se da
una parte poteva comporre come un Mascagni o un Respighi, dall'altro si sentiva costretto al
dogma palestriniano. La musica liturgica doveva essere sottratta al tempo e riportata su
binari estranei al tempo, in un'ottica di neoidentificazione in cui il compositore doveva
adeguare e manifestare la sua scelta compositiva; lo stesso canto gregoriano, che diventò la
bandiera della riforma, cos'altro rappresentava se non una garanzia di impersonalità, coralità
opposta a personalità, autocostrizione emozionale, ascesi dell'esperienza? I limiti imposti al
compositore erano ben differenti da quelli di prima: a un Bach si imponevano standard
tecnici pacificamente vissuti, a un compositore liturgico del primo Novecento si
imponevano modelli astratti dal mondo e dall'evoluzione storica.
Chi valutasse secondo la visuale dell'originalità evoluzionistica, potrebbe chiedersi se la
produzione cosiddetta ceciliana, tanto vocale che organistica, sia nata dallo spirito della
grammatica piuttosto che da quello della poesia e, in ultima analisi, se il valore estetico
sussista e in che misura.
In realtà, la musica liturgica va collocata sul piano della musica referenziale, non su quello
delle creazioni pensate per se stesse e derivate da una possibilità totale; in altri termini, non
si possono mettere sullo stesso piano valutativo la musica in tutto e per tutto espressione del
sè e la musica finalizzata a una situazione esterna. Ciascuna ha il suo statuto e i suoi ambiti
e la perfezione tecnica è ravvisabile in entrambe. E' da notare che a cavallo degli anni '30
del XX secolo, con la netta e vigorosa opposizione alla musica contemporanea nella
querelle sul "terzo stile"( né copia dell'antico, né avanguardia, ma altro) da parte dei
musicisti di punta del cecilianesimo e la relativa presa di distanza dal prepotente egoismo
dei compositori, per così dire, "laici" (che si sarebbero spinti fino all'attuale
incomprensibilità estetica), si confermò come distinzione da leggersi come strumento per
una consapevolezza di un'azione mistagogica incisiva in cui la musica doveva sottomettersi
all'azione liturgica per assecondarne soteriologicamente lo spirito, pur adottando linguaggi
in qualche modo nuovi; la triade "arte santa, vera e universale" del Motu Proprio, se oggi
appare superata sotto molti aspetti, ha costituito il solco per un invito ad una prassi della
positività della comunicazione e all'attenzione al senso della liturgia. Le stesse punte
moderne all'interno del movimento ceciliano con il loro sostanziale moderatismo,
confermano questa necessità prima della musica liturgica, ovvero quella di rapportarsi con
un insieme di persone e di non travalicarne la recettibilità.
Dunque, l'ottica di valutazione non può basarsi sul confronto con la musica "autonoma" del
Novecento, bensì sulla riuscita di un rapporto con chi usufruisce tale musica, con le
dinamiche situazionali e con la realizzazione di una istanza carismatica. Non si può negare
la bontà di forme di una messa di Refice, se si chiarisce prima che la sua collocazione nella
storia obbedisce a istanze autonome e se la si colloca sul binario che le è proprio. Ma
occorre rilevare anche che, nel persistere oggi di questa distinzione, risulta arduo trovare
maggiore autenticità in una composizione ultramoderna, il cui senso spesso è noto al solo
compositore, rispetto a una composizione in cui l'assunto è direzionato all'altro-da-se e fa
uso di un linguaggio che tende istituzionalmente alla comprensibilità. L'autenticità della
prima è indubbia nei confronti della storia, non lo è nei confronti nell'apertura ad un senso
condivisibile. La Chiesa non poteva accettare nella liturgia, allora come oggi, una musica
che portasse in sè i sintomi di una crisi del linguaggio.
Per inciso, proprio la spinta all'esplicazione consapevole e partecipata del rito ha portato
all'immissione di repertori di consumo: quello che è un linguaggio contemporaneo, fruito e
dunque pienamente comunicativo, è stato travasato all'interno delle celebrazioni, con il
corollario che il musicista colto si trova di fronte ciò che egli definisce non-cultura. Non ci
si vuole addentrare nella definizione di cultura e neppure si vuole indagare la distinzione,
oggi probabilmente necessaria, fra intus e foras, ma non si può non annotare che il
parallelismo fra l'utilizzo di linguaggi coevi non differenziati com'è stato fino a tutto
l'Ottocento, è evidente. In ogni caso, è il musicista colto a dover fare i conti con una musica,
la sua, che presenta valori intellettuali certi, e tuttavi non immediatamente decifrabili da
parte della modernità. Il problema è innanzitutto del compositore, del suo linguaggio più o
meno decifrabile e della misura con cui cerca la comunicativa.
E' chiaro che i termini diventano antitetici: se la validità estetica di una musica esista in
rapporto alla completa libertà dell'autore o alla destinazione funzionale, alla possibilità di
una condivisione o meno a priori, se debba essere denuncia esistenziale o travalicamento,
imago mundi o strumento provvisto di eloquio direzionato e direzionabile. Certo, non vi è
soluzione se si parte da un'idea storicistica ed evoluzionistica della musica, mentre dovremo
per forza di cose far nostro il principio secondo cui l'opera d'arte va giudicata solo secondo
criteri propri ad essa intrinseci, nelle condizioni in cui si condensa nell'attualità e raggiunge
l'efficacia per cui è pensata mediante dati tecnici oggettivamente valutabili. Quel che i
musicisti di chiesa hanno composto dopo il Motu proprio rappresentava sì un mondo
distinto, ma che si muoveva all'interno di forze di reciproco rispetto che non potevano far
assumere alla musica altra forma se non quella "in funzione dell'altro da sè", partecipe delle
tematiche del rito, necessariamente comunicativa e non quella dell'affermazione senza
misura del sè. Con questi presupposti, una storia della musica liturgica vocale e organistica
del Novecento può essere scritta prendendo atto della distinzione che questa produzione
musicale mantiene nei confronti di quella restante, cui non può imparentarsi proprio in virtù
dell'ancoraggio a istanze differenti. La richiesta di veicolare messaggi ha dunque imposto
una costruttività di fondo, ciò che è indubbiamente positivo, anche se, proprio in virtù della
mancanza della concessione di libertà, ha fatto sì che la musica fosse come un'eco di
musiche e stili già scritti o di musiche e stili troppo avveniristici.
L'evoluzione della musica organistica all'inizio del XX secolo.
L'originalità compositiva (in rapporto al dato precedente) è ben visibile nella produzione
organistica dei primi decenni del Novecento: il modello tardoromantico poteva offrire larghi
strumenti espressivi, mentre le osmosi fra musica laica e musica da chiesa potevano ancora
sostanziarsi di un nutrimento comune. La sensibilità dei compositori di più ampia cultura
procedeva alla liquidazione dei modelli melodrammatici per internazionalizzare il
linguaggio secondo una visione mitteleuropea. Parallelamente al linguaggio musicale,
l'organaria ha cercato di appropriarsi di standard europei sorti in tutta evidenza in relazione
al positivismo e alle innovazioni industriali del tardo Ottocento. L'aggiornamento tecnico si
imponeva come acquisizione di mezzi verso lo stabilirsi di una maggiore facilità
dell'apparato fonico in rapporto alla musica: solo in questo rapporto si spiegano le adozioni
tecniche di questo periodo e solo in un dialogo fecondo fra creatività rispettive (organistaorganaro e organista-musica sinfonica) si spiegano i risvolti fattuali che hanno animato la
musica organistica per un'ultima stagione proiettata in avanti; ciò che razionalmente poteva
migliorare la fruibilità e la costruzione di uno strumento costituiva un progredire artistico
per se stesso e andava ad alimentare l'idea di fornire all'organista più ampie possibilità e
comodità, mentre la tavolozza sonora e la ricerca di facilità combinatorie seguiva di pari
passo le ricche ed articolate musiche orchestrali d'inizio Novecento. Le carenze tecniche
costruttive dell'organaria sono stato lo scotto pagato ai metodi industriali, le cui leggi
interne necessariamente portano alla standardizzazione e alla breve durata.
La storia della musica organistica può essere letta come corollario attivo della storia della
musica più generale per i primi decenni del Novecento, fino a che la problematicità del
linguaggio si è imposta prima come disgregazione dell'io musicale e poi come naufragio
della comunicazione.
La musica organistica, come s'è detto, si indirizzava alla Liturgia, e si aprì, ben in ritardo
sulle consuetudini straniere, la strada del concerto. Fatto quest'ultimo relativamente nuovo,
poiché il concerto in chiesa come tale coincideva prima del Motu Proprio, con la
celebrazione stessa, ed eventualmente era di inaugurazione a seguito di una celebrazione.
L'istituzione del concerto continua il mito dell'arte fine a se stessa: la musica non è
funzionale a qualcosa ma è rappresentabile per se stessa, è puro spirito che non deve
conoscere restrizioni, bellezza che deve essere colta nella sua intuizione pura. Ma mentre il
musicista romantico poneva il sè autentico al centro dell'attenzione, eseguendo musiche
proprie o travisando musiche altrui, ora il musicista diventa restitutore culturale, vale a dire
esecutore di opere di altri, accontentandosi così di mettersi al posto di un altro musicista,
idealizzato e assunto come exemplum artistico. Sintomaticamente il passaggio avviene
parallelamente al fiorire dell'idealismo storicistico italiano, per il quale i fatti storici
vengono considerati nella prospettiva della "storia ideale eterna" e pertanto resi esemplari
per la conoscenza del mondo e assoluti: ogni opera d'arte è unità spirituale che non si perde
nel tempo e la riproduzione piena del passato è un ideale che si attua all'infinito; "tutti i fatti
sono storici" (Croce) e tutti i fatti sono assoluti, la storia è immanente e di conseguenza gli
accadimenti "sono opera di Dio". La cognizione di tutta la storia di un dato momento è
fondamentale perché conosce lo spirito che è stato convertito nella creazione estetica
singola e nella storia ricostruiamo l'attualità eterna dello spirito e dunque noi stessi; se
qualcosa rimane oscuro, vuol dire che mancano all'attualità elementi per rivivere
completamente l'intuizione lirica, ma ciò può essere svelato dall'indagine storico-filologica.
Tutto il passato ci costituisce e l'oggi risulta dalle connessioni che ci hanno preceduto,
mentre un qualsiasi fatto estetico storico può parlare un linguaggio eterno sovratemporale,
laddove lo spirito ne penetri l'essenza poetica.
In quest'ottica, si assistette all'esaltazione dell'esecutore virtuoso, in parallelismo perfetto
con quanto avvenuto con pianisti o direttori d'orchestra, per il quale l'aspetto restitutivo di
ripristino storico si compenetrava con l'esibizione di abilità tenciche (esecuzione a memoria,
esecuzione di brani difficili); come l'artista romantico egli poneva il sè in evidenza,
attorniandosi di un'aura di matrice superomistica che induceva effetti fascinatori (Germani,
Matthey, Yon) a continuazione dell'esempio dei grandi virtuosi ottocenteschi, con il
risultato di supportare l' interesse per l'organo mediante la spettacolarità. La novità è che il
musicista diventava progressivamente esecutore di repertori dapprima relativamente vicini
nel tempo e poi desunti in completa libertà da qualsiasi epoca e luogo. L'assolutizzare il
fatto storico musicale lo si legge anche nell'accostamento in concerto di brani di diversa
epoca, sciolti l'uno dall'altro oltre che dal presente e giustificati nell'esistere di per se stessi.
L'esaltazione del passato quale paradigma di valori eterni iniziò con l'esecuzione di musiche
la cui complessità confermava l'importanza della creazione come atto dello spirito: il
musicista poteva trovare la sua realizzazione nel solo riaccadere e vivere del riflesso di
grandiosità virtuosistica creativa, continuando - come s'è detto - rivedendo e in qualche
modo camuffando il personalismo del secolo precedente, ma soprattuto vi trovava la
persistenza dell'idea positiva dell'arte come comunicazione mentre la crisi del presente
metteva in discussione la stessa funzionalità e il senso del fenomeno artistico.
Il perdurare del modello romantico si rivelava anche nella composizione organistica, dal
momento che, seppure in misura relativamente ridotta in Italia, l'artista si completava
eseguendo musiche proprie composte per l'esibizione concertistica. Significativamente il
musicista-esecutore non concedeva, se non episodicamente, cittadinanza artistica alle
composizioni liturgiche e anteponeva la libera espansione del pensiero musicale al dettato
rituale, accontentandosi di declinare il proprio stile nell'improvvisazione occasionale. La
scrittura virtuostica e l'ampio respiro delle non molte partiture italiane da concerto dei primi
decenni del XX secolo dicono lo sforzo di apertura ai modelli europei. La valutazione
estetica di queste musiche, sganciate dal grande flusso della musica più d'avanguardia,
dovrebbe seguire più l'idea dell'esaltazione del suono organistico che non l'idea
dell'attuazione di un linguaggio in sintonia con l'evoluzione; in esse la salvaguardia della
comunicativa è stata preminente rispetto alla problematica della sperimentazione o alla
libera ricerca di nuove vie. In generale la musica organistica nella sua storia, risulta, da un
punto di vista evolutivo, secondaria rispetto alle correnti che hanno governato la storia
stessa, così la riuscita è da stabilire caso per caso in relazione all'efficacia e all'esaltazione
dei fattori organistici soggettivi ed oggettivi. Come un Reger si trovava in ritardo sulla sua
epoca, così un Vierne e così un Matthey, pure appartenendo alla stessa generazione;
nessuno è stato importante nella storia della musica e ciascuno ha trovato ispirazione in un
linguaggio arretrato sui tempi, più legato alla comunicazione condivisibile che alla ricerca
pura.
L'esecuzione storica.
Parallelamente si iniziò il percorso del recupero di tradizioni lontane nel tempo e nello
spazio con una più marcata separazione dall'evoluzione musicale, imponendo all'ascoltatore
un adeguamento a linguaggi lontani dal presente.
Questo approccio alla storia intende il fenomeno del concertismo come attuazione nell'oggi
della fruizione estetica di un brano appartenente al passato, così come avviene in generale
per l'esecuzione della musica cosidetta classica; ad esso si collega direttamente il fiorire di
studi storici che ampliano la conoscenza dei dati attorno alla creazione artistica del passato.
La filologia come raccolta di elementi che ulteriormente illuminano la comprensione
dell'opera d'arte è da vedere nella prospettiva del far rivivere il fatto storico nella sua verità,
ossia nell'assoluto spogliarsi da interpretazioni non oggettive; il contatto con il dato storico
è dunque totale; l'aderenza ai fatti è nel concreto condizionata da fattori che sembrano
inficiarne la possibilità cognitiva quanto più ci si inoltra lontano nel tempo (fonti
frammentarie, difficilmente interpretabili, contraddittorie, di carattere locale ma intese come
generali, di carattere puramente episodico, eccezioni prese come regola, ecc.); ma ciò è
visto come una carenza provvisoria e non come limite della conoscenza storica, il cui
oggetto è ideale e non intaccato dall'impossibilità di ricostruzione al lato pratico; la durata
irreversibile dell'io impedisce la ripetizione del sé (uno stesso brano non viene eseguito due
volte in maniera identica) e il divenire continuo della storia rende ipotetica qualsiasi
ricostruzione oggettiva di ciò che non è stato neppure vissuto, ma ciò non sminuisce la
sostanza dell'oggetto storico in sè, sublimizzato idealisticamente in un'aura sovratemporale,
e l'ipoteticità della sua ricostruzione viene sepolta sotto l'apparente scientificità del
ripristino.
L'io del musicista-restauratore ha il compito di interpretare ma, per quanto venga
proclamata la libertà dell'attualizzazione - come non vedervi un residuo romantico - in realtà
ha una prospettiva che è quella della libertà condizionata: tanto più l'interprete, dopo aver
indagato ogni aspetto dell'epoca, riesce a far convergere i dati nella ricostruzione esatta,
tanto più il suo operare sarà un rivelare il fatto storico, ossia un rivelare "altro" rispetto al
mondo che vive, e tanto più il suo sentire si appiattirà sul dato oggettivo, perché egli
"informa" sè di quei dati: ogni interpretazione è dunque rinuncia al sé in cambio
dell'adozione totale del dato storico. La sostituzione della personalità creatrice con quella
restitutrice è totale. Il compito dell'organista è ripresentare la storia e non crearla.
La questione si pone altrimenti quando si scende sul piano della comunicazione: il
significato di una musica si coglie quando chi ascolta prevede in qualche modo l'evolversi
del brano e realizza così una compatibilità fra la musica e il proprio universo simbolico;
laddove si presenti una comprensibilità di massima vi è anche la realizzazione di una
possibilità di interazione; ma i dettagli espressivi si illuminano quando vengono individuati,
riconosciuti e ricordati gli eventi assiomatici del brano proposto. Come vi sono musiche che
risultano organicamente strutturate in modo da simbolizzare in modo particolare un autore o
uno stile o un'epoca, così vi sono musiche di minore forza strutturale che rimangono
imprevedibili e inaspettate, soprattutto quando l'ascolto è numericamente ridotto e quando
la configurazione del suo stile è assai diversa dal vissuto dominante. In questo caso,
l'ascoltatore è invitato a "assumere informazioni" facendo propri gli stessi elementi
strutturanti- ecco le note esplicative e i programmi illustrativi ai concerti - e a fornirsi di
mezzi conoscitivi per arrivare alla percezione estetica; laddove la musica proposta è vicina a
quanto configura il mondo simbolico dall'ascoltatore non specializzato, allora la
comunicazione è più facile. Ma proprio lo scarto fra chi opera attraverso la restituzione
storica e chi ascolta - la stragrande maggioranza dei concerti d'organo offre tale
differenziale - crea un indubbio dislivello comunicativo; l'ascoltatore dovrebbe essere
esperto di quasiasi epoca e qualsiasi luogo; inoltre la mancanza del riascoltare e la
disomogeneità dell'ambito culturale non possono che creare nicchie ricettive che non
arrivano a compenetrarsi con chi ascolta e inseguono la modernità senza afferrarla. La
persistenza del fatto storico ha motivi di sussistere se alimenta l'oggi - in qualche modo è la
funzione degli evergreen organistici -, mentre chiude l'ambito a pochi cultori del museo se
ricerca il ripristino fine a se stesso e pretende un superamento delle facoltà normalmente
messe in atto all'ascolto. L'unicità d'esecuzione o il ridotto numero di ascolto di un brano o
l'ascolto di brani stilisticamente lontani fra loro o l'ascolto di brani troppo distanti nel
tempo, hanno minori possibilità di rapporti emozionali di ciò che è "moda" e raggiungono
l'obiettivo in maniera generica e spesso quasi senza lasciare tracce in chi ascolta.
Resterebbero ancora la spettacolarità e il virtuosismo esibito - ancora oggi componenti
essenziali in qualsiasi tipo di musica - a creare un ponte comunicativo più immediato e in
qualche modo ancora rispondente all'ideale di musicista esecutore provvisto di abilità
tecniche: più spesso una esecuzione giunge al segno quando ricorre a queste vie anche in
presenza di linguaggi distanti dalla percepibilità comune oppure quando gode di situazioni
privilegiate in relazione alla monumentalità e ricchezza dello strumento.
Il dilemma diventa se il musicista sia attore che riveste le spoglie di altri tempi e si limita a
rivivere il passato, o se gli sia possibile colmare le distanze culturali e far rivivere la
dimensione estetica di quei brani; e ancora, se basti percepire l'atto musicale come evento
che è artistico per il fatto che semplicemente accade o se l'atto esecutivo diventi un accadere
che si riversa nella vita, reclama la ripetizione, esige una necessità, ne ammette la
valutabilità, opera confronti e abita la sensibilità.
Quando la storia diventa un ripercorrere lo spirito, il fatto storico è in qualche modo visto
sub specie aeternitatis, considerato valido nella sua interezza e dunque, crocianamente,
giustificato perché storico: ciascun fatto passato nella sua singolarità partecipa della totalità
dello spirito e prende il valore dell'eterno nel tempo. Da ciò è derivato il ripristino di
qualsiasi fatto storico, al di là della presenza di valori tecnici oggettivi (ossia rapportati allo
stile dell'epoca). I concerti storici (le esecuzioni di musiche di epoche passate in vista di una
"conoscenza storica"), iniziati dagli anni ‘30 del XX secolo in poi, hanno sempre più
condotto i programmi verso la riproposizione di brani del passato e la riesumazione di autori
e repertori particolari. Il dato che ci interessa qui è che l'esecutore in questo caso si è trovato
ad agire in un'ottica di separazione dall'attualità, a non legare con linguaggi del presente e a
considerare l'esperienza estetica come rivisitazione di un momento passato. E' ben vero che
tale filosofia si sostanzia di alti contenuti e può far propria la posizione di chi vuole agire
nel tempo proponendo valori ritenuti veri in alternativa ad altri ritenuti meno veri, così da
indicare delle strade; l'interrogativo che ne segue è se tale azione sia necessaria alla vita, se
è richiesta e spendibile come formativa di un pensiero intinto nell'oggi e se il vero artistico
possa abitare in misura più tesa al futuro quando è in forme legate all'attualità.
Se l'ascoltatore non specializzato non ha le medesime basi cognitive delle musiche che
ascolta, o quantomeno una possibilità di commistione con il suo mondo simbolico, si
troverà ad ammirare un oggetto storico senza penetrarne l'intima essenza. La necessità del
riascoltare una musica, ciò che era dato nel passato come "stile dominante" all'incirca
sempre uguale o come dato di fatto di musiche che materialmente venivano eseguite come
repertorio, concede all'ascoltatore la possibilità di decodificare il messaggio e di
confrontarlo con il proprio universo emotivo. L'unicità di esecuzione o, ciò che è lo stesso,
la non identificazione con un mondo musicale coerente, impedisce l'attecchire di un
messaggio estetico. L'operazione dell'artista-storico (esecutore in questo caso) risulta valida
sotto il profilo culturale, sterile sotto quello della creazione del presente e di una
corrispondenza con l'ascoltatore che ha bisogno di musiche che siano emotivamente chiare
o a lui rapportabili; lo stesso fenomeno è ravvisabile nell'opera e nella classica: l'ascoltatore
non specializzato riascolta poche musiche, le più note, in cui conferma il proprio mondo
simbolico, non riuscendo ad immettervi tutte le altre perché si trova di fronte a linguaggi
avulsi dal presente o comunque di superficiale impressione.
Non di rado l'assolutizzazione automatica e acritica del passato ha portato alla
considerazione che quanto più un fatto è antico tanto più è valido: concetto che è
un'estensione del principio che un oggetto tanto più è antico tanto più è raro e tanto più è
necessario conservarlo per non far scomparire il fatto storico in sè considerato: in realtà
occorrrebbe misurare il dato musicale in ordine alla ricezione riuscita o meno, più che alla
sua datazione, spesso ridotta a particolarità culturale.
E' sintomatico il fatto che l'esecuzione di repertori del passato sia comparsa in concomitanza
con l'arenarsi della creatività dei compositori: da una parte l'offerta di musiche
solipsisticamente problematiche, dall'altra l'assenza di una funzionalità legata a una grande
concezione della musica e la stessa maniera europea di considerare la musica da un punto di
vista evolutivo, per cui la musica deve essere il risultato di un processo storico precedente
per essere originale e deve procedere per forza dal filone "colto", hanno fatto sì che il
musicista e i suoi ascoltatori - come è avvenuto in altri campi della cultura musicale - si
dirigessero verso repertori a tutta prima comprensibili, più facilmente proponibili e
all'apparenza tali da instaurare una comunicazione positiva. E' il revival della musica antica,
che manifestamente surroga uno spazio lasciato libero dalla musica moderna, quello
dell'apparente accessibilità del senso e dei linguaggi, assai più vicini all'ascoltatore di quelli
che, dal romantico all'avanguardia, esigono impegno uditivo.
La semplicità di esecuzione, l'abbondanza di strumenti antichi che si avvicinano, senza mai
raggiungerla, all'ipotesi dell'aderenza storica, la relativa semplicità di decodifica di musiche
che vivono di strutture armoniche e melodiche non troppo dissimili dal presente possono
forse giustificare un fenomeno che opera secondo una precisa scelta di non seguire
l'evolversi della musica nel tempo.
Ma, come avviene in altri ambiti culturali, tali musiche restano oggetti da museo, la cui
efficacia estetica è legata alla padronanza di adeguati elementi conoscitivi accessori e tutta
rappresa nell'idea di reperto storico da salvaguardare perché valido in sè e la cui necessità è
più spesso in ordine al conoscere che non alla esigenza estetica e alla configurazione di un
mondo simbolico.
L'elevare il dato storico a manifestazione epifanica dello spirito e la necessità di
evidenziarne ogni aspetto nell'assoluta verità hanno avuto come ulteriore corollario il
ripristino delle condizioni originarie in cui è sorto: lo strumento deve risultare in tutto e per
tutto quello che ha supportato il messaggio originale; le stesse disposizioni legislative degli
anni fra le due guerre sono il risultato dell'idealismo storicistico per cui il passato è
elemento costitutivo del presente e la conservazione si impone come mantenimento di un
passato che parla all'oggi.
Nel campo dell'organo ne è risultato che, in assenza di una visione propositiva e innovativa
del mondo musicale organistico e dunque organario -imbevuti entrambi di storicismo e non
più legati a una realtà esterna in movimento- ogni aspetto del passato è primariamente da
conservare, indipendentemente dalla possibilità reale di ripristino oggettivo del dato storico.
La mancanza di un contatto con il mondo porta con sè l'assenza di evoluzione e la
disgregazione dell'idealità: se l'organaria si è nutrita di volta in volta dei suggerimenti che
provenivano dalla musica d'uso fino all'inizio del Novecento, il venire meno di
corrispondenze con l'attualità, e quindi di imitazioni, ha fatto si che mancasse la linfa della
ricerca di suoni nuovi e che ogni organista potesse costruirsi un mondo di corrispondenze
proprio. Nelle correnti più recenti si arriva fino al rifacimento di un passato particolare,
inseguendo l'idealizzazione di un dato stumento e di un dato periodo storico, a
testimonianza di uno stacco netto con la tradizione locale ma soprattutto con una cultura
viva dominante; si creano così microcosmi autoreferenti in cui, ancora una volta, la storia
già morta precede in importanza la creazione di un presente. Né basta sostenere che il
passato può suggerire un futuro: la direzionalità in questi casi è talmente stretta che,
giocoforza, la musica che meglio ne risulta è inevitabilmente quella già scritta; e nemmeno
accadeva nelle epoche passate che una poetica partisse da imposizioni storicoorganologiche, ma viceversa era l'idea musicale nuova a cercare realizzazioni sonore. In
altre parole, in assenza di una poetica formante, si antepone l'esecuzione e la
determinazione organologica a una creatività che viene lasciata al caso fortuito e si vorrebbe
stretta in suoni che corrispondono già in se stessi a epoche passate. Il nuovo è troppo
difficilmente estraibile da modalità che non permettono l'evoluzione stessa del pensiero
musicale: un temperamento antico presuppone già in sé un limite che è già stato esperito in
tutte le sue possibilità, un suono antico è rapportato a una modalità di uso già percorsa. Più
che individuare delle strade, tali parametri sembrano suggerire una fine e una conseguente
retrospettiva museale astorica.
Il ripristino di modalità antiche nella costruzione degli organi ha obbedito al principio
secondo cui la storia è superiore al presente in modo tale che, in mancanza di un
corrispettivo referente unitario nella cultura, l'organaria può disgregarsi in imitazioni di stili
i più vari. La mancanza di elaborazione di nuove idee trova l'estrema conferma nel ripristino
costruttivo di procedimenti antichi. Laddove non esiste una tradizione omogenea forte e
laddove il principio storicistico è prevalente, il sorgere di isole autonome - organi copia,
temperamenti appartenenti ad altre epoche, ecc. - proclama tanto la mancanza di prospettive
poetiche e l'estinguersi di una vitalità, quanto il direzionarsi verso l'autoreferenzialità del
committente. Proprio tali caratteri, anziché inserirsi nel vivo della cultura odierna, sembrano
sancire ulteriormente una separazione. Il recupero della solidità artigianale, del tutto in
controtendenza con il progredire della tecnica, conferma l'identificazione nel dato storico e
il rapportarsi a epoche fissate in una perfezione ritenuta non più ricreabile con altri mezzi.
La composizione organistica più recente.
La persistenza della necessità comunicativa all'interno del rito, il ricorso a repertori
(gregoriano, polifonia) che chiudevano, pur nell'ottica di una valorizzazione rituale, alle
innovazioni linguistiche, la distinzione da ambiti culturali alternativi diventati decisamente
secolarizzati, sono tutti fattori che hanno concorso a far sì che la musica organistica
perdesse contatti con le correnti più avanguardistiche della musica cosiddetta colta. Ciò che
fino a tutto il XIX secolo era dato come dialogo e compenetrazione con l'attualità ha dovuto
fare i conti con un mutato modello di comportamenti musicali, in cui la differenza con le
ricerche linguistiche d'avanguardia si poneva come ineludibile.
Accanto a musiche ancora tardoromantiche (ma imputabili a differenze generazionali) sono
comparse musiche di ispirazione nettamente atonali o dodecafoniche. Da un punto di vista
estetico, occorre annotare come queste musiche presentino, nel nocciolo ideativo, un
retaggio romantico di autori che antepongono il sè al mondo: le ragioni tecniche sono di
sola pertinenza del musicista, la durata del brano è relativa alle regole intime della
costruzione, la comprensibilità è imputata a una deficienza dell'ascoltatore e non a una
crittografia del compositore, la riuscita è rapportata al volere del musicista e l'approvazione
dell'ascoltatore è secondaria, la composizione si pone come dato in sè e per sè e
l'inserimento nella liturgia è solo eventuale; è normale che queste composizioni si dirigano
alla sala da concerto e in ciò è ben visibile la destinazione "a sè stante" della composizione.
Non di rado si può trovare un'ispirazione religiosa generica che disegna un mondo
simbolico soprattutto personale, più che una destinazione all'interno del rito.
Se l'io del musicista pretende di farsi le regole indipendentemente dalla possibilità di
ricezione, non può pretendere però di trovare comunque adesione; la necessità di percorrere
l'assoluto autorizza la rivendicazione nei confronti della storia ma non implica
automaticamente la recettività di un senso, specie se lo scarto fra la tecnica posseduta dal
musicista, vero microcosmo estetico, e la tecnica dell'uditore si trovano su piani troppo
distanti. Addirittura neppure il "riascoltare" le musiche d'avanguardia porta ad acquistare
l'udibilità, quando ciò nel passato era fondamentale per confermare ed eventualmente
esaltare un mondo acustico vivibile.
Coloro che hanno composto per il concerto o per la liturgia utilizzando un linguaggio
aggiornato alle correnti di pensiero strutturaliste o postweberniane non hanno trovato un
inserimento pacifico nel rito e sono restate distoniche nei confronti della comunicazione: ma
ciò deriva dal fatto che il concerto e più ancora il rito si rapportano immediatamente con gli
astanti e non possono avvallare linguaggi di ardua decodifica. Nessuno può affermare con
certezza che una data composizione moderna sia ben riuscita: ciò avviene perché non c'è un
ambito di riferimento stilistico unitario e difficilmente si concorda sui criteri di valutazione.
Il problema dunque è che la modernità di questo tipo si preclude da sè il campo alla
condivisione, a maggior ragione se inserita in un rito che oggi si vuole compreso
attivamente.
E si arriva al nocciolo del problema del compositore odierno, il quale nel momento in cui
cerca la modernità (intesa come avanguardia storica) non trova comprensione, se
rimaneggia linguaggi passati si trova a operare al di fuori della storia o per una storia
particolare: il suo linguaggio sarà comunque un già fatto, un riecheggiare, un riesumare, un
manipolare materiale secondo criteri già noti. Anche il dato che il concreto operare del
musicista di una volta, fatto di tempi larghi e di mezzi solidi a disposizione, non sia più
possibile oggi per priorità pastorali e sociali della Chiesa, pone in tutta evidenza la
differenza fra le epoche storiche.
Al di là del fattore contingente, pure ammissibile, della mancanza di committenza e di
valore concreto del comporre derivante dalla mancanza di inquadramento istituzionale, il
fatto che non si componga per l'organo - per quanto nella storia, a dire il vero, non vi è mai
stato interesse editoriale vero e proprio per la musica d'organo - può derivare proprio dalla
indecifrabilità dei riferimenti nel presente: il comporre secondo l'avanguardia pone
interrogativi, il comporre secondo stili passati appartiene al superfluo. Anche la richiesta di
sottostare a modalità cogenti e quasi accessorie, mentre la formazione musicale
dell'organista e del compositore è impostata su una concezione di rispetto del dato storico
nella sua totalità o di esibizione del sé nella completa libertà, porta alla difficoltà di
combinare i ruoli fra artista e rito. La stessa incompatiblità fra grandi autori e liturgia è
spiegabile in questo senso, nel voler incanalare preventivamente una creatività che è ancora
imbevuta oggi di personalismo.
L'organista di oggi è in qualche modo un corpo con due anime, risultato di forze vettoriali
che divaricano la sua presenza fra modelli storici e incisività culturale, dettato liturgico e
coltivazione del se, spiritualità e linguaggio del mondo. Il ricomporre queste separazione è
la sfida che attende l'organista e l'organo del futuro, nel momento in cui si trovi il coraggio
di interpretare il suono e l'armonia del presente e di svincolarsi dall'eccessiva sottomissione
al passato.
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