Essere processione di Dio tra gli uomini Ritiro di inizio Capitolo Generale EF Roma, Domus Aurea, 17 giugno 2013 Massimo Pampaloni sj Una domanda possibile da porsi durante il ritiro in apertura del vostro Capitolo generale, potrebbe essere: quali sono le sfide per questo vostro Capitolo? La risposta, per quanto mi riguarda è: non lo so, lo sapete voi. Però certamente posso immaginare i due ambiti nei quali comunque queste sfide si giocheranno, perché coinvolgono delle strutture direi “trascendentali” della stessa storia della salvezza. Potremmo indicare, in una distinzione puramente espositiva, “ambito esterno” alle EF (il mondo, la Chiesa, l’evangelizzazione); e l’ambito “interno” alla Congregazione. Quali siano i particolari storici dell’uno e dell’altro, lo vedrete voi. Però so certamente che saranno delle declinazioni di alcune strutture storiche “fondamentali”, in qualche modo. Perché la storia nelle sue strutture profonde è chiara: è quella della Scrittura. Rappresentano le sfide di sempre, che sempre e ovunque il cristianesimo ha dovuto affrontare. All’esterno cosa dobbiamo considerare? Il tempo in cui viviamo. Il carisma che voi e tutta la Chiesa avete ricevuto per mezzo dell’intuizione della Madre è sempre quello, infatti è un dono di Dio. Ma la situazione storica concreta, dove questo carisma deve essere declinato, è mutata. Credo che ogni Capitolo dovrebbe sempre essere molto vigile proprio su questo compito: come declinare hic et nunc questo dono che il Signore ci ha fatto? All’esterno a mio avviso la sfida eterna che sempre si ripresenta, e oggi più che mai, è quella del pericolo dell’assimilazione. Il mondo (in senso giovanneo) sa che non gli apparteniamo e fa di tutto, ma proprio di tutto, per distruggere ciò che sente come un corpo estraneo (Gv 17, 1318). È un mondo impazzito che dirige i suoi anticorpi proprio contro il cristianesimo, in una sorta di generale malattia autoimmune che tenta di annientare proprio ciò grazie al quale in realtà vive. Non si rende conto che tentando di distruggere il cristianesimo sta distruggendo tutto ciò che è profondamente umano, quindi la sua stessa possibilità di vita. Per distruggerti ha due strade: quella dello scontro diretto (già in azione in molti paesi e, sebbene ancora indirettamente ma non meno efficacemente anche nel nostro) e quello dell’assimilazione. All’interno, lavora come disgregante, eternamente, è ciò che la Scrittura, pur descrivendola in vari modi, possiamo sintetizzarlo nella rivalità. Non è un caso che Gn 4 marchi la nostra umanità come segnata da un fratricidio; è una comunione infranta. La Chiesa, nel giorno di Pentecoste, è la terapia trascendentale che Dio ci ha donato; la vita religiosa nella sua vertente comunitaria è una declinazione concreta di questa medicina per curare la divisione originale. Ma è un dono del quale dobbiamo appropriarci ogni giorno e per conservarlo e viverlo nella sua dimensione corretta, dobbiamo ogni giorno lottare. Come rispondere oggi a queste sfide eterne? Mi ispiro a quanto ho letto nel Fiore di Passione (FP). Dovete essere “mamme di anime”. L’espressione, oltre che stupenda, è quanto mai attuale: non è forse oggi la maternità uno dei campi dove più si scatena la follia umana? Con l’aborto, con la negazione assurda e diabolica delle differenze di genere, con i continui delitti di genitori che uccidono i figli e figli che massacrano i genitori? Interroghiamo, allora, la maternità. 1 Giuditta1 La maternità nella Scrittura ha sempre un aspetto “paradossale”. Tutte le maternità importanti sono segnate da qualcosa di impossibile. Sono quasi sempre maternità che non potevano avvenire: o perché vi era la sterilità, o perché la madre era già fuori dall’età possibile oppure, nel caso di Maria, senza conoscere uomo. Questo è un dato essenziale: queste maternità nella Scrittura vogliono sempre sottolineare l’assoluta gratuità del dono di Dio. Perché considero Giuditta madre? È vedova, non ha figli, alla fine della storia decide di non risposarsi pur lasciando i segni del lutto, con i quali aveva vissuto i tre anni e quattro mesi (40 mesi!) seguenti alla morte del marito. Possiamo rileggere il capitolo 8 nel ritratto-presentazione di Giuditta (i primi 7 capitoli, nella loro descrizione delle operazioni militari, ci danno il contesto della storia e dell’intervento di Dio per mezzo di Giuditta). Giuditta è della tribù di Simeone, una delle prime tribù che scompaiono nel disastroso crollo del regno del Nord sotto i colpi assiri. Figlia della storia triste del suo popolo, inserita a sua volta in una storia triste: personale, in quanto vedova; di una tribù “scomparsa”; in una situazione complessa in cui il suo popolo si è adesso cacciato. Vivere la complessità (cfr. Gdt cap. 8) Infatti perché è madre allora? Perché assume tutta la complessità di tale situazione, anche se lei non c’entra e non l’ha provocata. Se ricordiamo la storia, Oloferne sta guidando un grande esercito di Nabucodonosor, per conquistare la Palestina. La città dove abita Giuditta, Betulia, è immaginata in un luogo strategico fondamentale, una specie di passo delle Termopoli. Se Betulia resiste, la terra di Israele e il suo popolo sono salvi. Se cade, nulla potrà più detenere l’enorme forza distruttiva dell’esercito di Oloferne, che arriverà fino a Gerusalemme. Oloferne assedia Betulia, ma non ci sono grandi possibilità: siamo a giugno, si è appena mietuto, la città ha scorte alimentari a iosa. L’unico punto debole è l’acqua. Suggeriscono allora a Oloferne di occupare tutti i pozzi e prendere Betulia per sete. E così accade. Betulia allora è presa dalla disperazione, perché l’acqua finisce. Il popolo allora inizia a protestare e a chiedere di arrendersi. I capi allora, ripetendo degli schemi già visti nel passato, secondo i quali Dio castigava il suo popolo per le sue infedeltà consegnandolo al nemico (come diceva si dovesse fare il profeta Geremia in occasione dell’assedio storico di Gerusalemme nel 596 a.C.), in qualche modo mettono Dio alla prova: “Se tra cinque giorni Dio non interverrà (ossia con la pioggia) allora ci arrederemo. Ma vedrete che Dio non ci abbandonerà”. Ma è giugno e la pioggia è assolutamente improbabile. Presi dalla paura coinvolgono Dio in una specie di “obbligo”. È una tentazione terribile: non ti affidi a Dio così, gli dai invece una specie di deadline, di scadenza. Apparentemente sembra un affidarsi, ma non lo è. Il problema è che leggono la situazione con degli schemi antichi senza aver visto che la realtà stavolta è diversa. Di fronte alla paura il popolo reagisce con schemi del passato senza curarsi di vedere se sono applicabili alla situazione attuale reale oppure no. Quando invece Giuditta interviene, vediamo una donna che prende una decisione a partire da un giudizio di realtà radicato nella realtà stessa, non in schemi precostituiti. Giuditta lo dice chiaramente: nel passato avevano abbandonato il Signore, ma stavolta no. Quindi la risposta non può essere la stessa se la situazione reale non è la stessa (cfr., ad esempio, negli Esercizi di sant’Ignazio le regole per il discernimento: una stessa inquietudine del cuore deve essere letta in modo diverso a seconda se uno sta passando da un peccato mortale all’altro (e allora è Dio che inquieta per “svegliare”) oppure se uno sta seguendo Dio (allora è l’avversario che cerca di frenare il suo cammino). E rimprovera il popolo, con franchezza e parresia! Non si mette alla prova Dio! Però, ed ecco la maternità, assume questa situazione, decide di abitarla, non la fugge, non la deforma, non la nega, non dice “arrangiatevi non mi compete la colpa è vostra”: è madre perché si carica della situazione complessa in cui il popolo − adesso sono i suoi figli − si è cacciato. Se ne fa carico pienamente, entra in questa storia totalmente, faccio mia la situazione, perfino nel rispettare quella scadenza sacrilega imposta a Dio. 1 Devo molto per queste riflessioni alle conversazioni con la dott.ssa suor Grazia Papola osc e ai commenti al libro di Giuditta dei due miei confratelli, quello di padre Pino Stancari sj e quello del compianto padre Saverio Corradino sj. 2 Quando mettiamo alla prova Dio? Quando vorremmo che risolvesse lui, magicamente, i nostri problemi e le conseguenze delle nostre sciocchezze, delle nostre paure o dei nostri peccati. La prova va accettata, dice invece Giuditta: essere messi alla prova ci rende degni dei nostri Padri che furono provati. Con la visione cristiana, essere nella prova diventa essere con Cristo povero e umiliato, disprezzato, sofferente, con Cristo sulla Croce. La prova ci permette una misteriosa comunione più profonda con il Signore; è qualcosa da dire sottovoce, ma è ciò che attraversa praticamente tutti gli scritti della Madre − e chi lo ha sperimentato sa cosa dico e non aggiungo altro, rimettendomi alla sua esperienza per comprendere la verità di ciò che sto dicendo. Mettere alla prova Dio, invece, è urlare “Se è vero che sei Dio allora….” (cfr. Mc 15,30), gettando su di lui la responsabilità di ciò che invece spetta a noi. Vivere per rispondere a Dio Ma come fa, Giuditta, ad avere questo sguardo così agganciato alla realtà e a saper esercitare la sua così peculiare maternità nei confronti del suo popolo? Giuditta vive «per rispondere a Dio che chiama, vive sbilanciata, protesa verso la Parola di Dio» (P.Stancari). Giuditta viveva ritirata, sebbene il marito le avesse lasciato grandi ricchezze, lei vive come in perenne penitenza: digiuna, veste di sacco. Come se vivesse in una continua preparazione a una possibile chiamata di Dio. “Vedova da tempo”: è una sorta di consacrazione, ci appare come una vita che attende, che sta in stand by, protesa in una preparazione interiore alla chiamata e alla missione. Signore, quando tu vuoi allora è il momento, dice una preghiera del beato Rupert Mayer sj (18751945). Ecco, questa frase illumina come ci immaginiamo Giuditta. In una continua “connessione” e comunione interiore con Dio, con la sua volontà da mettere in pratica. È da una tale ininterrotta comunione interiore che nasce la capacità di leggere bene la realtà e trovare le linee di risposta di cui c’è bisogno, che le permette di individuare quando è il momento per fare ciò che deve essere fatto. Anche quando è nel campo del nemico, anche quando è nella tenda del nemico, perfino quanto sta per staccare la testa ad Oloferne si ferma in un momento di raccoglimento, tanto è continua questa comunione. È questa continua comunione che permette a Giuditta di diventare lo strumento storico della volontà salvifica di Dio in mezzo al suo popolo. Ciascuno di noi, ciascuna di voi in questo Capitolo è chiamata a vivere questa continua tensione a vivere per rispondere alla volontà di Dio. Per mezzo della mia vita, nella misura in cui resta “connessa” con la volontà trinitaria, questa volontà si fa storia e presenza efficace per gli uomini e le donne di oggi. Vincere con la vera bellezza (Gdt 10) Ma come Giuditta vince? Giuditta vince con la Bellezza. La bellezza vera acceca il cuore non puro, ma ha invece il potere di rinsaldare il cuore dei suoi (cfr. Gdt 10, 6-10). Dopo l’insensata promessa dei cinque giorni, dopo il primo incontro di Giuditta con i capi, il popolo e i capi stessi dal punto di vista narrativo vengono presentati come dispersi, disgregati: tra di loro e con il resto del popolo di Israele, perché rinunciando alla difesa, salvando il salvabile personale, avrebbero condannato invece il resto del paese alla schiavitù. Invece, davanti alla bellezza di Giuditta il popolo si rianima, riacquista la voglia di resistere. La bellezza di Giuditta è terapeutica contro la paura e lo scoraggiamento, rinsaldando e curando le divisioni. Il narratore poi indugia molto sulla preparazione di Giuditta, che lascia i segni della penitenza e “si fa bella”, adornandosi con cura. È necessario “farsi belli”, rivestirsi di bellezza come un guerriero si riveste, liturgicamente quasi, per lo scontro decisivo contro il nemico. Solo che questo vero nemico lo si vince con una bellezza particolare: quella che nasce dall’intimo e ininterrotto colloquio con il Signore nell’intimità del proprio cuore. «Colui che abitualmente vive unito con Dio e opera secondo le sue sante ispirazioni necessariamente senza che egli pensi diviene il modello vivente di coloro che lo circondano...» (Olga della Madre di Dio). La bellezza di Giuditta è da dentro. Quanto più si vive questa intimità con Dio e in accordo con la sua volontà tanto più si diviene trasparenti e si lascia intravedere la luce di questa bellezza all’esterno. 3 Non dobbiamo fare nulla se non coltivare questa bellezza interiore che si irraggerà necessariamente. Oppure, usando un'altra scala sensoriale, il diffondersi del profumo. Il “primato dell’intimità...l’azione di Dio nelle anime esige lunghe soste, periodi ampi di meditazione e di contemplazione...” (FP 131). Ecco la preparazione di Giuditta; tutto il suo tempo “perso” a farsi bella sono queste lunghe soste e periodi ampi… È pura illusione pensare di agire in sintonia con Dio senza dedicare un tempo di otium ripieno di preghiera. Giuditta è bella perché si concede il tempo per farsi bella. La scena finale del capitolo è stupenda. Il narratore magistralmente ci mostra il contrasto tra la bellezza falsa, lùbrica, arrogante, “molle” di Oloferne con quella semplice, bella e nobile di Giuditta. La bellezza di Giuditta viene da lei, dal suo interno. Quella di Oloferne, invece, viene dal baldacchino, da una cosa esterna. Baldacchino che, tra l’altro, sarà proprio il luogo dove Oloferne verrà decapitato da Giuditta e dal quale Giuditta, con un calcio, lo farà rotolare giù dopo averlo ucciso. Un gesuita vi rimanderebbe subito alla meditazione delle “due bandiere” degli Esercizi spirituali! Quale bellezza desideriamo? Quella illusoria, che costa apparentemente poco, di un baldacchino d’oro incastonato di gemme sul quale basta sedersi? Oppure quella di Giuditta, che viene dal sole meridiano di cui ogni Figlia della Chiesa deve riempirsi per poterlo irraggiare nella e con la sua vita e che però costa sacrificio e tempo da dedicare? 4 Il dono accolto e rilanciato2 Stamani abbiamo visto il pericolo strutturale “esterno”, quello della assimilazione, contro il quale è importante combattere per mezzo dell’assumere maternamente la complessità del reale, del vivere sempre protesi a rispondere prontamente a Dio mediante una ininterrotta comunione interiore con Lui e di combattere la buona battaglia (2 Tm 4,7) con la bellezza che nasce dal “pieno” di Sole meridiano che è l’Amore che Dio ha riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito (Rm 5,5). Oggi pomeriggio ci guardiamo “dentro”. Cosa è che minaccia l’unità di un corpo? La rivalità. Il bene più prezioso è la comunione, in quanto nati dall’Eucaristia che ci rende un solo corpo e un solo spirito per la comunione all’unico calice e all’unico pane. Se questo è ciò che Gesù ha desiderato per noi (ut unum sint) è chiaro che diviene pericolosissimo, mortale, tutto ciò che minaccia tale unità. Se io fossi il nemico di questo progetto farei di tutto per spezzare tale comunione. Sarei un operatore di divisione, un dia-bolos… Cosa è che più ha la capacità di dividere? La rivalità: è Gn 4. È Caino che non regge la differenza con Abele. È una rivalità che ci portiamo dentro come una sorta di “ferita originaria”. Ecco che comprendiamo il dono dello Spirito nella Pentecoste: è la cura di tale ferita originaria, la terapia, la cura che guarisce la ferita della comunione infranta da un fratricidio per mezzo dello Spirito che scaturisce da un fratello che volontariamente stese le braccia sulla croce e morendo distrusse la morte e proclamò la resurrezione. Il modello con il quale vorrei allora riflettere con voi è proprio l’incontro tra Maria ed Elisabetta, del quale voi stesse avete posto un’icona qui nella sala capitolare. Parto proprio da un altro testo del FP: «La Figlia della Chiesa deve accumulare Sole, Sole meridiano, per produrre frutti spontanei dell’Amore e nutrire divinamente le anime. Suo modello è Maria, piena di Sole nel tragitto da Nazaret a Ebron. Cammina frettolosa, comunica spirito profetico a Elisabetta, riveste di grazia e di giubilo Giovanni nascituro, magnifica Dio con tutte le generazioni. Sola con l’Amore solo dona a tutti l’Amore spontaneamente, necessariamente, irresistibilmente: per via, dove urge il bisogno di carità, in faccia all’avvenire: processione di Dio fra gli uomini» (FP, 129). Però vi propongo di vedere questo incontro non dal consueto angolo di visione, e cioè quello di Maria, bensì da quello di Elisabetta. Dirò solo una cosa iniziale su Maria, lasciando poi a Elisabetta lo spazio per condurci a riflettere sul tema che abbiamo scelto. Saper farsi da parte Si dice che Maria va ad aiutare Elisabetta. Non è probabilmente esatto, Maria va piuttosto a “verificare” quanto l’Angelo le ha detto. Non perché non crede, non perché desconfia, ma va obbedendo, direi seguendo l’indicazione dell’Angelo. Vedere la conferma dell’azione di Dio nelle nostre storie e nelle nostre vite è la preghiera della vita apostolica: cercare e trovare Dio in tutte le cose! Constatare l’avverarsi di una indicazione di Dio è entrare ancora più in contatto con la Grazia. Però se ci sta tre mesi non ci riesce pensare che non abbia dato una mano alla cugina. Le sarà stata accanto, avranno condiviso delle confidenze spirituali tra di loro, mentre svolgevano i gesti quotidiani di due donne del loro tempo e di quello spazio. Poi però se ne va, proprio compiuti i giorni del parto. Se ne va proprio quando il suo aiuto avrebbe potuto essere più appariscente. Forse si perde il meglio? Troppa confusione? Arriva altra gente? Potrebbe essersi guadagnata un posto... E invece sa farsi da parte. Saper fare un passo indietro, anche quando sarebbe il momento di raccogliere un riconoscimento, una posizione, è una prima tremenda stoccata alla rivalità. Saper lasciare emergere altri, anche rinunciando a ciò che potrebbe spettarci (o che avremmo fatto 2 Per questa sezione sono debitore della condivisione della preghiera e delle intuizioni di tanti anni con il mio confratello p. Gianfranco Matarazzo sj e degli insegnamenti di padre Virginio Spicacci sj. 5 meglio, o che avremmo potuto far fruttificare di più), è un veleno per la rivalità: perché non le dà spazio, non le permette di “dettare l’agenda” alla mia vita e alle mie scelte. Saper sottomettere il proprio dono al dono dell’altro Ci spostiamo adesso sulla figura di Elisabetta. Cosa è questo dono ricevuto? Un’altra maternità gratuita. L’esperienza della grazia gratuita di Dio nella vita di Elisabetta e Zaccaria cosa hanno provocato nel loro cuore? La percezione della Presenza come dono gratuito. Ecco perché Elisabetta riconosce il dono in Maria quando ella entra nella sua casa, come un vascello carico di tesori (dice Narsai di Edessa). Solo chi ha fatto personalmente l’esperienza della gratuità dei doni del Signore può riconoscerne la presenza negli altri. E solo così può riconoscere e godere del dono dell’altro senza entrare in mortifere logiche di rivalità. Solo chi riconosce la gratuità nella sua vita può riconoscerla nell’altro. Nella pratica quotidiana della preghiera dell’esame, nella nostra spiritualità ignaziana, il primo punto è proprio riconoscere i doni che Dio ci ha elargito durante quel giorno. È uno dei momenti fondamentali ed è collocato al primo posto proprio perché educa a questo sguardo riconoscente che sa che tutto quanto abbiamo viene gratuitamente dal Signore; e che, di conseguenza, ogni tentativo di impossessarsene − e del dono e del merito − è non solo patetico e ridicolo, ma un vero e proprio atto di ingratitudine verso Dio. Se poi diviene qualcosa usato contro un fratello e una sorella, acquista i contorni di un vero e proprio gesto sacrilego. Elisabetta, evidentemente, questa capacità ce l’ha perché appena Maria entra lo riconosce subito. L’entrata del dono nella vita di Zaccaria e di Elisabetta, con la gratuita gravidanza di Giovanni, ha fatto capire nel loro animo che il Signore è davvero Signore di tutto: sulla morte della speranza, sulla sterilità, sulla fine di ogni possibilità... Questa esperienza personale abilita a riconoscerlo nell’altro. Un’accoglienza che non è affatto scontata... Accettare o no questa esperienza? Infatti, una volta fatta la sconcertante esperienza che le cose più belle e importanti della nostra vita sono un dono gratuito, che non dipendono da quanto siamo belli o bravi, sorge la questione: l’accetto oppure no? Porto a compimento questa gravidanza? Perché siamo consapevoli che questa scelta avrà delle conseguenze, imprimerà una direzione determinata alla nostra vita, significherà consegnarsi completamente a questo “figlio”, divenirne il custode... Accettare questo dono gratuito cambierà il mio rapporto con gli altri, cambierà le coordinate dentro le quali ho impostato la mia vita fino a questo momento. Perché la logica della paura della morte − perché è sempre lei che tenta di guidare la danza − ci dice mors tua vita mea. È la logica che mi dice che devo sempre e in ogni occasione avere tutto sotto controllo, senza il quale sono costantemente in pericolo. E senza un cuore che ha accolto la buona notizia di un amore che ti ama gratuitamente senza esigere nulla da te, che si dona e si spreca senza aspettarsi nulla, non si riesce a entrare nella logica della gratuità ricevuta. Il dono mi è fatto. Ma non è affatto detto che io lo voglia accettare! Riconoscere di dipendere totalmente è uno dei dolori e delle paure più forti per il nostro io. Bisognerebbe imparare a disobbedire alla paura della morte: ma questo lo si fa imparando giorno giorno a morire… Sono le antiche “mortificazioni”, l’importanza dell’ascesi etc. che il nostro tempo “illuminato e sgombrato dalle tenebre medievali” ha buttato nel secchio. Duemila anni di esperienza che ci dicevano “Non si va alla via unitiva senza prima passare per la purgativa” etc., non contano più nulla. Era tutto sbagliato, solo dagli anni ’60 in poi si è capita la verità. Sarà proprio così? Le grandi imprese fatte e sofferte dalla Madre e dalle prime sorelle sono state possibili grazie a una straordinaria capacità di mortificazione e spirito di sacrificio: se oggi le si proponessero non dico alle novizie ma anche alle stesse sorelle formate forse si rischierebbe una denuncia per maltrattamenti! 6 Se non me ne prendo cura, questo figlio non nasce. Se la paura prende il sopravvento, il “bimbo” muore, verrà abortito. La parola seminata in me ha bisogno della gestazione per poter nascere. Non si sceglie di ricevere il dono, ma si può scegliere se portare avanti o no la gravidanza. «Il primato è dell’Amore; e l’amore non nasce e, nato, non si vivifica senza una vita intima di raccoglimento e di meditazione» (FP 131). Torna di nuovo il tema centrale dell’intimità personale con Dio. Per portare avanti questa gravidanza, per poter far nascere questo figlio, devo avere una vita intima di raccoglimento e di meditazione. Devo prendermi cura di quella cella interiore che, nella tradizione biblica e patristica è chiamata cuore. Sottomettere il mio dono al dono dell’altro In un certo senso allora anche Elisabetta potrebbe dire "Io sono la madre del Signore"? Perché ha fatto questa esperienza di incarnare il dono gratuito della Presenza provvidente e amorevole di Dio. Invece dice “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?” Probabilmente Elisabetta riconosce che il dono di cui Maria è portatrice è più grande. È l’effetto della gratuità sperimentata che mi fa “sottomettere” il mio dono a quello dell’altro. Riconosco il dono nell’altro, mi ci metto a servizio, lo voglio promuovere e lo voglio valorizzare. È l’effetto della gratuità sperimentata nella propria vita. Non ho più paura dell’altro, del suo dono (è più grande, è migliore, è preferibile…) come accade con Caino. Abele non è più la concretizzazione della mia inferiorità e devo quindi, a tutti i costi, farlo scomparire. Diviene invece il portatore di un dono (la particolare preferenza di Dio per lui) del quale anche io mi rallegro e al quale mi metto a servizio. Perché in questa logica, servire il dono di Dio nel fratello è servire lo stesso Donatore. Questo spazza via la rivalità, facendo circolare liberamente i doni del Signore. Il terrore della superiorità dell'altro rispetto a me (e quella di essere inferiore rispetto all'altro) non viene mai da Dio. Così ci illudiamo di poter mettere le mani sul dono, di metterlo a servizio della nostra paura, di esercitare su di esso il nostro potere. Invece di lasciar fare al dinamismo interno del dono, in pratica tentiamo di sostituirci a Dio. Con le conseguenze disastrose facilmente immaginabili. Non è facile la collaborazione tra dono ricevuti. Acquisita la consapevolezza del dono ricevuto, è molto facile usarla per servirsi di tale dono, e molto spesso proprio in chiave di rivalità. E questo distrugge la comunione. È straordinario che i due carismi che più hanno collaborato nella storia siano stati proprio quelli di Gesù di Nazareth e di Giovanni Battista, i frutti del dono accolto sia da Elisabetta che da Maria. Ciò che uno dice dell’altro è un continuo rilancio di mettersi a servizio l’uno dell’altro. Per ampliare la meditazione del dono, vi propongo 1 Sam 1,1−2,10 in cui abbiamo la stessa dinamica: una maternità impossibile o comunque difficile, la preghiera, l’esaudimento della preghiera, il dono gratuito ricevuto e poi Anna che restituisce il dono. Ancora mi scuserete un accenno al mio padre Ignazio, ma è la preghiera che troviamo negli Esercizi: Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza e tutta la mia volontà, tutto ciò che ho e possiedo; tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridono; tutto è tuo, di tutto disponi secondo ogni tua volontà; dammi il tuo amore e la tua grazia; questo mi basta. Quando capisco che tutto viene da Dio il “contraccolpo” d’amore è restituirglielo perché possa entrare dentro la logica della sua volontà per il Regno. 7