582847680 Le interpretazioni del fascismo A lungo dominata dalle prese di posizione degli avversari contemporanei del fascismo, la discussione storica italiana sulla natura e le cause del fascismo ha attraversato una svolta significativa negli anni settanta del secolo scorso, attraverso una nuova attenzione per i risvolti sociali del fenomeno fascista. Il paradigma interpretativo della storiografia antifascista Affrontare il fascismo come questione storica significa innanzitutto tentare di rispondere a due interrogativi fondamentali: che cosa è stato il regime creato da Mussolini e perché l’Italia sia stata il laboratorio di questa nuova ideologia politica che si è diffusa in tutta Europa tra le due guerre. Per questa ragione il fascismo è stato uno degli argomenti principali della ricerca storica italiana, che ha elaborato la più solida e longeva teoria generale del fascismo. Essa si può riassumere nel concetto di “reazione”: in sintesi il fascismo sarebbe la reazione contro i due grandi sistemi politici e ideali nati nell’Europa contemporanea - il socialismo e la liberaldemocrazia - entrambi portatori di una consolidata idea di progresso. Questa reazione è stata promossa da vecchie forze tradizionali e da solidi aggregati di interessi economici allo scopo di arrestare sia l’emancipazione della classe operaia e dei lavoratori, sia l’evoluzione del sistema liberale in senso democratico. Una reazione che per affermarsi ha usato le paure e le frustrazioni delle “folle anonime”, create e messe in movimento dalla società di massa, ma che si è imposta grazie all’uso indiscriminato della forza e della violenza, senza elaborare un sistema di idee e di valori autonomo. L‘ideologia del fascismo non è altro che un’agglomerazione raccogliticcia e eterogenea del tradizionale armamentario culturale del pensiero conservatore e nazionalista. Il maggior contributo all’elaborazione di questa interpretazione è stato dato da una generazione di storici antifascisti formatasi nella lotta di liberazione nazionale e debitrice in parte non piccola delle interpretazioni del fascismo sostenute dagli intellettuali impegnati nei movimenti d’opposizione negli anni della dittatura. Tre interpretazioni fondamentali Alla formazione di questo paradigma concorsero tre interpretazioni fondamentali del fascismo, che in parte riguardavano specificamente il caso italiano, in parte tentarono di dare un giudizio generale sull’esperienza fascista tra le due guerre. La prima e la più nota è quella proposta da Benedetto Croce ancora nel fuoco della seconda guerra mondiale. «Che cosa è nella nostra storia una parentesi di vent’anni? Ed è poi questa parentesi tutta storia italiana o anche europea e mondiale?» si chiedeva il filosofo abruzzese in un discorso pronunciato al congresso di Bari del Comitato di liberazione nazionale nel gennaio del 1944. Il fascismo era dunque una parentesi nel cammino “indefessamente” progressivo di quell’Italia liberale che aveva trovato il suo momento più alto nel compromesso giolittiano, considerato da Croce un autentico capolavoro politico: quel cammino, dopo la guerra, poteva essere ripreso sotto la guida delle stesse classi dirigenti sopravvissute alla catastrofe, che si erano impegnate nel moto resistenziale. Una parentesi che si poteva chiudere, perché la “malattia morale”, di cui il fascismo era stata espressione, era stata superata e quegli ideali di libertà che si erano pericolosamente offuscati nella temperie della Prima guerra mondiale, erano riemersi, riuscendo vincitori nel terribile scontro con il totalitarismo. Questa tesi, propria del liberalismo conservatore, a cui Croce apparteneva, lasciò più di una traccia all’interno dell’elaborazione storiografica antifascista. Alimentò innanzitutto la convinzione assai diffusa che il fascismo fosse un accidente e un incidente della storia europea, e italiana in particolare, un bubbone aberrante cresciuto nell’allucinato crogiolo della Grande guerra, e che la sua storia si riducesse ai semplici atti di arbitrio e di violenza imposti da dittatori grotteschi, sorretti dalle pulsioni irrazionali di masse subalterne emerse dalle viscere profonde della società moderna. 1 582847680 In questa chiave il fascismo era, appunto, una semplice “reazione” al liberalismo e al socialismo, priva di qualunque dimensione teorica e culturale. Il filosofo Norberto Bobbio, che più di ogni altro rappresenta la tradizione dell’antifascismo laico e democratico, nel suo ormai classico Profilo ideologico del Novecento negò l’esistenza di una cultura fascista, cioè un corpus dottrinario dotato di una sua intima coerenza e di una sua originalità, in grado di collocare il fascismo tra i sistemi del pensiero politico novecentesco. All’interpretazione liberal-conservatrice si è contrapposta quella liberal-radicale, che può essere sintetizzata nella famosa formula elaborata dall’intellettuale torinese Piero Gobetti, nell’immediato dopoguerra del “fascismo come autobiografia della nazione”. Questa tesi elaborata dal giovane direttore della rivista “Rivoluzione liberale”, metteva l’accento sulla continuità tra Italia fascista e Italia liberale e manifestava un rifiuto, per così dire preventivo, nei confronti della concezione crociana del fascismo come “parentesi”. In quest’ottica, la dittatura di Mussolini era l’esito di una rivoluzione liberale mancata ed espressione di un paese arretrato e incolto, che non ha mai conosciuto istituzioni politiche effettivamente democratiche, ma ha subito un sistema di governo nel quale si sono combinati paternalismo, clientelismo, trasformismo e autoritarismo. Il fascismo si configurava dunque come un “disvelamento” delle contraddizioni e delle aporie della storia nazionale, che doveva essere collocato lungo una linea di continuità soprattutto con quell’Italia liberale che non aveva saputo opporsi alla dittatura e che ne era stata poi travolta. Anche in questo caso il fascismo è però una “reazione”: la reazione della “vecchia Italia”, che non ha esitato a scegliere la tirannide, facendo leva su quel “vizio storico” del paese, pur di impedire l’affermazione delle aspirazioni e dei valori dell’“altra Italia”, quella democratica e modernizzatrice. Da queste considerazioni ha preso corpo soprattutto tra gli intellettuali antifascisti aderenti negli anni trenta al movimento Giustizia e libertà – dallo storico Gaetano Salvemini, ai fratelli Carlo e Nello Rosselli, fondatori del movimento, a Silvio Trentin – una interpretazione del fascismo nella quale l’accento principale è stato posto sul ruolo fondamentale svolto dalle tradizionali burocrazie pubbliche nel favorire prima l’affermazione e successivamente la stabilizzazione del regime. Il fascismo è espressione di una inedita alleanza tra ceti proprietari e grandi apparati burocratici, le cui élite formavano l’oligarchia nelle cui mani era racchiuso il potere reale. Il fascismo poggiava dunque su apparati di potere ereditati dalla vecchia Italia liberale che si riconobbero e sostennero il progetto reazionario di cui era portatore, perché animati da una cultura reazionaria e da spinte autoritarie: un elemento di continuità tra l’Italia pre-fascista e quella della dittatura, che sarebbe proseguito anche in quella post-fascista. La terza interpretazione è quella elaborata dalla tradizione marxista che ha letto il fascismo come reazione di classe. Questa tesi trovò la sua sintesi più nota nella ormai classica definizione del fascismo elaborata da Georgi Dimitrov, segretario del Comitato esecutivo della Terza internazionale, secondo la quale i regimi creati da Mussolini e da Hitler rappresentavano la «dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti, e più imperialisti del capitale finanziario». Anche lo studio più attento e articolato sul fascismo elaborato dalla cultura politica comunista negli anni trenta - il famoso Corso sugli avversari scritto da Palmiro Togliatti nel suo esilio sovietico e pubblicato solo nel 1970 con il titolo di Lezioni sul fascismo, nel quale il segretario del Pcd’I elaborò la famosa definizione del fascismo come “regime reazionario di massa “ - restava intimamente convinto che il fascismo fosse il volto del capitalismo nell’epoca dell’imperialismo. Questa interpretazione fu sostenuta da una nuova generazione di storici marxisti i cui lavori scientifici uscirono tra gli anni cinquanta e settanta del secolo scorso. Come scrisse lo storico tedesco Reinhard Kuhln nel 1973 «I movimenti fascisti rappresentano, dal punto di vista della loro funzione oggettiva, la forma moderna camuffata di vesti popolari, della controrivoluzione borghese-capitalistica, e cioè quella forza politica che era in grado di fornire al capitalismo, nelle nuove condizioni dell’epoca, una nuova base di massa per il caso di una crisi grave». 2 582847680 Il fascismo come rivoluzione Proprio alla metà degli anni settanta le ricerche di Renzo De Felice e di Emilio Gentile su Mussolini e l’ideologia del fascismo, da un lato, e, dall’altro, la diffusione dei saggi su temi analoghi dello storico americano George Mosse e del francese Zeev Sternell, usciti quasi simultaneamente alla pubblicazione delle ricerche di un sociologo italiano, Gino Germani, sui rapporti tra autoritarismo e modernizzazione in Europa e in America latina, contribuirono a mettere in discussione i fondamenti stessi del “paradigma antifascista”, avviando una nuova stagione di ricerche e riaprendo il dibattito storiografico sul fascismo. Nella sua Intervista sul fascismo del 1974 De Felice, proprio sulla scorta di una attenta lettura degli studi di Mosse sulla “nazionalizzazione delle masse” nella Germania hitleriana esplicitava una nuova proposta interpretativa imperniata su due cardini concettuali fondamentali. Il primo consisteva nel rivendicare una forte distinzione tra fascismo-movimento e fascismoregime. Al primo venivano attribuiti i caratteri di un fenomeno rivoluzionario promosso dalla piccola borghesia. Il fascismo era dunque una sorta di “rivoluzione dei ceti medi”, forte di una sua autonomia ideale e politica, rispetto alla borghesia industriale e proprietaria, con cui quei gruppi sociali hanno tentato di marcare una distanza e di aprire un vero e proprio conflitto per la direzione politica del paese. Il fascismo non era stato soltanto una movimento di reazione al servizio di consolidati interessi di classe, o una semplice superfetazione delle debolezze dell’identità italiana, ma un fenomeno nuovo di mobilitazione delle “classi medie”, percorse da accentuati fenomeni di massificazione e attraversare non solo da processi di proletarizzazione, ma anche di ascesa sociale. A differenza della borghesia e del proletariato, queste ultime stavano progressivamente smarrendo quelle già scarse connotazioni di classe ereditate dall’Ottocento, ed erano sospinte da processi strutturali verso una collocazione sociale ambivalente nella quale il raggiungimento di forme di status più elevate si combinava alla progressiva trasformazione in un coacervo indifferenziato di “folle anonime”, che stava emergendo come una componente fondamentale della moderna società industriale. Le masse appaiono come un magma amorfo di “uomini senza qualità”, oscillante in permanenza tra l’integrazione passiva e una mobilitazione che non riusciva ad essere intercettata dai partiti politici formatisi nell’Ottocento attorno al grande scontro tra borghesia e proletariato. Alla fine degli anni quaranta la filosofa tedesca Hanna Arendt colse con grande chiarezza il nesso profondo che si era istiituto tra il processo di politicizzazione di questi strati sociali intermedi massificati e l’affermazione del fascismo su scala europea. I movimenti totalitari - scrisse - mira[rono] a organizzare le masse, non le classi, come i vecchi partiti d’interessi degli stati nazionali del continente, e neppure i cittadini con opinioni e interessi nei riguardi del disbrigo degli affari pubblici, come i partiti dei paesi anglosassoni. [...] Essi reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente [...] ma che per una ragione o per l’altra si sen[tivano] spinte all’organizzazione politica, pur non essendo tenute insieme da un interesse comune e mancando di una specifica coscienza classista. [...] Il risultato fu che in maggioranza [i movimenti totalitari] furono composti da persone che non erano mai apparse prima sulla scena politica. Il contributo della sociologia Ma il contributo per molti aspetti più originale alla riflessione sul rapporto tra fascismo e ceti medi per l’approccio metodologico e l’impianto teoriche lo sorregge, è stato offerto da Gino Germani, un sociologo antifascista espatriato nel 1934 e ritornato in Italia nel secondo dopoguerra. In una serie di studi di grande rilievo sul mutamento sociale e i processi di modernizzazione, pubblicati alla metà degli anni settanta, inseriva la definizione dei quel rapporto all’interno di un modello di spiegazione basato sul concetto di mobilitazione sociale. 3 582847680 La mobilitazione si verifica quando si rompono le forme consolidate di integrazione delle diverse classi garantite dalla struttura sociale perchè nuovi gruppi sociali rivendicano una integrazione in precedenza negata o aspirano a una nuova collocazione più funzionale ai loro interessi e alle loro aspettative. Questo processo, nelle società industrializzate ad alto tasso di partecipazione politica, si è tradotto storicamente in una dilatazione della conflittualità e in un accelerazione della mobilità che hanno alterato l’intelaiatura normativa tradizionale e che ha implicato «una presa di possesso di ruoli che precedentemente erano riservati ad altri settori» da parte dei nuovi gruppi sociali emergenti e una dislocazione diversa per tutti gli altri gruppi sociali. Questo fenomeno è appunto quello che Germani chiama “mobilitazione”: lo spostamento repentino e traumatico di interi gruppi sociali rispetto alla loro tradizionale collocazione sociale che entrano in movimento alla ricerca di un “nuovo ordine” in grado di garantire una nuova reintegrazione soddisfacente. Il fascismo, dunque è per Germani la forma politica della mobilitazione dei ceti medi che inizialmente coesiste e confligge con movimenti e ideologie politiche che esprimono altri paralleli processi di mobilitazione, primo fra tutti quello del proletariato industriale: la mobilitazione delle classi medie innescata negli anni venti dal rifiuto della nuova dislocazione sociale entrava in conflitto con quella della classe operaia e puntava decisamente a “smobilitarla” per ristabilire quella gerarchia degli status sociali che era minacciata dalla ascesa delle “classi inferiori”. Lungo questo crinale interpretativo, “reazione” e “rivoluzione” si sono dunque miscelate nella concreta esperienza storica dei fascismi europei tra le due guerre, contribuendo però a generare regimi che hanno assunto i connotati di una delle risposte possibili alle contraddizioni della società moderna. Germani dunque colloca il fascismo nella modernità, definendolo come una forma specifica dell’autoritarismo moderno che ha attraversato tutto il XX secolo, muovendosi in una direzione parallela a quella seguita da De Felice. Il secondo cardine della proposta interpretativa defeliciana riguardava infatti la ridefinizione dei rapporti tra fascismo e modernità, anch’esso strettamente connesso a una delle più feconde intuizioni emerse dalla ricerca sociologica sul totalitarismo, cui appunto Germani aveva dato uno dei contributi più significativi. Secondo De Felice, il fascismo con i suoi nuovi miti politici intessuti di attivismo, di spiritualismo antimaterialista, di fanatismo nazionalista e di esaltazione della forza, non rappresentava un ritorno al passato, quanto piuttosto un’altra modalità di declinazione della modernità, del tutto imprevista, fino alla fine del XIX secolo. In questa chiave l’ideologia del fascismo non si configurava come inutile orpello posticcio e strumentale di un movimento e di un regime asservito al grande capitale, ma rappresenta l’orizzonte ideale all’interno del quale il nuovo soggetto sociale costituito dalle classi medie definiva se stesso in alternativa alle altre classi e modellava la sua autorappresentazione. Socialismo e liberalismo erano insieme respinti perchè espressione di una concezione materialistica e conflittuale della storia e del mondo, a cui la piccola borghesia contrapponeva il mito della nazione “astratta e trascendente”. La nazione assumeva i caratteri di un luogo simbolico nel quale si sintetizzava la costituzione di una società organica, nel quale la forza dello stato era in grado di superare, annullandoli, i due elementi disgregatori prodotti dal capitalismo moderno e dal socialismo: la concorrenza e la lotta di classe. Statalismo autarchico e corporativismo costituivano le coordinate attraverso le quali veniva creata una società non conflittuale, pacificata, nella quale l’autonomia dei soggetti sociali era trasfigurata nella rappresentanza istituzionalizzata degli interessi, sotto l’egida di uno stato “etico”, depositario e promotore dei “fini superiori” della nazione: una nazione in armi, protesa ad affermarsi come potenza nella lotta incessante tra i popoli e gli stati, che aveva avuto il suo atto di nascita dell’esperienza della Grande guerra. Questo “nuovo ordine” non aveva nulla a che vedere con la società tradizionale premoderna, perchè assumeva come irreversibile la massificazione della società e si proponeva, attraverso una 4 582847680 sorta di nazionalizzazione autoritaria, di fornire una risposta originale a quella domanda di integrazione sociale dei nuovi ceti sociali prodotti dall’industrializzazione e dalla modernizzazione, che costituiva il problema cruciale del mondo contemporaneo e di cui pluralismo democratico e modello sovietico costituivano le alternative. In questo senso, tornando a Germani, il fascismo ha rappresentato una risposta alle sfide della modernità: e negli anni trenta questa risposta, di fronte al collasso dell’economia capitalista nel 1929, e, prima, al fallimento della “rivoluzione europea” tentata dal comunismo bolscevico nel dopoguerra, sembrò destinata al successo. 5