Michele Camerota LEZIONI DI STORIA DEL PENSIERO SCIENTIFICO 6. LA MECANICA TRA CINQUECENTO E SEICENTO LA SCIENZA DELLE MACCHINE «Chiamo scienza meccanica quella disciplina da cui si possono ricavare le cause e i principi di molte arti manuali. Queste arti sono comunemente, in modo improprio, denominate anch’esse ‘meccaniche’, mentre dovrebbero piuttosto dirsi arti basse, sellularie o banausiche. [...] E invero, pur trattando di cose attinenti alla materia e al movimento – come i corpi pesanti e leggeri in relazione alla velocità e alla tardità – la scienza meccanica deve essere inclusa nel novero delle discipline matematiche, poiché considera quegli oggetti secondo modalità matematiche. Per quanto, infatti, gli strumenti meccanici e le stesse macchine vengano concepiti in funzione di una qualche operazione pratica, tuttavia lo studioso di meccanica, esaminandone esclusivamente le cause e i principi, si sofferma e si concentra sulla sola contemplazione». A. Piccolomini, In Mechanicas Quaestiones Aristotelis paraphrasis, Roma, 1547, f. IIIr-v. MATEMATICA E MECCANICA Ben lungi dall’identificarsi con il patrimonio di cognizioni praticooperative degli artigiani e dei costruttori, la meccanica ha, per Piccolomini, una dimensione genuinamente speculativa che la colloca a buon diritto nell’ambito delle vere e proprie scientiae. In particolare, la natura ‘scientifica’ (dimostrativa) è garantita dall’approccio matematico. Al pari dell’ottica, dell’astronomia, della musica, la meccanica rientra, infatti, nel genere delle scientiae mediae, ovvero di quelle branche dottrinali che applicano dimostrazioni matematiche a soggetti di carattere naturale. Come spiega lo stesso Piccolomini, «seppure tali discipline, concernendo la materia, non possano essere qualificate come puramente matematiche, tuttavia si debbono definire più convenientemente matematiche che naturali» (ibid., f. IIv). LE QUAESTIONES MECHANICAE Attribuite ad Aristotele (ma più verosimilmente ascrivibili alla sua scuola), le Quaestiones mechanicae vennero incluse nel secondo dei cinque volumi del corpus aristotelico greco stampato da Aldo Manuzio tra il 1495 e il 1498. Presto tradotte in latino, il loro esame si caratterizzò come un momento centrale della riflessione scientifica del ’500 e del primo ’600. Non a caso, allo scritto veniva riconosciuto il merito di aver ricercato «in modo acuto e sintetico, le vere cause non solo di quasi tutte le meravigliose macchine inventate finora, ma anche di quelle che lo saranno in futuro» (A. Piccolomini, In Mechanicas Quaestiones Aristotelis paraphrasis, f. Ivr;). Le Quaestiones mechanicae sostengono con forza il carattere di scientia media della meccanica. Secondo il trattato, i casi in cui – per citare la traduzione italiana di Antonio Guarino – «le cose minori vincono le maggiori, et quelle che havendo poco et moto et tempo muovono pesi grandi», presentano aspetti «communi alle speculationi mathematiche et alle naturali». L’occorrenza più emblematica in tal senso è quella della leva, che con una «picciola forza» solleva «uno gran peso» LE QUAESTIONES MECHANICAE: LA SPIEGAZIONE DELLA BILANCIA Secondo l’autore delle Quaestiones mechanicae, tutti i fenomeni meccanici vanno riportati alla leva. Questa, a sua volta, è assimilata ad una bilancia, i cui bracci, vincolati nel fulcro, si muovono descrivendo archi di cerchio in direzioni contrarie. Assumendo che in tale bilancia i bracci siano diseguali, avremo che l’estremità del segmento (braccio) più corto, in quanto più vicino al centro, risulta più fortemente attratto da esso, e, a causa di quel freno, si muove meno speditamente (cfr. Mech., 849a 619). All’opposto, l’estremità del più lungo si muoverà più velocemente (sarà cioè in grado di tracciare un arco di cerchio più ampio in un tempo dato). Ne consegue che «il punto più distante dal centro si muove più velocemente, pur messo in movimento dalla stessa forza». (Mech., 849b 21-22). L’efficacia di un peso sulla bilancia (o il rendimento di una leva) è allora tanto maggiore quanto più il punto di applicazione si allontana dal fulcro. QUAESTIONES MECHANICAE: LA SPIEGAZIONE DELLA BILANCIA Ecco come il principio fondamentale della meccanica aristotelica viene illustrato da Alessandro Piccolomini in relazione al caso della leva: «Poiché [...] quanto più una linea dista dal centro, tanto più velocemente e facilmente si muove (descrivendo un cerchio più grande), risulta allora necessario che, comunque esigua sia la forza (o il peso) applicata, nondimeno, in virtù dell’aiuto della distanza, tale forza riesca a muovere un peso più grande di lei. Il peso mosso si relaziona, infatti, a ciò che lo muove nella misura inversa al rapporto tra le distanze; nella stessa misura, cioè, con cui il movente supera il mosso, così la distanza dal centro di quest’ultimo viene superata da quella del primo. In effetti, il peso mosso, assunto come maggiore, per sua natura dovrebbe muovere di più che non la piccola forza movente. Ma poiché questa forza si esercita lungo una linea che dista maggiormente dal centro – e tale distanza non solo compensa la sua debolezza, ma la aiuta a prevalere – non ci si deve meravigliare se il peso maggiore mostrerà una minor efficacia. Pertanto, tra due forze eguali, tanto più sarà efficace quella che si troverà ad essere applicata ad una maggiore distanza dal fulcro, cioè dal centro». (In Mechanicas Quaestiones Aristotelis paraphrasis, ff. XXIIIv – XXIVr). QUAESTIONES MECHANICAE: IL CONCETTO DI VELOCITA’ L’approccio proprio della trattazione sviluppata nelle Quaestiones mechanicae ha una decisa valenza dinamica. L’equilibrio statico è, infatti, il risultato di una condizione in cui i pesi liberi sono inversamente proporzionali alle “velocità” (ossia agli archi di cerchio descritti dagli estremi dei bracci cui sono fissati detti pesi). L’analogia con il cerchio e la tesi della diversa velocità caratteristica dei vari punti dei suoi raggi (bracci di un’ideale bilancia) serve, insieme ad altre considerazioni anch’esse attinenti alle proprietà della figura circolare, all’esame di 35 diverse questioni. Si va dall’analisi di alcune macchine semplici (leva, bilancia, argano, puleggia, cuneo), a problemi legati alla marineria (remo, timone, navigazione con venti non favorevoli), fino alla resistenza dei materiali, al lancio con la fionda, e alla durata e cessazione del moto. A queste si aggiungono delle quaestiones dedicate a temi più teorici, di tipo geometrico, come il moto di cerchi concentrici e il rombo. LA TRADIZIONE ARCHIMEDEA - 1 A differenza dell’approccio “dinamico”, di stampo aristotelico, le opere di Archimede privilegiavano l’analisi delle determinazioni statiche. Ciò vuol dire che, nella spiegazione del funzionamento della leva e della bilancia (cui si riducevano tutte le altre macchine semplici), le condizioni di equilibrio venivano sostanzialmente attribuite all’effetto combinato del peso e della distanza dal fulcro del sistema meccanico. Era questo il criterio utilizzato dallo stesso Archimede per formulare il fondamentale teorema dell’equilibrio di una leva: «Le grandezze commensurabili sono in equilibrio se sospese a distanze inversamente proporzionali ai loro pesi» (Equilibrio dei piani, proposizione 6). Da tale inversa proporzionalità tra pesi e distanze si desume immediatamente l’eguaglianza dei prodotti dei pesi per le distanze, vale a dire l’eguaglianza dei momenti statici. LA TRADIZIONE ARCHIMEDEA - 2 A coloro che si ponevano sulla scia del matematico di Siracusa non sfuggiva il vantaggio di sostituire la disorganica esposizione fornita dalle Quaestiones mechanicae con il rigore proprio del modello archimedeo, basato su un esatto apparato di assiomi, postulati e dimostrazioni. Nondimeno, l’orientamento “dinamico” (pseudo)-aristotelico continuò a godere di ampio credito nella seconda metà del Cinquecento e nei primi decenni del Seicento. NICCOLO’ TARTAGLIA La Nova scientia di Tartaglia risponde alla domanda concernente il «modo de mettere a segno un pezzo de artigliaria al più che può tirar» (cioè l’alzo ideale di un obice per conseguire la massima gittata). Tartaglia stabilisce che l’inclinazione ottimale di un cannone è di 45 gradi. L’importanza dello scritto non sta tuttavia tanto e solo in questa conclusione, quanto nell’originalità con cui approccia il tema del movimento. Benché ispirata da problemi pratici, la Nova scientia mirava, infatti, al rigore matematico, sia nella veste espositiva che negli esiti concettuali e teorici. In tal senso, essa segna un distacco dalla tradizionale considerazione “metafisica” delle quaestiones de motu, e concentra invece l’attenzione sulle determinazioni geometriche dell’argomento. NICCOLO’ TARTAGLIA: IL MOTO DEI PROIETTILI Tartaglia affronta l’esame della traiettoria dei proiettili, sostenendo che essa risulta divisa in tre parti: una prima ascensionale rettilinea; una seconda, intermedia, curva; e una finale di caduta verticale:«Ogni transito, – recita il testo – over moto violente de’ corpi egualmente gravi, che sia fuora della perpendicolar de l’orizonte, sempre sarà in parte retto e in parte curvo, et la parte curva sarà parte d’una circonferentia di cerchio». (Scientia nova, (1537), ed. Venezia 1550, f. 10v). L’assunto sarebbe pienamente valido in sede teorica, ma in pratica, come si avverte subito, nessun moto violento può incorporare tratti perfettamente rettilinei a causa della «gravità», che continuamente «va stimulando e tirando» il mobile verso il centro del mondo. La deviazione indotta dal peso risulta, tuttavia, a giudizio di Tartaglia, assolutamente trascurabile. NICCOLO’ TARTAGLIA: IL MOTO DEI PROIETTILI A distanza di qualche anno, Niccolò Tartaglia rivide le proprie convinzioni, e, forse, si convinse dell’errore fatto nella Nova scientia, quando aveva stabilito che il moto naturale e quello violento non potevano in alcun modo comporsi («Niun corpo egualmente grave può andare per alcun spacio di tempo, over di luoco, di moto naturale et violente insieme misto». Ibid., f. 7r). Nei Quesiti et inventioni diverse, sostenne infatti l’idea di una traiettoria curva in tutti i punti. Richiamando quanto già affermato nell’opera del 1537, egli specificava di aver fatto riferimento alla tesi del carattere rettilineo di una parte della traiettoria al solo scopo di «essere inteso dal volgo». GIOVAN BATTISTA BENEDETTI «Contro Aristotele e i filosofi tutti» si proclamava, fin dal titolo di una sua opera (Demonstratio proportionum motuum localium contra Aristoteles et omnes philosophos, Venezia, 1554), il veneziano Giovanni Battista Benedetti: «Aristotele – scriveva – fu certamente uno straordinario indagatore della natura. Tuttavia, non voglio asserire, come fanno alcuni (che non hanno letto le sue opere o, se le hanno lette, non le hanno comprese), che ogni parola di Aristotele ha il valore di una sentenza, e che egli fu un dio della filosofia e non ha mai sbagliato in nulla. Se i poveracci che lo hanno divinizzato conoscessero la differenza tra l’argomentazione dimostrativa e il discorso basato sull’esperienza sensibile, non avrebbero mai fatto quelle affermazioni». (Ibid., p. [20]). La presa di distanza dalla fisica peripatetica è operata da Benedetti in forza di un’esigenza di rigore dimostrativo di stampo matematico, che si richiama direttamente all’esempio di Archimede. Così, tutta la sua dinamica è costruita a partire dal modello dell’idrostatica archimedea. BENEDETTI: IL MOTO DI CADUTA In contrasto con la teoria aristotelica che considerava la velocità dei moti naturali come proporzionale al peso assoluto dei corpi, Benedetti afferma che essa è invece determinata dalla sperequazione tra il peso specifico del mobile e quello del mezzo. Ciò implica che corpi della stessa materia, anche se di differenti dimensioni, si muovono nello stesso mezzo (o nel vuoto) con eguale velocità. Se, infatti, due corpi sono omogenei (della stessa materia), essi hanno un identico peso specifico; e poiché nella determinazione della velocità del moto ciò che conta è il confronto tra i pesi di eguali volumi del mobile e del mezzo (cioè la comparazione tra pesi specifici), ne consegue che mobili della stessa materia si muoveranno appunto con eguale velocità perché identica sarà la differenza tra il loro peso specifico e quello del mezzo. È opportuno precisare che, nella dinamica di Benedetti, la velocità del movimento è data dalla differenze tra i pesi specifici del mobile e del mezzo e non – come voleva Aristotele – dal rapporto tra il peso assoluto del corpo e la densità (resistenza) del mezzo. BENEDETTI: L’IMPETUS Opponendosi poi alla spiegazione aristotelica del moto violento, Benedetti ricorre alla concezione (medievale) dell’impetus, che estende anche ai corpi in moto di moto naturale per giustificarne il carattere accelerato: «Ogni corpo grave, che si muova naturalmente o con violenza, riceve in sé un’impressione (impressio) e un impeto (impetus) di moto, così che, pur separato dalla forza motrice, continua a muoversi per un certo lasso di tempo. Pertanto, se un corpo si muove di moto naturale aumenterà sempre la sua velocità, poiché in esso l’impressio e l’impetus crescono di continuo, dal momento che il corpo risulta costantemente a contatto con la sua forza motrice [cioè con la gravità]». (Ibid., pp. 286-87). La fisica di Benedetti, modellata sull’idrostatica di Archimede, rappresentava, dunque, un notevole tentativo di fuoriuscita dal paradigma aristotelico allora dominante. Di fatto, essa segnò la via su cui si sarebbe posto il più coerentemente innovativo tra i philosophi naturales dell’epoca: Galileo Galilei. GALILEO: GLI SCRITTI DE MOTU Una concezione assai simile a quella sostenuta da Benedetti si trova esposta in alcuni lavori giovanili di Galileo noti come scritti De motu. Se e come egli venne a contatto con l’opera di Benedetti è ancora un problema aperto, per quanto, allo stato attuale, si tenda ad escludere la possibilità di una influenza diretta. In ogni caso, le tesi dei De motu galileiani prospettano anch’esse una spiegazione del moto di stampo archimedeo, basata sul confronto tra il peso specifico del mobile e quello del mezzo. Ciò conduce Galileo – come già Benedetti – ad affermare che mobili della stessa materia, in un medesimo mezzo, si muovono con eguale velocità, qualunque sia la loro mole. GALILEO: L’ESPERIMENTO DELLA TORRE PENDENTE È probabile che proprio per provare tale conclusione Galileo abbia compiuto il semileggendario esperimento di lasciar cadere corpi dalla sommità della Torre di Pisa. Secondo Vincenzo Viviani (1622-1703), discepolo e primo biografo galileiano, la prova mirava, infatti, ad accertare che «le velocità de’ mobili dell’istessa materia, disegualmente gravi [cioè di differente peso assoluto], movendosi per un istesso mezzo, non conservano altrimenti la proporzione delle gravità loro, assegnatagli da Aristotele, anzi che si muovon tutti con pari velocità» (OG, XIX, p. 606). I problemi veri per la concezione delineata nei De motu si presentano tuttavia con la spiegazione del carattere accelerato del moto di caduta. Poiché gli elementi determinanti (i pesi specifici del mobile e del mezzo) non subiscono alcun mutamento durante il moto, risulta infatti impossibile imputare loro la causa dell’accelerazione. GALILEO: IL PROBLEMA DELL’ACCELERAZIONE Allo scopo di risolvere tale difficoltà, Galileo postulò una causa estrinseca, rappresentata da una forza, la virtus impressa, “preternaturale” e “accidentale”, che agisce sui mobili contribuendo ad aumentarne la velocità. La virtus impressa opera come un fattore perturbatore della naturale tendenza dinamica del corpo: «Diciamo che la forza impressa è un venir meno del peso (privationem gravitatis) quando il mobile si muove verso l’alto; mentre nel caso di un moto verso il basso è un venir meno della leggerezza (privationem levitatis)». (OG, I, pp. 309-10). Ora, nelle prime fasi della caduta, il corpo non viene mosso verso il basso dall’intero suo peso, ma solo dalla parte eccedente la leggerezza indotta (cioè la virtus impressa). E poiché tale eccedenza cresce in concomitanza con l’indebolirsi della residua forza impressa, il corpo cade sempre più veloce. GALILEO: LA LEGGE DI CADUTA DEI GRAVI Negli anni successivi al suo trasferimento a Padova (avvenuto nel 1592), Galileo continuò a lavorare sul tema, cambiando tuttavia prospettiva. Ad interessarlo non era più la giustificazione del fenomeno in termini causali, quanto la comprensione delle proprietà e dei “sintomi” (come egli li chiama) del moto accelerato, ossia la determinazione delle relazioni quantitative sussistenti tra gli spazi passati e i tempi necessari a percorrerli. Una simile indagine otterrà un notevole risultato con la scoperta della legge di caduta dei gravi (il caso paradigmatico di moto naturalmente accelerato), esposta per la prima volta in una lettera a Paolo Sarpi del 16 ottobre 1604. GALILEO: LA LETTERA A P. SARPI DEL 16 OTTOBRE 1604 «Ripensando circa le cose del moto, nelle quali, per dimostrare li accidenti da me osservati, mi mancava principio totalmente indubitabile da poter porlo per assioma, mi son ridotto ad una proposizione la quale ha molto del naturale et dell’evidente; et questa supposta, dimostro poi il resto, cioè gli spazzii passati dal moto naturale esser in proporzione doppia dei tempi, et per conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come i numeri impari ab unitate, et le altre cose. Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto; come, v. g., cadendo il grave dal termine a per la linea abcd, suppongo che il grado di velocità che ha in c al grado di velocità che hebbe in b esser come la distanza ca alla distanza ba, et così conseguentemente in d haver grado di velocità maggiore che in c secondo che la distanza da è maggiore della ca». OG, X, p. 115 (corsivo mio). GALILEO: TEMPO E SPAZIO Il documento appena citato esprime due fondamentali acquisizioni: 1) gli spazi percorsi nella caduta sono proporzionali ai quadrati dei tempi; 2) di conseguenza, gli spazi passati in tempi eguali si succedono come i numeri dispari a partire dall’unità. Il fondamento di entrambi i risultati è identificato nel “principio” per cui la velocità cresce al crescere della distanza dal punto di inizio del movimento. L’assunto è tuttavia errato, poiché, come lo stesso Galileo scoprirà ben presto, la velocità non aumenta proporzionalmente allo spazio passato dalla quiete, bensì al tempo trascorso dall’inizio del movimento. Già in uno stralcio manoscritto, risalente forse al 1609, troviamo una definizione del moto naturalmente accelerato basata sull’idea di un’accelerazione proporzionale al tempo: «Chiamo moto uniformemente o equabilmente accelerato, quel moto i cui momenti o gradi di velocità aumentano, dall’abbandono della quiete, secondo l’incremento del tempo a partire dal primo istante del movimento». (OG, II, p. 266). La definizione verrà riproposta nelle pagine dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638), l’ultima grande opera galileiana. GALILEO: L’INERZIA Le acquisizioni concernenti il moto di caduta costituiscono una parte importante del grande lascito intellettuale di Galileo. Va tuttavia segnalato che la crucialità del contributo galileiano è soprattutto legata ad un profondo ripensamento della stessa nozione di movimento e alla stretta connessione che egli seppe istituire tra la dinamica e la cosmologia copernicana. Già nel 1613, Galileo affermava: «rimossi tutti gl’impedimenti esterni, un grave nella superficie sferica e concentrica alla Terra sarà indifferente alla quiete ed a i movimenti verso qualunque parte dell’orizonte, ed in quello stato si conserverà nel qual una volta sarà stato posto; cioè se sarà messo in stato di quiete, quello conserverà, e se sarà posto in movimento, verbigrazia verso occidente, nell’istesso si manterrà». (OG, V, p. 134). Siamo qui di fronte ad una più compiuta esposizione di quel connotato inerziale abbozzato (solo in termini cinematici) nei De motu e ne Le mecaniche. Dietro questa formulazione si legge il decisivo abbandono dell’immagine del moto propria della tradizione aristotelica. GALILEO: IL MOTO COME STATO Per Aristotele il movimento (anche quello locale) si configura nei termini di un passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto, cioè come un processo attraverso il quale gli enti si “attualizzano”, realizzano cioè una disposizione latente, in uno sviluppo che ha per fine il conseguimento di una compiuta attualità. Nell’ambito della prospettiva galileiana, invece, il moto viene equiparato ad uno stato, deprivato di qualunque determinazione di natura teleologica, e, di fatto, reso indistinguibile dalla quiete («se sarà messo in stato di quiete, quello conserverà, e se sarà posto in movimento, [...] nell’istesso si manterrà», recita il passo poc’anzi citato). GALILEO: IL MOTO DELLA TERRA È COME S’E’ NON FUSSE «Rispetto alla Terra, alla torre e a noi, che tutti di conserva ci moviamo, col moto diurno, insieme con la pietra, il moto diurno è come se non fusse, resta insensibile, resta impercettibile, è senza azione alcuna, e solo ci resta osservabile quel moto del quale noi manchiamo, che è il venire a basso lambendo la torre». OG, VII, pp. 197 (corsivo mio). Il movimento viene quindi riscontrato solo «nella relazione che hanno essi mobili con altri che manchino di quel moto» (OG, VII, p. 142), il che significa che esso è apprezzabile solo nel riferimento tra un mobile ed un oggetto che non si muove. GALILEO: LA RELATIVITA’ Concepire il moto nei termini di uno stato, è essenziale per poter affermare quella relatività che fonda la possibilità stessa di una fisica “copernicana”, ossia di una fisica della Terra in movimento. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, ribattendo all’argomento secondo cui, posto il moto terrestre, un sasso lasciato cadere da una torre non atterrerebbe al piede dell’edificio, Galileo argomenta: «Rispetto alla Terra, alla torre e a noi, che tutti di conserva ci moviamo, col moto diurno, insieme con la pietra, il moto diurno è come se non fusse, resta insensibile, resta impercettibile, è senza azione alcuna, e solo ci resta osservabile quel moto del quale noi manchiamo, che è il venire a basso lambendo la torre». (OG, VII, p. 197). In sostanza, un moto uniforme non esercita alcuna influenza sul comportamento meccanico degli elementi che lo condividono. Il movimento viene riscontrato solo «nella relazione che hanno essi mobili con altri che manchino di quel moto» (ibid., p. 142), il che significa che è apprezzabile solo nel riferimento tra un mobile ed un oggetto che non si muove. «Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non piú gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder cosí, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma: voi saltando passerete nel tavolato i medesimi spazii che prima, né, perché la nave si muova velocissimamente, farete maggior salti verso la poppa che verso la prua, benché, nel tempo che voi state in aria, il tavolato sottopostovi scorra verso la parte contraria al vostro salto; e gettando alcuna cosa al compagno, non con piú forza bisognerà tirarla, per arrivarlo, se egli sarà verso la prua e voi verso poppa, che se voi fuste situati per l’opposito; le gocciole cadranno come prima nel vaso inferiore, senza caderne pur una verso poppa, benché, mentre la gocciola è per aria, la nave scorra molti palmi; i pesci nella lor acqua non con piú fatica noteranno verso la precedente che verso la sussequente parte del vaso, ma con pari agevolezza verranno al cibo posto su qualsivoglia luogo dell’orlo del vaso; e finalmente le farfalle e le mosche continueranno i lor voli indifferentemente verso tutte le parti, né mai accaderà che si riduchino verso la parete che riguarda la poppa, quasi che fussero stracche in tener dietro al veloce corso della nave, dalla quale per lungo tempo, trattenendosi per aria, saranno state separate; [...] E di tutta questa corrispondenza d’effetti ne è cagione l’esser il moto della nave comune a tutte le cose contenute in essa ed all’aria ancora» OG, VII, pp. 212-13.