NIETZSCHE (critica del positivismo e dello storicismo)

NIETZSCHE
(la morte di Dio)
prof. Michele de Pasquale
negli scritti del periodo illuministico [Umano troppo umano (1878); Aurora
(1881); Gaia scienza (1882)] l’arte non è più vista come la forza in
grado di far uscire la civiltà moderna dalla sua decadenza, ma viene
ritenuta un’illusione che la critica scientifica deve smascherare:
ora la via d’accesso alla comprensione del mondo
è la scienza
per scienza, Nietzsche non intende le scienze positive, nè le analisi dei
concetti e delle procedure della ragione,
ma l’analisi critica, l’esercizio del dubbio, la diffidenza
metodica
il compito della scienza non è tanto quello di fornirci un’immagine più
vera del mondo di quella offerta dall’arte (la scienza non è più
oggettiva dell’arte), quanto quello di aiutarci a
rischiarare il mondo delle nostre rappresentazioni
il fatto che Nietzsche sia consapevole che anche la scienza non può
eliminare gli errori, sottolinea la distanza esistente tra la sua
concezione della scienza e quella positivistica
in analogia con questa concezione della scienza
il metodo del filosofo diventa
storico
critico
assume il sospetto
a criterio di analisi
anche delle verità
apparentemente
più certe
non crede a verità
assolute, ma
concepisce l’uomo e i
suoi valori come
risultato delle
circostanze storiche
partendo da questo metodo e dal suo interesse per l’antropologia
(attenzione non più alla vita universale del cosmo, ma alla vita
dell’uomo come evento biologico di questo mondo),
Nietzsche attacca violentemente il concetto di
trascendenza
il sovrumano è solo un’illusione troppo umana, è una
duplicazione del mondo immaginando idealisticamente
una realtà in sè dietro ai fenomeni
le ipotesi metafisiche (la credenza di una cosa in sè al di là della realtà
fenomenica) sono un inganno a cui l’uomo soggiace
volontariamente per tollerare la propria caducità, per vagheggiare un
significato infinito alla propria esistenza:
hanno un valore consolatorio
da questo punto di vista i modelli culturali ottocenteschi (romanticismo,
idealismo, positivismo) non sono che raffinati imbrogli
questa filosofia critica viene applicata alla morale la quale
assoggetta la vita a valori pretesi trascendenti, valori
che bloccano l’esistenza, che negano la vita
disseziona i grandi sentimenti dell’umanità, li smaschera
come illusioni, ne riafferma la radice non
trascendente ma umana, anzi spesso bassa e
spregevole
(l’altruismo maschera l’egoismo, la santità la bramosia di vendetta, la
verità l’impulso alla falsificazione):
in definitiva ciò che muove l’uomo e che è all’origine dei
valori è l’istinto di conservazione e l’intenzione di
procurarsi il piacere ed evitare il dolore
” Trattenerci reciprocamente dall’offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento,
stabilire un’eguaglianza tra la propria volontà e quella dell’altro: tutto questo
può, in un certo qual senso grossolano, divenire una buona costumanza tra
individui, ove ne siano date le condizioni (vale a dire la loro effettiva
somiglianza in quantità di forza e in misure di valore, nonché la loro mutua
interdipendenza all’interno di un unico corpo). Ma appena questo principio
volesse guadagnare ulteriormente terreno, addirittura, se possibile, come
principio basilare della società, si mostrerebbe immediatamente per quello
che è: una volontà di negazione della vita, un principio di dissoluzione e di
decadenza. Su questo punto occorre rivolgere radicalmente il pensiero al
fondamento e guardarsi da ogni debolezza sentimentale: la vita è
essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è
estraneo e piú debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie,
un incorporare o per lo meno, nel piú temperato dei casi, uno sfruttare – ma
a che scopo si dovrebbe sempre usare proprio queste parole, sulle quali da
tempo immemorabile si è impressa un’intenzione denigratoria? Anche quel
corpo all’interno del quale, come è stato precedentemente ammesso, i
singoli si trattano da eguali – ciò accade in ogni sana aristocrazia – deve
anch’esso, ove sia un corpo vivo e non moribondo, fare verso gli altri corpi
tutto ciò da cui vicendevolmente si astengono gli individui in esso compresi:
%
dovrà essere la volontà di potenza in carne e ossa, sarà volontà di
crescere, di estendersi, di attirare a sé, di acquistare preponderanza –
non trovando in una qualche moralità o immoralità il suo punto di
partenza, ma per il fatto stesso che esso vive, e perché la vita è
precisamente volontà di potenza. In nessun punto, tuttavia, la coscienza
comune degli Europei è piú riluttante all’ammaestramento di quanto lo
sia a questo proposito; oggi si vaneggia in ogni dove, perfino sotto
scientifici travestimenti, di condizioni di là da venire della società, da cui
dovrà scomparire il suo “carattere di sfruttamento” – ciò suona alle mie
orecchie come se si promettesse di inventare una vita che si astenesse
da ogni funzione organica. Lo “sfruttamento” non compete a una società
guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del
vivente, in quanto fondamentale funzione organica, è una conseguenza
di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della
vita. – Ammesso che questa, come teoria, sia una novità – come realtà
è il fatto originario di tutta la storia: si sia fino a questo punto sinceri
verso se stessi!”
(Nietzsche, Al di là del bene e del male)
il protagonista di questa riforma morale
(liberazione dalle illusioni affinchè l’uomo
si riconosca in modo autentico) è lo “spirito
libero” (Freigeist):
non crede ciecamente alla ragione, è
scettico, ha la gaiezza e l’audacia
temeraria, è alla caccia della verità, ha la
freddezza del pensiero radicale
lo spirito libero preannuncia l’alba di un mondo disincantato
non più coperto da nebbie mistiche e nuvole metafisiche
(immagine della filosofia del mattino):
sottratto al dominio della religione, della morale, della
metafisica, lo spirito libero può ora intendere la vita come
esperimento e come rischio, conquista della propria
esistenza, riconoscimento di se stesso come colui che
crea e impone i propri valori
la sua vita diventa libera:
l’infinito a cui essa anela non è più Dio o la legge morale, ma
l’umanità stessa; si abbandona all’ebbrezza, al gioco, vive
alla superficie del mondo volontariamente diffidando di
ogni concezione generale del mondo
tutto ciò senza smarrire il senso storico:
la felicità è nell’accettazione totale (e quindi anche del passato
con le sue gioie e i suoi dolori)
“Ogni elevazione del tipo “uomo” è stata, fino a oggi, opera di una società aristocratica – e
cosí continuerà sempre a essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala
gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso
ha bisogno della schiavitú. Senza il pathos della distanza, cosí come nasce dalla
incarnata diversità delle classi, dalla costante ampiezza e altezza di sguardo con cui la
casta dominante considera sudditi e strumenti, nonché dal suo altrettanto costante
esercizio nell’obbedire e nel comandare, nel tenere in basso e a distanza, senza questo
pathos non potrebbe neppure nascere quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi
della distanza all’interno dell’anima stessa, la elaborazione di condizioni sempre piú
elevate, piú rare, piú lontane, piú cariche di tensione, piú vaste, insomma l’innalzamento
appunto del tipo “uomo”, l’assiduo “autosuperamento dell’uomo”, per prendere una
formola morale in un senso sovramorale. Indubbiamente, per quanto riguarda la storia
delle origini di una società aristocratica (il presupposto, dunque, di quell’innalzamento
del tipo “uomo”), non ci si può abbandonare ad alcuna illusione umanitaria: la verità è
dura. Diciamocelo francamente, come sino a oggi ogni civiltà superiore è cominciata
sulla terra! Uomini con un’indole ancora naturale, barbari in ogni terribile significato della
parola, uomini da preda ancora in possesso di non infrante energie volitive e bramosie di
potenza, si gettarono su razze piú deboli, piú ben costumate, piú pacifiche, forse dedite
al commercio o alla pastorizia, o su antiche civiltà marcescenti, in cui appunto l’ultima
forza vitale fiammeggiava in rutilanti fuochi artificiali d’intelligenza e di pervertimento. La
classe aristocratica è stata sempre, in principio, la casta barbarica: la sua
preponderanza non stava in primo luogo nella forza fisica, ma in quella psichica, – erano
gli uomini piú interi (la qual cosa, a ogni grado, significa anche lo stesso che “bestia piú
intera”.
(Nietzsche, Al di là del bene e del male)
nella Gaia scienza l’uomo folle annuncia
la morte di Dio
non si tratta dell’esplicitazione di una tesi metafisica
(dimostrazione della non esistenza di Dio) ma di una
constatazione:
non c’è più alcun Dio che ci può salvare; oltre gli uomini sta
solo il nulla
formula l’irruzione del nichilismo nel mondo moderno:
l’insieme degli ideali e dei valori su cui, grazie al cristianesimo,
la civiltà europea ha costruito per secoli la propria regola
di comportamento, si rivelano come fondati sul nulla
se Dio è morto non ha più senso parlare di morale, di bene e
male, non ha senso domandarsi dove l’uomo stia
andando, da dove sia venuto
inizialmente il nichilismo serve a designare la
condizione pessimistica dell’umanità per la
quale nulla ha più senso:
l’uomo riconosce l’insensatezza del mondo e sviluppa un
sentimento di perdita e di dolore, di odio nei confronti
della vita
in questa nuova situazione qual è il destino
dell’uomo, ha ancora un senso abitare la Terra?
la risposta a queste domande accenna a un
nichilismo attivo di cui può essere protagonista
solo un uomo superiore (“non dobbiamo noi
stessi diventare dèi?”) che completa la
distruzione degli antichi ideali e si fa promotore
dell’avvento di una nuova umanità
“ L’uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara
luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco
Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non
credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto
come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si
è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle
uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato
Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi
tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il
mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via
l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del
suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli?
Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i
lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come
attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú
freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere
lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio,
non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione?
Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo
ucciso! %
Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di piú sacro e di
piú possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri
coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi
lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo
grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare
dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande: tutti
coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una
storia piú alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto
il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi
tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò
in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguí – non è ancora il mio
tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo
cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono
vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo,
anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione
è ancora sempre piú lontana da loro delle piú lontane costellazioni: eppure son loro
che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione,
quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem
aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a
rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese,
se non le fosse e i sepolcri di Dio?”.
(Nietzsche, La gaia scienza)