È L’ORA DELLA CORRESPONSABILITÀ Veglia di preghiera per la Chiesa e l’elezione del nuovo Pastore Siamo invitati, mentre i Cardinali elettori sono riuniti in Conclave per l’elezione del nuovo Pontefice, a entrare anche noi nel cuore della Chiesa per accompagnare questo momento di trepidante attesa. Ci sono tanti modi per accompagnare tali avvenimenti di Chiesa. C’è chi se ne occupa a titolo di informazione; chi allo scopo di insinuare previsioni. Come deve essere invece il nostro accompagnamento in quanto Chiesa, in quanto comunità cristiana? Le letture che hanno accompagnato questa nostra Veglia di preghiera ci possono suggerire più di uno spunto. 1. Comunità in preghiera Il primo atteggiamento è quello suggerito dalla lettura degli Atti degli Apostoli (1,12-14) all’indomani della partenza di Gesù Risorto nel Mistero della sua Ascensione. Gesù che sale al cielo e ritorna alla pienezza di comunione con il Padre nello Spirito, non ritorna solo. Che cosa aveva detto Gesù nel cenacolo, prima della sua Passione, ai suoi futuri apostoli? “Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi” (Gv 14,18). È più che una Promessa, perché con il dono dello Spirito, a Pentecoste, la Promessa è diventata una realtà. È su questa Promessa che gli Apostoli si riuniscono nel Cenacolo con Maria, la Madre di Gesù ma ora anche madre della Chiesa nascente, “assidui e concordi nella preghiera” (At 1,12). Il racconto degli Atti precisa pure che, insieme agli Apostoli e Maria, erano presenti alcune donne e i fratelli di lui. È da questa piccola ma già significativa comunità cristiana che sale una incessante e corale preghiera. Perché anzitutto questo atteggiamento di preghiera? Pregare è mettersi alla presenza di Dio, così si diceva una volta. È entrare nella zona di influenza di una Presenza. È dialogo con un già Presente, non con un Assente. Diversamente, la preghiera diventa un monologo. È la presenza di Dio che non ci abbandona. È la Presenza di Gesù Risorto che resta il contemporaneo di tutti i tempi (S. Kierkegaard). È anche la Presenza ininterrotta del mandato di Gesù a Pietro: “Simone, Simone, io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma la fede dei tuoi fratelli” (Lc 22,31). Parliamo in questi giorni di “sede vacante”, ma questo non significa sede senza Pietro né senza il suo ministero, che invece rimangono ininterrottamente da duemila anni. La successione riguarda solo la persona chiamata a interpretare il mandato dato a Pietro, che invece resta (P. A. Sequeri). Così il primo motivo di questa assidua e concorde preghiera che sale anche oggi da tutta la Chiesa è un vivo ringraziamento per l’ininterrotta presenza del ministero di Pietro, prima di ogni altro ringraziamento alla persona dell’ultimo Pontefice (come abbiamo fatto qui in Ghiara nella Veglia per Giovanni Paolo II) o alla persona che sarà designata quale successore o, meglio, come ecumenicamente ha preferito dire O. Culmann, quale “Vicario di Pietro”. Insieme alla preghiera di ringraziamento, sale anche la preghiera di domanda, di un “Pastore secondo il cuore di Dio” (cf. Ger 3,15). La preghiera di domanda è importantissima. Non riguarda solo le cose materiali ma, prima ancora, quelle spirituali, come ci insegnano le domande: “Padre nostro che sei nei cieli; sia santificato il Tuo nome; venga il Tuo regno; sia fatta la Tua volontà come in cielo così in terra” (Mt 6,9-10). Non è detto che domandare, e domandare a Dio, sia perfettamente inutile, poiché Dio sa già tutto ciò di cui abbiamo bisogno, e saprebbe già chi sarà il nuovo Pontefice. Dio sa, ma non lo sa chi prega! Non lo sa la Chiesa che prega, e chiede che cosa significhi in concreto fare la volontà di Dio in questa determinata circostanza che essa sta vivendo. Secondo il Vangelo, anche la domanda è una forma di povertà di fronte a Dio. È confessare di avere bisogno di luce, di discernimento, di corresponsabilità nel sapere interpretare i segni di Dio nella storia. 2. Spiritualità di comunione Dopo l’atteggiamento assiduo e concorde della preghiera, con la seconda e la terza lettura proposte in questa Veglia (rispettivamente 1 Pt 2,4-9; 4,10-11 e Mt 16,13-16), la Parola di Dio sottolinea l’atteggiamento di ricerca della “spiritualità di comunione”, come si esprimeva Giovanni Paolo II nei passi che abbiamo meditato (Novo Millennio Ineunte 43-45) dalla lettera ai cristiani del terzo Millennio e quindi anche per il momento che stiamo vivendo. Il fondamento di questa spiritualità, come ricorda l’apostolo Pietro nella sua Prima Lettera, è Cristo, “pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio” (1 Pt 2,4). Questo fondamento cristologico a tutta la costruzione della Chiesa è stato strettamente legato alla confessione di Pietro, come ci ha richiamato la pagina del Vangelo di Matteo: “Voi chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo” (Mt 16,15-16). La domanda su Gesù Cristo è la domanda centrale del Vangelo, e resta ancora la domanda ineludibile nel cammino della Chiesa di oggi. Non posso dimenticare quello che un mio amico e maestro mi faceva notare tempo fa: “All’epoca di Giovanni XXIII – il papa buono – si pensava che dovesse bastare un aggiornamento del modo di vivere la vita della Chiesa (nella liturgia, nella catechesi, nella carità). È venuto Paolo VI il quale ha posto un problema più radicale con la domanda: Chiesa, cosa dici di te stessa?. Ora è arrivato il momento di andare oltre e di porci quest’altra domanda: Gesù Cristo, chi è per me?”. È una domanda inquietante, se pensiamo ad un contesto come l’attuale, sempre più marcato dal pluralismo religioso. Alla domanda: “Voi chi dite che io sia?”, Pietro ha risposto: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Anche noi siamo pronti a dire: “Tu sei il Figlio del Dio vivente”. Eppure questa risposta non basta. Non basta la professione di una fede formale. Occorre la professione dell’amore. Gesù ha lodato Pietro, non solo perché avesse trovato le parole giuste per definire la sua identità. Gesù lo ha lodato, perché in quel “Tu sei” ha sentito palpitare l’amore, la fiducia, l’emozione di una persona che si consegnava totalmente a Lui, riconoscendo in Lui il senso pieno della sua vita e della storia del suo popolo. Come non pensare attorno a questa confessione di fede e di amore il ministero petrino e, in stretta correlazione con esso, la collegialità episcopale? E così ripensare il loro stesso servizio alla spiritualità della comunione? “Fede mistica”, ha definito qualcuno la fede di Pietro: fede che parla alla mente, senza inaridire il cuore. Forse, è anche questo un tratto del “Pastore secondo il cuore di Dio”, per cui noi siamo invitati a pregare. 3. L’umanità del Papa Colpisce nella quarta lettura, tratta dalla Seconda lettera di Paolo ai Corinti (12,7-10), la umanità dell’Apostolo che proprio nell’esercizio del suo ministero scopre le ragioni della sua umana debolezza, affinché la grazia abbia il primato. Ma è la stessa rivelazione che Gesù fa a Pietro, nel momento dell’Ultima Cena, quando raccomanda a Pietro di confermare i fratelli, e nello stesso tempo gli fa conoscere la sua debolezza umana, il suo bisogno di conversione. È facile la tendenza a sottolineare gli aspetti umani della figura del Papa, che in qualche modo compongono la sua personalità. Anche le doti umane, quando vengono valorizzate per la costruzione del Regno di Dio e la comunicazione del Vangelo in un mondo che cambia, servono alla Chiesa. Bisogna certo non sottovalutare la sollecitazione vocazionale e la disponibilità al servizio, iscritte nelle doti personali di ciascuno. Questo vale per il cristiano, altrettanto per il Papa. E, tuttavia, i doni dello Spirito non presuppongono necessariamente le doti che umanamente sembrerebbero ad essi più corrispondenti. Non dimentichiamo la confessione dell’apostolo Paolo: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti… ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1 Cor 1,27-29). È questo lo stile dell’agire di Dio nella storia, che la Scrittura attesta frequentemente e che non ha certo il significato di “demolire” l’umanità della persona eletta, perché Dio non è “geloso”. È piuttosto il segno della libertà di Dio e della sua iniziativa. Si dice che ci sia voluto un Papa come Giovanni XXIII per decidere di convocare il Concilio che ha segnato la storia della Chiesa in questi nostri tempi. Un Paolo VI non avrebbe – è d’obbligo il condizionale – così tempestivamente preso la decisione. E, però, c’è voluto Paolo VI, una volta convocato il Concilio, per portarlo avanti e dare al Concilio il volto che si attendeva, e che ancora rimane anche per chi sarà chiamato a interpretarne il frutto (cf. lo stesso Testamento di Giovanni Paolo II). Conclusione Anch’io dico con le parole dell’omelia stamattina in San Pietro che “tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane - dal Papa all’ultimo dei cristiani - è quanto abbiamo seminato nelle anime umane: l’amore, la conoscenza, il gesto capace di toccare il cuore, la parola che apre alla gioia del Signore”. Pregare per l’elezione del Papa è allora pregare anche per la nostra elezione alla fede e alla testimonianza nel mondo, perché ambedue portino il frutto che rimane. + Adriano VESCOVO Reggio Emilia, Basilica della Ghiara, 18 aprile 2005