I 7 SEGNI DEL VANGELO DI GIOVANNI L’INIZIO DEI SEGNI A CANA (2,1- 4,54) Fino a questo momento i discepoli si sono limitati a ripetere la testimonianza del Battista, secondo la quale Gesù è il Messia. Nell’episodio che segue troviamo in compimento della profezia fatta a Natanaele di qualcosa di più grande della messianicità di cui essi saranno testimoni: “Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Gv. 1,51). Con l’inizio dei “segni”, i discepoli saranno testimoni di una graduale rivelazione da parte di Gesù, che avrà il suo massimo splendore nell’ “ora” oscura e vivificante della Croce. Il primo segno: le nozze di Cana (2, 1-12) Questo racconto, come la maggior parte dei testi di Giovanni, è talmente elaborato che è difficile individuare l’esatto nucleo storico. Giovanni, a partire da un ricordo autentico, trasfigura a tal punto la storia che è preferibile più interessarsi alla teologia che vi è sotto anziché alla conoscenza storica dei fatti. Per convincersene, basta mettere in prospettiva le diverse scene. Introduzione (vv. 1-2). I primi due versetti introducono i personaggi del racconto e i loro rapporti reciproci. Le circostanze (le nozze) sono esposte senza che si parli, come ci si aspetterebbe, degli sposi. La sposa non viene mai nominata e lo sposo interviene soltanto in seguito a una confusione del direttore di mensa. Anche l’annotazione temporale: “Tre giorni dopo” è simbolica. Nel seguire la cronologia (1,29.35.41.43), dobbiamo intendere qui il terzo giorno (vale a dire “tre giorni dopo”) dopo la chiamata di Filippo e Natanaele. Ma Giovanni ha deliberatamente elaborato una cronologia simbolica più che storica, in modo tale da creare un “terzo giorno” per evocare la memoria della risurrezione (glorificazione) del Signore nel terzo giorno dopo la sua morte. Scena Prima: Gesù e sua madre (vv. 3-4). La mancanza di vino, elemento costitutivo di una festa di nozze, è il punto di partenza del racconto. Nelle nozze ebraiche, che duravano una settimana, bisognava prevedere una quantità sufficiente di bevande. Nulla viene detto sul motivo della mancanza di vino e anche il dialogo tra Gesù e Maria è oscuro. La risposta di Gesù (letteralmente egli dice: “Che cosa c’è tra me e te?”) nel contesto dell’AT significa sempre un malinteso: cioè il rifiuto di una persona a intervenire negli affari di un'altra. Tra i commentatori che mitigano la severità delle parole di Gesù è Giovanni Crisostomo, che vede nella risposta di Gesù un voler mettere le distanze: sua madre è invitata a superare la sua maternità carnale per nascere come discepola. Ma l’espressione: “Non è ancora venuta la mia ora” va vista nell’ottica dei “segni”, che spiegheremo più avanti. L’ “ora” della glorificazione di Gesù, è quella della sua crocifissione, morte e risurrezione per mezzo delle quali si attua la salvezza (cfr. 7,30; 8,20; 12,23.27; 13,1; 17,1). Gesù, pertanto, fa di questo primo “segno” un’anticipazione e un annuncio dell’ “ora” che si compirà sulla croce, e sulla croce, Gesù assocerà sua madre e il discepolo che egli amava (Gv 19, 25-27). Ambedue rappresentano così il vero Israele, la comunità che prosegue la presenza e l’azione di Gesù dopo la sua dipartita. A Cana, la madre di Gesù è diventata la prima dei discepoli. Scena Seconda: La madre di Gesù e i servi (vv. 5-6). La parola della madre di Gesù ai servi attesta che Maria ha compiuto quel superamento al quale la invitava Gesù. La frase: “Fate quello che vi dirà” manifesta l’adesione incondizionata; la madre carnale diventa così la prima dei discepoli. Scena Terza: Gesù e i servi (vv. 7-8). Nello schema che abbiamo proposto, questa scena è isolata: è il segno che essa occupa il posto centrale. L’evangelista insiste come se descrivesse al rallentatore le diverse azioni, gli ordini e la loro esecuzione: “Riempite le giare di acqua”. Le riempirono fino all’orlo. Dice loro: “Ora attingete e portatene al direttore di mensa” Essi ne portarono. E’ il tempo del compimento delle meraviglie: la mancanza di vino[12] che ha dato origine al racconto è colmata, tutto potrebbe così concludersi nella gioia e nella festa. Scena Quarta: il direttore di mensa e lo sposo (vv. 9-11). Il direttore di mensa e lo sposo corrispondono alla madre di Gesù e a Gesù: il malinteso è al colmo. Il direttore di mensa ignora che qualcuno si è sostituito a lui nelle sue funzioni; ignora anche che lo sposo non è quello che egli crede. Conclusione. La fine del racconto indica il vale simbolico del segno: “Gesù rivelò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Dopo questo sguardo generale sul testo, scendiamo ora nei particolari, per comprendere la ricchezza e la profondità del pensiero di Giovanni. Innanzitutto Giovanni più che di “miracolo” preferisce parlare di “segno”. Sfogliando il quarto vangelo non troveremo mai la parola miracolo, anche se l’evangelista racconta ben sette straordinari miracoli di Gesù. Eppure egli dà loro un nome diverso: per lui sono dei “segni”. Dopo il primo: il cambiamento dell’acqua in vino, l’evangelista dice al lettore: “Gesù diede inizio ai suoi segni a Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (2,11). E alla fine riassume così il suo libro: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (20, 30-31). Che cos’è un segno? Un segno che sia autentico rimanda a un significato. Se vedo uno sgorbio su un foglio bianco, allora penso a un bambino. Se invece vedo una parola scritta, allora penso a una persona adulta, il segno quindi rimanda a una realtà al di là di sé. Ci può essere un segno convenzionale e allora è solo un simbolo, come la bandiera italiana, che rimanda all’Italia. Ma ci può essere anche un segno reale come un fumo che si innalza da qualcosa che brucia, rimanda alla realtà del fuoco. Quindi un segno reale è un fatto concreto (il fumo si vede) che rimanda a una realtà non immediatamente visibile (il fuoco che sta sotto il fumo). Tale è il miracolo come “segno” nel vangelo di Giovanni. Il “segno” non è semplicemente una guarigione miracolosa di una parte del corpo, come quella di un qualsiasi taumaturgo (Padre Pio, o S. Antonio, chiamato “santo dei miracoli”), ma è un fatto straordinario che non riguarda solo la guarigione fisica, ma soprattutto ciò che in essa si rivela, e Giovanni scorge nel miracolo, o “segno” la rivelazione dell’identità della persona di Gesù. Facciamo qualche esempio: nel primo segno, alle nozze di Cana, Gesù rivela la sua identità “ sposo”; nel secondo di “colui che dona la vita”; nel terzo“Gesù è uguale a Dio”; nel quarto e quinto segno è Colui che“dona la vita eterna”; ecc… Questa identità della rivelazione di Gesù, però, è sempre in relazione alla salvezza totale dell’uomo: a Cana, per esempio Gesù è presentato come colui che offre il vino ultimo e migliore, per la salvezza non solo d’Israele, ma di tutti gli uomini. Così negli altri segni: Gesù è luce, vita, per tutti noi. I “segni” perciò sono sfaccettature diverse del significato salvifico che ha per noi la persona di Gesù. Tornando all’immagine del “segno reale” del fumo e del fuoco, possiamo concludere che il “fumo” è ciò che noi vediamo esternamente (la guarigione fisica), e il “fuoco” è la realtà nascosta dal fumo (la rivelazione della persona di Gesù per noi), che poi è la parte più vera del “segno”: il fumo, infatti, esiste perché c’è il fuoco. Passiamo ora brevemente in rassegna i sette segni che rimandano all’ultimo e definitivo segno, il più grande che Cristo ci ha lasciati: la sua morte e risurrezione. PRIMO SEGNO il cambiamento dell’acqua in vino alle nozze di Cana, viene qualificato come “l’inizio dei segni”. Il suo significato è svelato da Giovanni Battista in 3,29: “Chi possiede la sposa è lo sposo (Cristo); ma l’amico dello sposo (Giovanni), che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta”: Gesù si rivela perciò come lo sposo nascosto alle nozze di Cana, dietro al segno operato per gli sposi. Nella scena che segue alle nozze di Cana, la cacciata dei venditori dal tempio (2, 13-22), Gesù parla del segno ultimo e definitivo: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (2, 18-19). L’evangelista spiega che egli parlava del suo corpo, che sarebbe stato distrutto da loro e che lui avrebbe fatto risorgere dopo tre giorni (2, 21-22). La sua morte-risurrezione è perciò l’ottavo segno, l’ultimo, che rivela Gesù come il Signore glorificato, che dona lo Spirito. Nel secondo segno che Gesù compie (4, 46-54), la guarigione del figlio del funzionario regio: “Và tuo figlio vive”, Gesù si rivela come colui che dona la vita. Il terzo segno, la guarigione di un paralitico durante una festa, di sabato (5, 1-9), nel dialogo che segue, il “segno” della guarigione svela che Gesù opera di sabato come il Padre: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17). I Giudei vogliono ucciderlo, perché capiscono che pretende mettersi sul piano stesso di Dio (5,18). Nel dialogo successivo al quarto e quinto segno: la moltiplicazione dei pani e il cammino sulle acque (6, 1-12), il segno viene interpretato come la rivelazione di Gesù “pane di vita disceso dal cielo”, che sostituisce la manna che Dio diede a Israele nel deserto. Solo il pane dal cielo, che è Gesù e che dà Gesù (nell’eucarestia) è capace di donare la vita che non muore. Nel sesto segno: la guarigione del cieco nato (9, 1-41) Gesù rivela di essere la “luce del mondo”: “Io sono la luce del mondo, chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8,12). Il settimo, infine, è il più esplicito: la risurrezione di Lazzaro quattro giorni dopo la sua morte prelude alla morte-risurrezione di Gesù (11, 17-44). E’ Gesù stesso che ne anticipa il significato nel dialogo con Marta: “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?” (11, 25-26). I sette segni più uno, l’ottavo e definitivo, delineano progressivamente i tratti della persona di Gesù in relazione all’uomo e alla salvezza che gli offre, significata con l’espressione sintetica “vita eterna”. Questi segni dunque hanno due funzioni ben precise, la prima l’abbiamo già messa in luce: ognuno dei segni rivela un tratto singolare della persona di Gesù. La seconda funzione è di testimonianza o prova di quanto viene rivelato da Gesù. Basti un testo per confermarlo: le parole con cui il cieco nato guarito confuta i sapienti membri del sinedrio: “Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla” (Gv. 9,33). Oltre ai “segni” Giovanni parla anche di “opere” di Gesù. Anche qui, le opere comprendono certamente i suoi miracoli, ma non si limitano a quelli. Queste opere sono tutto il suo ministero pubblico e includono anche le sue parole (14,10). “Parole” e “opere” erano strettamente unite e perfino identificate nel pensiero antico. In Gv 15,3 Gesù dichiara “puri” i suoi discepoli in virtù della parola che egli ha loro annunciata. In un certo senso, almeno, le parole di Gesù sono l’elemento più importante nei “segni” di Gesù, perché queste parole definiscono le sue opere e le dimostrano come opere di Dio. Se la fede è accettazione di una Persona quale essa si è rivelata, poiché Gesù si è rivelato in “parole” e “opere”, noi dobbiamo credere sia alle sue “Parole” che ai suoi “segni”. E Gesù promette che le sue parole rimarranno nei suoi discepoli (Gv 15,7), i quali faranno anch’essi le sue opere e faranno perfino opere maggiori. L’altro termine usato da Giovannu è: “la gloria di Dio”. I “segni” di Gesù sono manifestazioni (segni) della sua gloria (Gv 2,11), e questa gloria è la stessa gloria di Dio (11,40). Nell’AT l’espressione “la gloria di Dio” allude alla manifestazione visibile di Dio, di solito nel fuoco e nel fumo (o in una nube), qualche volta in perturbazioni atmosferiche (Sal 29, 1-9; 97, 1-6), nei cieli stessi come opera della mano di Dio (Sal 19,2) o in qualche speciale forma di teofania. Nel tempio pieno di fumo Isaia (6, 1-5) vide “la gloria del Signore” (cfr. Gv 12,41; Ap 15,8). Nella tradizione del Pentateuco, Mosè incontrò “la gloria del Signore” nella nube e nel fuoco sul Monte Sinai (Es 24, 15-18) e il Signore fece conoscere a Israele la sua presenza per mezzo di una nube che coprì la tenda del convegno e riempì il tabernacolo (Es 40,34). Tenendo presente questo retroterra di idee, possiamo dire che per Giovanni “Gloria” significa la presenza divina manifestata in Gesù. Per completare il discorso simbolico di Giovanni dobbiamo fare un cenno anche ai “segni sacramentali” e “feste ebraiche. Un aspetto importante di Gv è la sua dottrina sacramentale. I più significativi tra i “segni” di Gesù sono quelli che pongono in risalto la vita sacramentale della Chiesa: il vino di Cana che sostituisce l’acqua delle abluzioni giudaiche (2, 1-11), l’acqua, sorgente viva, che proviene da Cristo (3, 5-7; 4, 10-14; 7, 37-38), il pane celeste che è la sua carne (6,51), sono tutti riferimenti ai sacramenti che sono efficaci in virtù della sua opera redentrice; essi conferiscono lo Spirito Santo che è la vita della Chiesa (19,34; 1 Gv 5,6.8). Il dono di questo stesso Spirito è la fonte del potere della Chiesa di rimettere i peccati (20,22). Conseguentemente, Giovanni presta una particolare attenzione al calendario rituale e liturgico del giudaismo – si può affermare che il suo vangelo si impernia sulle principali festività giudaiche – con l’unico intento di mostrare che tutti questi riti sono stati sostituiti nel corpo risuscitato di Cristo, la Chiesa, che ha preso il posto del tempio giudaico (2,20) e nella quale Dio è adorato in spirito e verità (4,23). Possiamo concludere affermando che il miracolo di Cana è scritto per i credenti che hanno fatto l’esperienza della fede pasquale e cha hanno rotto i ponti con il giudaismo, come traspare dalla costruzione del racconto. L’inizio e la conclusione del racconto situano il lettore in un contesto pasquale: il terzo giorno, qui tradotto “tre giorni dopo” (2,1) che evoca la risurrezione, in cui si è rivelata la gloria (2,11) di Gesù e in cui la fede dei discepoli è diventata totale. L’insieme del racconto descrive in che modo in Gesù si attua il passaggio dal giudaismo al cristianesimo. Il giudaismo, con il quale i primi cristiani hanno rotto i ponti, è qui presentato come un movimento religioso in via di esaurimento. Le sei giare destinate alla purificazione dei giudei sono vuote; i responsabili della festa di nozze sono imprevidenti: il festino messianico è sul punto di restare a secco. Per di più, quando Gesù interviene, dando alle nozze un prolungamento inaspettato e meraviglioso, il direttore di mensa e lo sposo (immagine d’Israele) sono incapaci di accogliere la novità che offre Gesù: il direttore di mensa si accontenta di volgersi verso il passato e di ripetere “quello che si fa di solito”. La quantità e la qualità eccezionale del vino significano che la festa messianica è cominciata e che ormai il vino non mancherà mai più, perché lo sposo sarà sempre presente al banchetto di nozze. Il secondo segno di Cana: guarigione del figlio di un funzionario (4, 46-54) Abbiamo già detto che nei primi 12 capitoli vengono presentati sette “segni” miracolosi che hanno lo scopo – proprio perché “segni” più che prodigi – di illustrare alcuni aspetti della realtà di Gesù. Il primo “segno” è stato quello di Cana, il secondo è il seguente: la guarigione del figlio di un funzionario regio. Ne seguirà subito un terzo che riguarda un paralitico ed è ambientato in una piscina detta Betzata o Betesda. Come nel precedente miracolo a Cana, la prima risposta di Gesù al funzionario regio[26] ha tutta l’apparenza di un rifiuto, presente in altre occasioni (cfr 2,4” Che c’è tra te e me o donna…”). Le parole di Gesù, però, sono al plurale (“voi”) e assurgono pertanto a un principio generale: la fede non deve basarsi unicamente sui miracoli, ma sulla parola di Dio. Difatti è la parola creatrice di Gesù che opera la guarigione desiderata: i segni e la fede nella parola vanno sempre insieme. Lo stesso concetto è espresso in quasi tutti i racconti di miracoli nei sinottici. Terzo segno: guarigione alla piscina di Betzaetà (5, 1-47) La guarigione del paralitico alla piscina (5, 1-9), posta nei pressi della porta delle Pecore[27] che conduceva al tempio, avviene di sabato, nel corso di una celebrazione festiva annuale, non meglio precisata dall’evangelista. La presenza di Gesù a Gerusalemme fa pensare che si tratti di una delle tre grandi feste ebraiche (Pasqua, Pentecoste o la festa delle Capanne), spesso designate come le “feste dei giudei”. a) La disputa (vv. 10-18) La violazione del“ sabato” offre lo spunto a una polemica che i Giudei intessono con Gesù, ma il dialogo si apre progressivamente verso una direzione molto più alta. Infatti Gesù “chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”. Si delinea la divinità e la trascendenza di Gesù, che vengono illustrate in un discorso che egli stesso pronunzia in modo solenne, occupando la maggior parte del capitolo quinto. L’uomo infermo è affetto da un duplice handicap: da una parte, è malato da tanto tempo (38 anni), ciò lascia supporre che la sua malattia fosse inguaribile. Dall’altra parte, non può approfittare dell’efficacia dell’acqua[28], riservata al primo che vi entrava, poiché non aveva nessuno che lo immergeva nella piscina. Questo tratto sottolinea la sua solitudine e la sua rassegnazione, tanto da portare la gente a disinteressarsi del suo caso, considerato disperato. Gesù prende l’iniziativa e volge lo sguardo verso il malato. Informato della durata del suo male, lo interroga per conoscere il suo desiderio. Di fronte alla sua confessione d’impotenza, Gesù fa per lui, il più povero fra tutti quei poveri malati, quel che “le acque agitate” ottenevano a favore del più forte tra di loro. Il confronto tra le acque guaritrici e Gesù mostra la Sua superiorità: se le “acque agitate” hanno guarito un infermo, a Gesù è bastata una sua parola per guarire, senza ricorrere al segno dell’acqua: “L’uomo fu guarito all’istante”. Dopo la guarigione Gesù trova l’infermo nel Tempio e gli dice: “ Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio”. Gesù non sostiene che i peccati dell’uomo sono la causa della sua disgrazia (cfr. Lc 13, 1-4). Il “peggio” di cui parla si riferisce senza dubbio al giudizio di Dio. Fino a questo punto il racconto era incentrato sull’onnipotenza di Gesù capace di rimettere in piedi un uomo malato e rassegnato. Ora il tema del sabato introduce il motivo dell’opposizione tra Gesù e le autorità giudaiche[29]. Nel vangelo di Giovanni, a parte il dibattito intellettuale con Nicodemo, è questo il primo conflitto serio tra Gesù e le autorità di Gerusalemme. b) il potere del Figlio (vv. 19- 30) Il potere che Gesù si attribuisce come Figlio di Dio, potere ricevuto da Dio stesso, è quello di dare la vita e di essere giudice dell’umanità: “Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a coloro che vuole. Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato tutto il giudizio al Figlio” (vv. 21-22). Sono queste “le opere più grandi” dei miracoli che Gesù compie su mandato del Padre. La risurrezione dei morti a vita nuova non riguarda solo la risurrezione finale, ma la vita nuova qui e adesso: la vita di grazia è l’inizio della vita di gloria: “Chi crede in me anche se morisse, vivrà, e chiunque crede in me, non morirà mai” (Gv. 11,25 ss.). Anche il giudizio, non ha luogo solo alla fine dei tempi, ma qui e adesso, sulla base dell’accettazione o del rifiuto di Cristo. Questa duplice autorità di Gesù sulla vita e sul giudizio sono visti come una “escatologia realizzata”. Il duplice tema della risurrezione e del giudizio, ribadito in questo testo, esalta la profonda connessione tra Dio e Gesù: ascoltare (il Figlio) e credere (al Padre) è una sola e medesima realtà: rifiutare Gesù è rinnegare il Padre. Identificando la sua opera con quella di Dio, Gesù si dichiara uguale a Lui. Per i capi giudaici, fermi assertori del monoteismo, queste affermazioni di Gesù sembravano una chiara affermazione di dualismo nella divinità. Questa unità tra il Padre e il Figlio, può apparire poco chiara leggendo il v. 19: “Il Figlio non può far nulla da sé, se non ciò che ha veduto nel Padre”. Qui Gesù, però, non intende affermare una subordinazione della sua natura umana da Dio (rinnegherebbe tutto quello che ha già affermato prima), insiste piuttosto sull’assoluta armonia che esiste tra l’attività del Padre e quella del Figlio, il che ovviamente esige radicalmente un’identità di natura. In Gv 16,12 ss., si utilizza lo stesso procedimento per precisare la relazione che esiste tra lo Spirito Santo e il Figlio. Tuttavia, in tutto il vangelo, la Trinità non viene mai presentata e trattata come una tesi di teologia astratta; se ne parla sempre in relazione alla salvezza: il Figlio – che è sia Dio che Uomo – si trova nel mondo per compiere l’opera del Padre, che è quella di portare agli uomini la salvezza. Il principio di questa comunanza di attività tra il Padre e il Figlio è l’amore. L’amore è anche il principio dell’attività dello Spirito in quanto santificatore, attività che mira a rendere anche gli uomini partecipi della vita comunitaria della Trinità (cfr. Gv 14,16.21). Il credente che aderisce in uno slancio al Padre e al Figlio riceve il dono immediato della vita e non incorre nel giudizio. Con la venuta di Gesù gli ultimi tempi sono iniziati, il giudizio si basa sull’accoglimento o sul rifiuto di lui. “E’ venuta l’ora, ed è questa”, con Gesù siamo entrati nel “già”, in cammino verso la risurrezione finale, ma “non ancora” avvenuta. Il mediatore di questa vita eterna porta il duplice nome di “Figlio di Dio” (v. 25) e di “Figlio dell’uomo” (v. 27). La sola condizione è di ascoltare la sua voce. Ogni uomo, anche dopo la dipartita di Gesù, può mettersi in ascolto della “parola” e ottenere così fin d’ora la vita eterna. L’escatologia realizzata non sopprime la risurrezione finale, in Gv l’escatologia futura è parte integrante del suo insegnamento. c) Testimonianza a favore del Figlio (vv. 31- 47) Il discorso ora si sposta sulla testimonianza e Gesù accetta il principio generale della giurisprudenza umana, secondo la quale la testimonianza che uno rende a se stesso, va suffragata con l’attestazione di altre persone, e Gesù chiama in causa a suo favore tre testimoni (vv. 31-40): Giovanni Battista, mandato da Dio (Gv 1,6); i miracoli di Gesù e il Padre stesso. La testimonianza del Padre, più che a un singolo avvenimento (come il battesimo di Gesù), rimanda alla testimonianza globale dell’Antico Testamento (sono proprio le Scritture che mi rendono testimonianza, v. 39). L’attacco si fa violento (vv. 41-47): i giudei non credono perché non hanno in loro l’amore di Dio. Alla fine il testimone che accuserà il popolo ebreo sarà proprio Mosè, vale a dire quelle Scritture sulle quali essi si fondano per rifiutare Gesù. Concludiamo queste riflessioni evidenziando alcuni titoli cristologici presenti in questo capitolo quinto: - Gesù, il guaritore, colui che è attento al più debole. - Gesù, il padrone del sabato, perché così imita suo Padre. - Gesù, il Figlio, in unione con il Padre. - Gesù, l’uguale a Dio: accusa dei giudei, ma vera agli occhi dei cristiani. - Gesù, centro delle Scritture. - Gesù salvatore. Quarto segno: la moltiplicazione dei pani (6, 1-15) Questo episodio è localizzato in Galilea. Riappare un’indicazione collegata alla liturgia giudaica: è la seconda Pasqua, dopo quella descritta in 2,13. Gesù, nella cornice del lago di Tiberiade[30], compie un quarto “segno” miracoloso, la moltiplicazione dei pani, un fatto ampiamente trattato dagli altri evangelisti (questo episodio è il solo miracolo raccontato da tutti e quattro gli evangelisti). Ad esso Giovanni darà un senso profondo, aggregando all’evento il famoso discorso sul “pane della vita” (6,35), pronunziato nella sinagoga di Cafarnao.[31] Fin dall’inizio il racconto s’impernia su Gesù. Egli è il personaggio che dirige tutto: vede la folla, interroga Filippo sapendo quello che sta per fare, ordina di far sedere la gente, conserva l’iniziativa anche per la distribuzione dei pani. Guidato sempre dalla sua prescienza, “saputo che stavano per farlo re” (v. 15), si ritira solo sul monte. Lo sfondo biblico è quello dell’Esodo, con la differenza che nel deserto “Dio dava la manna al suo popolo in quantità misurata”, qui regna la dismisura “ne restano dodici ceste”[32]. Il racconto si riferisce chiaramente all’Eucarestia e Giovanni sintetizza le versioni sinottiche, anche se ci sono allusioni liturgiche che mancano nelle versioni sinottiche, e viceversa. Giovanni, per esempio, omette l’espressione “li spezzò”, e durante l’ultima cena è Gesù stesso che distribuisce (e non i discepoli come nei sinottici). In tutto il vangelo di Giovanni, chiaramente anche in questo, l’obiettivo di Gesù non è tanto quello di manifestare la sua compassione per la folla senza cibo quanto di svelare la sua vera identità, perciò l’evangelista ha relegato sullo sfondo i discepoli per incentrare tutta la sua narrazione sulla potente personalità di Gesù che dirige gli 2) avvenimenti e li interpreta. 3) Il quinto segno: Gesù cammina sulle acque (6, 16-21) Giovanni descrive con tutta naturalezza un fenomeno del tutto ordinario in un lago soggetto a tempeste improvvise. A differenza dei sinottici, a Giovanni non interessa il dettaglio del “calmare i venti” (Mc 6,51; Mt 14,32). Il significato più ovvio del testo è comunque di affermare, conformemente ai sinottici, che Gesù stava realmente camminando sull’acqua, quando fu incontrato dai discepoli. Ciò è sottolineato dall’annotazione della distanza (25-30 stadi) che i discepoli avevano percorso remando (distanza che corrisponde più o meno alla indicazione di Marco “in mezzo al mare”). Il significato di un tale miracolo nell’ambito della “natura”, come quello della moltiplicazione dei pani, non mira, né in Gv né nei sinottici, a presentarci Gesù solo come un operatore di prodigi. Il potere di Dio sul mare è un tema comunissimo nell’AT (Gen 1,2.6 ss.; Sal 74, 12-15; 93,3 s.). Infatti, fu attraverso il dominio di Dio sul mare che il popolo d’Israele poté fuggire dall’Egitto verso la terra promessa (Es 14,19 ss. 15, 1-21; Sal 77, 17-22), anche lì l’acqua si era trasformata in strada per i figli d’Israele. Un altro dettaglio conferma questa lettura: “I discepoli ebbero paura”, segno che hanno visto in quest’episodio un intervento di Dio. Ma Gesù li tranquillizza cominciando col dire: “Sono io”: c’è qui un chiaro riferimento alla rivelazione del Sinai. Ancora una volta, Giovanni ha visto un profondo significato spirituale in una semplice risposta. Il sesto segno: il cieco nato ( 9, 1-41) Il vangelo di Giovanni, come abbiamo detto nei “segni” precedenti, è una composizione teologica e l’evangelista cerca di illustrare la persona e la missione di Gesù più che richiamare episodi concreti della sua vita. Per Giovanni l’essenza di questo “segno” non consiste semplicemente nel fatto che venga restituita la vista, ma che venga donata la luce a chi non l’aveva mai posseduta. La luce che Gesù è venuto a portare non appartiene per diritto agli uomini, ma è un pure dono di Dio offerto per mezzo di Gesù Cristo: l’uomo, in questo senso, è per natura cieco nato. Nel racconto si nota la tensione con il giudaismo, raffigurata non solo nel processo al cieco perché neghi l’opera di Gesù, ma anche in una nota che in realtà riflette la situazione del tempo in cui scriveva l’evangelista: “I Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga” (9,22). Ma un filo conduttore è quello affidato alla sequenza dei titoli attribuiti a Gesù, destinati in crescendo a mostrare che il vero approdo non è tanto quello della vista fisica ma quello della fede: “quest’uomo” Gesù, “inviato”, “profeta”, “colui che è da Dio”, “Figlio dell’uomo”, “Signore”, con l’adorazione finale: “Io credo Signore” e gli si prostrò innanzi (v. 38). La finale del racconto giovanneo del “segno” del cieco nato ha al centro la piena conversione del miracolato che proclama la sua fede nel Cristo come Kjrios “Signore”, il termine greco con cui si traduceva il nome divino JHWH della Bibbia ebraica. Ancora una volta è confermato il fatto che per il quarto evangelista i miracoli abbiano un valore trascendente, da scoprire oltre il pure evento storico. Dopo queste note esegetiche, facciamo ora una riflessione più a carattere spirituale. Chi ha peccato?[37] E’ l’eterna domanda che angustia il cuore dell’uomo di fronte al male. Bisogna trovare un responsabile, un colpevole a cui addossare il peso del male che sconvolge la nostra tranquillità. Così ci scarichiamo di ogni responsabilità e non cambiamo nulla dentro di noi. Spesso il colpevole è il prossimo, la società, i potenti, oppure è Dio stesso che “permette”, che non proibisce, che non interviene a cambiare le cose! Ancora una volta si cerca di giudicare Dio e di misurarlo con le nostre povere capacità. Ma Gesù risponde in modo chiaro e deciso: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio” (v. 3). E’ la risposta che non ammette repliche, e cambia totalmente la visuale dell’uomo; è la risposta che comincia ad illuminare la mente umana con una luce nuova e la libera dalle strettezze che le impediscono di vedere tutta la realtà, anche quella invisibile. Qui viene una prima lezione di conversione: smettiamola di guardare sempre tutto con la nostra miopia; smettiamola di giudicare confrontandoci con la nostra povera esperienza. E’ ora di aprirci alla vastità di Dio, alle sue dimensioni, alla sua grandezza. Ciò comporterà un senso di smarrimento, ma è il segno che finalmente siamo entrati nella sfera dell’invisibile, del soprannaturale, cioè della realtà definitiva dell’uomo. “Tu l’hai visto!”. Così si presenta Gesù al cieco guarito (v. 37), dopo gli interrogatori dei farisei che hanno cercato di negare l’evidenza del miracolo solo per coprire il loro orgoglio e l’ignoranza di chi non vuole uscire dalle sicurezze abitudinarie. Il cieco “vede”, mentre quelli che credono di “vedere” non vedono e non capiscono nulla, si coprono di ridicolo e restano nella menzogna: “Se foste ciechi non avreste nessun peccato, ma siccome dite di vedere, il vostro peccato rimane” (v. 41) Il giudizio di Gesù è talmente chiaro e pesante, da suscitare l’ira e la vendetta di quei giudei tanto insofferenti di fronte alla verità. Ma questo giudizio cade anche su tutti noi quando non abbiamo il coraggio di aprire gli occhi, pensando di sapere già tutto, di avere già fatto la scelta giusta, di non avere più nulla da cambiare. La conversione di cui abbiamo bisogno è precisamente questa: sentirci in stato di ricerca, desiderosi di un “di più” e di “un meglio” senza accontentarci di quello che già sappiamo e già siamo: voler conoscere meglio la parola di Dio per metterci in discussione e adeguare il vivere al credere. Ma c’è sempre in noi la paura della luce: vogliamo tenere per noi qualche angolo oscuro della coscienza dove entriamo soltanto noi, ma Gesù ci ammonisce: “Mentre avete la luce, credete nella luce per diventare figli della luce” (Gv 12,36). Noi cristiani abbiamo la fortuna di avere la luce. Saremmo ingrati e sciocchi se non usassimo questo dono. Apriamoci “alla luce della fede” per portare un giudizio più positivo sulla nostra storia quotidiana, sul mondo e sulla chiesa: non il senso del castigo, della fatalità del male o dell’impossibilità di una santità autentica desiderata e costruita ogni giorno, ma la certezza che in noi “si manifesta l’opera di Dio” (v. 3). Gesù ce lo assicura e mette nelle nostre mani la realizzazione di questa promessa.. La luce di Dio illumini la nostra vita quotidiana e ci faccia capire le spinte segrete che muovono le nostre scelte anche in seno alla comunità cristiana, il perché di tanti nostri contemporanei che di cristiano non hanno nulla. Lasciamoci guidare dal “gusto” di Dio che non guarda alle apparenze ma al cuore, e diamo alle nostre relazioni e ai nostri giudizi sul prossimo questa nuova misura, cambierà qualcosa e in meglio. La nostra vocazione di cristiani è di essere luce e figli della luce, e non possiamo essere luce che in lui, poiché ha detto: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). Nel battesimo noi siamo diventati “luce” e “figli della luce”. Così al simbolismo battesimale dell’ “acqua viva” si aggiunge quello della “luce”. Anzi nella notte di Pasqua, la luce precede l’acqua e pervade tutta la veglia. E’ il segno della risurrezione. Il cammino del cristiano, allora, è cammino di luce, è cammino di risurrezione. L’apostolo Paolo ci esorta, di conseguenza, a comportarci come “figli della luce” e ci indica che “il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef 5,9). Lo stesso apostolo ci suggerisce il proposito che dobbiamo fare e la decisione che dobbiamo prendere se vogliamo essere figli della luce: “Gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie” (Rm 13, 12-13). Noi siamo luce del Signore. Il settimo segno: la risurrezione di Lazzaro (11, 1-44) Nel capitolo quarto abbiamo incontrato il segno dell’ “acqua” (la samaritana); nel capitolo nono, il segno della “luce” (il cieco); in questo capitolo undicesimo, un altro segno, “la vita”, che sintetizza tutto il cammino del cristiano, che è un continuo esodo dalla morte alla vita. Questo racconto di Giovanni ha un modo di procedere simile a un dramma che tiene il lettore sospeso, per il continuo susseguirsi di conseguenze. La drammatizzazione dell’episodio è al servizio di un insegnamento profondo e articolato. Ad una introduzione (vv. 1-16), seguono “due scene”: la prima narra il dialogo di Gesù con Marta (vv. 17-27) e con Maria (vv. 28-37), sorelle di Lazzaro; la seconda (vv. 38-44) si sofferma su Gesù che dinanzi alla tomba di Lazzaro comanda: “Lazzaro, vieni fuori!”. Infine la “conclusione” del racconto (vv. 45-54) con il Sinedrio che decide la morte di Gesù: Lazzaro è vivo, Gesù morirà. a)“Questa malattia non è per la morte”. Gesù aspetta senza preoccuparsi che l’amico Lazzaro sia morto (vv. 6.11). Egli attende che il ciclo della morte si compia in Lazzaro, affinché l’iniziativa del Dio della vita si manifesti in tutto il suo spessore. Ma, soprattutto, Gesù vuol preparare i discepoli a comprendere il miracolo come un “segno” (cfr. Gv 2,11), in cui possano scoprire la gloria del Padre e di Gesù (v. 4b), affinché i discepoli credano, e nella fede incontrino la vita. b) Il dialogo tra Gesù e Marta. Diversamente da quanto avviene nell’episodio della cena narrato da Lc 10, 38-42, qui è Marta, e non Maria, ad avere il ruolo principale e a comprendere meglio ciò che sta per accadere. Marta crede che “qualunque cosa Gesù chiederà a Dio, Dio gliela concederà” (v. 22). Da questo inizio di fede, passando attraverso la professione sulla “risurrezione nell’ultimo giorno” (v. 24), Marta è condotta da Gesù di fronte a un nuovo appuntamento della fede: viene da lui provocata ad una fede più grande nella sua persona (vv. 25-26). Si tratta di credere in lui già ora, al presente e non soltanto al futuro: “Gesù è la risurrezione e la vita” (v. 25). c) “Credi tu questo?”. La risurrezione di Lazzaro non è soltanto un segno della risurrezione generale, nell’ultimo giorno, ma anche il segno concreto della potenza vivificante di colui che già ora ha “parole di vita eterna” (Gv 6,68) perché “come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso (Gv 5,26). Gesù offre a Marta la più grande rivelazione cristologia che si possa immaginare quando, con quel “Io sono la risurrezione e la vita” (v. 25), pone se stesso sullo stesso piano dell’Io sono di Dio nella teofania a Mosè: “Io sono colui che sono” (Es 3,14). La voce imperativa di Gesù a Lazzaro, cadavere da quattro giorni (v. 43), è la voce di colui che già ora rivolge ai suoi la parola di Dio, chiamandoli alla vita. Perciò i morti “dormono soltanto” (v. 11), “vivono anche se muoiono” (v. 25), e “morire” non è più morte (v. 26). Gesù chiama alla vita non soltanto Lazzaro, ma tutti noi perché mediante la fede veniamo alla vera vita: “Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna…” (5, 24). Crediamo, noi questo? Per bocca di Marta, la comunità di Giovanni confessa la sua fede: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo” (v. 27).