IMMANUEL KANT Il cartografo della conoscenza umana. Parte quarta: la Critica del giudizio L’estetica di Kant • La Critica del giudizio affronta la questione del bello e dunque va a costituire la riflessione estetica di Kant (il termine “estetica” è qui usato in senso tradizionale, con il significato di “tutto ciò che riguarda il bello e le arti”, e non in quello di “dottrina della sensibilità” che è invece proprio della Critica della ragion pura). Essa rappresenta una parte importantissima della filosofia critica per le ragioni che andremo ad esplorare. Al pensiero qui elaborato dal filosofo di Koenigsberg si deve gran parte della filosofia dell’arte del Romanticismo, che da Kant prenderà avvio per muoversi poi su territori autonomi. La Critica della ragion pura • Nella Critica del ragion pura Kant ha stabilito le leggi della conoscenza oggettiva, cioè delle leggi a priori, valide universalmente, secondo le quali si apprende come la natura funzioni e quale legittimità abbia la nostra conoscenza di essa. La facoltà dello studio scientifico della natura è l’intelletto, supremo legislatore di ogni oggetto di conoscenza, in modo che tale conoscenza sia certa e i suoi concetti siano da tutti verificabili e approvabili. La Critica della ragion pratica • Nella Critica della ragion pratica Kant ha trovato le leggi generali del comportamento umano a prescindere da ogni movente sensibile. Tale leggi postulano l’esigenza del sovrasensibile, di quelle idee di ragione che sono a fondamento della possibilità da parte della ragione stessa (la facoltà che presiede ad ogni agire buono) di muovere le azioni umane in piena autonomia secondo criteri universali e validi per ogni uomo e in ogni tempo. Le azioni e la loro realizzazione • In quale mondo vive l’uomo, dove si realizza la sua azione? Si realizza nel mondo naturale regolate dalle leggi della scienza. La libertà umana si deve sempre confrontare con le circostanze del mondo naturale. Per es. se io voglio compiere un’azione buona, salvando un uomo che annega, devo tener conto delle leggi naturali che fanno di me, a mia volta, un uomo e non un pesce, e quindi regolare prudentemente il mio comportamento per rendere efficace la mia azione calcolando la possibilità di avere le medesime difficoltà del mio simile in acqua. La natura e la libertà • Sembra talvolta che la natura vada per i fatti suoi con le sue leggi, indifferente alle leggi della morale. Sembra che gli accadimenti seguano solamente leggi meccaniche a prescindere da ogni finalità posta dalla nostra ragione che stabilisce a priori ciò che è buono e ciò che non lo è. • Tuttavia noi per poter agire nel mondo dobbiamo pensare che la nostra libertà si possa in qualche modo accordare con le circostanze del mondo. • Se a volte non è così, tuttavia noi non possiamo pensare, poiché apparteniamo alla natura e vi siamo calati dentro, che natura e libertà siano due regni assolutamente separati. L’accordo di natura e libertà • E’ vero, natura e libertà funzionano secondo principi propri, e le nostre facoltà mentali li pensano correttamente come due regni diversi (altrimenti si cadrebbe nella metafisica, quando la natura viene pensata secondo le idee di ragione; nell’utilitarismo e nell’edonismo quando si pensa la sfera morale come se fosse mossa da motivi sensibili). • Tuttavia devo pensare che i due mondi SOGGETTIVAMENTE si possano conciliare. Soggettivamente perché non posso conoscere i principi supremi, superiori evidentemente alle capacità umane di conoscenza, che presiedono al loro accordo. Se fosse così, sarei fuori di me, perché so che in me esistono SOLO due facoltà che presiedono RISPETTIVAMENTE alla conoscenza delle due sfere, e tali facoltà in me sono separate (intelletto e ragione) e diverse. • Nondimeno se io devo agire NEL MONDO NATURALE – ed è evidente che è così – DEVO POTER PENSARE che la natura possa accogliere, possa non essere inconciliabile con i fini posti dalla libertà. Una terza facoltà: il giudizio • Questo “poter pensare che la natura si accordi con i fini della libertà” è opera di una terza facoltà, intermedia fra intelletto conoscitivo e ragione pratica, che prende il nome di GIUDIZIO. Il giudizio in generale è di due tipi. • Il primo riguarda la sussunzione di un particolare sotto una regola universale data. E’ la sussunzione del molteplice dell’intuizione sensibile entro una categoria dell’intelletto che ci permette di formulare una legge di natura: di tale tipo di giudizio, chiamato determinante, si è lungamente trattato nella prima critica. • Il secondo tipo di giudizio non determina scientificamente le qualità di un oggetto, ma vi riflette sopra (è giudizio riflettente), vedendo se il particolare si adatta ad un fine posto dalla ragione, cioè se la natura è in accordo soggettivo con le nostre facoltà in modo che essa appaia docile rispetto ad una finalità che la ragione ha posto. Il giudizio riflettente • Il giudizio riflettente non conosce il suo oggetto ma riflette”sulla costituzione della cosa rispetto al soggetto giudicante”, in modo che esso sia in grado di rinvenire nella cosa una sorta di finalità rispetto al soggetto stesso. Tale finalità gli permette di poter dire che la cosa sembra fatta apposta per essere apprezzata dall’uomo, come se il mondo non fosse solo il regno di leggi meccaniche indifferenti all’uomo, ma contenesse anche un modo di essere “conveniente” con l’uomo e la sua vita morale. La natura vista sotto il profilo del fine e non della legge • Nel giudizio determinante si determinano le leggi di natura che orientano la conoscenza del particolare, in quello riflettente dei medesimi oggetti non è ricercata una legge universale, mi vi è la sussunzione dei dati di natura in un universale tramite un principio guida a priori, cioè l’ipotesi della finalità della natura quale avrebbe potuto stabilire un intelletto divino. Quindi vi è un diverso modo di vedere le cose. Noi sappiamo che nelle cose non vi è un fine, vi sono solo leggi del loro funzionamento. Però non possiamo fare a meno di pensare per fini, perché tale è la nostra costituzione razionale-morale che ci indica sempre degli scopi del nostro agire nel mondo. Ora, il giudizio riflettente rinviene a priori nella natura una finalità, una conformazione tale che essa deve essere pensata come qualcosa che è stato voluto intenzionalmente da qualcuno (che non può essere che Dio), in modo che la natura si accordi con il nostro modo di essere e di pensare. Giudizio estetico e teleologico • Ovviamente il giudizio riflettente non ha alcun valore conoscitivo nel determinare il mondo che ci sta di fronte, tuttavia, essendo fondato sul nostro modo di pensare (a priori) e sulla struttura trascendentale della nostra mente, ha egualmente un valore universale e quindi a buon diritto fa parte del nostro modo di concepire filosoficamente la realtà. Esso è di due tipi: estetico (sugli oggetti belli riferito al soggetto), e teleologico (sugli oggetti organici riferito agli oggetti stessi). Il giudizio estetico • Riguarda, come si è detto, gli oggetti belli. • Perché diciamo che un oggetto è bello? Perché lo commisuriamo con il sentimento di piacere che si prova nel vederlo e contemplarlo. • Ma perché allora non diciamo semplicemente: mi piace? Il giudizio empirico di piacere e il bello • Perché quando giudico “bella” una cosa non elaboro un giudizio empirico legato semplicemente ad un piacere sensibile, come quando, per esempio dico che mi piace la pastasciutta. Quest’ultimo giudizio non ha alcun valore di universalità, perché in questo caso vale l’adagio “de gustibus non disputandum est”. Il giudizio di piacere qui è empirico, particolare, sensibile e a posteriori. In tal senso esso sussiste anche per gli animali irragionevoli, cioè per esseri soltanto sensibili. Il giudizio razionale sul buono • Buono o pregevole è per Kant ciò che piace come fine, in quanto è considerato bene, o in vista di un fine, in quanto è considerato utile. Si tratta di un piacere connesso inscindibilmente alla dimensione morale. In questi casi il piacere è interessato all’esistenza e al conseguimento dell’oggetto. Inoltre, dipendendo esclusivamente dalla ragione, sussiste per gli esseri soltanto ragionevoli. Il piacere del bello • Quando giudico bello qualcosa sto indicando che quella cosa piace in modo universale e senza che vi sia di mezzo un mio interesse. • Non posso esibire un concetto universale, di carattere scientifico o pratico perché quella cosa debba piacere, ma mi esprimo cercando il consenso dell’altro, perché nel mio parere non vi è nulla di interessato, cioè di particolare, di mio e basta, di legato alla mia specifica individualità. Dico che una cosa è bella perché sono trascinato a dire che è così da un fattore di ragione che si connette direttamente alla mia capacità di provare sentimenti (dunque è un piacere che sussiste per esseri al tempo stesso ragionevoli e sensibili) e che presuppongo presente anche negli altri, in quanto uomini e dotati della mie stesse facoltà mentali e della mia medesima costituzione fisica. • Dunque il piacere del bello è UNIVERSALE, SENZA CONCETTO e SENZA INTERESSE. Che cosa colgo alla radice del mio giudizio di gusto • Il giudizio sul bello è un giudizio di gusto. In tale giudizio io provo piacere, ma da che cosa è dato questo piacere? Dal fatto che io colgo nell’oggetto una forma della finalità senza scopo. Cioè percepisco il fatto che l’oggetto appare in grado di stimolare le mie facoltà conoscitive, come se fosse fatto apposta per qualcosa, possedendo così un’armonia tale da conformarsi al mio modo di vedere le cose e produrre il sentimento di piacere che produce. Perché si tratta della forma della finalità senza scopo? Finalità con scopo • • • Quando vedo il mio cagnolino che salta mentre io gli do da mangiare, so benissimo indicare lo scopo del suo comportamento: arrivare subito ad addentare il cibo. In questi casi posso osservare come una serie di gesti sia armonicamente ordinata a guadagnare qualcosa, in modo che nessun elemento appare estraneo, incoerente con il fine che si propone colui che sto osservando. Questo è anche il fine tecnico che posso individuare nella natura. Infatti so che certi comportamenti seguono determinate procedure allo scopo di soddisfare alcuni bisogni delle creature naturali, secondo specifiche leggi bio-fisiche. Di questo fine tecnico vi è un concetto, perché esso dipende dalle leggi di sostentamento dei corpi fisici che ho di fronte: un animale vuole procurarsi il cibo perché il suo corpo, fatto così e così, ne ha bisogno. Allo stesso modo quando io vedo dieci corridori pronti a partire in una gara di atletica, so benissimo indicare lo scopo dei loro movimenti: arrivare alla meta prima degli altri. Anche qui tutti i movimenti dell’atleta concorrono al raggiungimento dello scopo, e sarebbe ben strano vedere Carl Lewis che mentre corre ne approfitta per finire una partita alla playstation. In questi esempi vi è una finalità, un “comportamento” dell’oggetto che è finalistico e noi sappiamo benissimo indicare lo scopo. La forma della finalità senza scopo • Proviamo invece a pensare di contemplare un oggetto, la cui conformazione, il cui comportamento appare del tutto armonico e coerente, senza che vi sia nulla che “stoni” (come la partita alla playstation di Carl Lewis) e tuttavia non sappiamo indicare il concetto dello scopo, ossa il fine concreto al quale il comportamento tende. Noi qui coglieremmo un comportamento che ha tutti gli ingredienti del comportamento finalistico, senza il concreto scopo da raggiungere. Dunque coglieremmo propriamente ciò che si coglie negli oggetti che sono sottoposti a giudizio di gusto: armonia, coerenza, senza però un fine preciso. Quindi non una finalità vera e propria, ma la forma della finalità, ciò che accade sempre quando vi è uno scopo, a prescindere dai diversi scopi effettivi, senza che questo scopo effettivo si possa esibire e spiegare. Una finalità soggettiva • Quando colgo la forma di una finalità senza scopo, mi manca il concetto di fine cui riferire l’oggetto. In un oggetto perfetto, so che esso è come deve essere secondo il suo concetto: un orologio perfetto so che deve possedere tutto ciò che è presente nel concetto di orologio (lancette, quadrante, meccanismo, cinturino etc.). In un oggetto utile so che esso deve possedere determinate qualità secondo il concetto della sua utilità: un martello deve essere pesante, maneggevole, resistente etc. • In un oggetto Bello mancano questi tipi di concetto. Manca il fine concettuale cui riferire il molteplice dell’oggetto, quindi la finalità viene riferita al soggetto, cioè il soggetto riferisce a sé tale finalità e, pur sapendo benissimo che l’oggetto non è stato fatto per lui, lo giudica come se esso sia stato concepito appositamente per stimolare con la sua armonia le sue facoltà conoscitive soggettive in modo positivo e produrre piacere. Immaginazione e intelletto • Nel cogliere la forma di una finalità si mettono in libero gioco l’immaginazione e l’intelletto. Il piacere è effetto di questo libero gioco. Ma che cosa intendere con immaginazione, intelletto e “libero gioco”? • Immaginazione è la facoltà di rappresentare oggetti in modo unitario, cioè in modo che essi si dispongano ad essere pensati dall’intelletto. A tal fine l’immaginazione attua anche quella produzione di schemi temporali che rende le categorie dell’intelletto (schematismo trascendentale) capaci di pensare “scientificamente” gli oggetti sensibili. • L’intelletto è la facoltà di conoscere tramite categorie concettuali gli oggetti della realtà. Il libero gioco • Quando si dice che immaginazione e intelletto sono in “libero gioco”, si intende che esse funzionano come se dovessero conoscere un oggetto, ma sono liberi dal compito di conoscerlo. Il gioco è bello perché impegna le nostre facoltà, senza l’ “oppressione” del loro funzionamento “serio”, come si dice quando uno fa qualcosa “per gioco”. Questo impegno “libero” dà piacere, proprio perché non legato al risultato da raggiungere. Così nei riguardi di un oggetto, quando ci si pone in un atteggiamento estetico, l’immaginazione fornisce continuamente materiale all’intelletto, un materiale che ha una certa regolarità (finalità), tale da stimolare l’intelletto nella sua capacita di agire “regolarizzando” la natura, ma è libera da compito di schematizzazione ed esibizione dei concetti, mentre l’intelletto svolge il suo compito di giudicare, cioè elaborare delle proposizioni inerenti alla realtà, ma senza dover applicare metodicamente i suoi concetti, cioè senza dovere lavorare in modo vero e proprio. La dinamica del giudizio di gusto • Così a partire dal libero gioco delle nostre facoltà conoscitive in relazione ad un oggetto colto nella sua forma finale e senza scopo, si determina in riferimento al soggetto un piacere disinteressato, contemplativo, universale e senza concetti che ci fa elaborare il giudizio estetico: “X è bello”. Il giudizio estetico sul sublime • Ma le nostre facoltà non solo possono sentire una peculiare conformità e armonia tra loro stesse e gli oggetti, ma anche una disarmonia e sproporzione. Quando siamo di fronte a fenomeni di grande portata e maestà o particolarmente violenti e pericolosi, le nostre facoltà non provano piacere, ma ne rimangono egualmente affascinate. Questa ci fa indicare tali fenomeni con l’aggettivo SUBLIME. Sublime matematico e dinamico • Carattere del sublime è la rappresentazione dell’illimitato, di ciò che è terribile, meraviglioso. Il sublime è matematico quando riguarda l’infinitamente grande; è dinamico quando riguarda l’infinitamente potente. Nei loro confronti noi ci sentiamo schiacciati, eppure attirati. Se il bello dunque piace, il sublime, in questo duplice sentimento, commuove. Il sublime e la moralità • Di fronte al sublime, che le nostre facoltà sentono come qualcosa di esorbitante e di incontenibile, esse sono stimolate ad evocare dentro di sé le idee morali e di ragione, rispetto alle quali nessuna intuizione sensibile è capace di esorbitare e anche di essere adeguata. In sostanza di fronte ad uno spettacolo grandioso come una tempesta o un maremoto, o di fronte alle cime innevate di un’imponente catena montuosa, noi, proprio quando siamo oppressi e commossi dalla rappresentazione, al tempo stesso siamo chiamati a pensare che abbiamo in noi la moralità e il senso del bene che, nella loro infinita grandezza razionale e nel suo infinito valore, sono superiori a qualsiasi spettacolo sensibile dell’illimitato. In definitiva siamo chiamati a riflettere sulla presenza in noi di una facoltà dell’animo, la ragione, superiore ad ogni misura dei sensi. Il giudizio teleologico e la finalità nell’oggetto • Nel giudizio estetico la finalità è riferita al soggetto, perché nelle cose non vi sono fini. Nel giudizio teleologico invece la finalità viene considerata nell’oggetto. Pensiamo ad un organismo vivente. Si ha l’impressione che esso sia stato conformato così in modo intenzionale, vista la perfetta funzionalità delle parti alla vita del tutto. Gli oggetti naturali • Da un punto di vista conoscitivo noi però sappiamo che gli oggetti naturali funzionano esclusivamente in base a leggi meccaniche. Tuttavia nella natura vediamo da un lato che alcune cose servono ad altre in modo sorprendentemente adeguato (la vegetazione, per es., agli animali erbivori, questi ultimi ai carnivori) e, come già detto, che internamente gli organismi sono costituiti affinché ciascuna parte, in modo anche qui sorprendentemente adeguato, serve alla vita del tutto e e contemporaneamente ne dipenda. Una finalità nella natura • Quindi è impossibile per noi evitare di pensare la natura anche secondo il concetto di un fine che presiede al suo funzionamento e alla produzione delle sue infinite forme. Tuttavia una causa finale non è possibile rinvenirla in modo esplicito, né conoscerla, pena il ricadere nelle antinomie della ragion pura. Allora ci dobbiamo accontentare di leggere i fenomeni, COME SE, essi fossero stati prodotti intenzionalmente, con il fine di farli così come sono, nella loro variegata reciprocità e perfezione. Valore non conoscitivo e utilità del giudizio teleologico • Ovviamente questo “come se” non determina in alcun modo le leggi naturali e non ci fa conoscere l’oggetto. Tuttavia il pensiero che qualcuno abbia prodotto intenzionalmente la natura ci aiuta nell’indagine delle sue forme, ci fa progredire seguendo un filo di una superiore razionalità finalistica, che non ci è data, ma che aiuta via via a scoprire aspetti sempre nuovi del mondo che ci sta davanti. La nostra ricerca naturale quindi risulta agevolata da questa possibilità di seguire il filo di un’intenzione, come quando in un libro giallo, il sapere che alla fine ci si svelerà l’intenzione dell’assassino, la sua identità e l’abilità dell’autore nel costruire una trama il cui sbocco è ragionevole eppure non ovvio, ci fa progredire più alacremente nella lettura.