Stranieri in patria
Il discorso di mons. Alessandro Maggiolini alla città di Como,
in occasione della festività di Sant’Abbondio, patrono della città e della diocesi.
Il discorso è stato pronunciato giovedì 31 agosto nel corso del solenne pontificale celebrato a partire dalle ore 17.00
nella Basilica cittadina dedicata al Santo Patrono. Alla S. Messa erano presenti centinaia di fedeli, tra cui anche le
massime autorità civili comasche.
Mi sento in obbligo di dar voce a un disagio che prende, in tempi recenti, molti credenti e
uomini di retto sentire: un disagio che, spesso, deriva loro da un rimprovero e da una
accusa perché essi - si dice - non avrebbero il senso dello Stato. A rimproverare e ad
accusare sono vari laicisti. Occorre ammettere che numerosi italiani, cattolici e sanamente
laici, hanno l’impressione di trovarsi stranieri in Patria. Essi non riescono più a condividere
in vasta parte una prospettiva antropologica personale e comunitaria che ha precise e
vaste ripercussioni sull’autorità profana, nei suoi aspetti legislativo, governativo e
giudiziario.
Il fatto va chiarito e, se necessario, corretto. Non sembra tentativo lieve quello di
colpevolizzare cristiani e uomini di buona volontà: colpevolizzarli perché, nell’impegno di
essere coerenti con la fede e con una prospettiva morale, finiscono per non riuscire a
qualificarsi come cittadini a pieno titolo. Sarebbero così quasi costretti a vivere una sorta di
penosa duplicità in base alla quale, per adeguarsi alla propria fede e ai propri princìpi
morali, si sentirebbero sospinti a rifiutare la condizione di appartenenti a uno Stato quale si
attua oggi in Italia e in generale nella vecchia Europa e nella zona atlantica.
Intervengo da cristiano e da Vescovo, il quale, però, non si percepisce per nulla, a
motivo della propria fede, costretto a rinunciare a una ragione, a un’etica e a uno stile di
comportamento che valuta autenticamente umani. Il credere non significa assolutamente
concedersi a una sorta di assurdismo. Implica, invece, il recupero, la purificazione e
l’esigenza di completamento di tutte le virtualità umane. A cominciare dall’intelligenza.
I.
Il senso dello Stato
1) Attualmente, forse, il clima è un poco mutato. Ma fino a qualche tempo fa vigeva
l’atteggiamento un po’ disinvolto di chi si dilettava a rimproverare criminalizzare i cattolici e
gli uomini di una certa rigorosa moralità perché, cercando di pensare e di vivere secondo
precise norme etiche, finivano per non apparire cittadini a pieno titolo. Almeno così si
riteneva. E occorre ammettere che tale rimbrotto non è del tutto cessato: vi sono sempre
persone che quasi non riescono a sfilarsi da uno sloganario magari sorpassato, e
continuano a ripetere lezioni che non corrispondono più, o quasi, all’attualità.
Tale condanna segnala la convinzione di una incapacità - o di una impossibilità - a
essere al tempo stesso pienamente cristiani e conformi a una morale naturale, da una
parte, e cittadini, dall’altra.
La cultura da cui nasce una tale denuncia può essere facilmente identificata in un
orizzonte conoscitivo di derivazione risorgimentale con un richiamo che pare immancabile
alle convinzioni che spiegano la Liberazione dopo il Ventennio fascista. Ma si sbaglia. Si
insinua, contro la verità storica, che l’adesione al cattolicesimo o/e lo sforzo di
adeguamento a princìpi etici fondamentali di stampo naturale impedirebbe alle persone di
attuarsi senza riserve mentali e comportamentali come italiani.
Pare abbastanza chiaro che l’aggancio al Risorgimento e alla Liberazione avvenga
in uno schema notevolmente ideologico, il quale forse rende ancor più crudo l’addebito
che si muove a cittadini considerati non pienamente tali.
Forse, per chiarire un poco la questione, sarebbe opportuno distinguere tra Stato,
da un lato, e società - o nazione - italiana, dall’altro.
Lo Stato consiste in una struttura di potere che rende possibili le leggi, l’attuazione
delle leggi stesse e il giudizio di responsabilità dei cittadini in vista di una sempre migliore
attuazione del bene comune: bene comune che non è la somma dei vantaggi di ogni
soggetto, ma la possibilità che ciascuno di essi deve avere di attuarsi liberamente e
pienamente.
La nazione o la società consiste, invece, nel pensiero e nella vita che le singole
persone e le diverse formazioni sociali devono poter attuare ed esprimere entro gli àmbiti
del bene comune richiamato.
La denuncia di mancanza di senso dello Stato si riferisce, appunto, alla struttura
legislativo-esecutivo-giudiziaria, che si vorrebbe, forse, sempre conforme alla situazione di
una convivenza civile anche degenerata.
Va da sé che non per principio l’architettura statuale traduce le convinzioni della
società. In ogni modo, tale corrispondenza o meno va costantemente verificata.
Va da sé, ancora, che l’humus culturale a cui ci si deve riferire, presenta
ascendenze ben più lontane nel tempo rispetto a quella richiamata: sembra innegabile che
ci si debba appellare, almeno in senso lato, a un orizzonte di pensiero e di vita cristiano e
a un umanesimo ispirato poco o tanto alle convinzioni cristiane. Crocianamente: perché
non possiamo non dirci cristiani. E ciò sia affermato anche se in concreto l’attuazione di un
stile di pensiero e di vita registra scarti pure notevoli nei confronti del cristianesimo e di un
umanesimo almeno vagamente giusnaturalistico.
2) I motivi concreti per cui i credenti e gli uomini di retto sentire sono incolpati di
mancanza di senso dello Stato, sono molteplici e corrispondono, almeno in parte, alle
ragioni per cui i medesimi soggetti hanno la sensazione di essere poco o tanto estranei al
loro Paese: o meglio, alla struttura statuale che vorrebbe presiedere alla società del loro
Paese.
I settori che creano non lievi resistenze a condividere l’impostazione dello Stato
italiano attuale, sono molteplici e riguardano problemi assai gravi e vicini alla preziosità
intangibile della persona umana.
Si può accennare alle ragioni di qualche malessere per cui soggetti che
formano la società civile si ritrovano a fatica nell’impostazione e nella gestione dello Stato
italiano contemporaneo.
La religione si presenta come libera e pienamente rispettata nella sua autonomia. E
tuttavia, la realtà concreta in proposito non pare tanto facilmente condivisibile. Infatti, il
concetto di religione che sta alla base della libertà assicurata dallo Stato sembra quasi
ridotto, in Italia, per più di un verso, all’aspetto intimo, dove la coscienza è sovrana, e
all’aspetto cultuale. Non sempre si vede onorato il principio per cui “nella natura sociale
dell’uomo e nel carattere stesso della religione si fonda il diritto in virtù del quale gli uomini,
mossi dalla propria convinzione religiosa, possono liberamente riunirsi e dar vita ad
associazioni educative, culturali, caritative, sociali” (Dichiarazione Dignitatis humanae, 4).
Vi è, poi, tutto il tema del rispetto e della promozione della vita umana, che per il
Cristianesimo e per una valutazione morale legata alla natura è fondamentale e
intangibile. Non si riesce a comprendere come uno Stato che legittima - e addirittura
sovvenziona - la soppressione di persone umane innocenti e indifese (aborto e
infanticidio), o permette una sorta i suicidio per interposta persona in circostanze
qualificate come straordinarie ma facilmente ampliabili a pressoché tutte le situazioni
(eutanasia attiva), riesca poi a presentarsi come difensore e promotore dell’attuarsi
compiuto del soggetto umano in tutte le sue autentiche dimensioni sia personali che
comunitarie (cf Costituzione Gaudium et spes, 27).
Recentemente si devono aggiungere le diverse tecniche di manipolazione genetica,
che tendono non solo a curare, ma anche a mutare l’originalità della persona e spesso, di
fatto, utilizzano delle persone per esperimenti che non possono essere accettati né come
eticamente validi, né come legalmente approvabili.
Vi è poi tutto il campo della difesa e della promozione della famiglia. Questa, già
minata nella sua stabilità dalla legge che consente sempre più facilmente il divorzio,
appare ancor più minacciata da una possibile approvazione di libere convivenze addirittura
omosessuali. Va da sé che una tale prassi non può non condurre fatalmente a un
discredito della famiglia quale cellula primitiva della società: la famiglia, infatti, è struttura “
naturale fondata sul Matrimonio” (Costituzione italiana, art.29) e magari santificata da un
sacramento.
Non sembri fenomeno lieve questo tentativo di scalzare l’unità indissolubile e
feconda di un uomo e di una donna. L’articolazione che ne nasce si pone inevitabilmente
come luogo primario di attuazione delle persone dei coniugi e dell’educazione dei figli. A
questa crisi, spesso indotta, dell’istituto familiare si accompagna normalmente una sorta di
assolutizzazione della sessualità genitale concepita e sperimentata come gioco a sé
stante e innormato, a cui solitamente si accompagna una deresponsabilizzazione del
soggetto umano in molti aspetti etici e l’insorgere di istinti di violenza e di morte che non
mancano di dare inquietante spettacolo di sé.
Da registrare, poi, è il tentativo che il pubblico potere compie di avocare a sé la
funzione pedagogica nei confronti dei bambini, dei ragazzi e dei giovani, impedendo di
fatto ai genitori e ai soggetti in formazione che hanno raggiunto una capacità di scelta
responsabile, la libertà di optare per un tipo di fisionomia originale umana - e non solo di
una quantità di informazioni - corrispondente a un preciso impianto di certezze, di valori e
di norme. Ciò avviene con il concreto monopolio del pubblico potere, nelle sue diverse
strutture - e soprattutto a livello statale -, impedendo che non solo nascano, ma anche si
gestiscano delle peculiari iniziative scolastiche che si affianchino alle famiglie e rispondano
alle attese genuine degli alunni.
Occorrerà riflettere anche sul diritto che i cittadini hanno a una informazione circa il
quadro sociale e politico in cui vivono, perché possano assumere responsabilità motivate,
prudenti e libere. Il che non appare possibile se l’informazione viene condizionata oltre
misura dal pubblico potere o/e da forze economiche le quali quasi inevitabilmente
manipolano la lettura della situazione. In tal modo il cittadino può illudersi di partecipare
responsabilmente alla gestione della cosa pubblica; di fatto agisce come, in qualche
misura, viene programmato in vista di precise finalità che non sempre coincidono con la
sua piena perfezione.
Si potrebbe anche accennare all’aspetto economico, dove pure è necessaria una
qualche misura di libertà, pur riconoscendo - come è doveroso - la funzione anche sociale
del possesso delle cose e soprattutto dei mezzi di produzione (cf Centesimus annus, 35).
Questi accenni richiamano soltanto alcuni elementi di disagio a motivo dei quali
molti cittadini - credenti e non solo - non si sentono espressi dalle strutture istituzionali nei
loro diritti di fondo e nelle loro aspirazioni più genuine. Si tratta di ragioni per cui tali
cittadini avvertono una qualche loro difficoltà a sentirsi pienamente interpretati dallo Stato:
si sentono, cioè, come si enunciava, stranieri in Patria.
Il fenomeno si aggrava soprattutto se si riflette sul fatto che dall’Illuminismo in poi
sembra che le correnti di pensiero prevalenti si siano orientate a isolare il singolo individuo
dalla società, per metterlo, notevolmente indifeso, di fronte a un pubblico potere
tendenzialmente onniimperante. Il rilievo non sembra cambiare molto, se si osserva la
tendenza a costituire classi economiche contrapposte in vista di una società senza Stato,
dove l’identità stessa dell’uomo si sogna verrebbe cambiata e resa capace di un altruismo
pressoché istintivo. Una simile utopia ha già dato i suoi èsiti nefasti e, comunque, quando
raggiunge il suo scopo, sembra annullare l’originalità della persona e le diversità culturali
rilevanti delle varie aggregazioni sociali.
II. Verso uno Stato laico e democratico
1) Sull’argomento dello Stato laico e democratico non starò a ripetere cose già dette in
anni trascorsi. Insisterò, invece, su alcune questioni che mi sembrano decisive e che
ritornano, equivocate, con una certa insistenza.
Innanzitutto, non è possibile identificare la laicità con una presunta neutralità
veritativa ed etica riguardante aspetti fondamentali della persona umana e della
convivenza civile.
Talvolta pare che, per rispettare la libertà della persona singola e delle formazioni
sociali, si debba presupporre un disinteresse assoluto circa il dover essere e la sua
giustificazione.
Rimane vero che la storia registra casi in cui si sono commessi crimini in nome di
una presunta o anche autentica verità. Ma crimini non meno gravi e radicali negazioni
della libertà si sono commessi in nome del relativismo etico. Non manca chi ritiene che
proprio tale relativismo sia una condizione sine qua non della democrazia, in quanto
garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone e adesione alle decisioni della
maggioranza, mentre le norme morali, considerate oggettive e vincolanti, porterebbero
all’intolleranza. “In realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un
surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità. Fondamentalmente, essa è un
“ordinamento” e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere “morale” non è
automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro
comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue
e dei mezzi di cui si serve” (Evangelium vitae,70). “Un’autentica democrazia è possibile
solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Essa
esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole
persone mediante l’educazione e la formazione ai veri ideali, sia della “soggettività” della
società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità. Oggi si
tende ad affermare che l’agnosticismo e il relativismo scettico sono la filosofia e
l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti
sono convinti di conoscere la verità e aderiscono con fermezza a essa, non sono affidabili
dal punto di vita democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla
maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici. A questo proposito
bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta
l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate
per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo
aperto oppure subdolo, come dimostra la storia” (Centesimus annus,46).
Queste osservazioni evidenziano almeno due convinzioni. In primo luogo, lo Stato
laico e democratico, invece che agnostico, deve caratterizzarsi da un sano pluralismo di
impostazioni di pensiero e di iniziative sociali che si confrontino tra loro con senso non
tanto di tolleranza, ma di rispetto della persona, pur nel dissenso delle idee.
Una seconda conseguenza fa intuire che la democrazia non ha il compito di
determinare la verità mediante la maggioranza di coloro che la costituiscono. Anzi, l’uso
del voto non può non presentare una qualche ambiguità. Per esempio: “Quando una
maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della soppressione, pur a certe
condizioni, della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione “tirannica”
nei confronti dell’essere umano più debole e indifeso? La coscienza universale
giustamente reagisce nei confronti dei crimini contro l’umanità di cui il nostro secolo ha
fatto così tristi esperienze. Forse che questi crimini cesserebbero di essere tali se, invece
di essere commessi da tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare?”
(Evangelium vitae, 70).
2) Inoltre, alla base dell’intero impianto democratico sta la convinzione che vi sono
diritti fondamentali della persona che lo Stato laico e democratico non determina e non
attribuisce, ma riconosce e garantisce. In altre parole, il pubblico potere non concede i
diritti inalienabili della persona perché così vuole, ma li accoglie perché ci sono nella realtà
stessa dell’uomo.
In proposito può essere ricordato l’art.2 della Costituzione Italiana che così recita:
“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti fondamentali dell’uomo, sia come singolo,
sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
L’osservazione fa intuire una idea che anima l’intera Costituzione italiana. Un
esempio può essere quello del diritto allo studio. “L’istruzione inferiore, impartita per
almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi,
hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo
diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere
attribuite per concorso” (34). Così si dica per la famiglia di cui la Repubblica riconosce i
diritti (cf 29). E afferma il dovere e il diritto dei genitori di “mantenere, istruire ed educare i
figli” (30).
Questa presa d’atto costituisce per lo Stato, sempre secondo la Costituzione, una
fonte di doveri che si spingono fino alla responsabilità di “rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (3).
3) La persona è, dunque, posta al centro dell’intera articolazione democratica. La
quale deve indubbiamente aver presente il raggiungimento del bene comune. Questo non
può limitare i diritti fondamentali della persona stessa se non per affermare i pari diritti di
tutti.
In questo quadro il bene comune della società “si concreta nell’insieme di quelle
condizioni della vita sociale, con le quali gli uomini, la famiglia e le associazioni possono
ottenere il conseguimento più pieno e più spedito della propria perfezione” (Gaudium et
spes,74).
Una simile prospettiva unisce il principio di socialità al principio di sussidiarietà. Ciò
significa che “una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una
società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla
in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti
sociali in vista del bene comune” (Centesimus annus, 48).
Come si intuisce, uno Stato democratico deve riconoscere la maggiore libertà
possibile alle istanze più prossime alla persona e allo stesso uomo singolo, pur dovendo
intervenire per creare il più possibile condizioni di uguaglianza circa il punto di partenza, e
per sostenere le persone e le aggregazioni valide ma fragili e incapaci di far valere i propri
diritti. “Si guardino i governanti dall’ostacolare i gruppi familiari, sociali o culturali, i corpi o
istituti intermedi, né li privino della loro legittima ed efficace azione, che al contrario
devono volentieri e ordinatamente favorire. Si guardino i cittadini singolarmente o in
gruppo dall’attribuire troppo potere all’autorità pubblica, né chiedano inopportunamente a
essa eccessivi vantaggi con il rischio di diminuire così la responsabilità delle persone,
delle famiglie e dei gruppi sociali” (GAUDIUM ET SPES,75). E’ questo rispetto della persona
singola e liberamente associata che, a esempio, induce il Magistero della Chiesa a
mettere in guardia da uno Stato assistenziale che attenui lo spirito di iniziativa e il coraggio
dell’impegno (cf Centesimus annus,48) nei settori più determinanti della vita.
Sembra del tutto logico che il principio di sussidiarietà non debba essere pensato e
applicato unicamente in senso verticale, vale a dire secondo i diversi gradi in cui si
struttura il pubblico potere (Stato, Regione, Provincia, Comune ecc.), ma anche e
soprattutto in base a motivazioni di tipo parentale, etnico, culturale, economico ecc. In altri
termini, il potere deve essere riconosciuto alle originalità dei singoli e delle varie
aggregazioni, e non unicamente all’interno della struttura dell’autorità pubblica stessa.
Anzi, “dove l’esercizio dei diritti viene temporaneamente limitato a causa del bene
comune, quando le circostanze sono cambiate, si ripristini il più presto possibile la libertà”
(Gaudium et spes,75): principio generale della Dottrina sociale della Chiesa è che “nella
società va rispettata la consuetudine di una completa libertà, secondo la quale all’uomo
deve essere riconosciuta la libertà più ampia possibile, e non deve essere limitata se non
quando e in quanto è necessario” (DIGNITATIS HUMANAE,7).
III. Profezia e impegno socio-politico
1) La testimonianza cristiana
L’inserimento dei credenti nella società ha congiuntamente due fini che sono
sintetizzabili nell’unico orientamento alla evangelizzazione - o alla nuova evangelizzazione
-: la testimonianza evangelica con la parola e con la vita; la promozione dell’uomo
considerato singolarmente e nel suo rapportarsi con fratelli di fede, di cultura, di
professione, di assistenza, di tempo libero ecc.
La testimonianza evangelica richiama e propone una verità e uno stile di vita che
inevitabilmente appare paradossale, ma che in realtà salva, sana e perfeziona l’umano. Si
tratta di annunciare l’avvenimento e la Verità e il fascino e le conseguenze etiche della
presenza di Cristo risorto come Figlio di Dio, modello dell’Uomo e Signore della storia.
Tale spinta propositiva della buona Notizia cristiana tende a raggiungere le singole
persone, ma a partire dalla Comunità ecclesiale e per giungere a nuove e sempre più
vaste, motivate e solide Comunità ecclesiali.
L’evangelizzazione non prende l’avvìo da illuse nostalgie di cristianità medievali. Si
proietta, invece, su un futuro dove la fraternità dei credenti può essere minoranza in una
determinata situazione umana, ma si orienta non solo a rendere cristiane le singole
persone, bensì a creare pure ambienti di pensiero e di vita che siano in accordo con e in
qualche modo ispirate al Vangelo.
Si intuisce così che la presenza dei credenti nella società si pone come richiamo
radicale alla conversione al Signore Gesù: un richiamo reso visibile all’interno di strutture
umane che sono da umanizzare sempre più dal di dentro, al modo del lievito e del sale
nella pasta.
Oltre a una esperienza di vita e a una proposta evangelica in seno a strutture
umane, è possibile, opportuno e talvolta necessario che vi siano presenze di strutture
suscitate da un atteggiamento di fede e proiettate verso una conversione incessante e
crescente.
La dimensione comunitaria della presenza cristiana nella società è motivata non
solo da ragioni sociologiche, psicologiche e pedagogiche di protezione e di stimolo alla
conservazione e alla crescita della fede. E’ motivata anche da ragioni profondamente
teologiche, dal momento che Dio non vuole salvare, per Cristo e nello Spirito,
individualmente le persone; le vuole, invece, salvare come un Popolo unito da vincoli
umani e soprannaturali.
L’osservazione lascia intuire come il Cristianesimo deve continuamente incarnarsi
in vari contesti culturali; deve correggere e sviluppare gli stili di pensiero e di vita che
incontra; deve, in qualche modo e in qualche misura, rendere conformi alle esigenze
cristiane gli ambienti in cui si svolgono le attività più vicine al centro della persona, quali
sono la famiglia, la scuola, l’educazione dei giovani, l’assistenza ai malati e alle persone
che soffrono la solitudine, il tempo libero ecc. Non si pretende di instaurare una società
parallela o contrapposta alla società umana in cui ci si muove. Si intende, piuttosto,
esprimere profeticamente una convivenza sociale che sia pienamente umana proprio
perché cristiana.
In questo sforzo i credenti non chiederanno ai pubblici poteri di essere considerati in
modo privilegiato. Esigeranno soltanto la libertà religiosa che si esprime nella vita
personale e nella vita aggregata: libertà religiosa che non costringe nessuno ad aderire a
una dottrina rivelata; che permette a tutti e a ciascuno di abbracciare una posizione di fede
o ateistica secondo il giudizio della propria coscienza o il proprio volere; libertà religiosa
che dovrà riconoscere anche forme di vita coerenti con il Vangelo, le quali presentano più
di un aspetto di sorpresa nei diversi settori della vita personale e sociale; libertà religiosa
che impegnerà il pubblico potere a riconoscere e a sostenere i cristiani, come altre
persone raggruppate, se e nella misura in cui i cristiani si renderanno visibili e costatabili
dentro la convivenza civile.
Il principio del rispetto della persona nelle sue scelte più profonde non esime la
persona stessa dal ricercare la verità. Difende, però, anche scelte errate, poiché il potere
civile si riferisce alla persona e non alla verità in quanto tale. Il principio che sostiene
questo stile di presenza e di attività pastorali e missionarie sta nella convinzione che “la
verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti
soavemente e insieme con vigore” (DIGNITATIS HUMANAE,1).
Non sembri superfluo annotare la convinzione secondo cui la vita di fede e di grazia
recupera, guarisce ed esalta l’umanità dell’uomo. In questo senso l’intelligenza, la volontà
e l’intera impostazione della vita dell’uomo e delle aggregazioni umane ricevono un
efficace stimolo dalla componente religiosa della persona e di convivenze civili. In questo
senso, ancora, la ricchezza culturale di convinzioni, di princìpi etici, di valori umani e di
esperienze autenticamente naturali è sostenuta e sublimata in modo singolare da una
cultura cristiana, o da culture cristiane, se si preferisce. Così la Chiesa può
straordinariamente collaborare alla salvezza e alla promozione di una convivenza civile
che sia rispettosa degli aspetti fondamentali, dei diritti e dei doveri, delle doti e degli
sviluppi dell’uomo. Si tratta di convinzioni, di atteggiamenti e di sensibilità che presentano
una loro validità anche teoretica e che non si pongono come postulati immotivati e
inconoscibili.
Va da sé che la proposta cristiana non può non urtare in più di un caso il modo di
declinare la vita umana. Il destino della profezia è sempre quello di richiedere ciò che
appare impossibile o/e pressoché insensato a una valutazione ottusa o anche solo
normale della realtà.
2) La presenza del credente nel campo politico, invece, sarà sempre protesa a trovare
un compromesso con le varie forze partitiche in campo. E’ evidente che, in base ai princìpi
accennati, l’ideale dei cristiani in politica non sarà quello di instaurare una sorta di Stato
teocratico. Essi, invece, dovranno tendere ad attuare quanto è possibile una forma di
Stato che non è elaborabile in base alla Rivelazione né alla sola Dottrina sociale della
Chiesa: lo Stato possibile dovrà, comunque, tener conto della libertà religiosa e delle
conseguenze che ne derivano.
I cristiani in politica, come del resto gli uomini di retto sentire, non potranno
orientarsi nemmeno a uno Stato che, sul piano legislativo, esecutivo e giudiziario, esiga
dai cittadini l’attuazione completa e perfetta di tutta la legge naturale. San Tommaso
osserverebbe che “non esiste una virtù di cui la legge non possa ordinare gli atti. Tuttavia
la legge umana non comanda tutti gli atti di tutte le virtù, ma soltanto quelli che sono
ordinabili al bene comune sia in maniera diretta ... sia in maniera indiretta. Come quando il
legislatore dà delle disposizioni atte a favorire la buona educazione che prepara i cittadini
a conservare il bene comune della giustizia e della pace” (Summa theologica, I-II, q96,
a3).
Questa notazione lascia intuire che la convivenza civile non può imperare la
perfezione umana e, ancor meno la perfezione cristiana. E, tuttavia, non si potrà sostenere
che la legge positiva umana debba limitarsi a registrare e a coonestare qualsiasi modo di
vivere diffuso. Tale legge ha sempre una finalità anche educativa. Perciò “in nessun
àmbito di vita la legge civile può sostituirsi alla coscienza, né può dettare norme su ciò che
esula dalla sua competenza, che è quella di assicurare il bene comune delle persone
attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro fondamentali diritti, la promozione della
pace e della pubblica moralità. Il compito della legge civile consiste, infatti, nel garantire
un’ordinata convivenza sociale nella vera giustizia, “perché tutti possiamo trascorrere una
vita calma e tranquilla con piena pietà e dignità” (1 Tim. 2,2). Proprio per questo la legge
civile deve assicurare per tutti i membri della società il rispetto di alcuni diritti fondamentali
che appartengono nativamente alla persona e che qualsiasi legge positiva deve
riconoscere e garantire” (Evangelium vitae,71).
Entro queste coordinate che riconoscono anche una qualche finalità pedagogica
alla legge, bisognerà pure stabilire un minimo di richiesta al di sotto del quale la legge
positiva non risulti più accettabile e per rendere operativa la quale i credenti e gli uomini di
buona volontà non possano cooperare. Insegna san Tommaso: “La legge umana viene
data per la generalità della popolazione in cui la maggior parte è formata di uomini non
perfetti nella virtù. Ecco perché non sono proibiti da quella legge tutti i vizi da cui i virtuosi
si astengono, ma soltanto quelli più gravi, dai quali è possibile ritrarre la massa; e
specialmente quelli dannosi per gli altri, senza la cui proibizione non può sussistere
l’umana società, quali l’omicidio, il furto e simili” (Summa theologica, I-II, q96,a2).
Il Magistero contemporaneo ribadisce questo insegnamento: “Se la pubblica
autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe un danno più grave nel
caso fosse proibito, essa non può mai accettare però di legittimare, come diritto dei singoli
- anche se questi fossero la maggioranza dei componenti la società -, l’offesa inferta ad
altre persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così fondamentale come
quello della vita” (Eangelium vitae,71; cf anche l’Istruzione della Congregazione per la
Dottrina della fede, “Donum vitae”, parte III).
E’ pur vero che l’Enciclica Evangelium vitae inclina a consentire ai cattolici
impegnati in politica il sostegno a una legge abortiva quando questa fosse restrittiva
rispetto a un’altra che si vuole emendare o sostituire (cf 73). E, tuttavia, rimane da
chiedersi se i cattolici in più di un caso non testimonino meglio il rispetto dei princìpi
minimali della legge morale rifiutandosi di cooperare anche a una decisione che può
sembrare il minor male possibile. Per non avallare leggi che, magari col pretesto degli atti
dovuti, rechino le firme di autorità civili dichiaratamente cattoliche. Del resto, bisognerà
essere molto prudenti nell’applicare i princìpi morali appena richiamati, quando delle leggi
permettono o addirittura sovvenzionano comportamenti lesivi nei diritti fondamentali della
persona. Il caso dell’aborto non è che un esempio. L’argomentazione vale anche per
l’eutanasia, la manipolazione genetica ecc. Senza dimenticare, analogicamente, la tutela e
lo stimolo alla crescita della famiglia ecc. Non si potrà, poi, dimenticare che la legge stessa
influisce nella creazione di una mentalità prevalente e di un costume diffuso.
Vi potranno essere situazioni in cui la rinuncia a un compito di governo nella
convivenza civile potrà avere maggiore influsso - un influsso profetico - che non il
cedimento continuo e progressivo a una cultura che non rispetta più i diritti inalienabili
della persona. Il principio del male minore non sembra applicabile in questi casi e,
comunque, se viene applicato in modo continuato e magari a contesti umani sempre più
gravi, può produrre un male maggiore.
Si impone al credente e alla Chiesa la responsabilità di creare una mentalità e uno
stile di vita sempre più conformi alla legge morale umana conosciuta in tutta la sua
profondità e in tutta la sua precisione specialmente alla luce della Rivelazione cristiana.
Anche questa finalità entra nel compito della evangelizzazione: in certi contesti la Chiesa
può porsi come quasi l’ultima e unica riserva di significato e di valore della vita umana in
tutti i suoi aspetti più rilevanti (cf Gaudium et spes,76).
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Gli accenni posti circa i vari problemi richiedono un impegno non delegabile da parte
di ogni credente e di ogni uomo di retto sentire, secondo le responsabilità, le modalità e le
capacità che ciascuno rinviene in se stesso.
L’opera del cristiano nella Chiesa si orienta, come si è rilevato, anche a far scoprire
e a valorizzare le doti umane della persona, soprattutto la ragione, la vera libertà e una
sana sensibilità. L’uomo, infatti, conosce se stesso pienamente e trova la possibilità di
attuarsi perfettamente soltanto in Cristo (cf Gaudium et spes,22).