Cinema e filosofia: un`ipotesi di didattica della filosofia

SSIS MARCHE
Relazione finale dello specializzando:
Marco Campogiani
Indirizzo: Scienze umane
Classe di abilitazione: A037
Cinema e filosofia
Un'ipotesi di didattica della filosofia
«È fonte di piacere guardare le immagini (eikonas) perché
coloro che contemplano le immagini imparano (manthanein)
e ragionano (sylloghizestai) su ogni punto»
Aristotele, Poetica
«Quando il bambino era bambino, era il tempo di queste
domande: "Perché io sono io, e perché non sei tu? Perché
sono qui, e perché non sono lì? Quando comincia il tempo, e
dove finisce lo spazio? La vita sotto il sole è forse solo un
sogno? C’è veramente il male, e gente veramente cattiva?
Come può essere che io, che sono io, non c’ero, e che un
giorno io, che sono io, non sarò più quello che sono?»
Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino
A.A. 2000-2001
Indice
1. Premessa. Motivazioni e prospettive della ricerca … p. 2
2. Perché il cinema per la didattica della filosofia? … p. 8
3. Breve excursus sullo stato del dibattito … p. 12
4. Conclusioni … p. 19
Appendice 1: Ipotesi di percorsi di cinema e filosofia … p. 24
Appendice 2: Analisi di un film. Ricomincio da capo … p. 27
Bibliografia … p. 37
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1. Premessa. Motivazioni e prospettive
della ricerca
Obiettivo di questa relazione conclusiva del difficile percorso
della Scuola di Specializzazione all'Insegnamento Secondario è
quello di indagare teoreticamente e di vagliare sul campo il tema
dell'utilizzazione didattica, per l'insegnamento della filosofia, della
forma cinematografica. Questo argomento si sviluppa a partire dai
miei interessi culturali e dall'esperienza di «tirocinio diretto», che
mi ha condotto a elaborare un progetto sul rapporto «Cinema e
filosofia» ed a realizzare un intervento didattico in aula.
Esamineremo qui le motivazioni, il senso e la legittimità di un
tale approccio, volto a integrare nella didattica delle filosofia un
forte riferimento alle narrazioni filmiche.
Il tema "Filosofia e cinema", o "cinefilosofia", è da qualche
tempo oggetto di grande interesse, soprattutto in seguito alla
pubblicazione del libro Cinema: 100 anni di filosofi. Una
introduzione alla filosofia attraverso l'analisi di film (come suona
il titolo originale) di Julio Cabrera, e anche mediante iniziative
come la rassegna di lezioni-proiezioni organizzata dal quotidiano
"IlSole24Ore" e altre pubblicazioni recenti.
Il cinema esprime anche concetti, ragionamenti, idee. Nella
narrazione cinematografica le idee, al contrario di quanto accade
spesso nella tradizione scritta, si mostrano in tutta la loro
concretezza ed espressività. Con il cinema, soprattutto con il
grande cinema, si realizza spesso il miracolo di unire l'efficacia
2
argomentativa, basata su una logica stringente, alla capacità di far
sentire un problema sulla propria pelle, indipendentemente dal
fatto che si condivida o meno la prospettiva che viene proposta.
I temi affrontati dal cinema possono acquisire una profondità
filosofica, anche di tipo argomentativo, che il ragionamento scritto
raramente riesce ad avere. Anche il rapporto tra universale e
particolare acquista una dimensione nuova: il cinema mostra
sempre storie particolari, ma «verosimili», che «potrebbero
accadere», nelle quali lo spettatore si riflette e si immedesima. Il
cinema, come il romanzo (Kundera 1988) esplora regioni
dell'esistenza, dei possibili modi di essere-nel-mondo.
Spesso le storie cinematografica, per la loro esemplarità,
esprimono «verità» universali, che hanno il vantaggio di essere
rivedibili e magari di entrare in collisione con altre «verità»,
ugualmente plausibili, che emergono da altri film (Cabrera 2000).
Il mio scopo è di sperimentare concretamente, con gli alunni,
questa prospettiva di didattica della filosofia, che ha anche il non
piccolo pregio di stimolare gli studenti a una lettura/visione/analisi
più attenta e consapevole dei molteplici messaggi audiovisivi da
cui sono continuamente avvolti.
Data l' «indivisibilità di fatto» dell'esperienza di tirocinio diretto
computa, in questa relazione prenderemo in esame la rilevanza
teorica e la problematicità del tema, riservando all'altra relazione
(PER LA CLASSE DI ABILITAZIONE A036) il compito di descrivere e
di analizzare criticamente le risultanze dell'intervento realizzato.
Le due relazioni, in altre parole, andrebbero considerate come parti
di un tutto unitario: una pratica didattica deve, al tempo stesso,
3
ancorarsi e trovare legittimità in una discussione teorica e
dimostrarsi efficace per i risultati che consegue «sul campo».
Alla fine della presente relazione (APPENDICE 1) presentiamo
alcune ipotesi di percorsi su temi filosofici/cinematografici.
Infine (APPENDICE 2), come esempio di lettura filosofica di un
film, proponiamo l'analisi di «Ricomincio da capo» (USA 1993;
scritto da Danny Rubin e diretto da Harold Ramis), sulla scorta
delle analisi fatte dal logico Roberto Casati (Casati 2000)
Questa ricerca, necessariamente breve data la natura della
relazione finale SSIS, nasce da diverse ragioni:
1) il mio forte interesse personale nei confronti del cinema e in
particolare della narrazione cinematografica, che mi ha
portato a frequentare un lungo corso di formazione
professionale come "sceneggiatore";
2) la constatazione della marginalità (o della considerazione
meramente strumentale) dell'audiovisivo nella scuola odierna,
e dei recenti interventi direttivi volti a dare maggior risalto
all'apprendimento del linguaggio cinematografico;
3) la recente pubblicazione di libri e articoli sull'argomento
(VEDI BIBLIOGRAFIA); l'esistenza di un dibattito piuttosto
vivace
e
di
un
diffuso
interesse
per
l'argomento
«cinefilosofia» sulla stampa e in recenti convegni;
4) l'esperienza di tirocinio diretto con la prof.ssa Maria Laura
Baragli presso l' I.T.A.S. "Matteo Ricci" di Macerata, durante
la quale ho progettato un ciclo di lezioni sul tema «Cinema e
filosofia».
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Al fondo, la mia ricerca (pur con tutti i suoi limiti) nasce da un
tentativo di affrontare «la crisi in atto delle forme di
insegnamento», la «crisi della didattica» (Maragliano 1998);
nasce dall'insoddisfazione per l'attuale perdurante separatezza tra
il mondo scolastico e la realtà culturale della nostra epoca.
Per dirla con Maragliano, intendo mettere in discussione
«l'abitudine a concepire l'insegnamento come zona franca,
sottratta al rumore e ai movimenti della storia e del mondo»
(Maragliano 1998). In altre parole la scuola continua a fondarsi
su una concezione del sapere che si fonda su una matrice
ottocentesca; ma non si può riuscire a dar conto del nostro tempo
(a far in modo che gli studenti giungano alla capacità di orientarsi
e muoversi nella loro realtà) con l'epistemologia dell'Ottocento
(Maragliano 1998).
Semplicemente, gli studenti non ci credono e quindi o si
adattano passivamente a quanto viene offerto, per quieto vivere,
oppure lo rifiutano. In ogni caso l'autentica motivazione allo
studio, condizione essenziale per un apprendimento davvero
significativo, latita.
L'ipotesi minima che mi ha guidato nel lavoro di ricerca e
nell'esperienza di progettazione di lezioni e di sperimentazione in
aula, è che l'integrazione dell'ausilio cinematografico nella
didattica della filosofia può concorrere a migliorare la qualità dei
risultati di apprendimento della disciplina, agendo soprattutto sul
risveglio della motivazione degli studenti.
Considero questa come un'ipotesi minima; minima perché non
mette in discussione la concezione (banale, limitante e oggi
prevalente) meramente strumentale degli audiovisivi, intesi come
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mezzi, per certi aspetti vantaggiosi, per raggiungere il risultato
dell'apprendimento della filosofia (ma cosa vuol dire apprendere
"la filosofia"? cfr. Ruffaldi 1999). Da questo punto di vista, non
importa quale sia lo strumento: cd-rom, manuali, audiovisivi,
fotografie, ecc. L'importante è essi siano utili per raggiungere un
risultato di apprendimento (posto come "fisso").
Oltre ai risultati disciplinari (agli obiettivi didattici specifici
della disciplina), ho ritenuto che un approccio "cinefilosofico"
possa avere importanti ricadute sugli «obiettivi educativi»
(Pellerey 1994), sulla formazione complessiva degli studenti.
Tale ipotesi aggiuntiva - la cui validità l'attività svolta
nell'ambito del Tirocinio poteva solo «saggiare» e non dimostrare
- è che un approccio filosofico alle opere cinematografiche sia in
grado di attivare capacità trasferibili e utilizzabili in una
molteplicità di contesti di comunicazione multimediale.
L'ipotesi più ambiziosa, che qui possiamo soltanto accennare,
è che l'adozione consapevole, meditata e continua dei mezzi
audiovisivi, anzi l'integrazione di essi nell'insegnamento del
filosofare, possa contribuire a ridefinire lo scopo stesso, e a far sì
che tale scopo perda, almeno in parte, quell'aspetto di
separatezza-estraneità-astrattezza rispetto ai bisogni e al mondo
culturale degli studenti.
In questo senso il ricorso all'audiovisivo (e, più in generale, al
"multimediale": parola oggi abusatissima) può offrire, a chi si
occupa di formazione
«più che un repertorio di soluzioni materiali a
problemi già definiti, la sollecitazione a proiettarsi
su nuovi orizzonti problematici e perciò ad
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adottare nuovi schemi interpretativi» (Maragliano
1998)
Per dirla in modo netto, noi siamo largamente e quasi
costantemente «immersi nell'audiovisivo». Viviamo in un caotico
mondo fatto, in larga parte, di rappresentazioni multimediali, fuori
e - soprattutto - dentro di noi; se questa è la condizione che
sperimentiamo - e a maggior ragione la condizione sperimentata
dagli studenti, che pur dispongono di minori strumenti di
decodifica - è proprio in questo campo che bisogna allora portare
la bussola e le capacità analitiche del pensiero filosofico. Hic
rhodus, hic salta. La realtà che viviamo è sempre più «formattata»
dai modelli dei media di massa e dei nuovi media personali; dal
modo in cui le emails influenzano e cambiano il nostro modo di
scrivere e di pensare la comunicazione ai reality shows, al modo in
cui viviamo e interpretiamo i nostri sentimenti, le passioni, i
vissuti e la nostra situazione sociale e personale, sulla scorta di
narrazioni cinematografiche, serials televisivi, talk shows, ecc.
[E' anche per questo motivo che abbiamo scelto, per il progetto
operativo in aula, film [Matrix e The Truman Show] che offrono
occasioni
di
riflessione
sulla
compenetrazione
tra
realtà
e
artificio/rappresentazione]
La formazione della «cultura» - come capacità di orientarsi,
valutare, esaminare criticamente se stessi e il mondo - costituisce
uno degli aspetti fondamentali degli obiettivi educativi che la
scuola si propone di raggiungere. La filosofia - la matrice
originaria della cultura occidentale - può avere un ruolo essenziale
nella costituzione di una consapevole e critica cultura dei giovani
(dei nuovi cittadini). Riteniamo che la filosofia possa svolgere
meglio il suo ruolo se è in grado di mettersi a confronto con i
7
prodotti culturali della narrazione cinematografica, intesa come
forma dominante (o quantomeno maggioritaria) della odierna
narrazione, come elemento forte dell'atmosfera culturale che ci
troviamo a vivere.
2. Perché il cinema per la didattica
della filosofia?
Il linguaggio audiovisivo è stato spesso confinato nei limiti di un
cinema «ricreativo per ragazzi». E' però opinione oramai diffusa
che esso incida profondamente nei loro processi di apprendimento,
fin dall'età prescolare e che vada affrontato come problema
culturale. Da questa consapevolezza discendono una serie di
recenti provvedimenti, volti a potenziare gli sforzi educativi
relativi alle competenze audiovisive e multimediali.
L'articolo 4 della Direttiva Ministeriale n.202 del 16 agosto
2000
individua
senz'altro
l'apprendimento
del
linguaggio
cinematografico e audiovisivo tra gli obiettivi di formazione e fra
i temi di intervento prioritario sui curricoli disciplinari e sulle
competenze degli insegnanti. Ciò ha significato l'avvio di nuove
aree di intervento (tra cui la formazione di una nuova figura di
formatore
specializzato
cinematografico
e
nella
audiovisivo,
la
didattica
creazione
del
di
un
linguaggio
archivio
di
esperienze didattiche) specifico nel contesto del riformato sistema
di formazione della scuola italiana. Sono partite iniziative di
sostegno, promozione, ricerca e formazione dei docenti nell'area
dei linguaggi cinematografici e audiovisivi. E' nato un Corso di
formazione alla didattica del linguaggio cinematografico, promosso
dall'Università degli studi di Roma Tre, per formare docenti da
indicare
come
referenti
per
le
attività
didattico-educative
riguardanti il cinema. La Scuola nazionale di Cinema (ex Centro
Sperimentale:
www.snc.it)
ha
approntato
(dal
1999)
una
Sezione
didattica e formazione preuniversitaria, per supportare il Piano di
promozione
della
didattica
del
linguaggio
cinematografico
e
audiovisivo promosso dal Ministero della Pubblica IStruzione e dal
sistema
I.R.R.S.A.E.
Altre
iniziative
sono
portate
avanti
dal
8
C.E.C.,
il
Centro
(www.cecudine.it)
con
Espressioni
il
progetto
Cinematografiche
Cinescuola,
che
di
Udine
offre
anche
servizi agli insegnanti.
In un discorso riguardante la progettazione dell'azione didatticoeducativa (cfr. Pellerey 1994, 43-68), il cinema può svolgere un
ruolo, già riconosciuto, nel primo momento, iniziale, di
strutturazione delle unità didattiche, quello riguardante la
«motivazione» (Gagnè 1974, 75), la «problematizzazione»
dell'esperienza e la «focalizzazione dell'attenzione» del discente
(Pellerey 1994, 159-160). La motivazione deriva da stati d'animo
interni, più che da elementi estranei (voti, minacce, premi ecc.).
Tali stati d'animo vanno stimolati. Come? Pellerey afferma che
«un elemento che normalmente produce l'attivazione del processo
di apprendimento scolastico è la discrepanza o dissonanza che
viene a prodursi tra lo stato della conoscenza interna dell'alunno, la
sua maniera di vedere e giudicare le cose… e i nuovi elementi di
informazione, nuove esperienza, nuovi concetti e chiavi di
interpretazione, nuovi rapporti con le persone e le cose» (Pellerey
1994, 158).
Questo è particolarmente vero per la filosofia (piuttosto che per
la matematica, ad esempio).
Occorre
dunque
introdurre
elementi
di
perturbazione
nell'esperienza del discente, portandolo a una «presa di coscienza
riflessa della cultura in cui si è cresciuti, di analisi critica di essi,
cioè di problematizzazione» (Pellerey 1994, 160). Questa
problematizzazione può essere ottenuta, ovviamente, in vari modi.
Uno particolarmente importante utilizza l'apporto degli strumenti
audiovisivi:
9
«E' possibile infatti mettere il ragazzo di fronte ad
una serie di immagini sia fisse, sia in movimento,
che si pongono in contrasto con il suo modo di
pensare e vedere le cose, oppure che ne fanno
emergere le lacune. Talvolta è sufficiente che tra
le immagini stesse si faccia evidente una
situazione di tensione o incongruenza» (Pellerey
1994, 160)
Un intervento di questo genere da un lato si riallaccia al «mondo
interiore e simbolico degli allievi», dall'altro si presenta come
intervento educativo che apre «questo mondo, spesso angusto, a
nuovi orizzonti, nuovi atteggiamenti mentali, nuove conoscenze e
nuove motivazioni» (Pellerey 1994, 160).
Ed è proprio questa problematizzazione, questa apertura alla
possibilità (a mondi paralleli, ad altre vite possibili, a scelte etiche
difficili, a scontri di visioni del mondo, personalità, affetti ecc.)
che il cinema - il buon cinema - ci offre, riuscendo a catturare la
nostra attenzione senza annoiare, facendoci riflettere mentre
partecipiamo emotivamente alle vicende dei protagonisti.
E' inoltre piuttosto evidente che il cinema, come la letteratura, ha
anche valore per un'esplorazione di quegli aspetti della vita e
dell'attività umana che non sono direttamente raggiungibili, per
quelle situazioni troppo ricche di conseguenze per essere esplorate
da soli nella realtà o che risultano troppo lontane dal proprio
ambiente di vita. Il cinema, come la letteratura (Nussbaum 1996) e per certi aspetti più della letteratura - offre una sorta di
«esperienza vicaria», che ha lo scopo di allargare gli orizzonti, gli
interessi, le aspirazioni, i contatti.
10
Dunque nel rapporto cinema-filosofia, orientato alla didattica,
possiamo scorgere una duplice utilità:
1) quella
più
ovvia:
i
film
possono
essere
utili
per
l'insegnamento della filosofia, in quanto - ad esempio avvicinano le tematiche filosofiche a una platea abituata e
(permeata dal) al linguaggio audiovisivo, in quanto rendono
visivi e in forma «drammatica» aspetti, problemi, ecc. del
discorso filosofico;
2) La filosofia serve a decodificare i film. I film sono uno dei
modi attraverso i quali si forma la nostra «visione dl mondo»;
quindi mostrare agli allievi che è possibile una lettura e un
approfondimento filosofico della visione del film serve anche
a far capire, se mi passate l'espressione, «a che cosa può
servire la filosofia». Ciò dovrebbe contribuire, sul piano degli
«obiettivi educativi», a sollevare gli studenti dall'abitudine a
una fruizione meramente passiva e a-critica delle produzioni
cinematografiche (e più in generale dei testi audiovisivi e
delle narrazioni). Ciò dovrebbe aiutare a metter in
discussione (quantomeno) l'inclinazione a riversare sulle
narrazioni i poveri schemi di un'estetica ridotta alla polarità
bello/brutto, mi piace/non mi piace.
I film inoltre, per la loro struttura narrativa, sono spesso intrisi di
questioni di senso, di scelte etiche: anche i film in genere
considerati semplicemente spettacolari, di intrattenimento e di
evasione (film comici, western, di azione), sono sottesi da
questioni in senso lato filosofiche, da un «tema» (la giustizia, la
scelte morali, il modo in cui dovrebbe funzionare la società, i
paradossi dell'esistenza, il ruolo della donna, ecc.), da scelte etiche
11
e confronti tra visioni del mondo (cfr. Cabrera 2000). Molti film
esprimono una presa di posizione sul mondo e sui valori.
E' questo elemento filosofico, implicito e solo scarsamente
avvertito,
può
e
deve
venir
tematizzato.
Nel
caso
dell'insegnamento della filosofia, si devono scegliere quelle
pellicole e quelle storie che si agganciano con il percorso di
insegnamento adottato consapevolmente dall'insegnante.
3. Cinema e filosofia. Breve excursus
sullo stato del dibattito
Cerchiamo di ripercorrere brevemente alcuni punti del dibattito
sul rapporto tra l'immagine in movimento e la ricerca filosofica,
individuando gli aspetti salienti e gli autori più significativi.
Il rapporto cinema-filosofia, nel corso del Novecento, si è
scontrato con la difficoltà di stabilire cosa fossero, in realtà, i due
che lo fondavano: cosa fossero il «cinema» e la «filosofia». Il
rapporto stesso si determina non prima di aver definito il ruolo,
l'essenza stessa della filosofia e del cinema. Molto spesso, la
legittimazione del rapporto parte dalla sovrapposizione della prima
sul secondo: la filosofia è chiamata a riflettere sul cinema, ad
esplicitarne i meccanismi di senso, la possibilità che un'immagine
sia rilevante per il pensiero, ecc...
Ma in nome di quale legittimità è possibile che la filosofia
(qualunque cosa sia) si inserisca in un territorio altro, come quello
del cinema (qualunque cosa chiamiamo con questo nome) e magari
anche sovrapporvisi? E' possibile una problematizzazione del
rapporto stesso e dei due termini che lo compongono? E' possibile
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che questo rapporto finisca per non riproporre un'idea precostituita
del cinema e della filosofia, ma ci porti anzi anzi a interrogare lo
statuto di entrambi?
La domanda è stata posta da Stanley Cavell, uno dei più originali
filosofi statunitense, docente a Harvard, i cui testi sul cinema (a
parte uno: Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana
del rimatrimonio, Einaudi 1999) non sono stati tradotti in Italia.
[Per una brve presentazione del provocatorio e complesso
pensiero di Cavell, vedi:
http://www.tempimoderni.com/1999/novembre/rubriche/clavell.
htm
http://www.akademie-verlag.de/journals/2249/schwerpk/s21998.html (articoli pubblicati sul Deutsche Zeitschrift fuer
Philosophie, Heft 2/1998: Schwerpunkt: Die Philosophie von
Stanley Cavell, von Ludwig Nagl]
Il testo fondamentale del percorso di Cavell è The World Viewed:
Reflections on the Ontology of Film, Viking 1971. Per Cavell la
rilevanza del cinema sta nella suo grado di penetrazione nella
nostra esperienza ordinaria. Il cinema marca il nostro
orizzonte di vita. In questo senso, il cinema costituisce una sfida
allo statuto stesso della filosofia, in quanto ci introduce in un
"mondo visto", in una modalità particolare di rendere reali gli
oggetti attraverso lo schermo e quindi costringe la filosofia a
confrontarsi
con
una
modalità
fondamentale
del
darsi
dell'esperienza. E' di questa realtà nuova, realtà del Novecento, con
questa forma nuova del darsi/manifestarsi del mondo che il cinema
deve confrontarsi.
Dunque la domanda pone in discussione il ruolo stesso della
ricerca filosofica che è chiamata, nel rapporto con la produzione
cinematografica, a confrontarsi con il quotidiano, l'ordinario, con
13
gli oggetti (e le modalità di esperienza degli oggetti) della nostra
esistenza.
La questione è stata posta in maniera ancora più radicale da
Gilles Deleuze nei suoi due testi (filosofici) sul cinema:
L'immagine-movimento e L'immagine-tempo.
[Per una presentazione del pensiero di Deleuze sul cinema, vedi:
Antonio Leto, Cinema e filosofia. L'immagine-movimento, Quaderni
del
Dipartimento
Università
di
di
Scienze
dell'Educazione,
Salerno
-
n.
1/2
(pp.
1994
-
171-179)
http://www.unisa.it/disced/quad4/q4leto.htm]
E' proprio nella pagina finale del secondo libro che Deleuze
riformula la questione del rapporto tra cinema e filosofia:
«Per molta gente la filosofia non è qualcosa che
"fa se stessa", ma qualcosa che preesiste bell'e
fatta in un cielo prefabbricato. Eppure la teoria
filosofica è una pratica, tanto quanto il suo
oggetto. Non è più astratta del suo oggetto. E' una
pratica dei concetti e va giudicata in funzione delle
altre pratiche con cui interferisce. (...). La teoria
del cinema non si fonda sul cinema, ma sui
concetti del cinema, che sono pratiche effettive ed
esistenti quanto lo stesso cinema. (...). Sicché c'è
sempre un'ora, mezzogiorno-mezzanotte, in cui
non bisogna più chiedersi "che cos'è il cinema?",
ma "che cos'è la filosofia?» (Deleuze 1989, 308)
Per Deleuze quindi, la domanda deve essere posta in modo
radicale: interrogarsi sul rapporto cinema/filosofia significa
riconoscere la necessità di tale rapporto come operazione di
14
chiarimento della filosofia, chiamata, ancora una volta ad chiarire
il suo compito di attività volta all'invenzione dei concetti.
Ciò che emerge è un piano concettuale in cui la filosofia non è
indicata tanto come attività riflessiva in grado quindi di trovare
riscontro nel «territorio altro» del cinema (il pensiero nel cinema o
pensiero sul cinema), ma si configura come attività che nel
rapporto stesso trova la sua funzione di pratica dei concetti, in
analogia con una pratica delle immagini come quella del cinema.
Anche in Italia il dibattito su questi temi sta diventando vivace e
visibile.
Tre testi in particolare sembrano rappresentativi del dibattito. Il
primo, di Edoardo Bruno (Il pensiero che muove, Bulzoni, Roma
1998), raccoglie il frutto della ricerca che il suo autore ha condotto
per anni sul problema del rapporto cinema/filosofia, nel tentativo
di elaborare un linguaggio, una modalità espressiva che, «...come
quella del film, oltre il narrato, esprime un "pensare", che arriva al
concetto e dunque alla filosofia» (Bruno 1998, 9).
In questo senso, allora, il film, più che un oggetto da analizzare
secondo griglie concettuali e categorie prefissate, si manifesta
come soggetto «...con cui entrare in comunicazione, oltrepassando
la linea di demarcazione fissata dal suo "essere", per entrare nelle
vòlute nascoste del suo pensiero» (Bruno 1998, 10). Il film allora,
entra di diritto nel territorio della filosofia nel momento in cui la
sua attività mi costringe a confrontarmi con il vedere, con lo
sguardo più che con l'immagine:
«Dentro l'immagine vedo così riflesso più
l'occhio di chi guarda che l'oggetto guardato,
15
annullo le ragioni di rassomiglianza e vedo la
finzione che - come suggerisce Foucault - consiste
non nel far vedere l'invisibile, ma nel far vedere
quanto è invisibile l'invisibilità del visibile»
(Bruno 1998, 103).
Esplorare la domanda porta dunque a rovesciarne i presupposti: se
inizialmente il problema era di stabilire la legittimità di un'analisi
filosofica del cinema (Cavell), fino a stabilire un'analogia
operativa tra cinema e filosofia (Deleuze), ora il discorso diventa
quello di riconoscere nel cinema un primato conoscitivo con cui il
discorso filosofico deve fare i conti: un modalità del darsi del
reale, di uno "sguardo" su di esso, che è logicamente prima di ogni
discorso, di ogni mediazione di linguaggio.
In questa direzione sembra muoversi l'approccio di Pietro
Montani, docente di Estetica all'Università di Roma «La
Sapienza» (L'immaginazione narrativa. Il racconto del cinema
oltre i confini dello spazio narrativo, Guerini 1999). Montani parte
dal riconoscimento che il cinema si costituisce come spazio oltrenarrativo, spazio in cui la modalità del senso si costituisce in una
«..intermediazione originaria tra qualcosa che è dato e qualcosa
che ha senso» (Montani 1999, 14). Il cinema può quindi costituire
non tanto un oggetto della ricerca filosofica, quanto un suo
necessario correlato, nel momento in cui gli si riconosce lo statuto
di «immaginazione al lavoro».
Umberto Curi, in un recente libro, ha svolto un discorso molto
più semplice sul rapporto cinema-filosofia (e quindi forse più
16
direttamente utile per un uso didattico), rapportandosi al «padre»
riconosciuto delle riflessioni estetiche e narratologiche: Aristotele.
L'elemento di gran lunga più importante della tragedia, secondo
Aristotele, è il mythos, vale a dire il racconto, la fabula narrata in
un intreccio. E' il mythos, e più in particolare il modo in cui è ben
costruito, che conferisce all'opera poetica la capacità di suscitare il
coinvolgimento emotivo e liberatorio degli spettatori.
L'approccio aristotelico - ancor oggi fondamentale per le teorie narratologiche
e in particolare per le teorizzazioni sulla sceneggiatura - è dunque un approccio
contenutistico, che tralascia altri aspetti della poiesis considerati secondari (la
musica, la scena, gli attori, le luci…), aspetti che costituiscono lo specifico di
ogni tipo di rappresentazione (ad es. «lo specifico filmico»).
Aristotele, come è noto, realizza un'analisi dell'impianto
narrativo, della sua struttura/forma, delle modalità mediante le
quali i fatti sono connessi a formare una trama ben organizzata.
Fra i criteri della «narrazione ben strutturata» vi è la richiesta di
una concatenazione «verosimile» (eikos) dei fatti narrati; il
racconto, occupandosi del verosimile, intrattiene una relazione con
l'universale, nella forma della probabilità. Di qui discende la
superiorità attribuita alla poiesis rispetto alla storia: la prima dice
gli universali, mentre la storia si limita ai particolari. In questo
senso la poiesis viene definita philosophoteron, «più filosofica».
Una trama ben organizzata annoda e scioglie i fatti in modo
verosimile ma non piattamente prevedibile, andando contro le
facili aspettative (para ten doxan) dello spettatore attraverso
svolte, colpi di scena, riconoscimenti, rovesciamenti, peripezie.
Questa connessione di verosimile e imprevisto è essenziale per far
sì che lo spettatore giunga al thaumaston, a ciò che desta la
17
«meraviglia», lo stupore, a ciò è phoberon, che desta il terrore
liberatorio.
Nella prospettiva aristotelica fatta propria da Curi il cinema,
come moderna e più potente reincarnazione del mythos, mediante
la mimesi verosimile (mimesi che è fonte di conoscenze) conduce
al thaumazein, alla meraviglia, come fondamento e origine del
filosofare.
La mimesis, attraverso la contemplazione delle immagini, offre a
tutti la possibilità di «imparare» e «ragionare». Guardando le
immagini, seguendo il racconto, da un lato si prova piacere - un
piacere liberatorio, purificatore - e dall'altro si svolge un'attività
del tutto simile a quella del filosofo.
Perciò Curi giunge a dire, sulla scorta di Aristotele, che il cinema
altro non è che filosofia. Quindi il lavoro filosofico su opere
cinematografiche non è un'arbitraria invasione di campo o
qualcosa di estrinseco. Al contrario:
«una lettura dell'opera d'arte che non punti a
valorizzare la carica in senso proprio filosofica,
finisce per smarrirne gli aspetti più caratterizzanti,
trascurando quella dimensione conoscitiva che è
invece peculiare dell'attività di guardare le
immagini» (Curi 2000, 31)
Certo nei film l'aspetto conoscitivo non è la finalità principale,
ma è subordinato al «piacere». Questo fatto - che da un lato può
costituire un pregio dell'utilizzazione opere cinematografiche per
la didattica della filosofia - richiede un lavoro difficile per far
emergere le conoscenze non già da uno scritto esplicitamente
18
indirizzato a questo scopo, ma da un'opera nella quale molto
spesso sono sepolte sotto l'immediatezza dello spettacolo.
4. Conclusioni
Ci sembra, con queste riflessioni di aver delineato le coordinate
del dibattito e di aver individuato la legittimità, le motivazione e la
possibile fruttuosità di una approccio «cinefilosofico».
Un tale approccio è anche un approccio alla filosofia come
pratica del filosofare, anzi del «con-filosofare», della riflessione in
atto sugli oggetti culturali. Una filosofia che non si presenti - come
spesso appare agli studenti - come la parete di una vecchia cucina,
carica di antichi, pregiati e desueti strumenti (le «teorie», i
«sistemi») che non servono più a nessuno e a nessun compito,
bensì come una pratica attuale, che si avvale degli strumenti (i
«concetti») e delle strategie (le «argomentazioni») di una lunga
tradizione per far luce nella confusione, per mettere ordine nel
caos, per affrontare le ormai famigerate sfide della navigazione
nella «complessità» (parola abusata) con bussola e sestante, per
cercare di capire dove ci si trova e quali sono le possibili direzioni.
Ci appare quindi legittimo e sensato, in una prospettiva didattica,
pensare ai film come possibili «forme di pensiero»,
E' possibile che alcuni aspetti del reale - delle teorie e dei
concetti sul reale - possano essere introdotti sensitivamente agli
studenti, portando a una comprensione al tempo stesso razionale e
affettiva; questa introduzione sensitiva potrebbe avere un «impatto
19
emotivo» sugli studenti; un impatto maggiore rispetto alla
semplice enunciazione e articolazione logica di proposizioni.
Un tale impatto emotivo dice qualcosa (sul mondo, sull'essere
umano, sulla natura, ecc.) e lo dice con «pretese di verità e di
universalità».
D'altronde anche la filosofia più analitica e razionalista ha da
sempre ammesso la legittimità di fare ricorso alla fantasia, al
pensiero per immagini (VEDI
AD ES.
RELAZIONE FINALE PER LA CLASSE
APPENDICE 1
DELLA
36A), a esempi bizzarri, a
esperimenti mentali («che cosa accadrebbe se?») per chiarire con
limpidezza grandi tematiche filosofiche: il «genio maligno» di
Descartes, i «cervelli in una ampolla» e la «terra gemella» di
Putnam, la «staza cinese» di Searle o i numerosi esempi nella
filosofia di Platone. In filosofia si assume che si possa giungere
alla conoscenza anche attraverso supposizioni inconsuete e
fortemente immaginative.
L'universalità proposta dal Cinema appartiene, per così dire,
all'ordine della Possibilità piuttosto che a quello della Necessità.
Riguarda le cose come potrebbero essere; riguarda esperimenti
mentali, con personaggi fittizi (sperimentali): su che cosa
accadrebbe se il personaggio X si trovasse nella situazione Y e
decidesse di fare Z, ad esempio. Le risposte offerte sono sempre
aperte e dubbiose.
A proposito dei film e dei cineasti si potrebbe ripetere e adattare
quello che Kundera scrive in un lapidaria definizione del
«romanzo»:
«ROMANZO: La grande forma della prosa in
cui l'autore, attraverso degli io sperimentali (i
20
personaggi), esamina fino in fondo alcuni grandi
temi dell'esistenza»
Kundera, L'arte del romanzo, p. 205
E ancora, sempre Kundera, a proposito dei romanzieri:
«I romanzieri disegnano la carta dell'esistenza
scoprendo questa o quella possibilità umana…
esistere vuol dire: "essere nel mondo". E'
necessario intendere tanto il personaggio quanto il
suo mondo come possibilità... i suoi romanzi [di
Kafka] colgono una possibilità dell'esistenza
(possibilità dell'uomo e del suo mondo) e ci fanno
così vedere di che cosa siamo capaci…. il
romanziere è un esploratore dell'esistenza»
Kundera, L'arte del romanzo, pp. 68-70
Se consideriamo i film - tutti i film, non solo quelli «d'autore»
vediamo che essi non cessano mai di presentare problematiche
concernenti l'uomo, il mondo, i valori, ecc. I film riguardano
sempre l'uomo e il suo rapporto con la realtà. I film inoltre vivono
di crisi: ciò che è del tutto positivo, ciò che fila liscio senza intoppi
è del tutto privo di interesse.
E così possiamo considerare un film come Gli uccelli di
Hitchcock anche (da un punto di vista filosofico) come un film che
ci dice qualcosa di importante sulla fragilità umana, oppure
Twister come un'opera che riguarda il concetto «il rapporto
dell'uomo con la natura». E certo un horror movie o un thriller
possono farci prendere coscienza di parte degli orrori di questo
21
mondo, o della dinamica delle nostre passioni. Ciò vale, in misura
diversa, non solo per i film di alto livello culturale, ma anche, ad
esempio, per King Kong o Guerre stellari. E' quasi impossibile
trovare un film che si limiti a divertire senza dire assolutamente
nulla del mondo e dell'esistenza umana. Per operare una lettura
filosofica dei film non ci si deve necessariamente rivolgere a
Tarkovskij o a Bergman. D'altronde l'aspetto di «evasione» e di
divertimento (o di paura) proprio di molti film non va
assolutamente escluso, nella prospettiva dell'insegnamento della
filosofia, in quanto contribuisce all'impatto emotivo del film,
facilita la partecipazione, tiene desta l'attenzione.
Certo è possibile distinguere sommariamente i film, seguendo
una classificazione ormai consueta e forse in gannevole, in opere
d'arte e in prodotti commerciali, seguendo ancora un avolta
l'indicazione data da Kundera a proposito dei romanzi:
«la sola ragion d'essere di un romanzo è scoprire
quello che solo un romanzo può scoprire. Il
romanzo che non scopre una porzione di esistenza
fino ad allora ignota è immorale. La conoscenza è
la sola morale del romanzo»
Kundera, L'arte del romanzo, pp. 18
Ci sono evidentemente film originali (di «scoperta») e film
invece ripetitivi, che si appoggiano sui generi, sulle aspettative
consolidate
del
pubblico,
sul
desiderio
di
svago,
sulla
riproposizione di quanto è già noto, ecc.
22
E' ovvio che vedere semplicemente il film non significa, di per
sé, fare filosofia. Per fare filosofia con il film dobbiamo interagire
con le sue componenti logiche, cogliere l'idea o il concetto
trasmessi dale immagini in movimento. Doabbbiamo disporci a
leggere il film filosoficamente. Non vi è un film filosofico «in sé»
e d'altronde i film non hanno in genere lo scopo di presentare un
catena di argomentazioni e di concetti, secondo il modello della
tradizionale esposizione filosofica.
E ovviamente la nostra lettura è solo una possibile lettura fra
molte altre.
Il discorso riguardante il cinema si può ovviamente estendere
alla letteratura e forse pochi negheranno che la grande letteratura
(Dostojevskj, Shakespeare, Ibsen, Pirandello, ecc.) possa avere un
rilevo filosofico.
Ciò
che
il
cinema
offre,
rispetto
alla
letteratura,
è
un
potenziamento dell' «impressione di realtà» e quindi la creazione
di un'esperienza di forte impatto emotivo. Il buon film «aggancia»
lo spettatore, lo tiene avvinto alla pellicola; lo fa sussultare di
paura,
piangere
di
commozione,
ridere
di
gioia,
ecc.
Il
film
realizzare
una
riproduce la pienezza di un'esperienza viva.
La
letteratura
fornisce
gli
elementi
per
«proiezione privata» che ha luogo a seconda della sensibilità di
chi
legge,
mentre
il
cinema
offre,
in
forma
singolarmente
«impositiva», ciò che la letteratura suggerisce. Da'ltro canto,
come
è
noto,
la
letteratura
offre
la
descrizione
dei
processi
psicologici interni, che nel cinema sono pressoché assenti ovvero
surrogati/sostituiri con
fungono
da
«correlativi
elementi visivi (oggetti/situazioni che
oggettivi»
di
stati
d'animo)
o
con
espedienti (voce fuori campo, narratore, ecc.).
23
Appendice 1
Ipotesi di percorsi di cinema e
filosofia
L'INCONSCIO
Brani tratti dai film:
-
Il posto delle fragole (Svezia 1957), di Ingmar
Bergman
Un viaggio come ripensamento della propria esistenza,
pellegrinaggio
della
memoria
e
delle
occasioni
perdute.
- Solaris (Urss 1972), di Andrej Tarovskij
La
fantascienza
come
pretesto
per
riflessioni
filosofiche: Uno scienziato, invitato a indagare su
ciò che sta accadendo sulla base orbitante attorno al
magmatico
pianeta
Solaris,
scopre
che
delle
radiazioni hanno il potere di materializzare angosce,
desideri, sensi di colpa dell'equipaggio.
- La donna che visse due volte (Usa 1958), di Alfred
Hitchcock
Il
capolavoro
nella
parte
filosofico
oscura
di
della
Hitchcock.
mente,
nei
Un
viaggio
sogni,
nelle
paure che ci bloccano e che si ripresentano.
PARADOSSI
DEL
TEMPO:
TEMPORALITA'
DELL'ESISTENZA
E
MEMORIA
-
Ricomincio da capo (Usa 1997), di Harold Ramis
Un uomo che, al risveglio, si ritrova a vivere sempre
la stessa giornata (conservando però memoria delle
giornate
"precedenti").
All’inizio
sembra
comodo
sapere in anticipo quello che accadrà, ma se il tempo
si ferma, si ferma anche la vita, che diventa una
trappola senza via d’uscita.
-
Memento (Usa 2000), di Christopher Nolan
Un film che procede «al contrario», per frammenti di
15
minuti.
Un
uomo
(un
investigatore
alla
ricerca
24
dell'assassiono
della
moglie)
è
affetto
da
un
disturbo che cancella la sua memoria a breve termine,
rendendogli impossibile immagazzinare le informazioni
che
l'esperienza
gli
detta,
e
che
l'uomo
cerca
disperatamente di annotare con tautuaggi, Polaroid,
foglietti. Cosa significa vivere senza memoria? Come
possono
i
segni
scritti,
incisi,
registrati,
sostituire una memoria che non c'è? Una riflessione
sul
rapporto
tra
l'identità
personale,
la
temporalità, la memoria di essere se stessi.
LA REALTA' ESISTE? CARTESIO E IL DUBBIO RADICALE
Si
propone
la
visione
partecipata,
commentata
e
discussa di brani tratti da:
-
Matrix (Usa 1999), di Larry e Andy Wachowski
La realtà come illusione ingannatrice creata da un
genio maligno.
-
The Truman Show (Usa 1998), di Peter Weir
Il signor Truman crede di vivere una vita normale,
forse nel migliore dei mondi possibili, invece tutto
ciò che lo circonda è finto: il set di un programma
tv che mette in scena la sua esistenza 24 ore su 24.
Vive in una monade, senza porte e finestre. Riflesso
in mille schermi. Il "genio maligno" e la ricerca
dell'autenticità nell'esistenza umana.
IL PARADOSSO DELLA FEDE
Si
propone
di
discutere
alcuni
aspetti
della
filosofia di Kierkegaard, sulla paradossalità della
fede
(il
sacrificio
di
Isacco…)
mettendoli
in
rapporto alla loro reinterpretazione cinematografica
più recente, secondo il "Dogma" di Lars von Trier.
-
Le onde del destino (Danimarca 1997) di Lars Von
Trier
Fede e amore, paradossali, fino al sacrificio.
-
Ordet
–
La
parola
(Danimarca
1955),
di
C.
Th.
Dreyer
Ambientata negli anni ’30, la storia di un giovane
che si crede il messia e riuscirà nel miracolo di far
tornare in vita la moglie di suo fratello.
25
- L'ultima tentazione di Cristo (Usa 1988), di Martin
Scorsese
Un
film
giudicato
scandaloso
che
si
occupa
della
umanità - delle passioni - del Cristo.
LA SCELTA ETICA
"Il
fare
ingiustizia
è
più
brutto
e
dannoso
del
subirla" (Socrate)
Una riflessione sulle conseguenze dell'agire.
-
Crimini e misfatti (Usa ), di Woody Allen
Amarissimo
apologo
sulla
"morte
di
Dio"
e
l'ingiustizia trionfante.
-
L'attimo fuggente (Usa ), di Peter Weir
Una riflessione su etica della convinzione ed etica
utilitaristica.
-
L'appartamento (Usa ), di Billy Wilder
Cosa si è pronti a fare per la carriera? Cos'è la
dignità?
Una
commedia
difficile
che
riflette
percorso
responsabilità,
che
per
(Mensch:
come
Inoltre,
sottotraccia,
sulla
porta
divenire
sottolinea
il
un'audace
dignità
e
sul
all'assunzione
veramente
viennese
di
"uomo"
Wilder).
riflessione
sui
rapporti tra le persone nella nostra società (tema
della "prostituzione").
I RISCHI DEL FUTURO: BIOETICA E TECNICA
- Gattaca (Usa 1997), di Andrew Niccol
Film profetico sui rischi dell'eugenetica.
In modo molto semplice e suggestivo si affronta il
tema delle possibili discriminazioni sulla base del
patrimonio genetico.
- Blade Runner (Usa 1982), di Ridley Scott
In questo film dagli echi nicciani, considerato da
molti come un autentico capolavoro, viene presentata
una realtà del futuro, pienamente tecnologizzata e
nichilistica,
popolata
di
replicanti
dalle
forme
umane sfuggiti al controllo degli uomini (androidi).
Un noir ambientato nel futuro.
26
Appendice 2
Analisi di un film
Ricomincio da capo (Groundhog Day), USA 1993.
Scritto da Danny Rubin, regia di Harold Ramis. Con
Bill Murray (Phil Connors), Andie MacDowell (Rita),
Si tratta di una commedia molto brillante e divertente.
Nell'analisi, utilizziamo il film come modo per illustrare alcuni
problemi filosofici; dai paradossi del tempo (che mettono in rilievo
la storicità e temporalità della nostra esistenza) alla tematica dei
mondi paralleli, della conoscenza e delle scelte morali.
La storia
Il 2 febbraio - il «giorno della marmotta» che dà il titolo al film
nell’edizione originale - è un’istituzione statunitense. Il villaggio
di Punxsutawney, in Pennsylvania, ospita il «Groundhog Day», il
giorno della marmotta. La mascotte del villaggio, esce dalla sua
tana: è un aruspice meteorologico, in grado di annunciare una
primavera precoce. Se però vede la sua ombra, l’inverno
continuerà per altre sei settimane.
Il film inizia il 1 febbraio. La prima sequenza ci mostra Phil
Connors, annunciatore meteorologico per una catena televisiva che
ha sede a Pittsburgh. Finita la trasmissione Connors parte alla volta
di Punxsutawney per il suo quarto anno di reportage sul giorno
della marmotta; decisamente una prospettiva non entusiasmante.
Lo accompagnano il suo operatore Larry e la sua produttrice
Rita. Rita è agli antipodi di Phil per gusti e atteggiamenti ma
sembra cercare comunque in lui un lato buono. L’indomani, dopo
27
la breve diretta sul festival, in cui la marmotta vede la sua ombra, i
tre ripartono per Pittsburgh ma vengono bloccati da una tempesta
di neve che Connors non aveva previsto.
Rientrano a Punxsutawney e vi trascorrono la notte.
Connors si risveglia alle sei del mattino e si accorge subito che
qualcosa non quadra: la radio trasmette esattamente le stesse voci
del giorno precedente; le stesse persone lo incontrano alla pensione
e per strada e si ritrova a raccontare in diretta l’identico festival del
giorno della marmotta.
A questo punto inizia un ciclo infernale. Giorno dopo giorno, alle
sei del mattino, Connors si risveglia ritrovandosi alla casella di
partenza: il due febbraio. Superato lo choc iniziale decide di trarre
un partito dalla situazione e comincia a raccogliere informazioni
sugli abitanti del villaggio
Grazie a questa strategia seduce l’avvenente Nancy Taylor,
svaligia un furgone per il trasporto valori, si dà alla bella vita, ecc.
– episodi che naturalmente non si estendono al di là dello spazio
del due febbraio. Quando però cerca di applicare i suoi piani a Rita
la differenza tra i due si rivela insuperabile.
Faticosamente Connors cerca di costruire la giornata perfetta, che
dovrebbe culminare nella seduzione di Rita, ma inesorabilmente si
scontra con il bisogno di sincerità di Rita, che intuisce la falsità dei
suoi tentativi.
Connors è depresso: sperando di mettere fine all'eterno ritorno
del 2 febbraio rapisce la sciagurata marmotta e si lancia con lei in
un burrone. Ma questo non è sufficiente: puntualmente alle sei del
mattino seguente si ritrova intatto nel letto della pensione a
Punxsutawney. Nei giorni seguenti, per accorciare le sue
28
sofferenze, si suicida immediatamente appena alzato, ogni volta
risvegliandosi al punto di partenza.
Vista l’inutilità del suicidio, Connors convoca Rita e le dichiara
di essere un dio; per provarlo, le mostra di sapere tutto degli
abitanti di Punxsutawney, fin nei più intimi dettagli. Rita si
dichiara pronta a seguirlo per un giorno come ‘testimone
imparziale’. Alla fine della giornata Connors sembra riconciliato
con se stesso.
I giorni seguenti lo vedono affabile con Rita e Larry. Si dà alla
scultura di statue di ghiaccio. Decide di dedicarsi agli studi e inizia
a seguire un corso di pianoforte. Ne seguiamo i progressi.
Conosciamo un Connors buono, che si dispera per non riuscire a
salvare un pover’uomo che pare condannato a morire un due di
febbraio e che finisce con l’accettare che alcune cose non possono
venir comunque cambiate nel giorno che egli vorrebbe perfetto.
Nell’ultimo giorno della marmotta Connors compie una serie di
buone azioni che gli permettono di guadagnare l’affetto degli
abitanti di Punxsutawney e l’ammirazione di Rita che, lungi dal
trovarlo insopportabile, lo compra all’asta degli scapoli.
L’amore infine conquistato lo libera dalla ripetizione; il risveglio
al tre febbraio porta con sé l’accettazione del destino: Connors
vuole vivere a Punxsutawney.
Come descrivere la storia?
Che cosa accade quando si ha a disposizione molto, moltissimo
tempo? E quanto tempo è trascorso davvero? Tempo per chi?
L’unità di tempo del film è il giorno. Dal punto di vista di Rita e
degli abitanti del villaggio, la storia sembrerebbe estendersi su tre
giorni. Dal punto di vista di Connors, i giorni sono molti di più. I
29
primi giorni della marmotta sono anche i primi giorni filmati; ben
presto i giorni filmati sono una selezione di quelli richiesti dallo
svolgimento della storia. Il film ne mostra alcune decine; ma
quanto tempo è veramente passato per Connors? La differenza tra
tempo mostrato e tempo implicato è ragguardevole.
Nella seconda parte del film Connors comincia a suonare il piano
da principiante, e nel concerto finale si produce in un blues
abbastanza elaborato. Parecchi altri giorni sicuramente stati
necessari per apprendere molte delle cose che Connors sfrutta a
suo vantaggio nella prima parte del film (gli orari del furgone
portavalori, ecc.).
Si può essere tentati di fare qui una distinzione tra tempo
"soggettivo" (di Connors), tempo "oggettivo" (il calendario che
tutti gli altri rispettano, e tempo "della narrazione" (i giorni che
effettivamente ci vengono mostrati nel film.
Le cose sono un po’ più complicate, e forse queste categorie sono
inapplicabili al film. Phil Connors conosce la stasi come qualcosa
di esterno al suo tempo. Uno dei problemi che deve risolvere è
quello di come tenere un calendario del proprio tempo soggettivo.
Gli oggetti del mondo che lo circonda non sono infatti in grado di
ricordare, dato che ogni giorno si ritrovano intatti allo stesso posto.
Connors non può scrivere un diario o lasciare una traccia a futura
memoria.
Come dovrebbe essere fatto il mondo
perchè il film possa funzionare?
In che modo la sceneggiatura gioca con i concetti di spazio e di
tempo? Il mondo rappresentato dal Giorno della Marmotta è un
mondo molto strano.
30
Connors «ricomincia da capo il 2 febbraio». Dire così è
ingannevole. Se veramente ricominciasse da capo, rifarebbe
esattamente le stesse cose. Non si tratta dunque di un semplice
viaggio nel tempo.
Il mondo in cui Connors si ritrova nel secondo giorno della
marmotta non è lo stesso mondo in cui si trovava nel primo giorno
Si tratta di un universo parallelo, di cui sappiamo che è simile in
tutto e per tutto all’universo del primo giorno (G1) tranne che per
il fatto che Connors ricorda il G1. E il G3 è in tutto e per tutto
simile al G1 e al G2 tranne che per il fatto che nel G3 Connors
ricorda sia il G2 sia il G1 e gli sembra che il G1 abbia preceduto il
G2. E così via.
Per questo affermare che Connors «ricomincia da capo» è
ingannevole. È vero il contrario: in pratica tutti ricominciano da
capo, tranne Connors.
"Ricomincio da capo" non è dunque un film che riguarda il
tempo, ma le possibilità.
Il fatto che Connors conservi la memoria in questo modo
particolare è indice di alcune «irregolarità». Sappiamo che la
memoria è uno dei criteri principali dell’identità personale. Grazie
a ciò possiamo dire che Connors in G1 è lo stesso che Connors nel
giorno della marmotta iniazale. A prima vista ci verrebbe anche
fatto di dire che Rita-in-G1 è la stessa persona di Rita-in-G2, ma
basta riflettere un momento per vedere che si tratta di un senso
molto più debole di "la stessa persona". In realtà, Rita-in-G2 non
sa nulla dell’esistenza di Rita-in-G1.
La sua situazione è simile a quella delle due protagoniste de La
doppia vita di Veronica di Kieslowski. Le Rita nei vari mondi non
sono letteralmente la stessa persona, sono varianti l’una dell’altra.
31
In secondo luogo, Connors si sposta "lateralmente" tra universi
paralleli, e "all’indietro" nel tempo di ciascuno di questi universi,
immaginando che siano tutti sincronizzati, con un curioso percorso
a zig-zag. Questa è la situazione impossibile – ma concettualmente
proficua – del film: un trasferimento di memoria tra universi
paralleli.
Si aggiunga a questo che il tre febbraio che chiude il film può
essere preceduto solo dall’ultimo giorno della marmotta, quello in
cui Connors conquista il cuore di Rita. Quel due febbraio è il solo
che veramente ha avuto luogo nel nostro mondo. Perché?
Ovviamente nessuno degli altri giorni termina con Rita che ricorda
di aver comprato Connors all’asta degli scapoli. In particolare, non
il primo giorno. Questo fa sì che il G1 che vediamo all’inizio del
film in realtà fosse già un universo parallelo. Quindi lo
spostamento laterale di Connors comincia già nel G1.
Se il giorno finale corrisponde all’ultima variante, se si tratta
della variante buona, di quello che è veramente successo, e se per
realizzarla Connors dev’essere passato attraverso tutte le altre
varianti, è come se al giorno G1 Connors fosse «in ritardo»
rispetto al resto del mondo e avesse dovuto mettersi a viaggiare
negli universi paralleli per recuperare il ritardo.
Il viaggio di Connors è un’esplorazione di varianti parallele del
mondo reale, grazie alla quale ottiene l’amore di Rita che era
sicuramente fuori della sua portata il giorno 1 febbraio. Questa
conquista avviene grazie a un cambiamento interiore di Connors.
Lo stesso Connors può essere un Connors diverso perché
nell’esplorare gli universi paralleli egli acquisisce la conoscenza.
In prima approssimazione il film sembrava uno studio sul tempo.
Ma il soggetto filosofico principale del film è forse la conoscenza.
32
Che cosa sembra dire il film
Nel G28 Rita si offre di essere una «testimone oggettiva».
Connors le racconta di come i vari suicidi da lui commessi non gli
impediscano di rinascere ogni giorno, e come questo l’avesse
convinto di essere un dio. Rita non può sapere che cosa è successo
negli universi paralleli visitati da Connors e gli chiede di provarle
che è un dio. Non potendo addurre prove per la propria
immortalità Connors le dimostra di essere onnisciente – ovvero, di
conoscere tutti i dettagli del microcosmo di Punxsutawney che ha
esplorato in lungo e in largo nei «giorni precedenti».
L’esplorazione degli universi paralleli mette Connors di fronte al
valore della conoscenza. La ripetizione è una prigione, ma
Punxsutawney è uno spazio sufficientemente grande perché vi
avvengano molti eventi e vi si possano fare molti incontri. La
ripetizione si rivela una fonte di conoscenza, perché permette di
esplorare gli eventi. Normalmente gli eventi non sono soggetti di
«esplorazione» come gli oggetti materiali. Possiamo tornare a
esplorare un oggetto materiale per osservarne i lati che non
avevamo visto, ma possiamo soltanto – al meglio – seguire una
volta sola un evento nel suo svolgersi. La ripetizione elimina
questo ostacolo. Permette a Connors di tornare a osservare lo
"stesso" evento (in realtà, una sua variante indistinguibile
dall’evento, se si esclude una possibile interazione di Connors con
l’evento) per scoprirne degli aspetti che erano passati inosservati a
una prima visita. Per Connors è come se gli eventi avessero dei
"lati". La sua conoscenza non è solo più vasta della nostra, è anche
di un tipo qualitativamente diverso.
33
Qui entra in gioco l’aspetto morale del film, che travalica la
questione del tempo e i problemi della conoscenza.
Che cosa dice il film?
Se non ci sono conseguenze nel futuro delle nostre azioni (perché
non c'è futuro) tutto è permesso e possiamo non star più alle
regole. Scopriamo che la morale ha un’importante collegamento
con la «metafisica del tempo». In un mondo con una struttura
diversa dalla nostra – come quello in cui è confinato Connors – gli
atti
potrebbero
avere
conseguenze
modeste
e
comunque
circoscritte per colui chi li compie.
Avrebbero però comunque delle conseguenze. Connors dà qui
un’ulteriore prova di cinismo, dato che le conseguenze sono
circoscritte per lui e non per gli altri. Ma certo i vincoli della
situazione sono più deboli per Connors, che sa che per lui non ci
sarà "domani". Il successo morale dipende in buona parte dalla
fortuna morale, dal gioco di conseguenze che rendono un atto
buono o cattivo, ma la situazione di Connors indica che tale
successo dipende anche dalla possibilità di conoscere le
conseguenze. E Connors sa che le conseguenze dei suoi atti non
saranno mai avvertite da lui. In questo senso è una creatura morale
bizzarra.
La conoscenza di Connors, abbiamo detto, è diversa dalla nostra.
Non solo per via dell’onniscienza. Un po’ come il pianista che
ripete lo stesso pezzo per impararlo, Connors ripete la «cassetta»
dello stesso giorno.
Tuttavia la conoscenza che ne ottiene si rivela inutile proprio là
dove dovrebbe dare i frutti migliori. Nonostante egli riesca a
ottenere facilmente sesso e denaro, non riesce a conquistare Rita.
34
A Rita non interessa quello che Connors sa, e addirittura la
indispone che egli sappia anticipare tutti suoi desideri.
Connors è un filologo di Rita, ma la sua erudizione è inutile.
A Rita interessa un certo tipo di Connors, un Connors con certe
qualità. La conoscenza è inutile perché non cambia Connors. Non
nasce mai un Connors nuovo o migliore, e difatti egli si ritrova
ogni giorno ad essere il Connors che era il giorno prima. Questo è
il vero significato della seconda parte del film, il vero senso,
incidentalmente, del ricominciare da capo.
Connors spezzerà il cerchio infernale quando passerà da una
conoscenza che si limita a raccogliere dati a una «conoscenza che
lo trasforma».
Possiamo parlare di un valore intrinseco della
conoscenza, al di là di tutti gli usi strumentali che Connors può
farne: limitati alle circostanze del momento nella prima parte del
film, o inseriti in un grande progetto di vita nella seconda parte.
Il tipo di conoscenza che può ottenere e il modo in cui questa si
lega all’intuizione cje la conoscenza ha un valore intrinseco
potrebbero
semplicemente
dipendere
dall’artificiosità
della
situazione che ci propone lo sceneggiatore.
Ma il legame con il mondo reale è in agguato dietro l’angolo, e ci
viene offerto già al terzo giorno. Connors chiede a due amici che
cosa accadrebbe se uno fosse condannato a vivere sempre nello
stesso luogo e i giorni fossero tutti uguali e nulla fosse veramente
importante. Gus osserva, sconsolato, che questa è in fondo la sua
vita. Il mondo reale non è poi così diverso.
Conclusioni
35
L’onniscienza è moralmente insufficiente in quanto non rende
necessariamente migliori. Il punto di vista fuori dal tempo e
l’onniscienza sono irrilevanti ai fini morali.
Per gli umani il viaggio alla ricerca della conoscenza è l’unica
cosa che sembra veramente poter contare, e su cui nessun dio ha
alcunché da insegnare. La conoscenza e persino l’onniscienza
possono non aver valore se non nella contingenza delle situazioni.
Non basta essere dei.
Anzi, gli umani hanno il privilegio di potersi migliorare, ed è
questo che li rende così interessanti. Ciò che sembra avere un
valore intrinseco è il cammino che ci porta alla conoscenza, e la
conoscenza stessa. Per trarre questa morale Groundhog Day ci
mostra una situazione molto originale: l’epica di un dio che
diventa uomo e scopre che da uomini si sta meglio.
36
Bibliografia
Bruno, Edoardo, Il pensiero che muove, Bulzoni, Roma
1998
Bruno, Marcello Walter, Heidegger goes to Hollywood.
Essere
e
tempo
nell'ultimo
cinema
americano,
Segnocinema 103, Maggio-Giugno 2000
Cabrera, Julio, Da Aristotele a Spielberg: Capire la
filosofia attraverso i film, Bruno Mondadori, Milano
2000
Cartesio, Renato,
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