Testo con note - Archivio Rivista AIC

Seconda Università di Napoli - Facoltà di Giurisprudenza
Convegno
Regioni ed enti locali dopo la riforma del titolo V della Costituzione fra attuazione e ipotesi
di ulteriore revisione
Caserta, 10 e 11 aprile 2003
***
Intervento programmato
Le variabili istituzionali del “multilevel system of government”: tendenze devolutive
in alcune esperienze dell'Europa occidentale
di Marina Calamo Specchia, straordinario di Diritto Pubblico Comparato, Università di Bari
Sommario: 1. Articolazione e domaine del contributo. - 2. Devolution /dévolution, decentramento, regionalismo,
federalismo: questioni di lessico o scelte di politica istituzionale? - 3. Sistemi devoluti tra autonomie
strutturali e autonomie funzionali. - 3.a. Le autonomie funzionali: il riparto delle competenze e la
partecipazione al procedimento di revisione costituzionale.1. Il criterio distributivo e il “verso” delle
competenze legislative. - 3.a. Segue. 2. La partecipazione degli enti substatali al procedimento di
revisione costituzionale. - 3.b. Le autonomie strutturali: il bicameralismo come principio di
rappresentanza delle territorialità. - 4. Il principio di “unità nella diversità” quale elemento comune
nei sistemi a multilevel government e sua influenza sul riparto funzionale di competenze.
1. Articolazione e domaine del contributo
Il momento storico che ci vede parti principali sullo scenario costituzionale europeo nell’ideale
rappresentazione del processo di integrazione comunitaria e di emersione di un costituzionalismo
transnazionale è quanto mai proficuo terreno di confronto per tentare non una consueta
comparazione per affinità (compito del comparatista è quello di mettere a confronto realtà
tradizionalmente e storicamente comparabili1) bensì per differenze, cercando di individuare i nessi
di conflittualità configurabili nella comparazione di esperienze pur astrattamente inconciliabili,
perché basate su presupposti e snodatesi su percorsi storico-culturali assai differenti, ma che
consentono, nonostante le diversità d’origine, di enucleare un comune trend evolutivo della forma
di Stato sotto il profilo dell’articolazione dei livelli territoriali di governo, così da superare l’iniziale
discrepanza dei punti di partenza.
Un dato primario e comune da cui muovere per l’attuale riflessione è il seguente: non v’è Stato
europeo che corrisponda, oggigiorno, alla versione classica dello Stato unitario accentrato, che ha
nella Francia giacobina e napoleonica il suo emblematico modello.
Le strutture tradizionali dello Stato subiscono una duplice tensione che si muove in senso
opposto ad opera dell’altrettanto duplice spinta centrifuga rappresentata e dai processi devolutivi e
dall’integrazione comunitaria che, insieme, rappresentano una (pre)potente forza di mutamento per
le istituzioni nazionali: gli ordinamenti statali divengono, pertanto, arena di tensioni e conflitti la cui
ricomposizione è affidata da un lato, alla dimensione sopranazionale, quale nuovo momento di
ricostituzione dell’unità di indirizzo politico-economico attraverso i progressivi trasferimenti di
competenze alle istituzioni europee e il complesso intreccio normativo prodotto dall’integrazione
comunitaria e dall’altro, alla dimensione del multilevel system of goverment che, attraverso le
asimmetrie normative e istituzionali, rappresenta il più efficace strumento di istituzionalizzazione
/stabilizzazione degli elementi di disomogeneità (economici, etnico-culturali, storico-linguistici,
1
G. Lombardi, Premesse al corso di diritto pubblico comparato, Milano, Giuffrè, 1986, passim.
1
territoriali) i quali riassumono gli emblematici cleavages che attraversano – da nord a sud e da est
a ovest – la società civile contemporanea2.
L’interna diversificazione normativo-strutturale-territoriale degli ordinamenti giuridici è divenuta
l’approdo di un latente ma continuo processo di trasformazione che ha interessato tanto gli stati
unitari quanto le esperienze federali del continente europeo: ragionando in un’ottica comparativa,
nell’ambito dell’ordinamento statale coesistono una pluralità di componenti territoriali che
instaurano con il potere centrale molteplici relazioni che superano sovente i limiti tracciati dai
principi del decentramento meramente amministrativo-funzionale per accostarsi a forme-tipo prefederali, proto-federali, se non di federalismo apparente, ma comunque rientranti nella categoria
del decentramento di tipo istituzionale - territoriale. In questa ottica non va trascurato il forte
impatto prodotto dallo sviluppo delle autonomie locali e regionali sulla trasformazione dell’assetto
dello Stato unitario: esempio emblematico e noto è la grande ondata riformista del decentramento
in Francia dei primi anni Ottanta che ha innescato un radicale processo di trasformazione non solo
della forma di stato ma soprattutto della concezione stessa di democrazia (dalla configurazione del
sistema democratico nel suo insieme alla identificazione dei livelli differenziati di governo quali
espressione della democrazia partecipativa, su base funzionale e istituzionale), processo di
globale modernizzazione del complessivo sistema costituzionale che, superato il ciclo delle “lois
Defferre” che hanno tradotto in concrete misure legislative il grande progetto riformatore del primo
settennato mitterrandiano, rappresentando un étonnant elemento di rottura con la tradizione
unitaria repubblicana ottocentesca, apre un nuovo capitolo di riforme che ha come obiettivo quello
di rafforzare la logica dei trasferimenti di competenze, della contrattualizzazione e della
responsiveness degli attori locali creati dalle “lois Defferre”.
Tale apertura non è estranea ad altra prospettiva di riforma che ingloba un più ampio ventaglio
di fenomeni, quali la globalizzazione, il processo di costituzionalizzazione europea e
transnazionale, la crescita del rilievo europeo delle regioni, le influenze promananti dall’evoluzione
delle grandi democrazie europee verso formule di tipo federale o a regionalismo avanzato: queste
spinte alla trasformazione sistemica riscontrabili in via generale, in Francia si caricano di peculiari
significati se rapportate alle più recenti vicende politico-istituzionali che hanno interessato
l’ordinamento costituzionale, alludendo in particolare alla ricomposizione della frammentazione
territoriale (legge sulla intercommunnalité del 1999), alle rivendicazioni da parte di regioni
ultraperiferiche (Mayotte, Polinesia) di una maggiore autonomia decisionale e gestionale, alla
comparsa di statuti speciali che hanno creato dei veri e propri “territori sovrani “ (come la Nuova
Caledonia) in seno alla Repubblica, che resiste ancora nella sua “unité et indivisibilité”, allo “choc
ideologique”3 rappresentato dal recente ampio trasferimento di competenze dallo Stato alla
Corsica, che realizza un vero e proprio governo regionale rafforzato dall’attribuzione del potere
normativo primario (sebbene in via sperimentale), cui ha fatto eco la prevedibile estensione di
simile grado di regionalizzazione anche al territorio metropolitano e d’oltremare attraverso la
revisione dei titoli XII e XIII della Costituzione della V Repubblica, pur permanendo i limiti connessi
alla conformazione del diritto costituzionale francese, poco permeabile all’introduzione di un
decentramento avanzato che comporti delle asimmetrie istituzionali e amministrative tra enti del
medesimo rango (sebbene tale limite più formale che materiale sia stato agevolmente bypassato
dalla prassi legislativa, avallata dalla giurisprudenza costituzionale, di creare enti territoriali sui
generis).
Lungi dal configurarsi come atto puntuale nel tempo, il decentramento politico-amministrativo
detiene una vis espansiva che si identifica anche nell’esperienza francese – più di tutte legata al
fenomeno dell’astrazione concettuale risalente nel tempo alle teorizzazioni pre-rivoluzionarie – in
un processo dinamico e trasversale, traducentesi in un forte impulso al cambiamento che postula
un adattamento delle istituzioni ai disequilibri politico-istituzionali dell’organizzazione pubblica (è di
Michel Crozier l’affermazione «Si l’État central ne ch’ange pas, la décentralisation perd l’essentiel
de sa vertu»). Il processo devoluzionistico o di decentramento in senso ampio è dunque visto
come uno dei “motori” della trasformazione istituzionale di un sistema politico-costituzionale.
2
Y. Mény, Istituzioni e Politica, Rimini, Maggioli, 1995, pp. 5ss.
L’espressione è di H. Portelli, Etat, organisation territoriale: de la «réforme» aux évolutions constitutionnelles, Les
cahiers de l’Institut de la Décentralisation, n. 5, juin 2001, p.8 (lo studio si trova pubblicato anche sul sito internet: www.
Idecentralisation.asso.fr/PDF/chiersdecentralisation/les).
3
2
Le considerazioni che seguiranno nascono da una serie di interrogativi – che subito si
propongono – tanto impellenti per il giurista quanto pressante si manifesta “la fuga dal centro”
innescata dal processo di devolution, laddove per centro si intenda lo Stato nazionale che la
tradizione giuspubblicistica liberale ci ha consegnato: in che termini è possibile ancora parlare di
sovranità statale (dello Stato centrale) e di principio di unità repubblicana? In che misura è
possibile individuare degli elementi comuni alle prescelte esperienze europee di multilevel systems
of government che possano contribuire all’identificazione di un modello devoluzionistico unitario?
Vale ancora il principio della unitarietà dell’indirizzo politico legislativo? I processi devoluzionistici in
corso di realizzazione sul versante europeo investono il piano delle funzioni o anche quello delle
istituzioni? E’ possibile cogliere dal criterio del riparto delle competenze elementi in ordine alla
precisazione della natura giuridica degli enti decentrati quali enti (quasi) sovrani? In che modo la
strutturazione degli enti territoriali decentrati incide sul processo di integrazione comunitaria?
Quando il processo devoluzionistico si trasforma in “motore” di promozione dei diritti di
partecipazione e delle libertà fondamentali?
La trattazione che mi appresto ad illustrare non ha la pretesa di fornire una “secca” risposta ai
suesposti interrogativi, ma piuttosto di tracciare una riflessione “orientata” e per alcuni aspetti
“nuancée”, sia per la non esaustività delle argomentazioni tracciate sia per la difficoltà di dare
forma “definitoria” compiuta al processo devoluzionistico ancora in fase di assestamento in alcune
delle prescelte esperienze costituzionali, tra cui spiccano la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia:
piuttosto l’intento che mi propongo di conseguire è quello di individuare, sulla base dei dati
ricavabili dai sistemi a multilevel government consolidato (federali o regionali), alcuni snodi
problematici ricorrenti nei sistemi di confronto (tipologia degli assetti devolutivi; partecipazione dei
livelli di governo agli organi di decisione dello Stato centrale e /o ai procedimenti di revisione
costituzionale).
Le riflessioni che di seguito intendo sviluppare si articolano in tre parti:
in una prima parte, movendo dalla variabilità semantica riscontrata in alcune
esperienze europee che si andranno a considerare (Francia, Gran Bretagna,
Spagna, Belgio, Svizzera, Germania, Austria), si procederà allo screening di alcuni
concetti-chiave del multilevel system of government al fine di verificare, sulla
scorta dei principali orientamenti dottrinari e giurisprudenziali – ove esistenti – in
materia, se le differenze siano solo di ordine lessicale o si rapportino a un più
ampio “pluralismo dei concetti”; essendo il Convegno di Studi dedicato
espressamente alla riforma regionale italiana, una precisa scelta metodologica mi
impone di toccare per cenni l’analisi di tale esperienza, cui numerosi autorevoli
contributi sono dedicati;
in una seconda parte si analizzeranno alcuni tipi di assetti devolutivi, con la
necessaria avvertenza che la tipologia che si viene illustrando, poiché si riferisce a
formule e istituzioni proprie di un fenomeno in evoluzione (il “processo
devoluzionistico”), non può di certo ritenersi esaustiva;
una terza e ultima parte sarà dedicata all’individuazione di un principio
“unificatore” delle variabili istituzionali e funzionali del multilevel government: il
principio di unità (da noi corretto come principio di “unità nella diversità”) quale
chiave di lettura dell’articolazione pluralistica degli ordinamenti democratici e
decentrati prescelti.
Il terreno della nostra indagine si rivela, pertanto, accidentato sia per la variabilità dei concetti
che per le asimmetrie delle soluzioni istituzionali e funzionali adottate dalle esperienze
costituzionali di riferimento.
2. Devolution /dévolution, decentramento, regionalismo, federalismo: questioni di lessico
o scelte di politica istituzionale?
Sinergia, dinamismo e trasformazione sono elementi essenziali e tipici dei contemporanei
sistemi costituzionali: una delle convinzioni più diffuse è quella che identifica la stabilità temporale
di una Costituzione con la sua elasticità ossia con la duttilità delle sue prescrizioni ed istituti e con
3
la capacità di adattamento alle circostanze imposte dai mutamenti storici, tale che sia possibile
rinnovare il patto con il popolo.
Se è pur vera questa capacità di “autorinnovamento del sistema”4, in grado di rintracciare in sé
stesso le linee della sua evoluzione (esaltando il ruolo creativo della giurisprudenza), non mancano
tuttavia concrete esigenze di innovazione che conducono a dar vita, in presenza di sistemi di
governo dotati di Costituzioni rigide, se non proprio a nuove Carte costituzionali, a processi di
revisione costituzionale che investono tanto il versante della forma di stato – relativo alla
distribuzione del potere di decisione politica – che quello dei tipi di stato – concernente un’ampia
gamma di relazioni: la distribuzione territoriale del potere di indirizzo politico, il rapporto sovranità
/territorio, le relazioni tra il titolare della sovranità e le istituzioni preposte al suo esercizio – .
Soprattutto il secondo contesto, quello inerente alle revisioni costituzionali incidenti sulla
distribuzione territoriale del potere, è fonte di problemi interpretativi, giacché l’ambito di riferimento,
ossia i tipi di stato, risente di un debole grado di capacità classificatoria, testimoniata dagli sforzi
definitori della dottrina che giungono a negare qualunque distinzione tipologica tra decentramento,
federalismo e regionalismo, considerati ciascuno un diverso – sebbene gradualisticamente diverso
– modo di atteggiarsi dello Stato contemporaneo. Occorre quindi impegnarsi in uno sforzo
definitorio teso ad individuare, attraverso la precisazione di principi, istituti e assetti del governo
territoriale, la linea di confine che separa concettualmente gli ordinamenti policentrici unitari e i
sistemi decentrati basati sulla pluralità di ordinamenti giuridici e sulla distribuzione territoriale del
potere di indirizzo politico5: questo sforzo di identificare diversi, se non nuovi, parametri definitori
può essere condotto parallelamente alla consapevolezza che comuni trends evolutivi influenzano il
federalismo e il regionalismo e le reciproche interferenze con la forma di stato.
Per comprendere sino a che punto le questioni di interpretazione lessicale si riverberano sulle
scelte di politica costituzionale, occorre intendersi sull’esatto significato di alcuni concetti giuridici
che di consueto vengono impiegati dagli studiosi del diritto costituzionale per indicare fenomeni
normativi, strutturali e funzionali tra loro gradualmente differenti.
Movendo da una premessa di ordine teorico, tra la varietà dei modelli che identificano tutti un
dato tipo di organizzazione statuale ripartita in più livelli di governo territoriale, il termine
“decentramento” è quello che rispetto agli altri, nella specie stato “federale” e “regionale”, assume
una colorazione “neutra”, potendo indicare indifferentemente tanto la devoluzione di potere
normativo primario agli enti substatali, governati da istituzioni politicamente responsabili, quanto la
mera ripartizione di compiti eminentemente amministrativi tra l’autorità centrale e le autorità
periferiche.
In buona sostanza, il decentramento indica una formula generale, ma variamente graduata da
un massimo (conferimento di potere normativo primario, coinvolgimento degli enti territoriali nella
funzione di revisione costituzionale e nella funzione legislativa nazionale mediante la
rappresentanza politica nelle seconde camere) a un minimo (attribuzione di funzioni amministrative
o di competenze meramente esecutive) di ripartizione delle tradizionali funzioni statuali tra il centro
e la “periferia”: tale concetto assume un significato “rivoluzionario” se contrapposto al modello di
Stato unitario accentrato nel quale l’unità dell’indirizzo politico trova riscontro nella unitarietà dei
suoi canali espressivi, vale a dire la legislazione e l’amministrazione. Nella scienza costituzionale e
amministrativa il termine decentramento ha una polivalenza semantica, distinguendosi un
decentramento politico, che implica l’esercizio da parte di un ente territoriale di un indirizzo politico
autonomo mediante la propria legislazione, da un decentramento amministrativo, cui è estranea
l’idea di autonomia politica e che si concretizza in un processo di derivazione di poteri
dall’apparato amministrativo centrale; o ancora distinguendosi un decentramento istituzionale (o
autarchico) dal decentramento burocratico, implicanti il primo una distribuzione di funzioni tra enti
locali e Stato ed il secondo la ripartizione del potere all’interno di una stessa unità organizzativa
(ad. es. un Ministero).
I tipi di Stato che si basano al loro interno su di una articolazione in più ordinamenti parziali,
corrispondenti agli enti substatali, la cui validità è territorialmente limitata rispetto all’ordinamento
4
G. Rolla, L’autonomia costituzionale delle comunità territoriali. Tendenze e problemi, Torino, Giappichelli, 1998, p.
5
G. Rolla, L’autonomia costituzionale delle comunità…, cit., p. 4.
3.
4
complessivo che estende la sua efficacia sull’intero territorio e verso tutti i cittadini6, sono
normalmente identificati negli stati federali e stati regionali: questi due tipi di stato 7 evocano sotto il
profilo dell’evoluzione storica, elementi di tensione politica in quanto strettamente rapportati alla
questione della rappresentanza in seno alle istituzioni centrali (nella specie parlamento),
richiamando le polemiche generatesi in seno alle storiche Costituenti sulla configurazione delle
seconde camere, o camere “federali”: per citare un esempio di federalismo storico, ai Framers 8
della Convenzione di Filadelfia, dopo aver accolto il principio repubblicano – nonostante le
insistenze di Hamilton, unico delegato che guardava con favore alla monarchia inglese –, toccava
la scelta, dettata dalla coesistenza dei tredici Stati, per una repubblica federale, nonostante la
posizione di alcuni, come George Read del Delaware, che propendevano per una soluzione che
“azzerasse” gli Stati, ritenuti focolai di discordia, facendoli confluire in un’unica, ampia società civile
organizzata; una volta aperta la via alla trasformazione dell’originaria Confederazione in Stato
federale, la seconda scelta che si imponeva era quella del criterio della rappresentanza delle entità
territoriali federate: e la rappresentanza equa, nella sua connotazione non democratica, appariva
«un altro conflitto che non poteva essere risolto se non con un compromesso unilaterale»9. Anche
in Italia, la scelta tra modello federale e modello regionale si colora di significati politici: è nota la
polemica in seno all’Assemblea Costituente sulla questione regionalistica che ha visto contrapporsi
i liberali, su posizioni antiregionalistiche, i democristiani, garanti della libertà locale e l’estrema
sinistra che, esclusa dalla coalizione governativa, si schierava a favore dell’autonomia regionale10.
In particolare l’idea di una Camera delle Regioni fu avanzata anche durante i lavori preparatori
della Costituzione italiana: la proposta fu formulata alla commissione dei ’75 dall’on. Ruini, il quale
riteneva che una volta «introdotta la figura delle Regioni» questa, dovendo fungere da
«coordinatore e mediatore fra gli interessi dei nuovissimi enti», sarebbe entrata di diritto a far parte
della composizione del Senato11. La questione di una Camera delle Regioni è stata
successivamente riproposta nel progetto di revisione della Costituzione italiana del 4 novembre
1997, decaduto per mancata approvazione parlamentare, il cui articolo 89 proponeva un Senato
articolato su base regionale, attribuendo a ogni Regione minimo quattro senatori (tranne a Molise e
Valle d’Aosta, rispettivamente due e uno) e ripartendo i seggi, in ogni ente regionale, in
proporzione alla popolazione risultante dall’ultimo censimento12.
Secondo una tradizionale impostazione teorica, lo Stato federale si configura come «una forma
di organizzazione politica che comporta la garanzia costituzionale dell’autonomia degli enti
territoriali posti anche in grado di concorrere alle funzioni statali»13. La collocazione del federalismo
nell’alveo del costituzionalismo moderno si riaggancia al processo di affermazione dello Stato
liberale, che vede nella ripartizione territoriale del potere una delle sue massime estrinsecazioni,
accanto al principio dei poteri divisi. Nella sua matrice liberale il principio federalistico comporta,
dunque, una giustapposizione dello Stato federale agli Stati membri, in reciproco rapporto di
separazione ed equiordinazione: l’archetipo di siffatto modello è la Costituzione nordamericana del
XVIII secolo che coniuga la garanzia dell’unicità dello Stato con il pieno riconoscimento
dell’autogoverno degli enti territoriali, mediante la costituzionalizzazione della divisione “verticale”
6
A. Anzon, I poteri delle regioni dopo la riforma costituzionale. Il nuovo regime e il modello originario a confronto,
Torino, Giappichelli, 2002, p. 4.
7 Alcuni autori considerano la distribuzione verticale del potere come un elemento per identificare una data forma di
stato (A. Pizzorusso, Corso di diritto comparato, Milano, Giuffrè, 1983, p. 139), altri preferiscono invece inquadrarlo tra i
tipi di stato, ritenendo che la natura accentrata o decentrata del potere attraversi le varie forme di stato, quale che sia la
natura del rapporto governati-governanti (C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, Cedam, 1976, pp. 1511ss.).
Noi aderiamo a quest’ultima impostazione.
8 Lett.: “Costituenti”, giacché molti dei personaggi che contribuirono con il loro pensiero alla “fondazione” del nuovo
Stato costituzionale e che vanno per questo qualificati come Founder Fathers, tra i quali spiccano John Adams, Samuel
Adams, Tom Paine e Thomas Jefferson, non figurano fra i delegati alla Convenzione di Filadelfia.
9 R.A. Dahl, Quanto è democratica la Costituzione americana?, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 11.
10 L. Paladin, Diritto regionale, Padova, Cedam, 1985, p. 10.
11 Atti Assemblea Costituente, 19 settembre 1949, p. 349.
12 G.E. Capuzzi, I modelli per un raccordo tra parlamento nazionale e regioni nel più recente dibattito politico, in G.
Recchia, R. Dickmann, Istruttoria parlamentare e qualità della normazione, Padova, Cedam, 2002, p. 118. L’articolato
dibattito, recepito nella fase istruttoria della Bicamerale, testimonia la difficoltà di elaborare un progetto condiviso in
merito al raccordo parlamento /regioni: in particolare inadeguati sono risultati sia i riferimenti alle esperienze del Senato
spagnolo e del Bundesrat tedesco sia la concezione della rappresentanza degli interessi territoriali in bilico tra
rappresentanza politica e istituzionale (ivi, p. 117).
13 G. de Vergottini, Stato federale, in Enc. del dir., p. 831.
5
dei poteri (rectius: competenze) tra Stato centrale e Stati membri, in modo che a ciascuno siano
attribuite le materie su cui legiferare e svolgere i compiti amministrativi senza possibili reciproche
interferenze (c.d. sistema a federalismo competitivo o dual federalism).
Anche il modello regionale tende a “scomporre” il quadro competenziale tra lo Stato e gli enti
regionali in modo tale da evitare i conflitti di competenza (secondo un principio coniato per l’assetto
delle istituzioni centrali ma valido anche nei rapporti con le istituzioni territoriali: separated
institutions sharing powers) propendendo, pertanto, per una strutturazione “duale” dei rapporti tra
centro e periferia: ne discende che la «contrapposizione tra modello di stato federale e modello di
stato regionale» è fortemente sfumata e non rappresentano «elementi di discrimine né la diversa
qualificazione delle autonomie, né i criteri di attribuzione delle competenze, né la titolarità dei poteri
residui, né la pretesa carenza di competenze giurisdizionali, penali, internazionali a favore delle
regioni, né l’assenza della seconda camera “federale” e la pretesa mancata partecipazione delle
regioni alle funzioni statali… La differenza fra i due modelli convenzionali è dunque soltanto
quantitativa non qualitativa, poiché di regola nello stato definito convenzionalmente federale il
volume delle funzioni legislative, amministrative e giurisdizionali e degli ambiti di competenza
assegnati dalla Costituzione agli enti territoriali è più ampio e consistente di quello presente negli
stati qualificati come regionali» 14.
Sembra quindi che per l’ampio grado di autonomia conferito agli enti territoriali in alcune
esperienze costituzionali europee a “regionalismo avanzato” come la Spagna o l’Italia, il sistema
regionale, tradizionalmente inteso, si accosti a forme federal-tipiche: difatti la formula federale
sarebbe assimilabile a quella definita regionale, in quanto non esisterebbe un forma di Stato
federale distinto da quella regionale, ma un insieme variabile di fenotipi identificabili
gradualisticamente, nel senso che la differenziazione tra le dette due tipologie si radicherebbe sul
piano della graduazione quantitativa del potere politico attribuito in concreto agli enti territoriali
interni, non sul piano sostanziale, negando la qualificazione di enti sovrani agli Stati membri. Se è
vero che riconoscendo natura sovrana agli stati membri si accentuerebbe la divaricazione dello
stato federale rispetto a quello regionale, alle cui articolazioni territoriali viene riconosciuta natura
autonoma, ossia la dotazione di poteri derivati e diversamente limitati dal potere centrale, in realtà
la dottrina ha messo in evidenza come la prima premessa può adattarsi alla forma storica di Stato
federale, quella originata da un processo centripeto (per il quale partendo da stati originariamente
sovrani la Costituzione federale identificherebbe il patto consensualmente stipulato tra stati sovrani
con possibilità di secessione e potere di veto sulle leggi ed atti federali – tesi antifederalista di
Calhoun); mutando prospettiva, sulla scorta della considerazione che l’origine degli stati federali
può essere il prodotto di un processo centrifugo (come accaduto nel 1993 in Belgio), prende
consistenza l’orientamento che, avvicinando progressivamente la figura dello stato federale allo
stato regionale, inquadra il primo quale variante dello «stato unitario nella forma dello stato
politicamente decentrato su base territoriale»15 oppure quale mera articolazione territoriale del
decentramento politico distinguendosi dallo stato regionale solo per la diversa forma di governo 16
(e l’elezione diretta dei Presidenti delle regioni introdotta dalla riforma italiana del 1999 mostra la
tendenza di alcuni ordinamenti giuridici a eliminare anche quest’ultimo elemento di distinzione).
Argomentando dai requisiti essenziali tradizionalmente ascritti alla sovranità si traggono, inoltre,
ulteriori elementi a sostegno della natura non sovrana delle articolazioni territoriali substatali degli
ordinamenti federali: in particolare, i poteri degli stati membri non sono originari perché:
la loro fonte di legittimazione è la Costituzione federale;
la loro posizione rispetto all’ordinamento federale non è né indipendente, essendo
variamente condizionata, né impermeabile, essendo il diritto dello Stato federale
complessivo direttamente applicabile e prevalente sui diritti nazionali statali (artt.
VI cost. USA, 31 GG e 49 cost. svizzera);
l’autonomia costituzionale degli stati membri non è equiparabile a quella
riconosciuta agli stati nazionali dal costituzionalismo moderno, che identifica la
Costituzione nell’atto supremo di fondazione di un nuovo “ordine costituzionale”
avente in sé la propria legittimazione (in particolare, gli atti “costituzionali” degli
stati membri risultano variamente condizionati e limitati in virtù dei principi di
14
G. de Vergottini, Diritto Costituzionale, Padova, Cedam, 1997, p. 104.
A. Anzon, I poteri delle regioni dopo la riforma…, cit., p. 7.
16 M. Volpi, Stato federale e Stato regionale: due modelli a confronto, in Quad. cost., 1995, p. 367ss.
15
6
omogeneità, art. 28 GG, o di sovrapposizione, art. 6 costituzione elvetica, o di
speciali forme di approvazione previa verifica di conformità federale (artt. 51 e 172
Cost. svizzera, revisionata nel 1999).
Il recente processo di devolution /dévolution, attuato nel Regno Unito e nella Francia per la
Corsica e i Territori d’oltremare, rientra tra le forme di decentramento politico-istituzionale e si
impone all’attenzione per la peculiarità delle soluzioni organizzative prescelte.
Preliminarmente va ribadito che i termini devolution e dévolution non sempre sono
interscambiabili con le espressioni “stato federale” e “stato regionale”, mentre sono parzialmente
fungibili con i termini “decentramento” e, nei limiti delle precisazioni che seguiranno, “federalismo”.
Il concetto di devolution e quello di decentramento sono in stretta relazione, se si muove dal
presupposto che il decentramento /trasferimento di poteri a organismi subnazionali eletti a
suffragio popolare diretto e subordinati al parlamento di Westminster costituisce il nucleo centrale
della devolution. In questo senso ampio la nozione di devolution includerebbe il processo di
regionalizzazione, o meglio la regionalizzazione si porrebbe, lungo la linea ideale in cui si svolge il
processo di devolution, quale preciso segmento identificato dal trasferimento ad assemblee
territoriali elettive di funzioni amministrative: e in questa sua peculiare valenza il processo di
regionalizzazione in Inghilterra non si discosterebbe molto dal regionalismo francese o dal
decentramento amministrativo, inteso quale modello teorico praticato nella gran parte delle
esperienze europee come precipua tecnica di distribuzione delle attribuzioni tra il potere centrale e
le entità territoriali periferiche. Non mancano, del resto, alcuni autori britannici che pongono una
relazione di identità tra devolution (in senso ampio) e regionalizzazione17. Questa è anche la
recente prospettiva emersa dalla leadership neolaburista nei programmi elettorali del 1997 e del
2001, nei quali l’elemento nazionalistico territoriale caratterizzante il processo di devolution
subnazionale (Scozia, Galles e Irlanda del Nord) si coniuga alla valorizzazione della dimensione
regionale, fatto nuovo per la tradizione britannica del governo locale che affondando le sue radici
in epoca medievale non ha mai conosciuto la dimensione territoriale regionale18. Le ragioni che
stanno alla base del mancato sviluppo nel sistema britannico di un livello di governo territoriale
intermedio analogo alla regione sono state individuate dalla dottrina in una serie di “storici fardelli”
«di una unità nazionale acquisita da lungo tempo sotto una forte monarchia di orientamento
centralizzante» cui ha fatto pendent un’analoga politica di governo centrale «delle pressioni
unificanti e centralizzanti della sovranità del Parlamento, della responsabilità dei Ministri di fronte al
Parlamento, e del principio funzionale di ripartizione dei compiti; della centralizzazione dei processi
di decisione economica e fiscale; del ruolo non operativo del governo centrale e dei suoi
collegamenti con corpi funzionali, autorità locali e organizzazioni non governative; della forza
tradizionale del governo locale; e della mancanza di una forte coscienza regionale che possa
fornire la base per una comunità politica regionale e, quindi, di un governo regionale»19. Il recente
White Paper “Your Region, Your Choice: Revitalising the English Region”, pubblicato nel maggio
2002, conferma il nuovo corso della politica laburista e supera le antiche difficoltà nella prospettiva
di una “rivitalizzazione” delle unità territoriali sia sotto il profilo funzionale, integrando i trasferimenti
di poteri decisionali alle costituende unità di governo locale, sia sotto il profilo istituzionale,
istituendo delle regional assemblies elettive e completando il processo di “rolling devolution”20.
Se, invero, il processo di devolution può essere compreso solo se osservato nel suo
dinamismo, ossia come “processo” che richiama l’analoga costruzione friedrichiana del
“federalizing process” realizzata sia mediante il passaggio alla “decisione maggioritaria” sia
attraverso il trasferimento distributivo di funzioni (e in questo senso è evidente la simbiosi con
l’analogo concetto di decentralisation), in più, rispetto al modello di organizzazione strutturale
decentrato, la devolution ha come elemento caratterizzante il riconoscimento di “autonomie”
costituzionali fondate sull’istituzionalizzazione di identità nazionali: tutto ciò ha innescato un
processo di trasformazione costituzionale del Regno Unito che implica degli effetti di irreversibile
17 A. Coulson, Devolving Power: The Case for Regional Government, London, Fabian Society, 1990; K. Donnelly, G.
McQuail, Regional Government in England, London, The Constitution Unit, 1996.
18 A. Torre, Il «Territorial government» in Gran Bretagna, Bari, Cacucci, 1991, p. 21.
19 G.W. Jones, Regioni e regionalismo in Gran Bretagna, in Le Regioni, 1984, p. 384.
20 A. Torre, Dalla devolution classica alla regionalizzazione dell’Inghilterra. I. Profili costituzionali, in c.s. in Dir. Pub.
Comp. ed Eu., 2003.
7
mutamento dei tradizionali rapporti tra aree territoriali improntati al principio della supremacy
parlamentare. Quando comparve per la prima volta, in uso negli anni settanta nel dibattito politico
sulla scia degli scritti del Mackintosh, “the question of devolution” non ha mai implicato
un’accezione del termine in senso di separazione dal governo di Londra: piuttosto, la nozione di
devolution racchiudeva l’idea di realizzare «a Scottish parliament or assembly which would
exercise a limited range of central government powers principally affecting Scotland. Other powers
would remain within the competence of Westminster, which would retain overall control»21,
riportando i termini della questione all’estensione dei poteri dell’assemblea scozzese nel rispetto
del principio della supremazia del parlamento di Westminster. Nel 1997 i due White papers
(Scotland’s Parliament e A Voice for Wales), presentati dal governo laburista il 24 luglio,
prospettavano una soluzione asimmetrica per i due paesi, tenuto conto del diverso percorso
storico-politico e culturale, indicando per la Scozia un parlamento dotato di potestà legislativa
esclusiva su alcune materie tacitamente individuate (criterio residuale) e di una limitata potestà
impositiva e un esecutivo responsabile politicamente dinanzi al primo (prefigurando per la Scozia
una forma di governo parlamentare), mentre per il Galles un’assemblea con poteri normativi
secondari e un esecutivo, nella forma del comitato, competente sulle medesime materie: in
particolare lo Scotland Act, pur ponendosi come fonte di legittimazione, insieme alle constitutional
conventions britanniche per le materie ivi non espressamente disciplinate, non ha inteso sovvertire
il principio della supremacy del parlamento britannico, che conserva i poteri “impliciti” (capacità
“riespansiva” della sua competenza in rapporto al conseguimento di obiettivi unitari anche in
materie devolute: la sezione 27.7 dello Scotland Act stabilisce che «This section does not affect
the power of the Parliament of the United Kingdom to make laws for Scotland»). A tal proposito, in
realtà, alcuni dubbi sono stati sollevati dalla dottrina in ordine al permanere, con riferimento al
parlamento scozzese, della pienezza della sovranità del parlamento di Westminster: in primo
luogo, è dubbio che il parlamento di Westminster possa con un atto legislativo modificare in senso
riduttivo o abrogativo lo Scotland Act, a meno che non segua la medesima procedura della sua
approvazione sottoponendo la legge al voto popolare, con l’effetto di trasferire la sovranità dal
parlamento al popolo22; in secondo luogo, il giudizio di compatibilità delle leggi scozzesi, affidato al
Judicial Committee del Privy Council, con la ripartizione delle competenze stabilita nello Scotland
Act, sembra aver causato un vulnus nel principio dell’onnipotenza del parlamento britannico, per
cui il parlamento di Westminster ha «the right to make any laws it wishes», nel senso che, qualora
il comitato “di controllo” assegnasse la materia riservata alla competenza della Scottish law, al
parlamento di Westminster sarebbe preclusa la facoltà di intervento23: il varco per l’introduzione di
un sindacato sui conflitti di attribuzione tra il parlamento centrale e il parlamento territoriale sembra
essersi ormai aperto!
Concludendo, il rapporto “teorico” del processo devolutivo britannico con il federalismo di
stampo nazionalistico e dissociativo (ad es. il Belgio) trova un punto di contatto nel “verso
centrifugo” della spinta vettoriale che nei sistemi politici caratterizzati da cleavages etnico-culturali
e storico-terrritoriali conduce all’esaltazione del localismo e del particolarismo – sebbene tale “fuga
dal centro” tenda poi a ricomporre le conflittualità (politiche-sociali-etniche-culturali) a livello
territoriale scomponendo l’unitaria forza centrifuga in tanti flussi centripeti corrispondenti alle aree
territoriali istituite – nonché in alcuni casi alla emersione di movimenti eversivi. Pertanto, in
comune con la nozione di federalismo inteso quale fenomeno “fotografia” delle trasformazioni
sociali (nella classica visione storica, da Pufendorf a Kant, il federalismo evoca una vocazione
universalistica del mondo che riunisce autogoverno e partecipazione degli enti decentrati in una
sintesi unitaria24), la costruzione teorica della devolution ha natura ”dinamica”, ossia i fenomeni di
cui si discute si configurano come “processi” di fuga dal centro che rompono l’evoluzione
istituzionale che ha portato alla formazione degli Stati liberali, nella versione unitaria o federale,
21 J. Brand, J. Mitchell, Home Rule in Scotland. The Politics and Bases of a Movement, in J. Bradbury, J. Manson
(Cur.), British Regionalism and Devolution. The Challenges of State Reform and European Integration, London, J. Kinsley Publications, 1997, pp. 35ss.
22 V. Bogdanor, Devolution: Decentralisation or Disintegration?, in The Political Quarterly, 1999, p. 187.
23 V. Bogdanor, Devolution: Decentralisation…, cit., p. 188.
24 Significativamente si interroga sulle accezioni del termine “federalismo” M. Albertini, Nazionalismo e federalismo,
Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 79ss.; secondo l’A. «Con il nome federazione si intendono oggi le cose più disparate…Il
che comporta il negare che il federalismo corrisponda a un tipo particolare di organizzazione dello Stato…Nella sua
accezione generica la parola federazione è poco più che un sinonimo di associazione» (ivi, p. 79).
8
secondo un andamento centripeto, invertendo quel processo storico di centralizzazione indotto
dall’affermazione del welfare state. In questo senso è possibile stabilire un trait d’union tra il
federalismo per dissociazione e il processo devoluzionistico in atto nel Regno Unito: se, però, il
riferimento è al federalismo “centripeto” non sembra che l’istituzione di un parlamento scozzese
con legislazione primaria, che configura una forma di governo a tendenza parlamentare per la
Scozia, abbia prodotto una trasformazione del Regno Unito in sistema federale o “quasi-federale”,
ma piuttosto una estensione del decentramento, prima pensato in termini amministrativi, verso
forme più complesse di decentramento politico, avendo tra l’altro il disegno devolutivo posto in
essere una “delega” di poteri asimmetrica (e non estesa all’Inghilterra) e non avendo introdotto una
divisione dei poteri analoga a quella tipica dei sistemi federali. Configurandosi, infine come
processo, non sono prevedibili gli sviluppi futuri della devolution: non è escluso che la stessa si
collocherà in un quadro istituzionale diverso e che sfugge ai tradizionali principi di strutturazione
dei poteri, come inducono a riflettere alcune proposte maturate in ambienti politici, quali la
sostituzione della Camera dei Lords con una Camera delle Regioni e la riforma regionale
attualmente in corso per l’area territoriale dell’Inghilterra, completando quel processo di
superamento della visione anglocentrica, propria della fase thatcheriana (non a caso è di quegli
anni l’abolizione del Great London Council), nella prospettiva dell’ulteriore sviluppo della
multidimensionalità interna del Regno Unito.
Più singolare può apparire l’accostamento di due nozioni quali la britannica “devolution” e la
francese “dévolution”: si tratta di due espressioni che vengono impiegate per indicare, la prima il
processo di trasformazione costituzionale del sistema britannico prima sommariamente descritto,
la seconda il processo di progressivo riconoscimento di autonomia costituzionale, nella duplice
forma di autonomia statutaria e normativa, degli enti territoriali connotati da specificità storiche,
culturali e linguistiche (Corsica, COM, DOM). Alcuni tratti comuni ai due fenomeni possono, invero,
così sintetizzarsi:
anche nell’accezione francese, come nel Regno Unito, il termine dévolution viene
impiegato per indicare un processo devolutivo di trasferimento di funzioni e di
istituzione di strutture organiche destinatarie delle competenze “delegate”;
anche in Francia, come nel Regno Unito, la fonte di legittimazione della dévolution
è una legge del parlamento;
anche in Francia, come in UK, il procedimento di realizzazione della dévolution
presenta degli irrigidimenti procedurali, essendo preceduto o seguito da una
consultazione referendaria;
anche in Francia, come in UK, i poteri devoluti alle assemblee territoriali hanno un
carattere evolutivo, che permette di intravedere un futuro, di progressivo sviluppo
dell’autonomia;
anche in Francia, come in UK, la riforma avrebbe un effetto “terapeutico” diretto a
mitigare le spinte secessioniste e dotare di più ampi poteri di autogoverno entità
territoriali caratterizzate dalle precitate specificità25.
Nell’esperienza di governo devoluto del Regno Unito si è realizzato, pertanto, un “ritorno al
passato”, restituendo ai parlamenti scozzese, gallese e nordirlandese (se si eccettua per
quest’ultimo la recente battuta d’arresto dovuta all’inasprirsi degli storici cleavages politico-religiosi)
i loro antichi diritti di autogoverno. Il processo di devolution si colloca nel solco tracciato dalla
tradizione britannica aliena dal coltivare l’uniformità delle aree territoriali, ciascuna delle quali
riposa su di un’antica quanto particolare storia: ad onta del nome, il Regno Unito non ha mai
considerato l’uniformazione territoriale come fondamento del principio di unità (che trova solida
base in altre fondamentali istituzioni tradizionali, quali la Corona). Nel novembre 1998 il parlamento
di Westminster, attraverso una triade di Acts (Scotland Act, Government of Wales Act e Northern
Ireland Act), si è impegnato in un processo riformatore che non risulta inquadrabile nelle classiche
categorie europee del federalismo /regionalismo, realizzato attraverso il trasferimento ai parlamenti
territoriali (assemblee monocamerali elette a suffragio universale diretto) del potere di decisione in
materia economica, sociale e culturale.
25
In tale ultimo senso G. Poggeschi, La devolution in Scozia, in Le istituzioni del federalismo, 1998, p. 957.
9
A questa multidimensionalità europea del governo territoriale si connette la problematica dei
rapporti tra la Francia metropolitana e l’oltremare e, all’interno del territorio metropolitano, tra la
Francia continentale e la Corsica: che il termine dévolution sia ormai entrato nel linguaggio
giuridico, è testimoniato dalla sua ricorrenza nella decisione del Consiglio costituzionale, relativa
alla riforma dello statuto corso del gennaio 2002, che ha impiegato questo termine riferendolo
espressamente ai “trasferimenti di competenze” .
La delicata querelle dell’oltremare affonda le sue origini nella tradizione colonialista dell’Impero
di Napoleone III prima e nella fase di decolonizzazione avviata dapprima timidamente dagli
esecutivi della III Repubblica ed indi in maniera più decisa con la svolta della IV Repubblica, il cui
avvento segna per le ex-colonie l’avvio di una profonda riorganizzazione istituzionale: compare,
difatti, per la prima volta in un testo costituzionale l'espressione DOM (Départément d'Outre-mer),
una categoria di collettività territoriale che riunisce le «quatre vieilles» colonie della Guadalupa,
Martinica, Réunion e Guyana; a tutte le altre colonie viene attribuito lo statuto di TOM (Territoire
d'Outre-mer), in particolare i territori delle Terre Australi e Antartiche francesi, la Nuova Caledonia,
la Polinesia e il Madagascar26.
Il processo di dévolution nell’oltremare nella nuova veste originata dalla riforma costituzionale
del marzo 2003 investe, pertanto, due ordini di rapporti, il primo relativo alle collettività (COM) e il
secondo ai dipartimenti (DOM) d’oltremare, questi ultimi facenti parte del territorio metropolitano:
da un lato, è stata abrogata la categoria dei TOM, sostituita da quella dei COM (Collectivités
d’outre-mer), ammessi ad una forma di asimmetria istituzionale interna modulabile su concrete
esigenze di specificità; dall’altro è fatto salvo il titolo XIII che si applica alla Nuova Caledonia e che
disciplina il suo statuto minimo, pur rinviando alle leggi organiche e ordinarie l’attuazione statutaria.
L’outre-mer francese, sia esso collegato o meno al territorio metropolitano come nel caso dei
DOM, ha costituito un terreno di fecondo dibattito istituzionale tra i sostenitori della tesi
assimilazionista e i sostenitori dell’autonomia istituzionale di detti enti territoriali, che ha
accomunato tra le sue fila indifferentemente esponenti delle forze politiche di destra e di sinistra. In
questo quadro, lo statuto dipartimentale diviene il compromesso tra i due blocchi e l’allineamento
tra l’evoluzione istituzionale dei dominî francesi d’America e l’evoluzione istituzionale della
metropoli ha sempre rivestito un valore simbolico, nel senso che l’acquisizione dello statuto
dipartimentale implicava l’adesione ai principi repubblicani (tra cui la fedeltà al diritto comune
metropolitano) sino alla recente riforma del dicembre 2000, con la quale si è realizzata l’auspicata
differenziazione statutaria dei DOM rispetto agli enti territoriali metropolitani, che comporta
numerosi tratti di dissociazione rispetto agli istituti regolati dal diritto comune: in particolare
l’istituzione di un Congresso, che riunisce gli eletti alle assemblee locali (regionali e dipartimentali)
e la previsione di istituti di democrazia diretta locale sono entrati, ormai, a pieno titolo nel diritto
positivo francese. Viceversa, il particolarismo istituzionale previsto dall’art. 74 a favore dei TOM si
fonda sul principio di autodeterminazione27 e su particolari forme di adattamento legislativo, sino a
L'obiettivo delle forze politiche dominanti alla Costituente del '46 era di dotare l'Oltremare – la cui fedeltà alla
Francia era stata esemplare durante il conflitto mondiale – di una forma di autoamministrazione dei popoli che si
fondasse sull'uguaglianza dei diritti e dei doveri e che creasse delle strette relazioni tra la Francia metropolitana e quei
territori di varia etnia nel segno di una comune cittadinanza, quella francese: nonostante le intenzioni emerse alla
Costituente volte a sostenere una politica di incentivazione delle aspirazioni locali si è affermata una netta prevalenza
della politica assimilazionista. Va, tuttavia, ribadito che né a livello costituzionale, né a livello legislativo è data alcuna
definizione che serva a tracciare una differenza giuridica tra DOM e TOM Rispetto alla Costituzione del '46, la
Costituzione del '58 subordina esplicitamente l'adozione per i DOM di misure di adattamento di carattere legislativo e
amministrativo richieste dalla loro particolare situazione: il testo dell'art. 73, rispetto alla precedente formulazione, è più
restrittivo perché pone l'accento sulla necessità che gli adattamenti di disciplina debbano essere giustificati da oggettivi
presupposti connessi alle peculiarità dei detti dipartimenti. Dunque i DOM sono dipartimenti a tutti gli effetti, come tali
soggetti alle leggi della Repubblica francese, il cui statuto è adottato con legge ordinaria; viceversa i TOM sono degli enti
territoriali sui generis, associati alla Repubblica francese, e dotati di un ordinamento particolare, adottato con legge
organica, che tenga conto degli specifici interessi, sempre nell'ambito dell'interesse generale della Repubblica francese.
27 Il suddetto principio ha natura costituzionale essendo previsto dall'art. 53, III comma, della Costituzione della V
Repubblica, ai sensi del quale «nessuna cessione, scambio o annessione di territorio è valida senza il consenso delle
popolazioni interessate». L’interpretazione estensiva (operata dal Consiglio costituzionale nelle decisioni n. 75-59 del 30
dicembre 1975, a proposito dell’autodeterminazione delle isole Comores, e n. 85-196 dell’8 agosto 1985, sullo statuto
della Nuova Caledonia) dell’art. 53 – la disposizione si riferisce testualmente solo all’ipotesi di scambio o cessione di
territori e non alla secessione – ha ampliato la portata della norma, fissandone nei termini seguenti il contenuto del
terzo comma: a) è costituzionalmente possibile la secessione di un territorio; b) la secessione deve essere preceduta da
una consultazione delle popolazioni interessate. Si è, in tal modo, introdotto a pieno titolo il diritto alla secessione come
26
10
giungere, come per la Nuova Caledonia, a formule di souveraineté partagée, implicanti
l’attribuzione di competenze normative primarie in domaines tassativamente enumerati.
Fattori storici, sociali e culturali hanno contribuito a differenziare in origine lo statuto dei TOM e
della Corsica, da un lato, e dei DOM, dall’altro: se nei TOM società millenarie hanno visto l’arrivo
della dominazione europea e in Corsica la cultura e le tradizioni italiane dominano dal XIII secolo al
1769, anno di inizio della dominazione francese, i DOM, se si eccettua lo sterminio delle
popolazioni caraibiche nell’epoca post-colombiana, sono stati popolati in piccola parte
dall’emigrazione europea e in gran parte da deportazioni africane e indiane. I TOM e la Corsica
sono stati storiche colonie di popoli con una spiccata identità, che hanno avuto da sempre
l’obiettivo di ottenere uno regime giuridico progressivamente elaborato sulla differenziazione:
di regime legislativo: le leggi della Repubblica francese sono applicabili solo
attraverso misure di adattamento;
di regime istituzionale: i TOM e la Corsica (quest’ultima a partire dal 1991) hanno un
particolarismo istituzionale che si snoda attraverso la previsione di organi legislativi, nei
quali trovano espressione le rappresentanze dei gruppi autoctoni, di un Congresso, di un
esecutivo territoriale;
delle regole di produzione del diritto: i TOM hanno un regime di compétences
partagées, mentre la Corsica un regime di sperimentazione normativa nella forma della
“delega” parlamentare o governativa di materie alla competenza regolamentare dell’ente
per un periodo di tempo determinato.
Tutto ciò ha comportato che nell’originaria stesura della Costituzione del 1958 il regime giuridico
dei TOM e della Corsica è stato edificato sulla “diversità” (storica, culturale, istituzionale), mentre
quello dei DOM sull’eguaglianza, nella sua declinazione del “trattamento differente di situazioni
differenti”: il risultato è che se per la Corsica, i TOM e i Pays d’outre-mer esisteva un regime
giuridico particolare, i DOM erano dotati di statuti giuridici uniformi ai dipartimenti metropolitani,
sotto riserva di speciali adattamenti normativi.
Sotto il profilo della specificità istituzionale, i quattro dipartimenti d’oltremare (Guyana, Réunion,
Martinica e Guadalupa) si inscrivono nel solco tracciato dall’art. 73 della Costituzione francese del
’58, che riconosce loro il particolarismo legislativo e istituzionale, garantito da misure di
adattamento, e in quanto regioni “ultraperiferiche” ai sensi dell’art. 299-2 del TA vengono integrate
all’Unione europea. Il trattamento giuridico peculiare di cui sono oggetto i DOM non può spingersi
sino al riconoscimento del diritto a un’organizzazione peculiare ai sensi dell’art. 74 della
Costituzione, riservato ai TOM: la legge quadro sull’evoluzione dei territori d’oltremare del 13
dicembre 2000 evidenzia la tendenza allo scollamento tra lo sviluppo del regionalismo oltreoceano
e la situazione nel territorio metropolitano, cui si accompagna un’apertura di orizzonti a molteplici
formule statutarie. Secondo le intenzioni manifestate da Christian Paul, deputato dell’oltremare,
all’Assemblea nazionale il 10 ottobre 2000, il processo di riforma che ha investito i DOM avrebbe
dovuto seguire due tappe, in primo luogo un potenziamento delle misure di decentramento e in
secondo luogo l’adozione di statuti speciali in relazione alle esigenze istituzionali di ciascun DOM.
In tale prospettiva, la legge del 13 dicembre 2000 rompe gli schemi tradizionali della uniformità
statutaria (ad eccezione dell’adattamento legislativo) tra enti territoriali metropolitani e DOM,
evidenziando la dissociazione tra statuti metropolitani e DOM ed estendendo la creatività
istituzionale, storicamente riservata ai TOM, anche ai DOM. Se la legge del 13 dicembre 2000
determina il trasferimento delle competenze che realizza la prima tappa dell’evoluzione statutaria
dei DOM, essa fissa solo le condizioni che consentono il passaggio alla seconda tappa di tale
processo, che si articola seguendo lo schema:
-
elaborazione di un progetto di statuto di competenza degli eletti locali dipartimentali e
regionali riuniti in Congresso, che delibera su tutti i nuovi trasferimenti di competenze dallo
elemento peculiare dello statuto derogatorio dei TOM: la conclusione è pacifica, non solo considerando che la portata
dell'art. 53, III comma, è limitata ai territori d'oltremare, ai quali è consentito alle condizioni che precedono di sortir de la
République, ma anche in considerazione del fatto che quando si è trattato di avvalorare le aspirazioni secessionistiche
della Corsica, territorio metropolitano, il Conseil si è chiuso nel guscio sicuro di un'interpretazione formalistica del testo
costituzionale, nella quale si radica il nucleo forte del dogma di peuple français (sul punto si consenta di rinviare a M.
Calamo Specchia, I TOM alla resa dei conti: la questione della “Nouvelle Calédonie”, in Dir. pubbl. comp. ed eu., 1999,
pp. 1363ss.).
11
-
Stato al dipartimento e alla regione interessata; la proposta viene trasmessa alle
assemblee locali e comunicata al governo centrale;
consultazione popolare, ad iniziativa del governo, sulla proposta di evoluzione statutaria.
Tutte le forme di articolazione territoriale del potere statale più su indagate – dalla formula
neutra del decentramento alle formule politicamente indirizzate dello stato federale e regionale, ivi
comprese le recenti esperienze di governo devoluto britannica e francese – sono altrettanti
sottoinsiemi di un unico grande insieme costituito dal principio pluralistico, la cui variabilità
semantica è stata sovente discussa in dottrina: difatti, il pluralismo può essere inteso in senso
verticale, ed allora il riferimento è alla teoria dei poteri divisi, che risale al Montesquieu, accolta
dalla Dichiarazione dei Diritti del 1789, il cui art. 16 così recitava «ogni società in cui la garanzia
dei diritti non è assicurata né la separazione dei poteri determinata non ha costituzione»; oppure il
pluralismo può assumere un andamento orizzontale ed essere riferito all’individuo, investendo il
concetto di libertà individuale nelle sue poliedriche manifestazioni prima fra tutte la libertà di
pensiero e d’opinione, fondamento di un pluralismo culturale, come si evince dall’art. 21 della
Costituzione italiana del ’48, dall’art. 20 della Costituzione spagnola del ’78, dall’art. 4 del
Grundgesetz del ’49 – nella triplice forma della libertà ideologica e di culto – e qui è evidente la
reazione all’esperienza totalitaria nazista – e dell’obiezione di coscienza –, dall’art. 11 della
Dichiarazione dei diritti del 1789 recepita dalla Costituzione della Quinta Repubblica e soprattutto
dall’interpretazione fornita dal Consiglio Costituzionale francese (sent. n. 271 dell’11 gennaio 1990)
che definisce il pluralismo come «le principe, au sens Kantien du terme, de la démocratie, c’est à
dire le point de départ logique d’où se déduit l’ensemble de l’organisation sociale, culturelle,
politique, constitutionelle».
Con riferimento al multiculturalismo legato alla dimensione etnico-religiosa e territoriale, nel
senso di luogo ove si stanziano le minoranze appena menzionate, mentre la Francia rimane
ancorata ad un’idea chiusa di Stato nazionale, le coeve esperienze europee sono aperte
all’integrazione, come si evince da una serie di principi accolti nelle Carte costituzionali, tra i quali
la tutela delle minoranze linguistiche (art. 6 Cost. it.) che, nel caso in cui sono localizzate in
determinate parti del territorio nazionale, accedono all’autogoverno (art. 143 Cost. spagnola del
’78; art. 3 Cost. belga), o trasfusi nella giurisprudenza costituzionale, com’è avvenuto con la
decisione della Corte Costituzionale italiana del 18 ottobre 1995 n. 440 che, seppure con
riferimento alla libertà religiosa, ritiene indispensabile nell’odierna comunità nazionale la
convivenza di «fedi culture e tradizioni diverse». Al contrario in Francia, patria prima teorica e poi
politica dello Stato-nazione nel senso ristretto del termine, dove l’omogeneità culturale si traduce in
una identità di razza, lingua, religione e costumi, l’eterogeneità etnico-linguistica si identifica con le
tendenze centrifughe contrarie al principio di unità ed indivisibilità della nazione; tale è
l’interpretazione del Consiglio Costituzionale resa nello storico arrêt del 9 maggio 1991 n. 290 sulla
legge di riforma dello statuto della Corsica: il Consiglio, chiamato a verificare la costituzionalità
dell’art. 1 del progetto di revisione dello statuto relativo al popolo corso, ha dovuto pronunziarsi sul
valore giuridico di siffatto concetto, in quanto istituzionalizzato in una legge28; analoga
28 In tale pronuncia il Conseil ha seguito due serie di argomentazioni. Innanzitutto ha recisamente affermato il valore
costituzionale del concetto unitario di popolo francese, richiamandosi a molteplici disposizioni di rango costituzionale,
sussunte tutte nel bloc de constitutionnalitè: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, i Preamboli alle Costituzioni
del 1946 e del 1958, nonché l’art. 3 Cost. del ’58, testi che considerano il popolo francese sia come categoria unitaria sia
come il solo depositario della sovranità. Inoltre il Conseil, al fine di chiarire la matrice del concetto giuridico di popolo
francese, si è richiamato alle costituzioni storiche, ma senza citarle espressamente: il riferimento è alle costituzioni del
1793, 1795, 1848, 1875, che attuano l’identificazione popolo sovrano/universalità dei cittadini francesi. E’, dunque,
innegabile che con l’affermazione del valore costituzionale del concetto di popolo francese, il Consiglio Costituzionale ha
voluto chiarire che spetta al potere costituente – non al potere costituito, nella specie il parlamento – stabilire eventuali
articolazioni al suo interno: secondo tale impostazione, il legislatore ha ecceduto i limiti delle sue attribuzioni
regolamentando una materia di competenza costituzionale. In secondo luogo, il giudice costituzionale ha censurato la
norma in esame sotto il profilo della violazione del principio della unità ed indivisibilità della Repubblica contenuto nell’art.
1 Cost. (così come revisionato dalla legge cost. 4 agosto 1995 n. 880), in base al quale il popolo francese è costituito da
tutti i cittadini francesi senza distinzioni: poiché per sua essenza la sovranità è indivisibile, è necessario che il soggetto
giuridico che la esprime non sia passibile di differenziazioni al suo interno (ad esempio per origini, sesso e così via),
essendo i cittadini posti, in relazione all’esercizio del potere sovrano, su di un piano di parità. Il Consiglio Costituzionale,
richiamandosi ai principi che regolano le modalità d’esercizio della sovranità e dichiarando l’illegittimità costituzionale
12
interpretazione è stata seguita nella decisione del 99-412 DC, 15 giugno 1999 sulla ratifica delle
Carta europea lingue regionali o minoritarie dichiarata non conforme alla costituzione per
violazione degli artt. 1 e 2 (principio di unità e indivisibilità e principio dell’uniformità linguistica)29.
Come si evince agevolmente dalle precedenti riflessioni, la linea di demarcazione che dovrebbe
separare concettualmente nozioni come decentramento, Stato federale, Stato regionale e Stato
“devoluto” (nuovo fenotipo traente origine dalle recenti trasformazioni costituzionali del Regno
Unito) è tutt’altro che univoca: il principio strutturale che presiede la ripartizione delle competenze, i
rapporti di collaborazione tra livelli territoriali di governo, la partecipazioni alle istituzioni centrali (in
particolare la “quota” di rappresentanza in seno alle assemblee parlamentari) sono comuni,
variando gradualisticamente, alle molteplici esperienze sinora considerate: così che la collocazione
categoriale diviene sul piano strettamente giuridico un esercizio dogmatico, rivelandosi
estremamente utile sul piano politico. Lo stesso tendenziale avvicinamento di categorie e di
concetti realizzato dalla dottrina costituzionalistica e comparatistica, con il conseguente
superamento dell’originaria dicotomia Stato unitario /Stato composto cara alla teoria liberale, è
sintomo evidente dell’incessante processo di trasformazione dei tradizionali orizzonti concettuali.
La concretezza dei fenomeni di cui si discute va, pertanto, individuata nella perenne tensione
tra la tendenziale fissazione di un ordine “che deve durare” nelle coordinate spazio /tempo e la
intrinseca capacità di adattamento dello stesso alle situazioni contingenti dettate dalla prassi
sociale e politica: anche in questo caso, la prefigurazione astratta di modelli giova poco alla
comprensione di fenomeni per loro natura flessibili e orientati al futuro.
3. Sistemi devoluti tra autonomie strutturali e autonomie funzionali
La tendenza alla progressiva erosione di un sistema di amministrazione a connotazione
fortemente centripeta, di tradizione napoleonica, già palesatasi in epoca risorgimentale, si
manifesta con decisione nel secondo dopoguerra come reazione a quell’accentramento
burocratico, cui si imputava l’appiattimento delle energie locali, ed all’uniformità di trattamento
giuridico delle diverse comunità territoriali che, a causa della multiformità di situazioni geografiche,
economiche e culturali, avrebbero tratto maggiori stimoli allo sviluppo con l’instaurazione di
ordinamenti specifici e differenziati, adattati alle esigenze locali.
Sotto il profilo storico-empirico il decentramento30 rappresenta una delle più ricorrenti – anche
se non esaustiva – manifestazioni del principio pluralistico, e risulta strettamente, sebbene non
univocamente, connesso con la connotazione democratica degli assetti costituzionali
contemporanei: la battaglia per il decentramento, difatti, va di pari passo con l’affermazione delle
autonomie locali, intese come centri di interessi territorialmente localizzati che evidenziano un
elevato indice di democratizzazione degli attuali sistemi di governo, i quali mirano, secondo una
tendenza naturale, a far gestire gli affari locali o direttamente dagli interessati o dai loro
rappresentanti.
Va tuttavia ribadito che il decentramento amministrativo perde la sua connotazione tecnica di
mera formula organizzatoria ed assurge a indice di democraticità di un sistema nel momento in cui
si connette al principio autonomistico, che si estrinseca nella titolarità da parte delle comunità
minori di un proprio indirizzo politico, realizzabile mediante una legislazione autonoma, e nella
legittimazione democratica degli organi di governo locale mediante libere elezioni.
Di per sé, infatti, il decentramento, nella sua declinazione amministrativa, non è incompatibile
con un modello di tipo autoritario, in cui gli organi del governo locale procedono direttamente
dall’autorità centrale (nomina per decreto): esempi tipici di questo modello si rinvengono nella
Francia napoleonica (legge del 28 piovioso dell’anno VIII) e durante il Governo di Vichy (legge del
16 novembre 1940). Nell’ambito dei suddetti regimi, il reclutamento dei consigli municipali,
dell’art. 1 statuto corso, ha voluto, dunque, coniugare la visione unitaria del popolo francese, come si trae dalla
Costituzione, e il dato di fatto che esso risulta dall’insieme dei cittadini uguali davanti alla legge.
29 M. Calamo Specchia, La tutela delle langues régionales tra principio di uniformità linguistica e multiculturalismo, in Dir.
pubbl. comp. ed eu., 2002, pp 1048 ss.
30 Sul punto F. Roversi Monaco, Decentramento (e accentramento), in Dizionario di Politica, Torino, Utet, 1983, pp.
301, 303.
13
dipartimentali e dei sindaci avviene con decreto del Prefetto, essendo stato soppresso il
procedimento elettorale31.
Com’è noto, lo Stato liberal-ottocentesco nasce in Europa come reazione alle pretese
assolutistiche della restaurazione ad opera dell’allora classe egemone, la borghesia, mossa dal
miraggio dell’unità nazionale, fine ultimo dei movimenti risorgimentali dello scorso secolo: in tale
contesto l’idea di nazione unitaria costituiva al tempo stesso lo strumento ideologico per
sconfiggere i rigurgiti autoritari delle case monarchiche europee e la giustificazione per l’adozione
di un modello amministrativo accentrato, al fine di salvaguardare le deboli istituzioni, appena
riunitesi in Stati nazionali, dalla tendenza alla disgregazione32.
In alcune esperienze costituzionali dell’Europa continentale (Francia, Germania, Italia) la scelta
dell’accentramento come formula organizzatoria dell’apparato amministrativo post-unitario
risultava, pertanto, funzionale alla realizzazione di quel bilanciamento di valori in cui il liberalismo si
compendiava, vale a dire l’indipendenza dell’individuo dallo Stato, la garanzia dei diritti individuali,
le libertà politiche ed economiche, anche se l’opposta opzione per un modello di amministrazione
decentrata non appariva incompatibile con il principio, ritenuto prevalente, dell’unità della Nazione:
un esempio è offerto dall’esperienza costituzionale britannica, caratterizzata dalla lenta, ma
continua, evoluzione della società-Stato inglese, in cui un ruolo politico-amministrativo decisivo è
svolto dalle strutture del local government, che, sebbene siano figure concettualmente distanti
dalle nozioni di “amministrazione locale” e “autonomia locale” care alla tradizione giuridica
continentale, caratterizzandosi «fin dall’epoca pre-normanna … quali enti originari di autogoverno
nonché quali originari detentori de facto del potere diffuso nell’intero territorio inglese»33, in quanto
titolari del monopolio amministrativo (self government) hanno contribuito, mediante un processo di
devolution ascendente, alla creazione di un apparato amministrativo «volto al centro»34.
Contrariis verbis, nelle esperienze costituzionali continentali si assiste ad un processo di
sovrapposizione dello Stato alle comunità locali, che, carenti secondo communis opinio del
carattere originario di enti autonomi, si inquadrano in un sistema amministrativo di tipo autarchico o
indiretto ed assumono la configurazione di enti derivati dallo Stato mediante un processo di
devolution discendente, e dunque inverso rispetto a quello realizzatosi nel Regno Unito35.
F. Burdeau, Histoire de l’administration française. Du XVIII au XX siècle, Paris, Montchrestien, 1994, pp. 81, 203.
Sul punto V. Caianello, Il cittadino e le trasformazioni dello Stato (Spunti introduttivi per un consuntivo
sull’attuazione del D.P.R. 616 del 1977), in Dir. e società, 1990, pp. 660 ss.). Altrove l’A. ritiene che della triade posta a
base delle moderne civiltà «l’Individuo, la Società, lo Stato, nella ideologia liberale è quest’ultimo che si pone come
garante dei diritti dell’individuo, mentre la Società si identifica storicamente nel nostro Paese, all’epoca dell’unità, con il
concetto di Nazione, essendo stata questa l’idea che storicamente aveva legittimato la lotta per l’indipendenza, nella
prospettiva dell’unificazione» (V. Caianello, Problemi dell’Amministrazione nello Stato unitario (1859-1865), in Dir. e
società, 1990, p. 394).
33 A. Torre, Interpretare la costituzione britannica. Itinerari culturali a confronto, Torino, Giappichelli, 1997, p. 77.
34 Sull’intrinseca multiformità dei processi di unificazione politica ed uniformazione amministrativa del Regno Unito v.
diffusamente A. Torre, Il «territorial government» in Gran Bretagna, Bari, Cacucci, 1991; G. Di Gaspare, Autogoverno, in
Enc. Giur.; M. Cammelli, Autogoverno, in Dizionario di Politica, Torino, Utet, 1983, pp. 78 ss..
35 La nozione di Amministrazione indiretta dello Stato, affermatasi in Germania e recepita anche in Italia nel periodo
tra le due guerre, si impianta sulla crisi del concetto di auto-amministrazione, anche se si manifesta già a partire dal XIX
secolo come estrinsecazione dell’onnipresenza di un potere razionalmente organizzato. In Germania l’espressione
«Amministrazione indiretta» è stata coniata da Köttgen nel 1939 (A. Köttgen, Die rechtsfähige Verwaltungseinheit, Verw.
Archiv., t. 44, 1939, pp. 1 ss.) e da Weber nel 1940 (M. Weber, Die Köperschaften, Anstalten und Stiftungen des
öffentlichen Rechts. Eine rechtstechnische Untersuchung ihrer gegenwärtigen Ordnung, München/Berlin, Beck, 1949),
trovando una più compiuta formulazione nel pensiero giuridico del secondo dopoguerra ad opera di Forsthoff.
Quest’ultimo A. distingue un’Amministrazione diretta da un’Amministrazione indiretta, basata non su centri di autorità
dipendenti dallo stato, ma su un insieme di organismi autonomi muniti di personalità giuridica, inquadrati nell’ambito del
diritto pubblico, svincolati dalla gerarchia amministrativa dello Stato, il quale conserva sugli stessi una funzione di
controllo, e dotati di una sfera di competenze ben delimitata, nel cui ambito si esaurisce la sfera di azione dei suddetti
enti: ne consegue che le persone giuridiche che formano l’Amministrazione indiretta possono essere comprese solo in
relazione allo Stato, cui devono la loro posizione giuridica di enti di diritto pubblico (sulla questione E. Forsthoff,
Lehrbruch des Verwaltungsrechts, v. I, Allgemeiner Teil, München, X ed., pp. 478 ss.; idem, Traité de droit administratif
allemand, Bruxelles, Bruyant, 1969, pp. 689 ss. Sul pensiero giuridico di Forsthoff si rinvia a G. Di Gaspare, Stato sociale
e Stato di diritto in Forsthoff e Habermass, in Jus, 1994). Sul versante italiano la dottrina tedesca influenzò inizialmente
la riflessione giuridica di Romano che definì il concetto di autarchia come quel tipo di organizzazione amministrativa in
cui le competenze sono attribuite ad enti pubblici diversi dallo Stato sulla base di una delega di quest’ultimo e sul
presupposto necessario della coincidenza di interessi, costituendo un’Amministrazione indiretta separata da quella
diretta dello Stato, di cui è un supplemento (S. Romano, Decentramento amministrativo, in Scritti Minori, vol. II, Milano,
Giuffrè, 1950, pp.51 ss.); successivamente la teoria dell’Amministrazione indiretta è stata in Romano superata dalla
31
32
14
Tradizionalmente, il sistema ad amministrazione accentrata si fa risalire alla riforma
amministrativa attuata in Francia da Napoleone Bonaparte con la legge del 17 febbraio 1800, nella
quale ogni potere decisorio viene conferito ad un apparato di funzionari, organizzato secondo il
principio gerarchico, a svantaggio degli amministratori locali, che vedono svuotata di contenuto la
loro funzione rappresentativa, essendosi ridotti al ruolo di semplici esecutori di decisioni prese
dall’alto: il concetto di decentramento amministrativo è completamente estraneo allo spirito di
Napoleone, per il quale il modello organizzativo più efficace è quello militare, onde
l’amministrazione si presenta come una macchina i cui ingranaggi sono mossi dall’impulso che
promana dal centro, secondo il principio «l’autorité était son principe, l’obéissance sa loi, la
discipline sa force»36.
L’obiettivo della riforma napoleonica era l’instaurazione di un sistema di controlli delle istituzioni
locali, attraverso la concentrazione di tutta l’attività esecutiva in capo ad organi monocratici, che
vengono inquadrati in una rigida scala gerarchica, la cui istituzione apicale e cardine è il Prefetto,
che preposto all’attività esecutiva in ambito dipartimentale, deve diramare i suoi ordini ai
sottoprefetti, i quali, a loro volta, devono trasmetterli ai sindaci: questi tre organi della gerarchia
amministrativa sono, in realtà, rappresentanti del potere centrale, da questo nominati e se del
caso, destituiti.
La diffidenza nei confronti del riconoscimento di centri di potere periferici si era già manifestata
all’epoca rivoluzionaria attraverso il dilemma unità/pluralità della struttura statuale, benché sin dalle
prime costituzioni francesi non v’è mai stata una negazione totale del concetto di collettività locale,
com’è avvenuto, invece, per le formazioni sociali volontarie, soppresse dalla loi Le Chapelier del
1791: ne sono un esempio l’art. 1, titolo II, della Costituzione del 3 settembre 1791, nel quale viene
ribadito il principio dell’unità ed indivisibilità del regno, ma successivamente si ammette la
«distribuzione del territorio dello Stato in dipartimenti, distretti e cantoni»; e l’ art. 3 della
Costituzione del 26 giugno 1793, nella quale il leit motif della ripartizione territoriale assume la
forma di una divisione del territorio in dipartimenti, distretti e municipalità. La scelta terminologica,
adottata dai costituenti della Francia rivoluzionaria, più che intendere una forma di decentramento
dei pubblici poteri, nel senso moderno per cui organi di un medesimo ente politico hanno tutti
poteri di decisione e responsabilità giuridicamente individuati, si riferisce, piuttosto, ad una formula
organizzatoria comprendente una modalità di redistribuzione territoriale che non metta in
discussione il potere centrale (monarchico o repubblicano) come complesso funzionale unitario ed
inscindibile.
Dietro questo apparente disegno di decentramento si cela, in realtà, l’intento di accentrare la
struttura amministrativa per rispondere al disegno di unità politica propugnato dalla Rivoluzione,
che poneva fine al pluralismo locale, considerato fonte di privilegi particolaristici, retaggio delle
province dell’Ancien Régime.
Tra il modello napoleonico ed il sistema di amministrazione locale elaborato in Francia dai
costituenti rivoluzionari possono riscontrarsi degli elementi di continuità, primo fra tutti l’uniformità
del regime locale; tra gli elementi di difformità va, invece, sottolineato il diverso modo di formazione
e legittimazione degli organi locali: il criterio elettivo, che costituiva il punto nodale del disegno
rivoluzionario, nel sistema napoleonico viene sostituito dal criterio – decisamente autoritario – della
cooptazione da parte del potere centrale, rappresentato dal Primo console37.
Ciò nonostante, durante il periodo liberale vengono a maturarsi istanze tendenti a sottolineare
«la necessità di un decentramento amministrativo a favore dei comuni e delle province, oltre che
delle associazioni e delle formazioni funzionali, e di un decentramento burocratico per
l’amministrazione periferica statale operante a tali livelli, al fine sempre di por termine alla distorta
commistione di politica ed amministrazione». Il decentramento amministrativo diventa così lo
strumento per realizzare sempre maggiori connessioni tra Stato e società civile e «per calare verso
nozione di organi ausiliari dello Stato, nella cui categoria l’A. ha fatto confluire tutti quei fenomeni caratteristici della prima
configurazione teorica (S. Romano, Autonomia, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, Giuffrè, 1947, pp. 14 ss.).
36 P-M. Gaudemet, Le declin de l’autorité hiérarchique, in D., 1947, Chron. XXXV, p. 137; in merito all’evoluzione del
governo locale in Francia, cfr. L. Vandelli, Poteri locali. Le origini nella Francia rivoluzionaria. Le prospettive dell’Europa
delle regioni, Bologna, il Mulino, 1990.
37 G. Burdeau, Traité des Sciences Politique – L’État, t. II, Paris, L.G.D.J., 1980, p. 476; F. Burdeau, Histoire de
l’administration française…, cit., pp. 81-90.
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il basso la capacità di condizionamento del potere statale nei confronti delle formazioni sociali, con
il potenziamento degli interessi dominanti, alla testa o meno dello sviluppo economico»38.
La gran parte delle Costituzioni del secondo dopoguerra recepisce, dunque, l’istanza del
pluralismo territoriale e locale: a prescindere dalle esperienze di tipo federale, in cui la
strutturazione ordinamentale interna basata su due centri di autorità – apparato centrale federale
ed apparati statali periferici – impone la predisposizione di un insieme di principi e regole volti a
delimitare le reciproche sfere di influenza e a fissarne i punti di raccordo, tra gli ordinamenti a base
unitaria, l’Italia e la Spagna sono organizzati su di una pluralità di livelli di territorial government, a
differenza della Francia, la cui tradizione accentratrice tiene fede nella Costituzione del ’58, che
laconicamente prevede solo il dipartimento ed il comune, tacendo della regione. Il procedimento di
revisione costituzionale conclusosi con la deliberazione del Congresso il 17 marzo 2003 supera
questo antico retaggio napoleonico dando piena cittadinanza costituzionale all’ente “regione”.
La Costituzione italiana, nonostante le divergenti tendenze manifestatesi in Assemblea
Costituente, si ispira al principio regionalistico politico-amministrativo: da un lato l’art. 5 riconosce
le autonomie locali e promuove il decentramento nel rispetto dell’unità ed indivisibilità della
Repubblica, dall’altro il titolo V nell’attuale configurazione svolge il suddetto principio, strutturando
l’organizzazione amministrativa su cinque livelli territoriali – comuni, province, città metropolitane,
regioni e Stato – e assegnando alla regione un’autonomia basata sì su potestà statutarie,
legislative ed amministrative, ma implicanti, pur sempre, la preminenza delle scelte politiche
centrali su quelle locali. Sotto il primo profilo, l’art. 5 – secondo la tradizionale impostazione
dottrinaria che risale ai lavori preparatori della Costituzione39 – è volto a garantire l’unità dello Stato
contro spinte secessionistiche e ad impedire l’avvio di riforme di tipo federalistico: come affermò
l’On. Ruini, «la Regione non sorge federalisticamente. Anche quando adotta con sua legge lo
statuto di una regione, lo Stato fa atto di propria sovranità. L’autonomia accordata eccede quella
meramente amministrativa, ma si arresta prima della soglia federale ed attiene al tipo di Stato
regionale formulato dal nostro Ambrosini». La configurazione della legge statale di approvazione
dello statuto regionale come atto sovrano ha subito destato forti perplessità, in quanto trascurava il
fatto che il procedimento di approvazione degli statuti delle regioni ordinarie fosse un procedimento
complesso, in cui intervenivano e la regione interessata, che predisponeva il contenuto dell’atto, e
lo Stato che conferiva all’atto forma di legge, potendo essere modificato solo con una procedura
analoga (cd. legge a forza passiva rinforzata): a conferma di ciò la Corte costituzionale (sent. n. 16
del 1978) ha sottratto gli statuti delle regioni alla possibile loro abrogazione con referendum, che,
avendo valore di una legge ordinaria, non è competente a intervenire sul loro contenuto40. Sotto il
secondo profilo, al fine di rispecchiare le differenze storico-culturali del Paese, il Costituente ha
disciplinato, com’è noto, due tipi di regioni: le regioni di diritto comune e le regioni a statuto
speciale, queste ultime dotate di una più spiccata autonomia, che si traduce nella particolare forza
giuridica attribuita agli statuti, che sono stati adottati con legge costituzionale, e nella potestà
legislativa esclusiva, che assegna alla piena competenza di tali regioni la regolamentazione con
legge di alcune materie individuate dagli statuti.
L’art. 5 funge da norma-programma dell’intero assetto costituzionale che disciplina l’impianto
autonomo della Costituzione italiana41: esso, in quanto principio fondamentale, risulta svincolato
dalle problematiche inerenti all’organizzazione amministrativa e prevale sulle norme del titolo V,
primauté di cui la recente revisione costituzionale ha dovuto tener conto nella nuova strutturazione
dei rapporti Stato /regioni con riferimento sia al riassetto delle competenze normative sia alla
“restituzione” alle regioni del potere statutario, la cui parziale sottrazione, come sopra evidenziato,
era stata da alcuni guardata con sospetto.
Autonomia e decentramento seguono il medesimo andamento del processo di emancipazione
delle istituzioni dal centralismo amministrativo: non va sottovalutato il senso di sospetto con cui lo
38
R. Ruffilli, La questione del decentramento nell’Italia liberale, in Quad. fior., n. 17, Milano, Giuffrè, 1988, pp. 307-
308
39 G. Ambrosini, Le formazioni sociali nella Costituzione italiana (Stato, comunità intermedie, Chiesa, comunità
internazionali, vol. II, Milano, Giuffrè, p. 98.
40 M. Salerno, Referendum, in Enc. del dir., pp. 200 ss.
41 Sulla funzione di implementazione programmatica dell’art. 5, V. Atripaldi, I modelli del pluralismo istituzionale dal
Patto costituzionale al dibattito attuale, in G. Woller (Cur.), Le conseguenze economiche del decentramento istituzionale,
Mongardino, Ed. Il Fenicottero, 1997, pp. 231 ss.
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Stato liberale guardava ai comuni ed alle province come enti formalmente separati dallo stesso,
preferendo, invece, considerarli come destinatari di una forma di autogoverno (autarchia) in cui
confluiva l’amministrazione gerarchica statale. La tendenza a considerare comuni e province enti
autarchici e non veri e propri enti autonomi come le regioni si radicava su due ordini di motivi:
l’assenza della potestà statutaria e la carenza di competenze legislative. A questa mancanza
strutturale ha posto rimedio, in parte, il nuovo ordinamento delle autonomie locali (legge n. 142
dell’8 giugno 1990, e successivo riassetto delle competenze ad opera delle leggi nn. 59 del 15
marzo 1997 e 127 del 15 maggio 1997, e succ. modd.), che da un lato ha imposto ai comuni ed
alle province l’obbligo di dotarsi degli statuti, dall’altro ha ampliato le competenze regolamentari dei
primi.
La riprova che la formula contenuta nell’art. 5, la quale connette l’autonomia al
decentramento42, implica una vera e propria trasformazione dell’assetto dei rapporti tra Stato e
società, incidendo sulla configurazione della forma di stato, è data dal fatto che l’affermazione delle
istanze del pluralismo istituzionale, e con essa la realizzazione del principio autonomistico, si è
attuata solo attraverso «il disconoscimento della soluzione unica e valida per tutti rappresentata
dallo Stato accentrato e dalla sua espressione più tangibile che è il sistema del diritto pubblico
tradizionale»43, riconoscendo valore alle istanze di quei gruppi sociali propugnatori di un diverso
modo di relazionarsi al potere pubblico: parafrasando un autore «in tanto ha senso parlare di
autonomia, in quanto le libertà sociali hanno raggiunto un tale grado di concretezza da imporre un
nuovo assetto dell’ordinamento giuridico dei poteri pubblici. Al fondo dell’idea di autonomia vi è
sempre un principio di autogoverno sociale ed ha senso introdurre una autonomia sul piano
istituzionale in quanto sia sicuro che essa serve a vivificare la partecipazione sociale, a rendere
effettiva, cioè la libertà dei singoli e dei gruppi sociali, come presenza attiva nella gestione di
amministrazioni comuni. L’affermazione dell’autonomia va quindi di pari passo con lo svolgimento
in senso positivo della libertà, la quale viene acquistata dall’individuo passando per un gruppo
sociale e quindi per la partecipazione al potere» di modo che «conferire autonomia alle regioni, alle
province ed ai comuni, altro non vuol dire che individuare gli strati comunitari, nei quali le
collettività che si identificano per tradizione o per storia o per convenienza raggiungono un giusto
livello di autogoverno o di autoamministrazione»44.
Al fine di rispecchiare le differenze storico-culturali del Paese, il Costituente italiano ha accolto
la formula dell’asimmetria istituzionale interna prevedendo, com’è noto, le regioni di diritto comune
e le regioni a statuto speciale: la tendenza alla strutturazione degli enti territoriali inquadrabili in
una categoria unitaria secondo una declinazione modulare dei rispettivi statuti è riscontrabile in
quasi tutte le esperienze costituzionali considerate, essendo il pluralismo dell’articolazione interna
dei sistemi di governo locale (forme di governo, sistemi elettorali, forme di democrazia diretta) da
considerarsi quale precipua espressione del principio dell’autonomia strutturale e funzionale degli
enti territoriali. Così per gli stati regionali in Spagna si assiste alla proliferazione di ordinamenti
differenziati tra le Comunità autonome, i cui statuti sono peraltro sottoposti a una duplice
procedura di approvazione rapida o lenta (artt. 143, 151 e II disposizione transitoria); per gli stati
federali le Costituzioni belga, elvetica e tedesca offrono agli enti subfederali un ampio margine di
manovra quanto alla determinazione contenutistica delle Costituzioni statali, nelle quali
l’organizzazione federale è strutturata in tre livelli di governo territoriale, con un livello locale molto
attivo in ossequio al principio di sussidiarietà. Al contrario, la Francia resta l’unico Stato unitario
decentrato che mantiene fermo il principio dell’omogeneità contenutistica categoriale, ammettendo
una diversificazione statutaria solo per enti territoriali appartenenti a categorie differenti (l’originaria
diversificazione contenutistica conferita allo statuto corso nel 1982 è stata ricondotta nel principio
42 Sulla questione della connessione tra decentramento ed autonomia si considerino: C. E. Ferraris, Teoria del
decentramento amministrativo, Milano, Sandro ed., 1898; S. Romano, Decentramento amministrativo, in Scritti Minori,
vol. II, Milano, Giuffrè, 1950 pp. 11 ss.; F. Roversi Monaco, Profili giuridici del decentramento dell’organizzazione
amministrativa, Padova, Cedam, 1970; e G. Di Gaspare, Autogoverno, in Enc. giur. Treccani; per la riflessione
comparatistica C. Eisenmann, Centralisation et décentralisation, in R.D.P., 1947, pp. 268 ss. Sul rapporto governo
centrale/governo locale in Gran Bretagna v. per tutti, A. Torre Il «territorial government» in Gran Bretagna, Bari, Cacucci,
1991.
43 G. Bert, Art. 5, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, p. 287.
44 G. Berti, Art. 5, cit, pp. 287-288.
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dell’unità normativo-categoriale dalla riforma del 1991, che ha creato una collectivité territoriale sui
generis)45.
Sebbene la formula del regionalismo traduca, secondo l’insegnamento di un’insigne studioso46,
un grado di autonomia inferiore rispetto alle forme di stato federali, le condizioni di esercizio delle
competenze devolute ricevono una griglia di protezione più forte nello Stato regionale, proprio in
vista di assicurare uno spazio di manovra garantito: sul piano dell’autonomia di decisione si
riscontra che nei Länder federali, ad esempio, il gettito fiscale delle imposte proprie è molto basso
(meno del 10%) e che quindi il criterio del tipo di Stato, allorché si voglia valutare il grado reale di
decentramento, non è un indice determinante.
Va inoltre segnalato lo sviluppo, in diversi Stati unitari, di una forma di regionalismo avanzato,
che si situa a metà strada tra il decentramento di funzioni e lo Stato federale: sembra quasi che sul
versante europeo-continentale si stia affermando un lento processo verso la federalizzazione,
anche se gli stati unitari, per motivi politici o più semplicemente tradizionali, rifiutano di optare per
la forma federale dichiarata, rimanendo ancorati a formule ibride.
3.a. Le autonomie funzionali: il riparto delle competenze e la partecipazione al
procedimento di revisione costituzionale. 1. Il criterio distributivo e il “verso” delle
competenze legislative.
La più evidente differenza tra l’organizzazione federale e quella regionale è sempre stata
identificata dalla dottrina nel criterio di ripartizione delle competenze tra stato centrale ed enti
territoriali, nel senso che se nello Stato regionale la Costituzione enumerava tassativamente le
competenze assegnate alle componenti territoriali interne e quindi lo Stato centrale rimaneva
titolare di tutte le competenze non espressamente attribuite (cd. criterio residuale), nello Stato
federale lo schema si ribaltava in quanto il criterio residuale operava a favore degli Stati membri,
mentre il complesso di poteri che spettava allo Stato centrale proveniva da devoluzioni di
competenze che si muovevano dalla periferia verso il centro47: il criterio del “verso” dell’attribuzione
delle competenze non è più l’elemento di discrimine dello stato a decentramento regionale (“verso”
discendente, art. 117 Cost. it. ante riforma) rispetto ai sistemi decentrati di tipo federale (“verso”
ascendente, Cost. USA), concorrendo una serie di variabili funzionali tipiche dei sistemi policentrici
di tipo regionale o debolmente federale di recente evoluzione (es. Italia e Belgio), o di tradizione
consolidata (Spagna, Germania) nei quali la scelta del Costituente è stata orientata all’inversione
del criterio di riparto competenziale, privilegiando l’attribuzione degli enumerated powers
all’autorità centrale e stabilendo la clausola residuale a vantaggio dei Länder (Austria, Belgio), o un
criterio misto che preveda da un lato una doppia griglia di competenze enumerate facenti capo
rispettivamente all’autorità centrale /federale e agli enti autonomi (sistema “a doppia riserva”) ed
affiancando la clausola dei “poteri impliciti” operante a vantaggio dell’autorità centrale /federale
(Italia, Spagna, Germania); in alcuni casi è previsto anche un criterio residuale a vantaggio delle
entità substatali (Italia).
In particolare, l’esperienza belga offre un quadro di riferimento piuttosto sfumato in tema di
rapporti tra enti federati e stato federale: da un lato le clausole costituzionali sono criptiche e
orientate a fissare criteri generali; dall’altro, il riferito carattere delle norme costituzionali alimenta lo
sviluppo dei poteri impliciti dello Stato federale: trattandosi di un federalismo di superposizione (per
ciascun territorio sono costituite due entità federate, le Comunità e le Regioni, ciascuna con un
proprio ambito di autonomia) di tipo dualistico, la soluzione in tema di riparto competenziale non
può che essere di tipo asimmetrico, operando i trasferimenti sia in senso verticale, secondo un
andamento “a ombrello” partendo dal centro e irradiandosi verso le entità periferiche, sia in senso
orizzontale operando devoluzioni tra entità federate, con ambiti di azione funzionali e territoriali
45 M. Calamo Specchia, La riforma dello statuto della Corsica: itinerari di una décentralisation imparfaite, in S.
Gambino (Cur.), Stati nazionali e poteri locali.La distribuzione territoriale delle competenze. Esperienze straniere e
tendenze attuali in Italia, Rimini, Maggioli, 1998, pp.1009ss.
46 G. de Vergottini, Diritto Costituzionale, cit., pp. 83-104.
47 Sul punto, G. de Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Cedam, Padova, 1999, pp. 279 ss.; idem, Stato
federale, in Enc. del dir., pp. 854 ss.
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limitati. L’originario assetto delle competenze così come tracciato dalla Costituzione e dalle
successive leggi di attuazione delle “ondate” di trasferimenti risulta profondamente fluido, soggetto
alle profonde trasformazioni dei trasferimenti devolutivi orizzontali48.
Anche l’esperienza austriaca presenta elementi di peculiarità fondati su di un complesso
sistema di previsioni costituzionali che si basa sul principio dell’equità tra Bund e Länder, reso
operativo dalla clausola dei poteri enumerati che opera a vantaggio del Bund mentre una clausola
generale attribuisce le restanti competenze ai Länder: Tutto ciò che non è espressamente
attribuito attraverso le clausole esplicite ricade, invece, nella competenza dei Länder. In
particolare, la funzione giurisdizionale è riservata al Bund e tale soluzione costituzionale
contribuisce a connotare l’Austria come un’esperienza di federalismo “debole”. Per quanto
concerne la concreta distribuzione delle competenze si distinguono i seguenti criteri: materie nelle
quali il Bund è competente sia nella legislazione che nell’amministrazione (ad es. affari esteri,
passaporti, immigrazione, moneta, credito, sistema bancario, ecc.); materie nelle quali il Bund è
competente nella legislazione quadro che i Länder attuano con norme di dettaglio (nazionalità e
diritti di cittadinanza, associazioni professionali, affari nazionali, polizia stradale, trasporto fluviale);
materie nelle quali i principi sono posti con legge del Bund mentre ai Länder compete l’attuazione
con legge e l’amministrazione (legislazione sociale, sanitaria, assistenziale, ecc.); materie nelle
quali i Länder hanno competenza residuale esclusiva in ambito legislativo e amministrativo
(pianificazione regionale, sviluppo, ambiente, caccia, pesca, turismo, spettacoli, asili nido). Un
campo specifico di competenze (ad es. scuola e tassazione) non ricade nell’ambito delle
menzionate regole di allocazione competenziale, rispetto ai quali il Bund e i Länder assumono
concorrenti responsabilità, potendo ciascuno per proprio conto assumere rilevanti “porzioni di
attività” per ognuna di dette competenze49.
Analogo carattere dinamico-evolutivo presenta il sistema federale Svizzero, l’ultimo baluardo di
federalismo per aggregazione dell’Europa occidentale: la Costituzione elvetica revisionata nel
1999, pur rinnovando ambiguamente un concetto di federalismo inteso come reciproca
collaborazione tra Confederazione e cantoni nella realizzazione di un comune disegno o, in
alternativa, di un necessario coordinamento ove le finalità perseguite divergano (art. 44 co. I),
delinea in realtà un intreccio di competenze così fitto che perde di utilità qualunque riparto
competenziale fondato sugli schemi tradizionali delle competenze esclusiva, concorrente (limitata
o meno ai principi), parallela, privilegiando lo strumento dell’interpretazione materiale che individui,
materia per materia, dove inizia e dove termina la rispettiva competenza della Confederazione e
dei cantoni. Il Costituente si è pertanto orientato per il superamento del modello competitivo per
accogliere un modello di federalismo collaborativo sorretto dal principio del “self-restraint
competenziale”, in base al quale ciascun ente territoriale rimane nei limiti della propria competenza
senza esercitarla in danno di altri enti territoriali, che trova nella clausola generale della primauté
del diritto federale (art. 49) il suo fondamento costituzionale.
D’altra parte, la soluzione federalista liberale classica di tipo dualistico americana, che attribuiva
allo Stato centrale pochi poteri (i cc.dd. enumerated powers, enumerazione neutralizzata in parte
dalla clausola dei poteri impliciti, i cc.dd. implied powers), riservando il resto delle competenze agli
Stati periferici non tarda a manifestare la sua inadeguatezza rispetto alle esigenze, maturate agli
inizi del XX secolo, di un governo pubblico dell’economia, costituendo un anacronistico retaggio
dell’attuazione istituzionale del principio liberale della società separata dallo Stato e di quello
consequenziale dell’individualismo economico. Questo mutamento nella configurazione giuridicosociale dei rapporti tra individuo e Stato viene recepito dalle costituzioni federali del secondo
dopoguerra, in particolar modo dalla Costituzione tedesca del ’49, mentre nell’esperienza
americana gli organi federali, sostenuti dall’indirizzo della Corte Suprema in relazione all’art. 8, ult.
comma, della costituzione americana sugli implied powers, hanno propeso per un’interpretazione
della Costituzione in senso estensivo delle competenze federali in materia economica e sociale, da
un lato cercando di salvaguardare l’autonomia degli Stati membri50, e dall’altro relegandoli al ruolo
F. Delphérée (Cur.), L’ordinamento federale belga, Torino, Giappichelli, 1996, pp. 158ss., in part. pp. 160-161.
G. Lienbacher, The Evolution of Federalism, Regionalism and Decentralisation, in Zeitchrift für öffentliches Recht
(Austrian Journal of Public and International Law), 1996, pp. 127-129.
50 S. Fabbrini, Le ragioni del governo diviso negli Stati Uniti, in Dem.Dir., 1989, n. 1-2, pp. 141 ss; M.P.Fiorina, Il
governo diviso negli Stati Uniti, in Riv. It. Sc. Pol., 1992, n. 2, pp. 195 ss,; V. Ostrom - R. Bish - E. Ostrom, Il governo
locale negli Stati Uniti, Milano, Ed. di Comunità, 1984.
48
49
19
di entità territoriali subordinate in Germania: all’impianto costituzionale di tipo dualista si sostituisce
una forma di federalismo di tipo «cooperativo», in cui risalta la posizione di preminenza dello Stato
centrale connessa all’intervento pubblico nell’economia, venendo, in tal modo, erosa quella teoria
che voleva riservato l’attributo di «sovrano» allo Stato membro.
Dapprima, dunque, nel processo di fondazione e organizzazione delle strutture federali in
Germania si propende per la salvaguardia della residuale sovranità degli Stati, com’era accaduto
negli Stati Uniti; successivamente, si radica l’opposto orientamento della sovranità monistica dello
stato federale, risolvendosi la questione della natura del potere degli Stati membri e del Bund in
termini non di sovranità, bensì di competenze ripartite. La cooperazione nel nuovo modello
federale tedesco si realizza su di un duplice livello: a) della legislazione, nel senso che, pur
rimanendo assai vaste le competenze normative dello Stato federale, esse non escludono
l’intervento nelle stesse materie della legislazione statale: nel GG sono previste la legislazione
esclusiva (art. 73), che consente ad un Länder di legiferare su determinate materie riservate allo
Stato centrale solo per delega espressa del Bund, la legislazione concorrente (artt. 74 e 74a), che
consente che su determinate materie possano legiferare Bund e Länder «solo e nella misura in cui
il Bund non faccia uso del suo diritto a legiferare», ed infine, la legislazione cornice, che autorizza il
Bund nelle situazioni di necessità previste dall’art. 72, 2° comma, ad adottare leggi quadro entro
cui si sviluppa la legislazione dei Länder; b) dell’esecuzione, nel senso che spetta al Bund dettare
le regole ed ai Länder attuarle: tale principio, che è generale rispetto alle materie di competenza
concorrente, opera anche per quelle delegate dal Bund.
Infine, il sistema del riparto delle competenze è stato integrato dalla riforma del 1967/69, che
impone al Bund di prestare collaborazione ai Länder quando i loro compiti eccedono i limiti
territoriali del Land, comportando un’integrazione delle competenze statali e federali e realizzando
quel principio di “leale collaborazione”, che costituisce il fine ultimo del federalismo cooperativo51.
Sul versante interno, il nuovo assetto costituzionale del sistema italiano, emerso dalla riforma
del titolo V, sembra “azzerare” l’ultimo elemento di diversificazione formale tra regionalismo e
federalismo, adottando per il riparto delle competenze il criterio proprio del secondo.
Sin dall’originaria previsione costituzionale è nota la connotazione spiccatamente garantistica
del regionalismo italiano, sia per il fatto che la Costituzione disciplina in modo rigoroso il riparto di
competenze tra le regioni e lo Stato (art. 117 Cost.), in modo che il legislatore ordinario non possa
intervenire in senso modificativo, ampliativo o restrittivo dello stesso, a differenza del sistema delle
autonomie locali, il cui ambito operativo non risulta delineato a livello costituzionale ma rimesso
alla discrezionalità del legislatore ordinario; e sia perché la Costituzione riconosce alle regioni e
allo Stato il potere di rimettere al giudizio della Corte Costituzionale gli atti che risultino lesivi del
riparto di competenze costituzionalmente prefissato, facendo uso del principio di legalità tipico
dello stato liberale di diritto e degli strumenti giurisdizionali ripristinatori della legalità violata,
cosicché «nei sistemi federali e regionali, la dottrina tende ad istituire un parallelo tra la posizione
del cittadino e quella degli enti dotati di competenze costituzionalmente garantite: tra la libertà
riconosciuta al primo e l’autonomia riconosciuta alle seconde» 52.
La riforma del titolo V della Costituzione italiana (l. cost. n. 3/2001) è il più recente esempio di
potenziamento del livello di governo regionale attraverso un sostanziale ridisegno della potestà
legislativa regionale, destinataria di competenze normative concorrenti ed esclusive, realizzato
mediante l’inversione della tecnica di riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le regioni,
abbandonando per ciò che concerne le competenze esclusive regionali, il criterio enumerativo per
abbracciare l’opposta tecnica – di matrice federale (sintomatico è il parallelismo tentato dal
legislatore costituzionale con gli artt. 70ss. della GG) – del criterio residuale (art. 117, IV co.),
rimanendo le competenze concorrenti (art. 117, III co., che attribuisce alla legislazione statale la
determinazione dei principi fondamentali della materia) e quelle esclusive statali (art. 117, II co.)
tassativamente elencate53.
51 Sul punto si rinvia a G. de Vergottini, Stato federale, in Enc. dir., pp. 831 ss.; idem, Diritto costituzionale
comparato, Padova, Cedam, 1993, pp. 269; G. Bognetti, Federalismo, in Enc. giur.Treccani.
52 A. D’Atena, La vicenda del regionalismo italiano ed i problemi della transizione al federalismo, in A. D’Atena (Cur.),
Federalismo e regionalismo in Europa, Milano, Giuffrè, 1994, p. 201.
53 Acuti snodi problematici sulla questione dell’identificabilità della cd. potestà residuale sono illustrati da A. Ruggeri,
C. Salazar, La specialità regionale dopo la riforma del titolo V. Ovvero: dal «lungo addio» del regionalismo del passato
verso il «grande sonno» del regionalismo «asimmetrico»?, in Rass. Parl., 2003, pp. 111ss.
20
Sotto il profilo strettamente procedurale, una norma fortemente innovativa è quella contenuta
nell’art. 127, che abroga il controllo preventivo di costituzionalità della legge regionale e lo
sostituisce con il sindacato di costituzionalità da effettuarsi entro sessanta giorni dalla
pubblicazione-notizia: la fissazione di un dies ad quem alla presentazione del ricorso di
costituzionalità (che implica, per principio generale di diritto, in caso di decorrenza infruttuosa la
decadenza dall’azione), fa propendere per la natura sostanzialmente preventiva del controllo,
benché formalmente successiva.
In realtà, la riforma del titolo V della Costituzione italiana (sulla quale non mi dilungo essendo
altre relazioni espressamente dedicate al tema) nonostante le perplessità manifestate dalla
dottrina su alcune scelte del legislatore costituzionale, se con riferimento alla questione dei modi di
riparto delle competenze Stato /regioni rivela solo un contrasto “apparente” rispetto al precedente
assetto, essendo stata eliminata la potestà integrativa-attuativa ma conservata la potestà
concorrente, essa si presenta quale punto di rottura rispetto al tradizionale modo di intendere i
rapporti tra le regioni e l’ordinamento comunitario: sebbene già con la sentenza n. 472 del 1992 la
Corte costituzionale ha consentito alle regioni italiane di svolgere certe attività di carattere
internazionale, nel limite generale costituito dalla non ingerenza nella politica estera, “materia”
riservata allo Stato, il novellato art. 117, da un lato sottopone la legislazione regionale ai vincoli
promananti dal diritto comunitario e dall’altro attribuisce all’ente territoriale la competenza a
stipulare degli accordi o intese internazionali, nell’ambito della stretta esecuzione di politiche
negoziate a livello statale; inoltre, la riforma realizza la costituzionalizzazione del potere delle
regioni, nelle materie di loro competenza, di dare attuazione in via legislativa, ove non sia
sufficiente la via regolamentare, agli atti normativi dell’UE.
Pertanto, per quanto concerne i limiti alla potestà normativa regionale, l’art. 117 (I co.) compie
una parificazione sostanziale (e formale) dello Stato e della Regione: tanto la legislazione statale
quanto la legge regionale sono tenute al rispetto della Costituzione e dei vincoli comunitari e
internazionali, che assumono rispetto a tali fonti valore para-costituzionale. Un principio della
“parità di trattamento” così strutturato riflette una configurazione delle regioni come ordinamenti
“parziali” rispetto all’ordinamento “generale” della Repubblica, di forte ascendenza kelseniana54.
La rigidità del modello duale viene, però, attenuata da un lato, dalla previsione costituzionale di
una serie di momenti di cooperazione tra organi statali ed organi regionali: l’art. 120 novellato
prevede un potere sostitutivo del governo – e il mancato richiamo ai principi di necessità ed
urgenza lascerebbe intendere un esercizio del potere sostitutivo per il tramite di atti amministrativi in caso di inerzia dei livelli substatali di territorial government. In particolare, tale disposizione, che
rappresenta un correttivo al principio di sussidiarietà che anima l’intera riforma, può essere
interpretato in modo da estendersi anche al mancato esercizio di potestà legislative esclusive o
essere limitato alla dimensione amministrativa della competenza globale dell’ente territoriale:
quest’ultima soluzione, ad avviso di taluni commentatori, sarebbe quella percorribile al fine di
evitare un radicale «sconvolgimento dell’ordinario assetto delle fonti» ed un impiego del potere
governativo di sostituzione come «strumento generale di penetrazione dello Stato negli ambiti
regionali per perseguire istanze unitarie, possa avvenire … a prezzo di un totale abbandono dei
principi di legalità e dello Stato di diritto»55.
In realtà la qualificazione dell’ibrido costituzionale emerso dalla revisione come “federalismo”
non può essere accettata se non come slogan politico da parte di chi intende suggerire l’eventuale
secessione di aree del territorio nazionale e la loro edificazione in “stati”, fenomeno che, come
l’esperienza storica ha dimostrato e dimostra, risulta estraneo alle molteplici esperienze di stati
federali (siano esse la risultante di processi centripeti – USA – o centrifughi – Belgio, ex
Iugoslavia): pur con tutte le perplessità che accompagnato la ”messa in moto” di un meccanismo
complesso quale quello connesso alle recenti esperienze di governo devoluto, ciò che conta ai fini
della valutazione dei risultati complessivi della riforma è la verifica del grado di estensione delle
competenze degli enti territoriali devoluti e la qualità dei loro rapporti con le istituzioni centrali di
governo e con la società civile (in termini di tutela dei diritti, purché compatibile con il principio di
uniformità di trattamento giuridico).
54 R. Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, in A. Ruggeri, G. Silvestri (Cur.), Le fonti del diritto
regionale alla ricerca di una nuova identità, Milano, Giuffè, 2001, pp. 129ss.; A. Anzon, I poteri delle regioni dopo la
riforma costituzionale. Il nuovo regime e il modello originario a confronto, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 77ss.
55 A. Anzon, I poteri delle regioni…, cit., p.217.
21
Elementi di forte asimmetria, strutturale e funzionale, sono presenti anche nei sistemi di
multilevel governance scaturiti dai processi devolutivi realizzati nel Regno Unito: in tale contesto,
l’unico modello di devolution operante a livello normativo primario è quello realizzatosi in Scozia.
Questa “nazione-regione”, che ha conservato successivamente all’Act of Union del 1707 il suo
sistema giudiziario, improntato alla tradizione codicistica continentale, nonché la religione
presbiteriana, è ormai dotata di istituzioni politiche proprie: la Scozia ha, pertanto,
un’organizzazione territoriale peculiare basata sul potere legislativo del parlamento e su di una
competenza generale in materia amministrativa (sanità, insegnamento primario e secondario,
formazione professionale, aiuti sociali, sviluppo economico e trasporti, giustizia e polizia, ambiente,
agricoltura, pesca, foreste, sport, cultura, amministrazione locale). Le prime due parti dello
Scotland Act disciplinano l’istituzione e le funzioni dello Scottish Parliament e l’organizzazione
dell’amministrazione scozzese: il parlamento scozzese, organizzato su base monocamerale, è
composto da 129 membri eletti con un sistema elettorale misto, vale a dire 73 membri con il
sistema elettorale uninominale maggioritario a un turno, i cui collegi corrispondono ai collegi
parlamentari scozzesi (cui vanno aggiunti i due rappresentanti delle Orkneys e Shetlands) e 56
con il sistema proporzionale in base a circoscrizioni regionali, corrispondenti alle otto circoscrizioni
previste per l’elezione al parlamento europeo dall’European Parliamentary Constituencies Scotland
Order del 1996, ciascuna delle quali esprime sette rappresentanti. L’adozione di un sistema
elettorale ibrido, in cui il rigore del sistema elettorale uninominale a maggioranza relativa viene
attenuato da elementi di proporzionalità, evidenzia il superamento del timore di diluire il rapporto
tra elettore ed eletto, anche se una certa predominanza è assicurata ai constituency members, la
cui elezione viene proclamata prima di quella dei regional members (che possono candidarsi
individualmente o aggregarsi a una lista di partito registrato), condizionando i seggi ottenuti con il
sistema maggioritario la distribuzione di quelli guadagnati con il sistema proporzionale.
Di tono minore la devolution gallese: l’assemblea territoriale monocamerale è composta da 60
membri, di cui 40 sono eletti con sistema uninominale maggioritario e 20 con sistema
proporzionale di lista, avendo il Government of Wales Act seguito la medesima opzione dello
Scotland Act per un sistema elettorale misto. La Welsh Assembly non ha ottenuto l’attribuzione di
potere legislativo, ma solo di potere normativo secondario e, pertanto, gode di un ambito di
autonomia circoscritto alle sole funzioni amministrative in materie trasferite con Statutory orders
(atti di legislazione delegata) nella forma degli Orders in Council e non ha poteri in materia
finanziaria, a differenza dello Scottish Parliament che si è visto attribuire una limitata capacità
tributaria (tasse per i fondi di gestione delle materie devolute). Viene, in tal modo, confermato il
proposito manifestato nel White Paper del 1997 di rafforzare gli elementi di unità del Regno Unito.
Asimmetrie evidenti sono presenti nello schema di ripartizione delle devolved matters passando
da un tecnica devolutiva ampia di intere aree funzionali per lo Scottisch Parliament, cui fa da
contralto un catalogo di reserved matters enumerate in modo tassativo e che competono alle sedi
centrali (parlamento di Westminster) al fine di evitare conflitti tra differenti fonti normative di pari
livello, a un riparto di attribuzioni secondo un criterio meramente “materiale” per la Welsh
Assembly, destinataria dei settori funzionali di competenza del Welsh Office, operando il criterio di
residualità per le materie riservate al potere centrale (non ricorrendo in tale ipotesi il rischio di
conflitti normativi, trattando di livelli diversi di normazione).
Il criterio di riparto delle competenze tra potere centrale e parlamento scozzese richiama la
tecnica adottata nei sistemi federali, anche se la quantità e la qualità delle materie riservate al
parlamento di Westminster inducono, piuttosto, a includere il modello devoluto britannico tra i
sistemi a decentramento avanzato: una duplice conferma, diretta e indiretta, a questa conclusione
può trarsi sia dall’ampio ventaglio di competenze riservate56 sia dalla previsione di una certa
flessibilità nei rapporti tra materie riservate e materie devolute, in quanto l’Act del 1998 consente,
con un Order in Council, che deve avere il doppio consenso dello Scottish Parliament e di
56 Si rammentano: gli ambiti di rilievo istituzionale (la Corona, l’unione dei regni di Inghilterra e Scozia, il parlamento)
la giurisdizione, la disciplina dei partiti politici (costituzione e registrazione), la politica estera (compresi i rapporti
internazionali e le relazioni con l’Unione europea); la difesa e la sicurezza pubblica; la politica monetaria, le forze armate;
la legislazione elettorale; immigrazione e cittadinanza; attività economico-industriali (concorrenza, pesca, tutela dei
consumatori, diritto di autore, disciplina del lavoro, previdenza, sanità, media, cultura, gestione dell’energia elettrica e dei
trasporti); legislazione sulla droga; privacy, spettacolo, giochi, ivi comprese le lotterie e le scommesse.
22
entrambe le Houses del parlamento di Westminster, una modifica della scottish legislative
competence.
Il processo di devolution nell’Irlanda del Nord, realizzato con il Northern Ireland Act del 1998,
che ha subito una battuta di arresto a causa del lacerante conflitto politico-religioso nuovamente
esploso tra la comunità cattolica e la comunità protestante57, essendo tale processo subordinato
dal Good Friday Agreement (noto anche come Belfast Agreement) del 10 aprile 199858 alla
pacificazione tra le opposte fazioni, prevede una strutturazione del parlamento nordirlandese a
base unicamerale, formato da 108 membri eletti per quattro anni con il sistema proporzionale del
single trasferable vote; la scelta monocamerale è fondata sull’esigenza di garantire una
rappresentanza della comunità nel suo complesso, consentendo l’emersione delle diverse istanze
radicatesi nell’alta frammentazione politica, caratteristica storica dell’Ulster: un tratto peculiare
dell’assemblea è, inoltre, dato dall’istituto del cross-community support, consistente in una
particolare maggioranza, identica per gli unionisti e i nazionalisti, con la quale si procede
all’approvazione di atti su materie di interesse comune.
L’assemblea nordirlandese esercita il potere legislativo in tutte le materie non espressamente
riservate al parlamento nazionale, che si vede ingabbiato in una duplice griglia di attribuzioni: le
excepted matters (competenze esclusive) riguardano quei settori considerati di pertinenza
essenziale del potere centrale, attenendo ad ambiti considerati “indivisibili” e dunque riferibili allo
Stato nella sua “unicità” (poteri della Corona, politica, interna, politica estera, difesa, nomina e
revoca dei giudici della Court of Judicatory of Northern Ireland, cittadinanza, imposizione fiscale,
politiche sociali, legislazione elettorale; servizi pubblici) e le reserved matters (competenze
riservate) relative a settori pubblici, come il servizio delle poste, per i quali non si escludono
successivi interventi devolutivi, quasi a dire con un attento studioso della realtà britannica che
«questi due complessi di materie configurino le dimensioni di una dignified e di una efficient
devolution, e come tali – soprattutto se si considerano le potenzialità della flessibilità devolutiva e
se si tiene presente che al ministro responsabile del Northern Ireland Office compete la decisione
in ordine al trasferimento di ulteriori poteri – promettono interessanti sviluppi per il futuro di un’area
in cui la pacificazione sociale e politica giunga ad essere una realtà più consolidata di quanto non
lo sia nella fase attuale»59.
Nei rapporti con l’Unione europea, stante la corrispondenza tra molte delle devolved matters
con le politiche comunitarie, non si esclude un attivo coinvolgimento dello Scottish Parliament
nelle fasi ascendenti e discendenti del procedimento di decisione comunitaria, sia attraverso forme
di informazione e di consultazione preventiva, sia attraverso l’elaborazione di norme che diano
attuazione diretta al diritto comunitario, senza mediazioni del parlamento britannico; soluzione
questa non praticabile sul territorio gallese per la necessaria conformazione della normazione
secondaria della Welsh Assembly con la legislazione nazionale prodotta dal parlamento di
Westminster, interlocutore necessario tra le istituzioni comunitarie e quest’area territoriale. Inoltre,
vanno ricordate da un lato la partecipazione delle aree territoriali scozzese e gallese al Comitato
delle regioni e dall’altro forme di partnerships economiche con regioni di altri paesi (tra cui sono
state individuate quali privilegiati interlocutori il Baden-Wüttemberg, la Rhône-Alpes, la Catalogna
e la Lombardia)60.
57
Data 14 dicembre 2001 il Northern Ireland Decommissioning (Amendment) Bill (Bill 63 of 2001-2), che conferisce
al Segretario di Stato il potere di elaborare una proposta di disarmo dei gruppi paramilitari che estenda il periodo di
amnesty inizialmente previsto sino al 27 febbraio 2003 al 27 febbraio 2007 (il testo del progetto è reperibile sul sito:
www.parliament.uk/commons/lib/research/rp2001/rp01-114.pdf).
58 L’accordo si caratterizza per la fase delle negoziazioni cui partecipa attivamente anche una delegazione
americana, oltre ai rappresentanti del governo britannico, del governo dell’Eire e delle maggiori forze politiche, tra cui
primeggiano il partito cattolico e separatista dello Sinn Féin e il partito protestante e unionista dell’Ulster Union Party (A.
Torre, “On Devolution”. Evoluzione e attuali sviluppi delle forme di autogoverno nell’ordinamento costituzionale
britannico, in Le Reg., 2000, p. 295; G. de Vergottini, Le transizioni costituzionali, Bologna, il Mulino, 1998, p. 216).
59 A. Torre, On Devolution…, cit., p. 306.
60 Per alcuni riferimenti bibliografici: A. Torre, On Devolution…, cit., pp. 202-340, in part. pp. 273-322; idem, La
devoluzione dei poteri, nuovo punto d’accesso all’Unione europea? (note per una ricerca sul caso britannico), in M.
Scudiero, Il diritto costituzionale comune europeo. Principi e diritti fondamentali, vol. I, t. II, Jovene, Napoli, 2001, pp.
728ss.; A. Vedaschi, La devolution of powers in Scozia e in Galles, in Dir. pub. comp. ed eu., 1999, pp. 83ss.; S. Sassi,
La questione nordirlandese: aggiornamento di una storia di tentativi politico-costituzionali, in Dir. pub. comp. ed eu.,
1999, pp. 69ss.; J. Bradbury, J. Mitchell, Devolution: New Politics for Old?, in Parl. Aff., 2001, pp. 257ss.; E. Tannam,
Explaining the Good Friday Agreement; A Learning Process, in Gov. Opp., 2001, pp. 493ss.; A. Page, A. Batey,
23
Lo schema di riparto delle competenze accolto dalla Costituzione spagnola si presenta
complesso, non privo, a tratti, di talune ambiguità: la Costituzione spagnola ha accolto un sistema
“a doppia riserva”, prevedendo nell’art. 149.1 un dettagliato elenco di materie (se ne contano
trentadue) riservate allo Stato centrale – e sulle quali le Comunità possono intervenire solo su
trasferimento o delega espressa con legge organica oppure nell’ipotesi in cui le Cortes statali
autorizzino le Comunità a dettare nel proprio territorio norme nell’ambito dei principi fissati con
legge dello Stato (art. 150) –, e nell’art. 148.1 quelle riservate alle Comunità autonome. In un
sistema così delineato l’ambiguità risiede nell’individuazione del soggetto titolare delle materie
residue, quelle non comprese in alcun elenco: la Costituzione prevede un criterio di assegnazione
automatica alle Comunità, fermo restando che, qualora taluna delle materie residue non sia stata
prevista negli statuti, sulla medesima si riespanderà la competenza statale, ed in caso di conflitto
prevarranno le norme dello Stato (artt. 148.1 e 149.3); il che parrebbe indirizzare nel senso di una
disomogeneità statutaria, a seconda che alcuni statuti annoverino oppure no le materie
“facoltative”.
Infine vanno considerate le diverse modalità di distribuzione delle competenze tra i differenti
sistemi di Comunità autonome. La Costituzione del ’78 si limita a operare il riparto delle materie tra
il livello centrale e il livello regionale, senza spingersi a individuare in relazione a ciascuna materia
il tipo di competenza attribuita. In assenza di un criterio costituzionale, le materie si intendono,
pertanto, devolute alle competenze legislative, esecutive e finanziarie61 delle Comunità, le quali, fra
l’altro, godendo dell’autonomia istituzionale (art. 148.1), procedono ad organizzare in modo libero
le proprie istituzioni, dotandosi sia di organi amministrativi che di organi legislativi, le cui
competenze risultano dallo statuto62.
Stando, dunque, alla lettera dell’art. 148.1, il nucleo originario delle competenze delle Comunità
è dato dall’elenco contenuto nella Costituzione, al quale potranno essere aggiunte, nel termine di
cinque anni dall’approvazione dei relativi statuti, quelle competenze non espressamente riservate
allo Stato dalla Costituzione o che questo non abbia espressamente trasferito o delegato. Per
quanto concerne, invece, gli statuti di autonomia approvati con il procedimento speciale, questi
non sono soggetti al limite temporale potendo prevedere, ab initio, l’allargamento di competenze
legislative ed esecutive: ciò non significa che le Comunità ad autonomia speciale siano esenti da
limiti, sia in quanto i principi stabiliti dalle leggi quadro si applicano anche alla legislazione delle
dette Comunità, e sia perché spetta sempre alle Cortes stabilire i trasferimenti e le deleghe nelle
materie di competenza statale, cosicché «dipende, dunque, dallo Stato centrale non solo il
“quando”, ma anche il “quanto” debba ricadere nella sfera di ciascuna Comunità autonoma»63.
L’impianto gradualistico delle competenze in tale ordinamento riflette, pertanto, il compromesso
d’origine tra partiti nazionalisti e autonomisti regionali.
Per quanto concerne, infine, il recente processo di décentralisation nella Francia metropolitana,
il disegno di legge costituzionale, concepito dal Presidente della Repubblica Chirac e dal primo
ministro Raffarin e presentato il 16 ottobre 2002 dal ministro di grazia e giustizia, avente ad
oggetto il ridisegno dell’organizzazione territoriale francese, che segna una decisiva tappa della
riforma proiettata all’edificazione di una “République de proximité”, ha ricevuto una definitiva
“consacrazione” con il voto del Congresso di Versailles il 17 marzo 2003: i principi del
decentramento amministrativo e della sussidiarietà, che a Costituzione invariata sono stati
rintracciati faticosamente dalla giurisprudenza del Conseil nel complesso reticolo di norme implicite
al testo costituzionale a partire dalla storica decisione n. 213 del 1982, ricevono piena cittadinanza
costituzionale dall’articolato, il cui esame è partito dal Senato nella seduta del 29 ottobre 200264.
Scotland’s Other Parliament; Westminster Legislation about Devolved Matters in Scotland since Devolution, in Pub. Law,
2002, pp. 501ss.
61 In materia di autonomia finanziaria i principi sono gli stessi sia per i sistemi ad autonomia generale che per quelli
ad autonomia speciale: gli artt.156 e 157 della Costituzione del ’78 stabiliscono che l’autonomia finanziaria delle
Comunità deve essere armonizzata con quella dello stato e con il principio della solidarietà tra gli spagnoli. Le entrate
sono di due tipi, quelle derivate dallo Stato, costituite da imposte devolute totalmente o parzialmente dallo Stato,
sovraimposte e partecipazione al gettito erariale dello Stato, e quelle proprie delle Comunità autonome, consistenti in
imposte, tasse, contributi e rendite che provengono dal patrimonio regionale (M.A. Aparicio, Lineamenti…, cit., p. 62).
62 Sul punto M.A. Aparicio, Lineamenti…, cit., p. 61.
63 Cfr. M.A. Aparicio, Lineamenti…, cit., p. 63.
64 L’esame della legge costituzionale parte dal senato in ossequio alla natura di tale organo che è quella di non tanto
di seconda camera rappresentativa delle territorialità quanto fertile terreno di incontro tra potere centrale e istanze locali,
24
La revisione costituzionale sulla décentralisation ha rappresentato il grand chantier
del
quinquennato e venti anni dopo la loi Defferre propone una nuova architettura dei poteri fondata
sul principio del decentramento, che non mette in discussione il principio unitario: come si legge
nell’exposé des motifs l’articolo 1 della Costituzione che enuncia i principi che forgiano l’identità
repubblicana unisce ai principi della sovranità nazionale e dell’unità e indivisibilità della Repubblica
il decentramento in quanto principio di organizzazione amministrativa, che in un simile contesto
costituisce un elemento di dinamismo sistemico e di modernizzazione istituzionale, contribuendo a
un’applicazione più concreta e meno cartesiana del principio di eguaglianza65.
La revisione costituzionale si propone una riforma globale, affidata a un successivo blocco di
leggi organiche e ordinarie di concreto “trasferimento” delle materie devolute alle istituzioni del
governo territoriale, che ridisegni la cornice costituzionale del titolo XII, dotando gli enti territoriali di
uno statuto costituzionale minimo, completato da uno statuto legislativo ritagliato sulle specifiche
esigenze. Lo statuto costituzionale minimo si articola su cinque pilastri fondamentali: principio di
sussidiarietà, principio del decentramento territoriale, principio democratico diretto a livello locale,
principio dell’autonomia finanziaria, statuto degli enti d’oltremare.
La riforma costituzionale investe sia il piano dei principi costituzionali dell’organizzazione
istituzionale dello Stato sia il titolo XII, che com’è noto, disciplina l’assetto territoriale della
Repubblica francese: sotto il primo profilo, oltre al già citato articolo 1, viene in gioco la modifica di
alcuni principi interessanti l’esercizio del potere legislativo. Si tratta, in particolare, della previsione
di un nuovo art. 72-4 che autorizzerebbe, nelle condizioni previste dalla legge organica di
attuazione e nel rispetto delle norme poste a garanzia dell’esercizio di una libertà pubblica o di un
diritto costituzionalmente garantito, l’ente territoriale a sperimentare, su delega del parlamento e
del governo secondo il tipo di fonte interessata, modifiche della normativa nazionale che regola
l’esercizio di competenze loro conferite: la prassi delle sperimentazioni normative, ammessa a
rigide condizioni dalla giurisprudenza costituzionale sull’organizzazione degli istituti universitari e
sulla riforma dell’organizzazione territoriale della Corsica per l’insito pericolo di violazione del
principio di eguaglianza e di generalità della legge, rappresenta uno strumento idoneo a favorire la
delega della regolamentazione di materie dallo Stato alle regioni per un periodo determinato
preventivamente, al termine del quale il parlamento valuterà il successo della delega. Vigente la
delega, si realizzerebbe una singolare coesistenza tra vecchie norme aventi portata generale e
nuove norme con effetti territorialmente limitati e allo scadere del termine assegnato si
presenterebbe la seguente alternativa: o il legislatore nazionale approva una nuova normazione
del settore delegato o la vecchia normativa rivive.
In realtà, la soluzione offerta dalla recente revisione costituzionale per legittimare il ricorso alle
sperimentazioni legislative appare poco convincente sia perché sembra che il governo abbia voluto
operare una brusca sterzata abbandonando la strada intrapresa con la tecnica illustrata – che
presuppone la volontà di ampliare e non restringere l’ambito di operatività dell’ente territoriale –
sia perché al governo è sfuggita l’occasione di tramutare lo strumento delle sperimentazioni
normative da misura temporanea a trasferimento definitivo di competenze e sia perché una volta
attribuito alle regioni, in virtù della nuova formulazione dell’art. 72, III co., un potere regolamentare
generale, il trasferimento delle materie oggetto di sperimentazione non implicherebbe il
trasferimento di potere legislativo essendo le medesime già titolari di potere regolamentare, stando
alla lettera dell’art. 72 riformato. Inoltre, le considerazioni che precedono ricevono indiretta
conferma dalla costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà, che nella sua implicita valenza
di criterio di riparto competenziale, sebbene non previsto da alcuna norma scritta, ha sorretto
l’articolato edificio dell’organizzazione territoriale francese a partire dal momento in cui,
abbandonata la tecnica dei blocs des compétences, si è scelta una ripartizione più pragmatica
delle competenze affidando l’intera materia ad un solo ente con l’eventuale intervento degli altri
consentendo alle seconde di emergere e di coagularsi a livello nazionale (sul punto M. Cartabia, L’organizzazione
costituzionale, in AA.VV., Il governo locale in Francia, Gran Bretagna, Germania, ISAP, Milano, 1998, p. 40).
65 L’art. 1 della legge costituzionale, richiamando significativamente l’art. 5 della Costituzione italiana («La
Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua, nei servizi che dipendono dallo Stato, il
più ampio decentramento amministrativo; …»), integra l’art. 1 della Costituzione francese introducendo la seguente
affermazione: «Son organisation est décentralisée». L’art. 1 della Costituzione vigente stabilisce: «La France est une
République indivisible, laïque, démocratique et sociale. Elle assure l'égalité devant la loi de tous les citoyens sans distinction d'origine, de race ou de religion. Elle respecte toutes les croyances».
25
livelli di governo locale sotto forma di parere, proposta, accordo o convenzione (cd. affaire
locale)66: la formulazione del secondo comma dell’art. 72 non lascia dubbi a proposito della
configurazione del principio di sussidiarietà quale criterio naturale di allocazione delle competenze
legato alla vocazione naturale degli enti territoriali ad essere destinatari di compiti la cui
realizzazione tocca da vicino gli interessi degli amministrati67. Sarebbe, quindi, consequenziale per
lo Stato procedere alla delegazione alle regioni del potere normativo in quei settori in cui si
manifesta la vocazione naturale all’esercizio delle competenze amministrative.
La riforma costituzionale prevede, inoltre, l’inserimento di due nuovi articoli, il 72-1 e il 72-2, il
primo dei quali dedica particolare attenzione allo sviluppo della democrazia locale, prevedendo tre
strumenti di democrazia diretta: il diritto di petizione all’assemblea locale; il referendum preventivo
su progetti di atti di competenza dell’ente territoriale; il referendum preventivo su decisioni del
parlamento o del governo concernenti l’organizzazione dell’ente territoriale, come nel caso previsto
sempre dall’articolo 72 in cui il legislatore proceda alla creazione di un nuovo ente territoriale (per
cui dovrebbero essere consultati gli elettori iscritti nella parte del territorio corrispondente alla
nuova collettività)68. L’art. 72-2 costituzionalizza, infine, il principio dell’autonomia finanziaria stabilendo che «La libre administration des collectivités territoriales est garantie des ressources» proprie e derivate «dont celle-ci peuvent disposer librement dans les conditions fixées par la loi» e che
«Tout tranfert de compétences entre l’Etat et les collectivités territoriales s’accompagne de
l’attribution de ressources équivalentes à celle qui étaient consacrées à leur exercice» e riconoscendo, pertanto, capacità impositiva agli enti territoriali.
3.a. Segue. 2. La partecipazione degli enti substatali al procedimento di revisione
costituzionale.
Discutendo di classificazioni tipologiche, va necessariamente affrontata la problematica inerente
alla partecipazione degli enti territoriali al procedimento di revisione della Costituzione nazionale:
anche in Italia il recente dibattito sulla revisione del titolo V della Costituzione ha riaperto la storica
querelle sull’insufficiente grado di partecipazione garantito alle regioni dall’art. 138, che si limita a
prevedere un intervento regionale ex post, successivamente all’adozione del progetto di revisione
da parte delle Camere – a meno che l’emendamento non sia stato approvato a maggioranza dei
2/3 - e nell’ambito del procedimento referendario (richiesta collegiale da parte di cinque consigli
regionali), nonché nella fase dell’iniziativa (art. 121 Cost.)69. Va rapportata al dibattito
costituzionale sulla riforma regionale italiana la tendenza da parte di alcune regioni (Veneto,
Lombardia, Piemonte) a modulare la fase dell’iniziativa della revisione facendo precedere da un
referendum consultivo le proposte di revisione costituzionale in materia regionale: sebbene la
Corte costituzionale abbia confermato la natura tipica del procedimento di revisione costituzionale,
rispetto al quale il referendum consultivo regionale rischierebbe di alterare il rapporto genuino tra
volontà popolare espressa nel referendum costituzionale e volontà statuale espressa
dall’approvazione della legge costituzionale del parlamento, oltre ad incidere sostanzialmente sulla
successione delle fasi di un procedimento tipizzato da norme costituzionali (Sentt. N. 470 del
199270 e 496 del 200071), alcune modifiche introdotte alla Costituzione dalle leggi costt. nn. 2/2001
e 3/2001 sembrano aprire un varco alla revisione dell’articolo 138, prevedendo da un lato per le
regioni a statuto speciale l’adozione del parere del consiglio regionale interessato entro due mesi
dalla presentazione del progetto di revisione, che in caso di approvazione non va sottoposta a
referendum nazionale, e dall’altro la possibilità, prevista dal nuovo art. 116, III co., che le regioni
66 C. Chabrot, l’organizzazione territoriale, in D. Rousseau (a cura di), L’ordinamento costituzionale della V
Repubblica francese, Giappichelli, Torino, 2000, pp. 364-365.
67 L’art. 72, II co., è così formulato: «Les collectivités territoriales ont vocation à exercer l’ensemble des compétences
qui peuvent le mieux être mises en œuvre à l’échelle de leur ressort» (projet de loi constitutionnelle, presentato il 16 ottobre 2002, reperibile sul sito internet : www.premier-ministre.gouv.fr).
68 In tutte queste forme di referendum è previsto il controllo del giudice amministrativo sulla regolarità della
consultazione, trattandosi di consultazioni aventi ad oggetto atti amministrativi, mentre le consultazioni per le quali l’art.
60 Cost. prevede il controllo del Consiglio costituzionale sono quelle organizzate sul fondamento degli artt. 11 e 89 Cost.
69 T. Groppi, Federalismo e Costituzione. La revisione costituzione negli stati federali, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 42ss.
70 In Giur. Cost., 1992, pp. 4252ss.
71 In Giur. Cost., 2000, pp. 3798ss.
26
ordinarie, sulla base di un’intesa con lo Stato, estendano la propria competenza normativa su
materie statali riservate a seguito di legge proposta dalle regioni e approvata dal parlamento a
maggioranza assoluta, realizzando una deroga al riparto competenziale previsto dall’art. 117 in
forma dissimile da quella prescritta dall’art. 138.
Restano ugualmente tagliate fuori dal procedimento di revisione costituzionale le comunidades
autónomas spagnole che partecipano, limitatamente alla fase dell’iniziativa, al procedimento di
revisione, riservato al parlamento, nel quale esse sono scarsamente rappresentate72: l’art. 69, co.
5, della Costituzione del ’78, dopo aver stabilito, al primo comma, il principio della rappresentanza
“territoriale” del Senato, fissa una “quota” di rappresentanza delle comunità autonome pari a un
senatore per ognuna più un senatore ogni milione di abitanti, rappresentanti designati dai legislativi
degli enti territoriali.
Venendo all’incidenza che la partecipazione degli enti autonomici al procedimento di revisione
costituzionale esercita sulla classificazione – con i limiti prima rilevati in ordine alla attualità di certe
tipologie – dei tipi di stato, un dato fondamentale rilevato da tempo dalla dottrina concerne la
configurazione delle modalità di revisione costituzionale con riferimento al grado di partecipazione
degli enti substatali quale elemento di discrimine tra stato federale e stato regionale.
La saldatura tra principio di partecipazione degli Stati membri al procedimento di revisione
costituzionale e tipologia di stato federale si rinviene nel fatto che, pur concorrendo ai mutamenti
costituzionali e in questa veste esercitando una funzione federale (principio di partecipazione), gli
Stati membri non riespandono la loro originarietà, la quale si è dissolta nella Costituzione federale
e “pattizia” attraverso il trasferimento irrevocabile della sovranità, per cui a partire da quel
momento la fonte di legittimazione dei poteri diviene la Costituzione dello stato federale, che può
anche fissare dei limiti alla sua revisione attraverso cc.dd. “clausole di immodificabilità” (principio di
sovrapposizione)73.
Invero, la partecipazione diretta degli enti territoriali al procedimento di revisione costituzionale,
quale elemento qualificante il fenotipo “stato federale” sia in senso statico che dinamico,
rappresenta una delle più evidenti eredità della originaria statualità degli enti federati e la loro
proiezione pro futuro, dopo che negli Stati che si sono dati un ordinamento federale per
aggregazione si è passati, nello svolgimento del federalizing process, dal principio dell’unanimità
che contrassegnava le esperienze confederali al principio della maggioranza nell’esplicazione del
potere decisionale74.
In genere, sebbene in alcuni casi la formazione del consenso si presenti macchinosa e
complessa mentre in altri casi di più agevole conseguimento, la modalità di partecipazione degli
enti territoriali substatali al procedimento di revisione costituzionale prevede due forme di
intervento: un intervento diretto e un intervento indiretto.
La prima formula, quella della partecipazione diretta degli Stati membri, è più ricorrente nello
Stato federale sorto per aggregazione (per cui l’originario consenso funge da fonte di
legittimazione della statualità della federazione) e ricorre in Europa occidentale nella Costituzione
svizzera, nella quale la partecipazione diretta degli Stati membri al procedimento di revisione
viene mediata dal voto della proposta di revisione da parte dei legislativi statali (il “consent”
richiesto si intende raggiunto quando votano la maggioranza assoluta dei legislativi degli enti
decentrati) e il progetto così approvato deve ricevere la “sanzione” popolare attraverso
referendum. Il referendum del 18 aprile 1999, che ha approvato definitivamente la revisione della
Costituzione elvetica, è l’epilogo di un procedimento molto laborioso che ha visto la presentazione
di osservazioni sul progetto di revisione da parte di organi istituzionali (governi cantonali,
Conferenza dei governi cantonali, Comuni) e organismi della società civile (partiti, organizzazioni
religiose, economiche e femminili, associazioni professionali e di lavoratori), confermando la
configurazione della Svizzera quale Repubblica semi-diretta75.
La commistione tra procedure di revisione tipiche dello stato federale con elementi propri della
democrazia pluralista si rinviene nell’esperienza costituzionale austriaca, nella quale accanto
72
G. Corona, I problemi della revisione costituzionale in Spagna, in Quad. cost., 1998, pp. 98 ss.
A Reposo, Profili dello Stato autonomico. Fderalismo e regionalismo, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 90-91.
74 T. Groppi, La revisione costituzionale negli Stati decentrati tra pluralismo territoriale e aterritoriale, in Le Regioni,
2002, pp. 1053-1054.
75 M.P. Viviani Schlein, La nuova Costituzione svizzera: una soluzione originale, in Dir. Pubb. Comp. ed Eu., 1999, p.
500.
73
27
all’intervento indiretto dei Länder per il tramite del Bundesrat (che delibera a maggioranza relativa
con un quorum partecipativo di un terzo dei suoi membri, configurandosi un “veto sospensivo”) per
le revisioni totali che interessino i principi fondamentali della Costituzione federale (principio
democratico, repubblicano, liberale, distributivo delle competenze) è richiesta la deliberazione
popolare e in particolare, quando la revisione riguardi il criterio di distribuzione delle competenze
tra Bund e Länder al Bundesrat compete un “veto risolutivo” consistente nella deliberazione a
maggioranza dei due terzi dei voti con un quorum partecipativo di metà dei componenti76.
La Grundgesetz federale tedesca (art. 79, co. 3, GG) irrigidisce la clausola dello state consent
prevedendo l’immodificabilità (cd. unchangeable clause) delle disposizioni costituzionali relative ai
principi qualificanti la forma di stato repubblicana tedesca come “stato federale” contenuti negli artt.
1 e 20 della GG, all’articolazione del Bund in Länder, alla partecipazione dei Länder alla funzione
legislativa federale. Negli altri casi, la proposta di revisione costituzionale è approvata se consegue
la maggioranza dei due terzi rispettivamente del Bundestag e del Bundesrat (art. 79, co. 2, GG).
Connaturata alla configurazione “debole” del federalismo belga il procedimento di revisione non
supera il limite della funzione riservata agli organi federali: l’art. 195 affida alle Camere nella
misura della maggioranza dei due terzi, con un quorum partecipativo dei due terzi dei componenti,
l’approvazione dei progetti di revisione costituzionale e in tale contesto lo spazio decisionale delle
comunità territoriali è ridotto alla presenza nel senato di 21 membri da esse designati.
Le astratte formule dei procedimenti di revisione costituzionale sono poi contestualizzate da un
doppio livello di gradualità che investe sia il livello di partecipazione dei singoli stati federati sia il
contenuto delle disposizioni oggetto di revisione: sotto il profilo teorico vanno distinti gli ordinamenti
nei quali la partecipazione statale è estesa alle modifiche di tutte le disposizioni costituzionali da
quelli in cui la partecipazione degli Stati è limitata al blocco delle disposizioni sull’assetto territoriale
della federazione, come nell’esempio europeo dell’Austria. Occorre dunque verificare se nelle
differenti formule costituzionali di revisione il termine “Costituzione” vada riferito al principio di
libertà o “Costituzione dei diritti” o al principio di organizzazione o “Costituzione dei poteri”77.
Questa esigenza di concretizzazione degli strumenti di garanzia costituzionale si lega
strettamente da un lato, all’invecchiamento dei procedimenti di revisione costituzionale sovente
sclerotizzati in formule che non rispecchiano più il dinamismo della realtà politico-istituzionale tali
da divenire occasione di divisione piuttosto che di integrazione dell’ordinamento giuridico, quando
cioè attorno alle modifiche costituzionali non si formi più il necessario consenso delle parti politiche
e istituzionali (cosicché si rende necessario colmare lo scarto esistente tra costituzione scritta e
costituzione “materialmente vivente” ricorrendo ad altri processi di trasformazione istituzionale,
quali quelli attuati per via legislativa e tramite la giurisprudenza costituzionale); e dall’altro, al ruolo
di profonda integrazione che la revisione costituzionale per il tramite della partecipazione statale
svolge nelle esperienze federali dominate da cleavages stratificati di varia natura (cd. federazioni
disomogenee o “incongruent federalism”), nelle quali «le linee di demarcazione sociale tra i vari
gruppi economici, religiosi, linguistici ed etnici tendono a coincidere con frontiere politiche degli
stati»; al contrario, nelle federazioni omogenee (o “congruent federalism”) in cui i cleavages sono
diffusi e intersecati tra loro su tutto il territorio federale, per cui «le frontiere politiche non
coincidono, o non coincidono più con le frontiere sociali», la partecipazione statale alla revisione
costituzionale non realizza la detta funzione di collante delle diverse istanze sociali non riuscendo
ad esprimere quel pluralismo sociale di cui l’esperienza federale si alimenta78.
Pur nella consapevolezza, prima evidenziata, della non esatta corrispondenza tra definizioni
normative e natura degli Stati, la partecipazione delle unità territoriali all’amending power e lo state
consent espresso dalla maggioranza qualificata identificano gli elementi di distinzione dello stato
federale rispetto alle figure simili: la rigidità costituzionale ancorata al principio maggioritario
realizza l’obiettivo di rendere modificabile a determinate condizioni ciò che viceversa sarebbe non
modificabile, vale a dire svolge concretamente il dinamismo degli ordinamenti costituzionali,
consentendo, pur nell’esaltazione del ruolo “conservatore” delle costituzioni rigide che si sostanzia
76 G. Lienbacher, The Evolution of Federalism…, cit., pp. 119ss. In particolare quando la proposta di revisione ha ad
oggetto un mutamento della posizione costituzionale del Bundesrat è previsto analogo “veto risolutivo”
77 M. Luciani, La “Costituzione dei diritti” e la “Costituzione dei poteri”. Noterelle brevi su un modello interpretativo
ricorrente, in Scritti in onore di V. Crisafulli, Padova, Cedam, 1985, pp. 497ss., in part. p. 506.
78 In tal senso, T. Groppi, La partecipazione degli Stati membri alla revisione delle Costituzioni federali : dai modelli
alla prassi, in T. Groppi, Principio di autonomia e forma dello Stato, cit., p. 156.
28
nella duplice garanzia dell’aggravamento procedurale e del sindacato di costituzionalità, «quel
costante adeguamento, quella “manutenzione” costituzionale che soli possono permettere
all’ordinamento di durare nel tempo»79.
3.b. Le autonomie strutturali: il bicameralismo come principio di rappresentanza delle
territorialità.
Nonostante la forte resistenza opposta dalla dommatica rivoluzionaria, sta di fatto che il
bicameralismo nell’Europa continentale si è costituzionalmente affermato dapprima timidamente in
Francia nell’esperienza direttoriale del 1795, per svilupparsi, successivamente, durante il secolo
decimonono – con l’eccezione francese del parlamento quadricamerale del 1799 e monocamerale
della Seconda Repubblica, a parte la considerazione che negli Stati Uniti l’articolazione bicamerale
del Congresso risale al 1787 –, in tutta Europa, ove ha trovato piena cittadinanza nelle Costituzioni
del secondo dopoguerra come strumento precipuo per modulare la struttura di una camera su
quella molteplicità di esigenze legate al prevalere di interessi ora di classe, ora territoriali, ora
corporativi, corrispondendo a ciascuno di questi “fasci” di interessi una particolare funzione della
camera alta nell’ambito del procedimento legislativo, vale a dire una funzione di raffreddamento,
una funzione di contrappeso, o una funzione spiccatamente tecnica80.
L’ampia accoglienza tributata al principio bicamerale dalle Costituzioni europee del secondo
dopoguerra non deve trarre in inganno: se, difatti, molti sono i pregi del bicameralismo (garanzia
contro le tendenze autocratiche di una sola camera, garanzia del riesame nell’ambito del
procedimento legislativo, rappresentanza diversificata), altrettante sono le ragioni addotte a
sostegno del monocameralismo (necessaria unitarietà della rappresentanza politica, garanzia
contro i rischi legati alla macchinosità di un procedimento legislativo “raddoppiato”, conservazione
della dialettica parlamentare mediante l’articolazione interna in commissioni). Del resto, recente è
la tendenza di alcuni ordinamenti a modularsi su di un sistema monocamerale, com’è avvenuto in
Grecia con la Costituzione del 1975, artt. 26 e 51 ss. ed in Portogallo con la Costituzione del 1976
art. 15081.
Il primo dei quattro modelli di seconde camere prima elencati collega l’esistenza di una seconda
camera all’esigenza di garantire maggiore ponderatezza nell’adozione delle decisioni politiche:
esso è direttamente connesso ad una tendenza più nettamente conservatrice delle camere alte,
legate ad un tipo di rappresentanza di classe o aristocratica (Camera dei Lords in Inghilterra) o
tradizionalista (Senato in Francia), sviluppando un’azione parlamentare di riflessione. In questa
ipotesi però le dinamiche parlamentari interne si risolvono a vantaggio della camera più
rispondente al principio democratico, e dunque a svantaggio delle camere alte82.
T. Groppi, La partecipazione degli Stati membri alla revisione …, cit., p.126.
La polivalenza del sistema bicamerale in relazione agli interessi rappresentati è stata evidenziata da Bastid: «le
procédé bicameral est un procédé polyvalent qui tantôt sert à défendre des intérêts de classe – c’est le cas des
chambres hautes aristocratiques - tantôt à défendre des intérêts corporatifs - c’est le cas des secondes chambres professionnelles – tantôt à assurer un État fédéral – c’est le cas de la Suisse – tantôt simplement à perfectionner
l’organisation d’un pouvoir législatif ordinairement situé dans le cadre de la séparation des pouvoirs» (R. Bastid, Droit
constitutionnel comparé, Paris, Sirey, 1956, p. 225).
81 Cfr. G. de Vergottini, Diritto Costituzionale Comparato, cit., pp. 355 ss.; in particolare sull’ordinamento portoghese
C. De Caro Bonella, Sviluppi della forma di governo in Portogallo dal 1974 al 1982, in Quad. cost., 1983, pp. 323ss.; G.
Lauricella, Il monocameralismo. Premesse per un’indagine comparata, Palermo, ILA Palma, 1990, pp. 37ss.
82 Per l’esperienza inglese si veda il Parliament Act del 1911, che sancisce definitivamente la superiorità della
Camera dei Comuni, istituzionalizzando una prassi che si rinnovava sin dal trecento, col disporre che i money bills
approvati dalla Camera dei Comuni si trasformano in legge, mediante il Royal Assent, se entro un mese da tale
approvazione non siano emendati dalla Camera dei Lords, mentre gli altri bills (sia private che public) divengono legge
qualora la Camera dei Comuni li abbia approvati in due sessioni successive ad intervallo di un anno, senza che
intervenga il delaying power della Camera dei Lords; e il Parliament Act del 1949, che riduce l’esercizio del delaying
power dei Lords ad una sola sessione. Sebbene questi due atti normativi vengano presentati come complesso
inscindibile dalla dottrina giuspubblicistica inglese, il primo è sicuramente una consacrazione della Camera dei Comuni
quale titolare della potestà finanziaria, formalizzando nella statute law dei poteri già esercitati dalla Camera bassa nella
prassi, che aveva visto una rottura con la crisi apertasi nel 1909 a causa delle ripetute opposizioni della Camera alta
all’approvazione dei progetti di bilancio presentati da Lloyd George. Ed è proprio la crisi del 1909-1911 a porre la
questione della trasformazione della Camera dei Lords da ereditaria in elettiva: ma tale progetto di riforma parlamentare
avanzato dai liberali, se pur traeva origine dalle riflessioni di Mill e Bagehot, non ha avuto seguito. A tal proposito, merita
79
80
29
Il secondo modello è quello che ci interessa da vicino essendo direttamente collegato al
discrimen tra sistemi regionali e sistemi federali, connettendosi all’esigenza che siano
rappresentati in una delle due camere interessi territorialmente localizzati: tale tipologia delle
camere alte è direttamente collegata alla struttura federale o ampiamente decentrata (c.d.
regionalismo) della forma di Stato, nella quale il bicameralismo riassume la tensione permanente
tra centro e periferia, il cui punto di equilibrio è costituito dal diverso indice di rappresentatività
collegato alle due Camere, delle quali l’una, la camera bassa, rappresenta il popolo nella sua
totalità, l’altra, la camera alta, rappresenta gli interessi territoriali delle comunità locali che
compongono gli Stati decentrati, in misura che varia da Paese a Paese: in Svizzera, con evidenti
analogie con il prototipo dello stato federale – il modello statunitense –, ogni Cantone ha diritto a
due senatori (e ad uno per ogni semi-Cantone) eletti a suffragio universale diretto senza vincolo di
mandato, mentre in Germania la consistenza numerica dei rappresentanti ciascun Land varia
proporzionalmente alla popolazione, progredendo da un minimo di due ad un massimo di sei per
gli Stati più popolosi83. Rispetto ai sistemi federali tradizionali, la Costituzione Svizzera attribuisce
al Consiglio federale un ruolo “conservatore” rispetto al Consiglio nazionale, facendosi “portavoce”
dei Cantoni, tesi a difendere la griglia delle proprie attribuzioni, sebbene in tendenziale accordo
con le istanze promananti dal popolo sovrano, spesso interpellato facendo ricorso agli strumenti di
democrazia diretta che la Costituzione generosamente disciplina.
Viceversa, la composizione del Bundesrat tedesco conferisce a questa camera il ruolo di
rappresentante degli interessi dei governi dei Länder: Questa posizione della seconda camera
federale rinviene da un lunga tradizione risalente alla Costituzione Imperiale del 1871 (anche se il
suo antenato storico viene identificato dalla dottrina tedesca nel Bundesrat della Costituzione del
Norddeutscher Bund del 1867), che affidava a questo organo il ruolo costituzionale di
rappresentante delle entità federate, mentre dal punto di vista politico era espressione degli
interessi conservatori del potere monarchico, e alla costituzione di Weimar, il cui art. 50
testualmente affermava che il Reichsrat era «organo di rappresentanza dei Länder tedeschi nella
attenzione il Parliament Bill del 1969, che proponeva da un lato l’introduzione di una duplice categoria di Lords, quelli
aventi diritto di voto (vitalizi) e quelli non aventi tale diritto (ereditari), e dall’altro riduceva il termine per l’esercizio del
delaying power da una sessione parlamentare a sei mesi. I successivi bills di riforma dell’istituto parlamentare oscillano
tra una posizione conservatrice di mantenimento dell’istituto, una posizione moderata di riforma e sostituzione della
Camera alta con un’altra elettiva, o espressione di interessi territoriali, o mista, e, infine, una posizione più radicale,
avanzata dall’ala oltranzista del laburisti e dagli esponenti delle Trade Unions, che propendeva per la soppressione della
Camera dei Lords. «In sintesi, si può concludere che le proposte che comportano la scomparsa tout court della Camera
dei Lords sono quelle che più esplicitamente contemplano la riforma di una Camera dei Comuni che, in prospettiva,
rimarrebbe l’unica ed esclusiva titolare della sovranità parlamentare, rischiando di restare schiacciata dall’eccessivo
peso delle sue responsabilità costituzionali» (per un’accurata ricostruzione delle trasformazioni giuridiche e politiche
dell’istituzione parlamentare in Gran Bretagna si veda lo studio di A. Torre, Un modello parlamentare di razionalizzazione
diffusa. Il caso britannico, in S. Gambino (Cur.), Democrazia e forme di governo. Modelli stranieri e riforma
costituzionale, Rimini, Maggioli., 1997, pp. 479-487; in particolare la citazione è tratta dalle pp. 486-487). Per
l’esperienza francese si consideri invece la procedura del vote bloqué che, su richiesta del Governo, consente
all’Assemblea Nazionale di pronunciarsi su di un progetto di legge con gli emendamenti approvati dal Governo
medesimo con un solo voto (art. 44 u.t. comma Cost. fr. ’58); ancora l’istituzionalizzazione di un meccanismo di fiducia
monocamerale, diretto a stabile un legame «di esistenza e vita» tra Assemblea Nazionale, direttamente elettiva, e
Governo, espressione della maggioranza parlamentare (art. 49 Cost. fr. ’58); infine, la procedura della «dernier mot»
dell’Assemblea Nazionale, che si realizza quando, non essendo andata a buon fine la riunione su iniziativa del Prémier
della Commissione mista paritetica ai sensi dell’art 45, 2° comma, il Governo, dopo un’ultima lettura da parte delle due
camere, investe della questione la sola Assemblea Nazionale, che esprime definitivamente il suo voto troncando, in tal
modo l’eventuale navette; questo, come gli altri meccanismi parlamentari tendono a introdurre nel procedimento
legislativo degli elementi di razionalizzazione. Sul punto v. M. Bon Valsassina, Il bicameralismo imperfetto o limitato nelle
Costituzioni contemporanee, in Rassegna di Diritto Pubblico, 1959, pp. 207 ss.; M. Volpi, La democrazia autoritaria,
Milano,Giuffrè, 1979, pp. 135-164; A. Rinella, La forma di governo semi-presidenziale. Profili metodologici e
«circolazione» del modello francese in Europa centro-orientale,Torino, Giappichelli, 1997, pp. 159 ss.
83 Sullo specifico punto Y. Mény, Istituzioni..., cit., pp. 293 ss.; K. Schubert, Il federalismo tra politica e scienza, in
Quaderni cost., 1995, n. 3, pp. 411 ss.; M. Volpi, Stato federale e Stato regionale: due modelli a confronto, in Quaderni
cost., 1995, n. 3, pp. 367 ss. Con riferimento al modello regionale, la rappresentanza di interessi territorialmente
localizzati si manifesta, in particolar modo, attraverso la previsione di un regime differenziato per quelle regioni le cui
peculiarità storiche e culturali necessitano di un’adeguata e specifica tutela: tale differenziazione si rinviene
esplicitamente nella Costituzione italiana (regioni di diritto comune e regioni a statuto speciale) e nella Costituzione
spagnola (Comunità autonome e Regioni); di recente anche la Francia si è uniformata al regime differenziato,
disciplinando con la legge n. 428/91 uno statuto derogatorio per la Corsica (sulla particolare vicenda regionalistica
francese si consenta di rinviare a M. Calamo Specchia, La riforma dello statuto della Corsica..., cit.).
30
legislazione e nell’amministrazione del Reich», ed oggi viene espressamente confermato, essendo
i membri del Bundesrat espressione diretta dei governi dei Länder (secondo il compromesso
costituzionale CDU/CSU – SPD, che ha introdotto il sistema del “Bundesrat attenuato”, che
prevede che gli organi della seconda camera federale coincidano con i membri dei governi dei
Länder), previsione che trova ulteriore conforto nella regola del mandato vincolato dei membri del
Consiglio federale rispetto ai governi territoriali deleganti. Nonostante la scarsa influenza che il
sistema dei partiti ha sui componenti del Bundesrat tedesco, nominati dai governi regionali dei
Länder e, pertanto, carenti di legittimazione democratica, essi secondo il principio del “rinnovo
costante”84 variano continuamente in relazione al variare della consistenza politica dei governi
territoriali: al riguardo è noto il dibattito dottrinario che, pur non giungendo ad una definizione
condivisa di seconda Camera, colloca il Bundesrat al di fuori della visione unitario-istituzionale del
parlamento, orientamento che trova conferma sia nella lettera della Grundgesetz che non impiega
mai il termine “parlamento” ma parla solo di Bundestag e Bundesrat, sia nella storica decisione del
Bundesverfassungsgericht del 1984 (BverfGE 37, 363), nella quale il Tribunale costituzionale ha
chiaramente affermato che il Bundesrat non va qualificato come una seconda camera, in quanto
sul piano politico non opera paritariamente rispetto al Bundestag i cui componenti godono di un
pieno mandato popolare. Va sottolineato, invero, che il Bundesrat ha negli ultimi tempi rafforzato la
sua posizione soprattutto grazie allo sviluppo del suo ruolo nell’ambito dei rapporti con l’Unione
europea, cui ha contribuito la modifica degli arrt. 23 II co. e 50 della GG, secondo cui nelle
questioni relative all’Unione europea collaborano il Bundestag e, attraverso il Bundesrat, i
Länder85.
Segue un andamento del tutto opposto la creazione della seconda camera austriaca, istituita
per la prima volta dalla Costituzione di Pillersdorf del 1848 con un ruolo centralistico e onorifico,
mentre la vocazione federalista appare conferita alla Camera dei Länder dalla Costituzione di
marzo del 1849: per l’istituzione di una seconda camera autenticamente federale occorre
attendere la costituzione repubblicana del 1920, anche se sin dall’inizio il Bundesrat è stato
concepito come arena del confronto politico e non come sede federativa di compromesso delle
istanze territoriali con gli interessi dello Stato federale, ruolo confermato dal principio del mandato
libero rispetto ai governi regionali, nonostante l’esistenza di un vincolo politico dei membri del
Bundesrat al partito di appartenenza («I componenti del Bundesrat ed i loro supplenti sono eletti
dalle Diete provinciali per la durata delle rispettive legislature, secondo il principio generale della
rappresentanza proporzionale» recita testualmente l’art. 35, co.I, B-VG, scandendo il principio del
“rinnovo parziale”86).
La regola per la determinazione del numero dei rappresentanti delle entità federate segue,
pertanto, differenti modalità che variano da un andamento aritmetico, che produce una
rappresentanza equa o paritetica (principio dell’uguaglianza federale) formula adottata in Svizzera
(sebbene in questo paese il correttivo dell’assegnazione di un rappresentante per ogni mezzo
cantone, da alcuni indicata come un inquinamento della formula aritmetica pura, in realtà riassume
la duplice tensione centripeta e centrifuga del sistema svizzero garantendo la parcellizzazione
territoriale e non limiterebbe il principio aritmetico), a un andamento geometrico, che produce una
rappresentanza dei Länder
di tipo proporzionale o ponderale (principio dell’uguaglianza
democratica), riferita cioè alla densità di popolazione (criterio adottato prevalentemente in Austria,
dove il Land più popoloso invia 12 rappresentanti e gli altri Länder ne inviano una quota pari al
rapporto della loro popolazione con la popolazione del Land più popoloso, garantendo una
rappresentanza minima di tre componenti per ogni Land), sino a formule “miste” che coniugano il
principio dell’uguaglianza federale con quello dell’uguaglianza democratica (come avviene in
Germania, dove rispetto ad una garanzia minima di tre voti per i Länder più piccoli, spettano
progressivamente quattro voti ai Länder con più di due milioni di abitanti, cinque voti ai Länder con
più di sei milioni di abitanti e sei a quelli con più di sette milioni di abitanti)87.
84 F. Palermo, Germania e Austria: modelli federali e bicamerali a confronto. Due ordinamenti in evoluzione tra
cooperazione, integrazione e ruolo delle seconde camere, Pubblicazioni del Dipartimento di Scienze Giuridiche,
Università di Trento, 1997, pp. 223-224.
85 F. Palermo, Germania e Austria: modelli federali e bicamerali a confronto…, cit., pp. 306-311.
86 F. Palermo, Germania e Austria: modelli federali e bicamerali a confronto…, cit., pp. 224-225.
87 F. Palermo, Germania e Austria: modelli federali e bicamerali a confronto …, cit., pp. 213ss.
31
Tale graduazione di rappresentatività viene, quindi, supportata dalla previsione del modello
bicamerale imperfetto; se però nella tipologia descritta in precedenza, vale a dire quella che si
identifica con la funzione di “raffreddamento” delle seconde camere, il peso politico maggiore è
svolto dalla camera bassa, in questa ipotesi accade che alla camera alta venga attribuito un ruolo
positivo di contrappeso nei rapporti interorganici: si pensi, per riferirci al modello “storico”, alla
posizione politica del Senato americano, che deve dare il suo consenso alla nomina degli alti
funzionari federali da parte del Presidente, nell’esercizio del suo appointing power, ed alla ratifica
dei trattati internazionali, che si esprime attraverso l’approvazione dei due terzi dei senatori
presenti (art. 2, sez. II Costituzione americana); o ancora si pensi alla particolarissima procedura
dell’emergenza legislativa prevista dall’art. 81 1°, 2° e 3° comma, della Grundgesetz tedesca del
’49, disposizione che, nel caso in cui si versi in una grave crisi parlamentare che non sfocia né
nello scioglimento del Bundestag, e neppure nell’espressione di una nuova maggioranza
governativa, opera un vero e proprio “trasferimento” dell’esercizio della funzione legislativa dal
Bundestag al Bundesrat, bloccando l’ostruzionismo del primo sulla discussione di un progetto di
legge che impegna la responsabilità del governo: lo stato di emergenza legislativo viene dichiarato
dal Presidente della Repubblica e consente al Bundesrat, per un periodo di sei mesi, di essere il
dominus del procedimento legislativo, approvando con la sua sola maggioranza qualsiasi progetto
di legge88.
Pertanto, negli assetti policentrici delle democrazie contemporanee considerate, la questione
dei rapporti strutturali tra enti territoriali ed istituzioni rappresentative nazionali va ripensata con
riferimento al ruolo di bilanciamento svolto dagli interessi territorialmente localizzati (e
“organizzati”) nell’ambito delle dinamiche politiche, in quanto, come emerge dalle situazioni
descritte, gli enti territoriali operano più come elemento di stabilità che come fattore di
disgregazione dei sistemi democratici contemporanei, confluendo gli interessi degli stessi
nell’interesse dello Stato, del quale costituiscono un solido, e imprescindibile, supporto.
4. Il principio di “unità nella diversità” quale elemento comune nei sistemi a multilevel
government e sua influenza sul riparto funzionale di competenze
Qualunque sia la forma di stato o di governo, qualunque ordinamento giuridico-politico ha la
necessità di identificare un principio di “unità” che garantisca un’uniformità di indirizzo politico e sia
tale da ricondurre l’intero sistema alla sua fonte di legittimazione primaria, la sovranità, categoria
attualmente oggetto di profonda rivisitazione teorica a seguito della comparsa e progressiva
espansione degli ordinamenti giuridici sovranazionali. Tale esigenza risulta oltremodo evidente
negli ordinamenti giuridici policentrici, nei quali la tensione verso l’esterno si unisce alla tensione
verso l’interno, ossia all’attrazione dell’azione pubblica verso gli ordinamenti territoriali interni.
Considerando le tendenze evolutive comuni dei sistemi federali e regionali, si è assistito ad un
duplice movimento che ha seguito un andamento opposto e che è possibile inquadrare
storicamente in due fasi ben individuate: dopo una prima strutturazione dei rapporti tra livelli
decentrati di governo territoriale e potere centrale su base essenzialmente duale o competitiva di
stampo liberale (netta separazione competenziale dei livelli di governo e scarso intervento dello
Stato centrale nell’economia, in applicazione del principio non scritto del liberismo economico,
pendant del liberalismo giuridico), a partire dagli anni 30’ si è registrato un progressivo e costante
riaccorpamento delle competenze a vantaggio delle istituzioni centrali attraverso la tecnica della
legislazione unitaria di principio, dapprima negli Stati Uniti d’America (attraverso quel processo di
progressiva estensione delle competenze dello Stato federale, definito New Deal e favorito
dall’interpretazione giurisprudenziale delle clausole costituzionali elastiche, nella specie la “general
welfare clause” e la “commerce clause” contenute negli artt. 1, sez. 8, commi 1 e 3, della
Costituzione, nonché la “necessary and proper clause” contenuta nell’ult. co. della sez. 8, da parte
della Corte Suprema89) e successivamente nelle Costituzioni prodotte dal costituzionalismo
88
Sulla citata esemplificazione si rinvia a P.G. Lucifredi, Appunti di diritto costituzionale comparato. 3. Il sistema
statunitense, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 50-55; idem, Appunti di diritto costituzionale comparato. 4. I sistema tedesco,
Milano, Giuffrè, 1992, pp. 56-58.
89 A. La Pergola, Gli Stati Uniti e il federalismo cooperativo: entra in scena il New Deal, in Studi parl. pol. cost., 1976,
pp. 13 ss.
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“maturo” delle esperienze federali e regionali del Vecchio Continente, nelle quali principi come la
Konkurrierende Gesetzgebung e il regionalismo collaborativo trovano una base dogmaticogiuridica sia nel principio di derivazione tedesca della Bundestreue90, sia in quello di matrice
franco-belga della loyauté fédérale (forgiante la cooperazione istituzionale formale – accordi di
cooperazione – e informale – intese spontanee che assumono forma contrattata – tra organi politici
e amministrativi dello Stato, comunità e regioni belghe; art. 143 Cost. belga). Il principio
collaborativo ha, dunque, imposto a ciascun ente territoriale di non esercitare le rispettive
competenze in reciproco danno, estrinsecandosi nel rapporto legge quadro federale
/provvedimenti statali – regionali di esecuzione, accordi, intese in materie di interesse locale91,
nonché nel principio di sussidiarietà, che si manifesta sia nella clausola generale dell’uniformità di
disciplina giuridica per motivi di interesse nazionale e sia nella clausola generale dell’efficacia, la
quale impone l’intervento del livello di governo superiore quando il livello inferiore non sia in grado
di operare finalisticamente92: questo processo dinamico ha prodotto un progressivo sbilanciamento
dei rapporti interistituzionali in senso centripeto, valorizzando il ruolo dello Stato centrale a danno
degli enti del governo territoriale allo scopo di favorire e promuovere lo sviluppo del welfare state93.
In questo contesto non si deve ritenere che il processo di trasformazione in senso centripeto dei
rapporti tra livello centrale e livello locale di governo sia avvenuto prevalentemente sulla base di
un’evoluzione sistemica affidata alla buona volontà dei giudici, sovente in polemica con il potere
federale (è a tutti noto il Court Packing Plan, di rooseveltiana memoria), ma negli ordinamenti
europei esso ha una solida base costituzionale, mediata dall’ermeneusi della giurisprudenza
costituzionale:
art. 72 GG, che disciplinando i rapporti di competenza Bund /Länder in termini di
“interventi concorrenti”, ha incentivato l’espansione della produzione legislativa
federale per esigenze legate alla necessaria uniformità normativa del welfare
state, prassi avallata dal Bundesverfassungsgericht che ha riconosciuto al Bund
una Einschatzsungsprarogative, ossia la discrezionalità nella valutazione delle
clausole contenute nell’art. 72 GG.94; in tale contesto assume rilievo la formula
indicata dalla dottrina del “federalismo partecipativo”, che include la cooperazione
e che si modula in tre diversi livelli: a) trasferimenti progressivi di competenze dai
Länder al Bund a seguito dell’espansione della legislazione concorrente, cui
consegue a titolo compensativo un rafforzamento della partecipazione (indiretta)
dei Länder alla legislazione tramite il Bundesrat; b) coordinamento normativo
unitario nei settori di competenza dei Länder nel senso di un’omogeneizzazione
materiale di quegli ambiti della vita sociale ed economica in cui è necessario
assicurare condizioni unitarie di vita: in questo contesto, la revisione del II comma
dell’art. 72 del GG è significativa nel senso di un ritorno al Bund del potere di
legiferare “se e nella misura in cui il ripristino di condizioni di vita equivalenti sul
territorio federale o la tutela dell’unità giuridica o economica nell’interesse dello
stato nel suo complesso richiedono una regolamentazione legislativa federale”95;
c) partecipazione finanziaria, che si traduce sovente in una determinazione
90 A. Anzon, La Bundestreue e il sistema federale tedesco: un modello per la riforma del regionalismo in Italia,
Milano, Giuffrè, 1995.
91 R. Bifulco, La cooperazione nello Stato unitario composto. Le relazioni intergovernative di Belgio, Italia, Repubblica
Federale di Germania e Spagna nell’Unione europea, Padova, Cedam, 1995.
92 A. Rinella, L. Coen, R. Scarciglia, Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali. Esperienze a confronto, Padova,
Cedam, 1999, con studi su Belgio, Francia, Germania, Italia, Portogallo e Spagna.
93 L.M. Diez Picaro, Federalismo, Regionalismo e Welfare State: profili comparati, in AA.VV., Regionalismo,
federalismo e Welfare State, (Atti), Milano, Giuffrè, 1997, pp. 219ss.
94 R. Arnold, La ripartizione delle potestà tra Bund e Länder alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale
tedesca, in Le Regioni, 1988, pp. 868ss.
95 F. Bartolomei, La Carta costituzionale della Repubblica Federale di Germania, Milano, Giuffrè, 2000, p. 113, cit. in
M. Mistò, Il principio unitario nella Germania riunificata quale emanazione del “precetto” di omogeneità materiale ex art.
72, c. 2 Grundgesetz, Atti del Convegno di Pontignano “Il principio unitario negli ordinamenti decentrati”, in c.s. in Dir.
Pub. Comp. ed Eu., 2/2003.
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unilaterale dei compiti dei Länder da parte del Bund, dietro offerta di finanziamenti
(cd. “compiti comuni”, art. 91 GG)96;
artt. 20, co.1, e 14, co. 4 della Cost. austriaca, che disciplinano il principio del
coordinamento normativo Bund /Länder nell’ambito dei compiti amministrativi97;
art. 44, co. 1, della Cost. svizzera, che fissa il principio della collaborazione tra
Confederazione e Cantoni nell’adempimento dei compiti istituzionali, sebbene
affidato a strumenti informali quali accordi e intese tra livelli costituzionali 98;
art. 83 Cost. belga, che nello spirito di “collegare” le diverse componenti storiche,
tradizionali, culturali e territoriali dello Stato federale, il quale nasce da una volontà
di dissociazione, stabilisce che i Länder sono competenti nell’esecuzione della
legislazione del Bund, che assume la funzione di garante dell’uniforme
applicazione delle leggi federali, principio sviluppato dalla giurisprudenza della
Cour d’arbitrage nel senso che l’esercizio da parte di una Comunità o di una
regione delle proprie competenze non deve nuocere alla Federazione nella sua
globalità e “l’unione economica e monetaria” 99;
l’art. 2 della Costituzione spagnola, che dopo aver proclamato l’unità ed
indivisibilità del regno spagnolo come principio fondamentale del sistema
costituzionale, «riconosce e garantisce il diritto all’autonomia delle nazionalità» – il
che implica la costituzionalizzazione del multiculturalismo come valore
fondamentale del pluralismo democratico – «e delle regioni che la compongono,
nonché la solidarietà fra tutte queste». La soluzione dei difficili problemi scaturenti
dall’organizzazione territoriale di questo Stato, ancorata ai principi contenuti
nell’art. 2, è offerta dal titolo VIII, che prevede tre livelli di governo locale –
municipi, province e comunità autonome –. Ché anzi, nella Costituzione spagnola
sembra realizzarsi quella tendenza, sottesa alla Costituzione italiana, alla
individuazione di quei gruppi sociali con comune sostrato storico-culturale: l’art.
143, 1° comma, stabilisce difatti che «le Province limitrofe, con caratteristiche
storiche, culturali ed economiche comuni, i territori insulari e le Province
d’importanza regionale storica100 possono accedere all’autogoverno e costituirsi in
Comunità autonome, conformemente a quanto disposto in questo titolo e nei
rispettivi statuti»101. Anche il rispetto della dimensione territoriale della
multiculturalità può essere strumento privilegiato per la realizzazione del principio
di “unità nella diversità”.
96 J. Woelk, Segnali di crisi nel federalismo tedesco: verso un modello più competitivo?, in Le Regioni, 1999, pp. 222223; F. Palermo, La parabola dello Stato “federale, democratico e sociale” in Germania, in S. Prisco (Cur.), Unione
europea e limiti sociali del mercato, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 259-266.
97 T. Öhlinger, Regionalismo in Austria: lo Stato federale accentrato, in Le Regioni, 1984, pp. 282ss.
98 A. Reposo, Saggio introduttivo sulla nuova Costituzione svizzera, in Dir. Soc., 1999, p. 622.
99 F. Delpérée (Cur.), L’ordinamento federale belga, Torino, Giappichelli, 1996, pp. 182-185.
100 Si allude a comunità come la Catalogna, i Paesi Baschi e la Galizia. In particolare, queste tre regioni autonome
sono state oggetto di una disciplina derogatoria, prevista dalla seconda disposizione transitoria, la quale, però, pur
prevedendo che i territori che al tempo dell’entrata in vigore della Costituzione si trovavano in regime provvisorio di
autonomia, avrebbero potuto procedere immediatamente, ai senso dell’art. 148, 2° comma, è stata disattesa, in quanto,
nei tre territori si è proceduto ad iniziativa degli organi collegiali pre-autonomistici (M.A. Aparicio, Lineamenti…, cit., pp.
56-57).
101 L’art. 143, 2° comma, prevede una norma transitoria sull’istituzione delle Comunità autonome: «l’iniziativa del
processo autonomistico spetta a tutte le deputazioni interessate, o all’organo interinsulare corrispondente, unitamente ai
due terzi dei Municipi, la cui popolazione rappresenti almeno la maggioranza del corpo elettorale di ogni provincia o
isola. Queste condizioni dovranno essere soddisfatte nel termine di sei mesi dalla prima decisione presa in merito da
qualcuno degli organi locali interessati». Le disposizioni transitorie I e II facilitavano tale procedimento per quei territori
che nei passati regimi del ’31 e del ’36 godevano già di evidenti forme di autonomia, come la Catalogna ed i Paesi
Baschi. L’art. 151 prevede il procedimento normale per la costituzione di Comunità autonome: l’iniziativa deve essere
assunta da tutte le Deputazioni interessate o dagli organi interinsulari e da 3/4 dei comuni di ogni provincia,
rappresentanti la maggioranza elettorale di ognuna di esse ed approvata con referendum; il progetto di statuto, elaborato
da un’assemblea di deputati e senatori delle varie circoscrizioni aspiranti all’autonomia sarebbe stata esaminata dalla
Commissione del Congresso, la quale con una deputazione dell’assemblea ne avrebbe formulato il testo definitivo, che,
approvato con referendum, sarebbe stato presentato a ciascuna Camera per la ratifica definitiva e la promulgazione da
parte del Re come legge organica (sul punto P. Biscaretti di Ruffìa, Introduzione al diritto costituzionale comparato, cit. p.
350; G. de Vergottini, Diritto Costituzionale comparato, Padova, Cedam, 1993, p. 295).
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Artt. 118 e 120 della Cost. italiana, che disciplinano rispettivamente il principio di
sussidiarietà e il potere del governo centrale di avocare l’esercizio di una
competenza dal livello regionale nel caso in cui ricorrano non meglio specificate
esigenze di “unità giuridica e unità economica”, rappresenta un correttivo al
principio cooperativo basato sull’interferenza funzionale, sebbene rischia, se
interpretato in senso estensivo tale da ampliare i poteri sostitutivi anche al campo
legislativo, di sovvertire l’impianto dualista prescelto dalla riforma102. Il principio di
sussidiarietà «nuovo mito, istituzionale e politico»103, che ha trovato “cittadinanza
costituzionale” nel riformato titolo V, va inteso come principio di riorganizzazione e
riformulazione dei rapporti tra lo Stato e le autonomie territoriali (in un senso più
ampio, la “sussidiarietà orizzontale” o governance o “buongoverno” va riferita a un
contesto più esteso comprensivo della dimensione della società civile organizzata
in gruppi di interesse concretamente operanti, dall’esterno, e interferenti con la
sfera istituzionale104): esso andrebbe ricollocato nell’alveo dell’art. 5, concepito, da
alcuni105, come una formulazione ante litteram del medesimo principio di
sussidiarietà, del quale già l’art. 56 del progetto di revisione costituzionale del
1997 aveva costituito una specificazione. Difatti, la configurazione del principio
dell’autonomia sussidiaria è stata più volte sottolineata dalla dottrina, che
nell’ambito dei sistemi giuridici contemporanei individua una marcata connessione
anche tra le nozioni di decentramento e pluralismo, in quanto il principio garantista
delle formazioni sociali come luogo naturale di sviluppo della personalità
individuale, contenuto nell’art. 2 della Cost. it., trova adeguato svolgimento
nell’attuazione del decentramento di funzioni statali ad enti autonomi, «nella
considerazione che il loro esercizio possa essere meglio assicurato, affidandolo a
coloro che appaiono più direttamente interessati e, quindi, più idonei a conferire ad
esso il massimo di funzionalità»106. Non si può dubitare dell’influsso esercitato, nei
principi ispiratori, dal progetto di revisione costituzionale del 1997 sul progetto
devolutivo della legge n. 59, in primo luogo per la configurazione del principio di
sussidiarietà, la cui idea è di riallocare le funzioni al giusto livello territoriale che
realizzi la massima vicinanza dell’amministrazione agli amministrati e che si
traduce, per entrambi in un’inversione del criterio di assegnazione delle
competenze previsto agli artt. 117 e 118 Cost.; nonché per i poteri sostitutivi nel
quadro delle procedure di raccordo e di cooperazione, che prevedono la
sostituzione dello Stato agli enti territoriali quando l’inattività del livello competente
produca «inadempimento agli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione
europea» o «pericolo di gravi pregiudizi agli interessi nazionali», rapportabile
specularmente, anche se con riferimento alle competenze legislative, alla clausola
di salvaguardia del principio unitario del progetto della Bicamerale con la quale si
riservava allo Stato la potestà legislativa «per la tutela di imprescindibili interessi
nazionali», questioni che appaiono entrambe ispirate alla medesima ratio di chiara
eco federalistica; infine, per l’esplicito richiamo ai principi della differenziazione,
dell’omogeneità e dell’adeguatezza, che combinati con il principio di sussidiarietà
mostrano chiaramente l’identica finalità di «riorganizzare globalmente “lo Stato” (lo
Stato in senso ampio, quale insieme di organizzazioni preposte alle pubbliche
funzioni)»107: se, però, tale finalità di “globale riorganizzazione” appare come
naturale conseguenza in un processo di rinnovamento qual è quello che deriva,
nel bene o nel male, da una revisione costituzionale, meno lineare è stato il
A. Anzon, I poteri delle regioni dopo la riforma…, cit., p. 216ss.
L’espressione è di G. Ferrara, La revisione costituzionale come sfigurazione: sussidiarietà, rappresentanza,
legalità e forma di governo nel progetto della Commissione Bicamerale, in Pol. del dir., 1998, p. 99.
104 Sulla specifica questione si consenta di rinviare al mio volume, Libertà pluralistiche e pubblici poteri, Torino,
Giappichelli, 1999.
105 G. Falcon, Il decreto 112 e il percorso istituzionale italiano, in Le Regioni, 1998, p. 456.
106 F. Roversi Monaco, Decentramento (e accentramento), in Dizionario di Politica, Torino, Utet, 983, p. 302.
107 G. Falcon, Il decreto 112 e il percorso…, cit., p. 456. Cfr. anche S. CASSESE, Lo stato italiano e la sua riforma,
Serie Club, SPISA, Bologna, 1998, pp. 12 ss.; G. Falcon, Autonomia amministrativa e principio di sussidiarietà, in Diritto
Pubblico, 1998, pp. 283 ss.
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risultato conseguito dal riordino istituzionale della legge n. 59, dal momento che
essa andava a spiegare la sua effettività in un ambito costituzionale, quello del
’48, in cui pesava il rigore formale dei ruoli tra Stato ed enti territoriali, sebbene
temperato dalla giurisprudenza costituzionale108. Il percorso illustrato segna una
significativa tappa con la riforma del titolo V della Costituzione italiana – che tra
l’altro ha risolto l’iniziale “sbilanciamento effettuale” tra la riforma Bassanini e
l’allora base costituzionale di riferimento – nel quale il principio di sussidiarietà,
unito ai principi di differenziazione ed adeguatezza, trova una esplicita
codificazione e rappresenta un ulteriore passo in avanti nella definizione di quel
principio di leale collaborazione che prima della riforma aveva nella giurisprudenza
costituzionale la sua principale matrice. Non mi dilungo oltre su tale rilevante
questione, perché altri – ben più autorevolmente – illustreranno a fondo la
problematica: mi preme sottolineare l’imprescindibile connessione, già evidenziata
nella pur non lineare giurisprudenza costituzionale a partire dalla metà degli anni
settanta, del principio di leale collaborazione, straordinario collante degli
ordinamenti policentrici nelle loro declinazioni territoriali, con il principio di ordine
funzionale dell’integrazione delle competenze, che, pur movendosi nell’ambito
dell’art. 5 della Costituzione, trova oggi una nuova base costituzionale identificata
dal principio di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza (art. 118, nella
nuova formulazione) cui deve informarsi l’attività amministrativa locale, regionale e
statale nel reciproco self restraint. Seguendo questa logica, il principio di leale
collaborazione tende ad unificare la molteplicità delle istanze territoriali e la sua
espressione più evidente, il principio di sussidiarietà (riassunto nell’incipit dell’art.
114, co. 1, che lo identifica nella “filiera” ascendente delle comunità territoriali109)
riconduce l’adempimento dell’azione pubblica nel suo alveo naturale;
anche la Costituzione francese del 1958 si è uniformata allo standard europeo
prevedendo nella nuova formulazione dell’art. 72, II co., scaturito dalla recente
revisione costituzionale approvata con legge costituzionale n. 276 del 28 marzo
2003110, una distribuzione delle competenze secondo un criterio di allocazione
dell’esercizio delle stesse al livello territoriale più prossimo ai destinatari,
contemplando, però, una formula elastica e volutamente generale che consenta
ove necessario di ricondurre l’esercizio delle competenze locali al livello centrale. Il
principio di sussidiarietà, nella sua implicita valenza di criterio di riparto di
competenza, sebbene non previsto da alcuna norma scritta, ha sorretto l’articolato
edificio dell’organizzazione territoriale francese a partire dal momento in cui,
abbandonata la tecnica dei blocs des compétences, si è scelta una ripartizione più
pragmatica delle competenze affidando l’intera materia ad un solo ente con
l’eventuale intervento degli altri livelli di governo locale sotto forma di parere,
proposta, accordo o convenzione (cd. affaire locale)111: la formulazione del
secondo comma dell’art. 72 non lascia dubbi a proposito della configurazione del
principio di sussidiarietà quale criterio naturale di allocazione delle competenze,
legato alla vocazione naturale degli enti territoriali ad essere destinatari di compiti
la cui realizzazione tocca da vicino gli interessi degli amministrati112;
per quanto concerne, infine, l’esperienza costituzionale britannica, caratterizzata
com’è noto, da un tessuto normativo improntato alla flessibilità, è possibile
rintracciare cospicui elementi del principio collaborativo tra livelli di governo nel IV
108 Si legge nella senenza n. 98/2000 della Corte costituzionale «…il principio di leale cooperazione tra Stato e
regione…che domina le relazioni fra i livelli di governo là dove si verifichino…interferenze fra le rispettive sfere e i
rispettivi ambiti finanziari, esige che si attui tale meccanismo mediante procedimenti non unilaterali, ma che contemplino
una partecipazione della regione non interessata» (cit. in A. Anzon, I poteri delle regioni…, cit., p. 142).
109 L’art. 114, co. 1, così recita: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato».
110 J.O. n. 75 del 29 marzo 2003, p. 5568.
111 C. Chabrot, l’organizzazione territoriale, in D. Rousseau (a cura di), L’ordinamento costituzionale della V Repubblica
francese, Giappichelli, Torino, 2000, pp. 364-365.
112 L’art. 72, II co., è così formulato: «Les collectivités territoriales ont vocation à exercer l’ensemble des compétences
qui peuvent le mieux être mises en œuvre à l’échelle de leur ressort» .
36
Capitolo del White Paper sulla devoluzione scozzese, intitolato “The new
constitutional arrangements”113, che individua concreti strumenti per regolare i
rapporti tra parlamento britannico e istituzioni devolute della Scozia, al fine di
evitare l’insorgere di conflitti fondati sulla duplicazione procedurale, affidando alla
successiva legislazione di Westminster la disciplina dei “future arrangements for
Scottish business” (art. 6). In tale contesto assume rilievo la trasformazione del
ruolo del Secretary of State for Scotland che avrà il compito di assicurare «the
passage and implementation of the legislation to establish the Scottish Parliament;
and then to support its initial development. Once the Scottish Parliament is in being, and the Scottish Executive established, the responsibilities of the Secretary of
State for Scotland will change. The focus will be on promoting communication between the Scottish Parliament and Executive and between the UK Parliament and
Government on matters of mutual interest; and on representing Scottish interests
in reserved areas» (art. 12). Lo spirito del documento è chiaro: promuovere
l’instaurazione di uno spirito collaborativo leale tra governo devoluto e governo
centrale, la cui tradizione culturale risulta peraltro da sempre improntata alla
fairness, volto a individuare i necessari punti di interferenza tra interesse nazionale
e interesse locale. Una conferma di tale impostazione dei rapporti istituzionali si
rinviene dalla considerazione dello stretto contatto tra l’esecutivo scozzese e i
dipartimenti del governo centrale, che dovranno sviluppare «mutual
understandings covering the appropriate exchange of information, advance
notification and joint working. The principles will be as follows: a) the vast majority
of matters should be capable of being handled routinely among officials of the Departments in question; b) if further discussion is needed on any issue, the Cabinet
Office and its Scottish Executive counterpart will mediate, again at official level; c)
on some issues there will need to be discussions between the Scottish Executive
and Ministers in the UK Government» (art. 13). Inoltre, nel caso in cui si
manifestino opinioni divergenti sull’interpretazione degli atti del potere legislativo in
Scozia, devono essere predisposte «procedures for identifying and resolving any
such difficulties. The Government believes that, given an open and constructive
relationship between the UK Government and the Scottish Executive, problems
will usually be resolved quickly and amicably» (art.15): è necessario sottolineare
che lo Scotland Act del 1998 ha recepito le indicazioni contenute nel White Paper
sia nell’accogliere il principio della “giustiziabilità” dei conflitti di attribuzione dinanzi
al Judicial Committee del Privy Council sia nel predisporre una serie di momenti di
raccordo istituzionale nell’ambito della legislazione devoluta (artt. 28-36) e della
Scottish Administration (artt. 44-63), senza tralasciare il fondamentale principio di
unità legislativa contenuto nell’art. 27.7 dello Scotland Act che conserva al
parlamento di Westminster il potere «to make laws for Scotland».
Le riflessioni che precedono inducono a concludere nel senso che le procedure che realizzano
il regionalismo /federalismo cooperativo rappresentano tanti “riduttori” della complessità sociale
che traduce la molteplice conflittualità della società civile: perché tale formula funzioni è necessario
che il federalismo come il regionalismo costituiscano non solo una querelle istituzionale ma anche
una «questione di mentalità» che sia in grado «di riconoscere che diverse sensibilità possano
coesistere (e quindi abitare) in uno stesso Stato»114.
Nel percorso sin qui illustrato si è tentato di rintracciare attraverso varie esperienze
costituzionali la radice del principio di “unità nella diversità”: occorre infine chiedersi se esista un
fondamento ultimo, una fonte di legittimazione del principio unitario. Una risposta univoca a tale
domanda richiederebbe il respiro di una riflessione ad hoc. Mi limito, pertanto, a sollevare alcune
suggestioni, legate alla considerazione che quasi tutti gli ordinamenti presi in analisi – ad
eccezione di quello britannico, dotato com’è noto di una costituzione unwritten ed evolutiva115
113
Il testo integrale del White Paper è reperibile sul sito internet: www.scotland.gov.uk/government/devolution.
B. Knapp, Federalisme et unité du droit, in Ann. Dr. Lav., 1986, p. 329.
115 Sulla natura evolutiva del costituzionalismo britannico, A. Torre, Interpretare la Costituzione britannica. Itinerari
culturali a confronto, Torino, Giappichelli, 1997.
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(sebbene un generale principio di leale collaborazione istituzionale vada rintracciato nell’ambito dei
principi fondamentali dell’ordinamento giuridico ed ora anche nell’ordinamento “parziale” dei
governi devoluti) e di quello austriaco, che pur fornito di una costituzione written e rigida colloca la
cooperazione tra governo federale e governi regionali in un contesto informale (nell’ambito del
quale i più rilevanti strumenti sono costituiti dalla conferenza dei Governatori dei Länder, dalla
conferenza dei direttori degli Uffici dei governo del Land e dalla conferenza dei Presidenti dei
legislativi dei Länder) – riferiscono la matrice del principio di “unità nella diversità” o principio di
cooperazione “sussidiaria” alla Costituzione.
Le Costituzioni degli stati democratici contemporanei, a differenza di quelle prodotte dal
costituzionalismo liberale, non sono solo la fonte del principio distributivo del “potere” ai “poteri”,
ma anche un potente strumento di integrazione dei gruppi sociali attraverso l’esaltazione di
principi-valori comuni che si riferiscono non solo agli individui ma anche alle comunità sociali e
territoriali116. L’integrazione del pluralismo istituzionale con il pluralismo sociale giunge a mettere
”all’angolo” il principio distributivo dei poteri, di modo che quest’ultimo “lungi dall’apparire come uno
degli aspetti più importanti del costituzionalismo, può anzi far sorgere dubbi circa la sua stessa
compatibilità con la democrazia pluralista”117. Il principio di unità trova, dunque, la sua positiva
espressione nella reconductio ad unum della pluralità tipica degli Stati composti: è all’Atto-Regola
degli ordinamenti democratici contemporanei, alla “Costituzione” intesa come “veicolo di unità delle
diversità”, “luogo del convenire”, cui – senza voler scomodare illustri precedenti quali la teoria della
Stufenbau kelseniana o l’integrazionismo di matrice smendiana – il percorso discendente sin qui
illustrato riconduce, in un ideale disegno circolare che riesce ancora a sorprendere.
Marina Calamo Specchia
Professore straordinario di Diritto Pubblico Comparato
Facoltà di Giurisprudenza
Università di Bari
116
G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992, pp. 39ss.; M. Dogliani, Introduzione al diritto costituzionale,
Bologna, il Mulino, 1994, pp.
117 T. Groppi, La partecipazione degli Stati membri…, cit., p. 125.
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