Eugenetica, biopolitica e modernizzazione.
Un intreccio occidentale.
di Alessandro Berlini
documento tratto dal sito Museo delle Intolleranze e degli Stermini – www.romacivica.net/amis
1. Le pratiche eugenetiche andrebbero analizzate nella loro specificità, prendendo in
considerazione, per ogni singolo contesto, una serie di variabili: il ruolo avuto dagli
ambienti scientifici ed i loro legami con le istituzioni, la relazione con l’ideologia politica
dominante, la persecuzione di certe categorie di soggetti piuttosto che di altre, la
dimensione dell’ethos collettivo, la struttura sociale ed economica. Esistono
evidentemente differenze notevoli tra la Germania nazista, la Svezia socialdemocratica
della crescita economica degli anni ’40 e ’50 e gli Stati Uniti del puritanesimo. E le politiche
di sterilizzazione forzata che caratterizzarono questi paesi meriterebbero ognuna un
discorso autonomo, perché frutto di sviluppi ed evoluzioni specifiche, e perché funzionali al
raggiungimento di differenti obiettivi politicamente imposti. Se, ad esempio, il welfare
scandinavo utilizzò le sterilizzazioni per tagliare la quota di assegni di maternità da
destinare a madri indigenti, questa razionalità economicistica, seppure ridondante, fu un
elemento secondario rispetto al ruolo avuto dal delirio del sangue ariano in Germania,
dove dal 1934 al 1938 vennero sterilizzate circa 300.000 persone (Friedlander 1997:4143). Se i coniugi Myrdal inciteranno il Parlamento svedese ad impedire la riproduzione di
individui “intellettualmente inferiori” perché ritenuti incapaci di provvedere da soli alle
esigenze economiche dei propri figli (Colla 2001:51), Hitler, molto più semplicemente,
sosterrà la necessità della loro eliminazione in quanto “scandalo della razza germanica”,
incitando a “procreare creature fatte a somiglianza del Signore e non aborti tra l’uomo e la
scimmia” (Hitler 1933:48).
Inoltre, si dovrebbero analizzare anche le trasformazioni cui le politiche di
sterilizzazione sono andate incontro nel corso dei decenni all’interno dei medesimi
contesti, in relazione a trasformazioni storiche le quali hanno veicolato anche una
differente sensibilità a riguardo della devianza sociale, della “anormalità”, delle deficienze
di ordine fisico o mentale; e, parallelamente, un diverso atteggiamento nei confronti delle
categorie marginali o svantaggiate, che ha oscillato, a seconda del periodo, dalle
“affirmative actions” alla discriminazione ed alla persecuzione. Così negli Stati Uniti, dove
le sterilizzazioni continuano per oltre settant’anni, esse si ritorcono inizialmente soprattutto
nei confronti di delinquenti ospiti di prigioni e riformatori; negli anni ’20 esse prendono di
mira gruppi etnici “inferiori” nel nome della salvaguardia della razza WASP, mentre in
seguito la Grande Depressione suggerisce la sterilizzazione di massa di molti soggetti
mentalmente o moralmente irresponsabili internati presso istituzioni, al fine di poterli
rimettere in libertà senza il rischio che essi mettessero al mondo una progenie degenerata
e, nel contempo, limitando le spese assistenziali. Inoltre, se in alcuni contesti le
sterilizzazioni riguardano quasi esclusivamente pazienti di manicomi o malati di mente, in
altri esse furono indirizzate principalmente verso le “classi pericolose”, in relazione ad un
atteggiamento di sostanziale intolleranza verso ogni forma di devianza sociale che non
aderisse al paradigma della cittadinanza normalizzata, accanendosi nei confronti della
povertà e della marginalità come meccanismo di birth-control finalizzato ad ostacolare
l’esplosione demografica di certe classi sociali (Reilly 1991:93). E’ questa una distinzione
piuttosto schematica ed approssimativa, ma che suggerisce le complessità e le variabili di
cui un’analisi approfondita dovrebbe tener conto.
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2. Si tratta dunque di questioni da prendere in considerazione attraverso una
prospettiva non fossilizzata, che non consideri il caso nazista in maniera paradigmatica,
come “esempio” di cui le altre politiche eugenetiche sarebbero una imitazione su scala
ridotta, e che soprattutto non riduca le sterilizzazioni al rango di una semplice eccezione
all’interno dell’evoluzione di un sistema occidentale storicamente democratico e garante
dei diritti e delle libertà fondamentali. Gli uomini politici che oggi parlano del passato
eugenetico delle loro nazioni, facendo le scuse ufficiali e promettendo risarcimenti, fanno
appello alle retoriche di una specie di follia generalizzata che avrebbe interessato alcuni
paesi in conseguenza dell’imporsi di congetture scientifiche o pianificazioni
socioeconomiche che avrebbero all’epoca dimostrato l’utilità delle sterilizzazioni,
presentandole come uno strumento di filantropia sociale. Si gioca così addirittura sulle
“buone intenzioni” che avrebbero caratterizzato le pratiche di sterilizzazione, considerate
alla stregua di un intervento demografico finalizzato al benessere della società. In ogni
caso, il tutto viene accantonato come un episodio triste, ma indiscutibilmente accidentale,
circoscritto alla storia di alcuni contesti; una parentesi destinata a restare tale, e dopotutto
a scomparire in confronto a ciò che di buono è stato fatto in quegli stessi paesi, per il resto
metafora dell’arricchimento generalizzato, della civiltà e del progresso……
Negli Stati Uniti, in Canada, in Svizzera, nei paesi dell’area scandinava le sterilizzazioni
sono continuate fino agli anni ’70. Questo nonostante la sbandierata indignazione del
mondo “civile” nei confronti della scoperta dei crimini dell’eugenetica nazista, nonostante
nel 1948 molti di questi stessi paesi avessero sottoscritto la “Convenzione sulla
prevenzione e repressione dei crimini di genocidio”, nella quale si equiparava
esplicitamente la sterilizzazione alle altre forme di sterminio (Chalk – Jonassohn 1990:44),
nonostante gli scienziati avessero ormai ampiamente dimostrato l’assoluta infondatezza
delle teorie ereditariste attraverso le quali era stata in precedenza legittimata l’eugenetica
di Stato (Dubinin 1979:139-140). E’ chiaro allora che l’eugenetica non si può spiegare in
relazione ad una congiuntura di temporaneo ostracismo nei confronti di certe categorie di
individui. Si tratta di una questione che trascende la semplice pianificazione demografica
ed economica di alcune nazioni, in uno spazio geograficamente e cronologicamente
delimitato. Essa coinvolge più profondamente lo stesso funzionamento dello Stato
contemporaneo, in quanto l’eugenetica, al pari di altri meccanismi e istituzioni del corpo
sociale, ha funzionato come principio di segregazione ed eliminazione, servendo la
strategia globale del conservatorismo e della standardizzazione sociale (Foucault
1998:58).
3. Indipendentemente dalle responsabilità che si vogliano attribuire alle dottrine
pseudoscientifiche che, nel corso della seconda metà dell’Ottocento, sposarono il credo
della degenerazione elaborando una serie di congetture che verranno poi riprese
strumentalmente per dimostrare, dal punto di vista “scientifico”, l’utilità e la liceità delle
sterilizzazioni, bisogna constatare che questo fermento intellettuale fu condizionato fin
dalle sue origini da mutamenti sociali che hanno caratterizzato lo Stato moderno.
Criminologia, psichiatria, eugenetica non vengono a svilupparsi nell’Ottocento in una
cornice vuota. La maturazione di questi nuovi saperi è innanzitutto il frutto di una presa di
coscienza, a livello collettivo, della patologia e della devianza. La società non percepisce
la malattia mentale come una condizione naturale; né la criminalità o la marginalità sociale
vengono comprese in quanto derivanti da un’intrinseca malattia dello stesso sistema che
si vorrebbe difendere dall’invasione dei soggetti “nocivi”. Man mano che si va fissando un
prototipo di “normalità” e di “cittadinanza”, la devianza, di qualsiasi origine essa sia, viene
“disumanizzata”, e cresce la necessità di istituzioni finalizzate al suo controllo e alla sua
repressione. La storia del XIX secolo è anche la storia di un esasperarsi delle forme di
osservazione, isolamento e repressione della devianza. Il carcere, l’ospedale, il
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manicomio, gradualmente perdono la loro funzione rieducativa, e divengono il luogo di una
“normalizzazione” forzata, oppure di un’emarginazione “preventiva”. Questo mentre va
manifestandosi l’esigenza di una omologazione sempre più forte, alla quale tendere
rimuovendo quegli elementi di regresso che la società non chiede necessariamente di
riportare all’interno di questa parabola normalizzatrice, ma dai quali spera piuttosto di
vedersi purificata. Vengono così rapidamente stemperati gli entusiasmi dell’umanitarismo
illuminista. A prevalere è l’esigenza di difendere la società, di fare del carcere e del
manicomio il luogo della manipolazione e della repressione violenta della devianza, il
luogo in cui la biopolitica impera attraverso i suoi meccanismi di normalizzazione ed
esclusione. Da qui nasce l’esigenza di tutta una serie di figure preposte alla realizzazione
di questo progetto. Il loro contributo deve realizzarsi nella costruzione di un confine tra
normalità e patologia, tra rieducazione ed isolamento, tra possibilità rigenerative e
inesorabile degenerazione. E cresce la consapevolezza che moltiplicazione dei poteri è
innanzitutto moltiplicazione dei saperi, e che il controllo sull’individuo non può prescindere
da una sua conoscenza dettagliata, fisica e mentale. Si devono identificare così quelle
soglie di devianza “tollerabile” entro le quali è possibile difendere e perpetuare le
preesistenti strutture del sistema. Su questo processo le analisi di Michel Foucault, in
particolare Sorvegliare e punire e La volontà di sapere, sono un riferimento quanto mai
indicativo per comprendere l’evoluzione di certi meccanismi.
Fin dalla sua nascita, come fenomeno scientifico, l’eugenetica può essere dunque
considerata come l’effetto, più che come la causa, della trasformazione storica che
nell’Ottocento iniziava ad esprimere le sue istanze di controllo sociale, e che nel
Novecento porterà ad una situazione di aperta intolleranza nei confronti della devianza e
della degenerazione. Essa si inserisce nel quadro più generale del positivismo, con la sua
smania misuratrice, con la sua fiducia nella quantificazione matematica dei fenomeni
sociali e nella possibilità di controllare e determinare scientificamente quegli stessi
fenomeni (Villa 1985:37-86). Nelle intenzioni di Francis Galton, “inventore” dell’eugenetica
(intesa come disciplina scientifica), essa sarebbe dovuta essere nient’altro che “studio dei
fattori sotto controllo sociale che possono migliorare o peggiorare la qualità razziale delle
generazioni future” (Galton 1883:17). Un intervento “progressista”, finalizzato al
miglioramento biologico e morale della specie umana intesa nella sua totalità, da
realizzare avvalendosi di studi statistici sulla popolazione. Per quanto apprezzabili fossero
le intenzioni di Galton, i risultati da lui ottenuti facevano risalire non solo i fenomeni di
degenerazione biologica, ma anche quelli di patologia sociale, a presunte deficienze nel
patrimonio genetico di delinquenti, poveri ed idioti, che si sarebbero poi inesorabilmente
propagate per via ereditaria ai loro discendenti. Parallelamente, altri avevano già
sottolineato il legame deterministico che intercorreva tra devianza ed appartenenza etnica.
Di fatto, fenomeni come la criminalità, la prostituzione, l’epilessia, la follia, l’alcolismo
erano stati considerati come una regressione agli stadi evolutivi inferiori, appendici di
barbarie e di selvatichezza nella società civile, retaggio di “sangue africano” o di un
imbastardimento con razze “inferiori”. Fu il Traité des dégenérescences phisique,
intellectuelles et morales de l’espèce humaine (1857) dell’alienista francese Morel ad
aprire la strada in tal senso; ad esso seguirono, nei decenni successivi, numerose altre
opere, fra cui L’uomo delinquente di Cesare Lombroso, che trasformarono velocemente
l’ideologia della degenerazione ereditaria in un vero e proprio dogmatismo. Esso,
saldandosi con l’eugenetica galtoniana, determinò la costituzione di un ampio fronte
scientifico (dalla biologia, alla psicologia sociale, all’antropologia, alla sociologia, al diritto,
alla craniologia) che, rivendicando l’esattezza di quelle congetture, iniziò verso la fine
dell’Ottocento ad auspicare un intervento attivo che impedisse il propagarsi delle tare
ereditarie. E’ impossibile qui rendere conto di questa transizione, e degli intrecci tra
scienza e politica nel Novecento; ma va sottolineato che ciò che noi intendiamo per
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“scienza”, lungi dal possedere requisiti di autonomia, assolutezza e trascendenza, è in
realtà un prodotto culturale dell’occidente moderno e contemporaneo, e come tale ne
condivide l’aspirazione alla razionalizzazione ed alla “fabbricazione del mondo”, nonché la
subordinazione dell’etica alle ragioni della pratica. Queste connessioni, di cui quella
inerente la politicizzazione dell’eugenetica rappresenta solo un esempio, sono stare
smascherate in maniera eccellente, oltre che dal già citato Foucault, dalla critica della
Scuola di Francoforte. In questo quadro la scienza non sarebbe semplicemente un mezzo
per regolare la vita “socio-politico-economico-morale”, ma sarebbe innanzitutto
un’ideologia, che maschera e al tempo stesso legittima gli interessi del gruppo dominante
che la sostengono (Tambiah 1993:208-216).
4. Le prime sterilizzazioni eugenetiche, compiute sia in Europa (Vervaeck 1936:69) che
negli Stati Uniti (Reilly 1991:30) negli anni ’90 del XIX secolo, vengono praticate per effetto
della solerzia di alcuni chirurghi, probabilmente convinti di stare così compiendo un atto di
filantropia sociale. Questa fu semplicemente la “naturale” conseguenza sperimentale delle
teorizzazioni sulla degenerazione, il tentativo degli scienziati di verificare la possibilità di
ostacolare il diffondersi di certe patologie. Il loro esempio venne però seguito da direttori di
istituzioni di internamento, mentre iniziarono ad essere compilati entusiastici (quanto
immaginari) resoconti dei risultati positivi ottenuti utilizzando come cavie detenuti o malati
di mente. Le istituzioni cominciarono, in breve tempo, a prendere seriamente in
considerazione l’eugenetica come strumento in grado di risolvere certi scompensi sociali e
nel contempo di limitare le spese assistenziali. Nel frattempo, vengono costituiti istituti di
ricerca ed associazioni eugenetiche attraverso grossi finanziamenti da parte di ricchi
industriali come Carnegie, Rockfeller, Harriman, Krupp (Allen 1975:31). E’ a questo punto
che inizia a delinearsi il confine tra l’eugenetica come ideologia scientifica e l’eugenetica
come strumento biopolitico di pianificazione demografica e di normalizzazione. Da
strumento di salvaguardia biologica della specie, l’eugenetica viene trasformata in
dispositivo di pianificazione “demografica”, posto a difesa dell’integrità non solo razziale,
ma anche morale, economica, sociale della nazione.
Se si vogliono cogliere dunque delle affinità tra le pratiche eugenetiche, al di là di ogni
possibile specificità contestuale, esse vanno analizzate alla luce del rapporto esistente tra
lo Stato Sovrano contemporaneo (sia esso totalitario, socialdemocratico o liberale) e la
politicizzazione della “nuda vita” (Agamben 1995). L’applicazione di politiche di
sterilizzazione forzata, la proibizione di matrimoni interrazziali, lo sterminio delle “vite
indegne”, o la restrizione dei flussi immigratori, tutti provvedimenti in qualche modo
finalizzati ad una bonifica del corpo sociale, sono qualcosa di molto di più del semplice
sviluppo dell’ossessione degenerazionista ottocentesca, implicando il coinvolgimento di un
apparato burocratico tipicamente “moderno”, e capace di trasformare il pregiudizio
pseudoscientifico in “eugenetica di Stato”. E fu probabilmente proprio il processo di
burocratizzazione dell’eugenetica, comportando il coinvolgimento di istituzioni politiche,
giudiziarie, mediche, poliziesche, scientifiche, propagandistiche, a permettere che le
sterilizzazioni fossero praticate nel più o meno tacito consenso generale, e che le reazioni
pubbliche venissero soffocate, o rimanessero circoscritte a frange della società prive del
potere di incidere significativamente sulle scelte politiche.
In questo senso, la logica della “appropriazione della vita” e quella della sua
degradazione a “risorsa umana” non appartengono specificamente né al totalitarismo né a
nessun’altra delle forme di organizzazione politica contemporanea, ma sono implicite, più
profondamente, nel processo di modernizzazione. Riprendendo le considerazioni di
Zygmunt Bauman sull’olocausto, si deve ritenere anche l’eugenetica un meccanismo
messo a punto “nell’ambito della nostra società razionale moderna, nello stadio avanzato
della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo culturale umano”, e come tale “un problema
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di tale società, di tale civiltà e di tale cultura” (Bauman 1992:11). Il principio di
segregazione, repressione, epurazione ha funzionato nel Novecento al di là dei limiti
geografici e cronologici della parentesi nazista, e le politiche di sterilizzazione ne sono un
esempio. Del resto basta riflettere attentamente sui molteplici strumenti di “gestione attiva
delle tendenze demografiche” dello Stato contemporaneo, riprendendo un’altra formula di
Bauman, per rendersi conto che esse non sono state un’eccezione di particolare
recrudescenza. Lo Stato contemporaneo ha bisogno di negare le contraddizioni che esso
stesso produce, e lo fa relegando nella patologia certi comportamenti che trovano
viceversa origine negli squilibri economici e sociali. Lo Stato contemporaneo ha bisogno di
esorcizzare e censurare le proprie ingiustizie condannando all’invisibilità sociale e
all’emarginazione quelle categorie ritenute destabilizzanti in relazione ai paradigmi di
ordine e disciplina, perché “devianti” o “improduttive”. Il carcere, il manicomio e tutte quelle
strutture che Goffman definisce come “istituzioni totali” (Goffman 1968:34), intese nella
logica della bonifica sociale e dell’esclusione, e non in quella dell’assistenza o della
punizione, funzionano isolando dalla realtà sociale la devianza, come una frontiera
insormontabile che definisce il discrimine tra degenerazione e normalità. In quest’opera di
profilassi sociale la discriminazione, la segregazione, la censura della marginalità o anche
della semplice diversità, sono funzionali ad un effetto scenico, quello cioè di far apparire la
realtà il più possibile ordinata, omogenea, priva di contraddizioni e squilibri. Funzionali ad
ottenere il consenso sociale attraverso una rappresentazione edulcorata di quel tipo di
sistema, presentato come il migliore, anzi l’unico, possibile.
5. Un ulteriore elemento è da tenere in considerazione nell’analizzare i meccanismi
biopolitici moderni in generale, e le politiche di sterilizzazione in particolare. “Si dovrebbe
parlare di bio-politica per designare ciò che fa entrare la vita e i suoi meccanismi nel
campo dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un agente di trasformazione della vita
umana” (Foucault 1978:126). E’ dunque un calcolo utilitaristico che sottende le relazioni
Stato-individuo: il fatto che la cittadinanza sia normalizzata, implica così che essa sia
produttiva. La popolazione deve partecipare attivamente al benessere collettivo, essere
subordinata ad un insieme di regole di “convivenza civile”, essere perfettamente inserita
nell’ingranaggio sociale, fare il “proprio dovere”. Chi non produce, alla stregua di un
parassita, va eliminato. E’ questa la logica che ha accompagnato l’eugenetica, legandosi
così all’etica taylorista della produttività e dell’efficienza. In questo senso, il ruolo della
propaganda fu fondamentale, in tutti i paesi che praticarono le sterilizzazioni, per ottenere
la legittimazione pubblica necessaria affinché venissero considerate come una zavorra per
la società quelle categorie (vagabondi, disabili, poveri) che non partecipavano al processo
produttivo, che anzi fiaccavano la forza dello Stato sfruttando il lavoro altrui.
Se il concetto di “vita inutile” è ridondante nella propaganda nazista che porterà allo
sterminio dei disabili e dei malati di mente nel coso della “Aktion T4”, la razionalità
economicistica che determinò questo esito tanto radicale può essere chiamata in causa
solo parzialmente a riguardo della Germania. Si tratta di una questione controversa.
Qualcuno, movendosi da una posizione giustificazionista, ha provato a ricondurre lo
sterminio degli handicappati a motivazioni congiunturali, in relazione con l’inizio della
seconda guerra mondiale e della supposta necessità di limitare il più possibile le spese di
assistenza e mantenimento ad essi destinate (Saetz 1985:50-56). Per quanto una
spiegazione in termini economici non sia del tutto da scartare, per quanto lo sterminio
degli handicappati potesse essere considerato un “investimento” in proiezione futura, esso
comportò una notevole mobilitazione di uomini e risorse, difficilmente conciliabile proprio
con lo stato di guerra (Agamben 1995:156-157). Le “vite senza valore” erano tali in un
mondo in cui l’aderenza biologica e morale al prototipo dell’homo germanicus costruito dal
nazismo era più importante di quella all’homo economicus. Molto più probabilmente, il
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motivo principale che portò al progetto di eutanasia è da inquadrare nella prospettiva
dell’arianesimo.
Un rapporto molto più deterministico tra la diffusione geopolitica della razionalizzazione
taylorista e le pratiche eugenetiche nei confronti delle categorie “improduttive” esiste
invece a riguardo dei paesi dell’area scandinava e degli Stati Uniti. Da un punto di vista
culturale, non è un caso che i paesi a mentalità “latina”, primo fra tutti l’Italia, in cui
l’individualismo e le ragioni dell’ottimizzazione economica non si erano viceversa
affermate nella prima metà del XX scolo, non presero mai seriamente in considerazione la
possibilità di introdurre leggi eugenetiche (Pogliano 1984:96). Curiosamente, il rapporto
tracciato da Max Weber tra puritanesimo e calvinismo da un lato, e “spirito del capitalismo”
e dell’individualismo dall’altro, sembra essere una chiave di lettura per analizzare questa
differenza, se si considera il ruolo svolto dalla diffusione di una mentalità, più che di una
religiosità, puritana e calvinista in paesi come la Svezia o gli Stati Uniti. Se, soprattutto, si
considera quanto la filosofia della “razionalizzazione”, per usare direttamente un termine
weberiano, abbia esteso i suoi tentacoli dalle risorse economiche a quelle demografiche,
di fatto “economicizzando” queste ultime. In generale, ad essere colpite dalle
sterilizzazioni furono, in questi paesi, quasi esclusivamente quelle categorie o quelle classi
sociali la cui condizione, oltre che socialmente destabilizzante, era economicamente
precaria, tanto che le sterilizzazioni, lungi dall’essere strumento di eliminazione delle tare
biologiche, furono il mezzo per impedire la nascita di bambini da genitori poveri o
comunque impossibilitati a mantenerli, bambini che sarebbero andati a gravare sulla
collettività privandola, attraverso tasse da utilizzare nel sistema assistenziale, di capitali
che altrimenti sarebbero potuti essere reinvestiti.
In Svezia, dopo il 1945, gli interventi di sterilizzazione interessarono quasi
esclusivamente donne. Delle circa 63.000 sterilizzazioni effettuate in tra il 1934 ed il 1976,
più del 95% riguardarono donne, con punte del 99% dopo il 1965 (Broberg – Tydén
1996:109-110). Ad essere colpita fu cioè la categoria di persone maggiormente soggetta
ad incidere negativamente, col proprio comportamento “irresponsabile”, sul bilancio dello
Stato. Garantendo il sistema di welfare gli assegni di maternità, si scelse di destinare
questi ultimi solo a quelle donne la cui condizione socioeconomica e culturale era
perfettamente corrispondente ai canoni del modello svedese di “buona” cittadinanza.
Coloro che, viceversa, perché madri non sposate e quindi considerate “sessualmente
disinibite”, o perché “troppo prolifiche” rispetto alle proprie possibilità economiche,
venivano considerate come una fonte di sperpero ed un modello di devianza, divennero
automaticamente potenziali vittime delle sterilizzazioni proprio per la marginalità che le
caratterizzava, malgrado le diagnosi che motivavano l’intervento parlassero di “idiotismo”,
di “irresponsabilità morale” o facessero riferimento a presunte tare ereditarie (Runcis
1998:355-371). Per analoghe ragioni, le sterilizzazioni colpirono anche donne appartenenti
ad una minoranza di itineranti, i Tattare, considerati degli “improduttivi per eccellenza”
rispetto al modello organicistico svedese, rifiutandosi di vivere nei quartieri-dormitorio e di
lavorare nelle fabbriche (Colla 2000:129-131). Un’evoluzione in senso sessista
dell’eugenetica di welfare caratterizzerà tutti i paesi dell’area scandinava. Anche in
Finlandia, Norvegia e Danimarca, paesi che, tra il 1929 ed il 1935, predisposero come la
Svezia una legislazione di bonifica nazionale, l’applicazione della sterilizzazione
coinvolgerà quasi esclusivamente donne, in una percentuale che si attesta intorno al 90%
(Roll-Hansen 1996:261-262). In tutti questi paesi si impose un ethos nazionale incline a
travalicare il diritto dei singoli in nome del “benessere collettivo”. Le donne, rappresentate
come un elemento non determinante dal punto di vista della crescita economica e del
progresso sociale, non dovevano possedere la libertà di influire negativamente su quel
processo attraverso comportamenti moralmente “anarchici”, o riproducendo la marginalità
che le caratterizzava attraverso i propri figli. L’unica funzione che la società patriarcale
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riconosceva loro, quella della crescita demografica, veniva così razionalizzata in nome
della qualità, della conformità ad un ideale modello di “cittadinanza desiderabile”, e
circoscritta così solo a coloro che, non tanto per genealogia, quanto per status sociale e
per ossequio alla norma, potevano esibire un immaginario certificato di “buona condotta”.
Del discorso ottocentesco sulla degenerazione e sul miglioramento delle qualità
biologiche della specie, se si eccettua come detto il caso della Germania nazista, non
rimarrà altro che una vaga retorica. Il mito della trasmissibilità ereditaria della devianza
sociale, smentito nei fatti dagli scienziati tra gli anni ’20 e ’30, resterà l’alibi ufficiale per le
sterilizzazioni. In maniera alquanto paradossale, i testi di legge, introdotti quando le
congetture ereditariste non avevano ancora perso del tutto di credibilità, non furono mai
modificati successivamente; tanto che, in teoria, si poteva essere sterilizzati ancora negli
anni ’60 perchè potenziali propagatori per via generazionale di immaginari geni della
povertà o della prostituzione. E’ chiaro che, nella sostanza, si trattava semplicemente di
una discriminazione finalizzata ad escludere dal processo riproduttivo quelle categorie
marginali che, per condizioni strutturali e non certo per eredità genetica, avrebbero messo
al mondo nuovi marginali, considerando il disinteresse istituzionale nel prendere in
considerazione gruppi etnici o sociali svantaggiati con politiche che viceversa andassero a
modificare lo status quo, il modello di “normalità” accettato nel senso comune, i
meccanismi di discriminazione, emarginazione, sperequazione.
6. Se si prende in considerazione il caso degli Stati Uniti, questo processo è osservabile
in maniera evidentissima. Ancora negli anni ’70, quando vennero eseguite le ultime
centinaia di sterilizzazioni, quasi esclusivamente su donne con lievi disturbi mentali (la
maggior parte delle quali classificata come ritardata in base a discutibilissimi test del
quoziente d’intelligenza) la ragione ultima degli interventi era quella di evitare la nascita di
bambini che madri “irresponsabili” non avrebbero potuto fare altro che iniziare alla
devianza o alla criminalità, con inevitabili ripercussioni negative sul sistema sociale ed
economico (Brantlinger 1995:143-147). Quando le prime leggi eugenetiche, a cavallo del
primo decennio del Novecento, vennero introdotte, esse si rivolgevano innanzitutto nei
confronti dei criminali-nati, o dei “morons”, un termine coniato dall’eugenista Goddard per
indicare gli “imbecilli d’alto grado” (Friedlander 1997:7), in un momento in cui
un’innumerevole serie di studi svolti negli Stati Uniti conferiva (basandosi su congetture
per altro assolutamente fantasiose) ancora una certa credibilità alle ipotesi della
degenerazione ereditaria (Gould 1985:156-160). Ai “morons” la giurisprudenza dei circa 30
Stati americani che predisposero leggi eugenetiche aggiunse, a propria discrezione, altre
categorie di soggetti verso i quali era ritenuto “lecito” e “consigliabile”, sempre utilizzando
come giustificazione teorie pseudoscientifiche, eseguire l’intervento di sterilizzazione:
violentatori, epilettici, immorali, prostitute, alcolizzati cronici, ninfomani, omosessuali,
vagabondi, morfinomani, rapitori, pedofili, e tutte le altre categorie di “anormali” (Nisot
1927-1929, vol. I:192-259). Malgrado in principio la scelta degli individui “degenerati”
avrebbe dovuto comportare una selezione su base unicamente individuale, in relazione
alla probabilità di una trasmissione ereditaria di tare biologiche, di fatto questo criterio
venne subordinato ad una selezione di tipo etnico-classista. Così a fare le spese delle
leggi eugenetiche degli Stati americani furono, in una percentuale relativamente molto
elevata, immigrati lontani dal paradigma WASP, prima rinchiusi in carceri o istituti
psichiatrici, e quindi sterilizzati, o soggetti “socialmente inadeguati” (Kevles 1995, pp. 9495).
L’eugenetica americana, in maniera molto più esplicita di quella nazista o europea,
lavorò nella direzione della “razzizzazione” delle classi povere ed emarginate. Ciò era
naturalmente funzionale a rinsaldare il sistema meritocratico americano, a consolidare le
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preesistenti gerarchie di potere, di benessere e di opportunità. Il fatto che le classi inferiori
fossero composte soprattutto da immigrati, neri ed in generale da individui di origine etnica
“non anglosassone”, non poteva che semplificare il compito degli eugenisti e di coloro che
auspicavano che le misure repressive venissero estese ai gruppi di sangue “alieno”. Negli
anni ’20, in corrispondenza con l’affermarsi del proibizionismo e del puritanesimo, viene
così tracciato un rapporto deterministico tra le classi pericolose, la degenerazione
biologica e morale e l’appartenenza alle “razze inferiori”. Le cause della povertà e
dell’emarginazione, dell’aumento della delinquenza, della presenza di vasti gruppi di
individui esclusi dal processo di arricchimento, vennero così attribuite innanzitutto alle
ondate immigratorie che avevano portato nell’ultimo cinquantennio all’afflusso di milioni di
persone appartenenti a gruppi etnici classificati come “inferiori”: italiani, ebrei, irlandesi,
cinesi, polacchi. Questi gruppi vennero criminalizzati come i responsabili del “suicidio
razziale” della società americana; ad essi era attribuita innanzitutto la responsabilità di
stare generando, attraverso la loro commistione con la white trash americana, un
coacervo di degenerati che si stava riproducendo in maniera esponenziale, e che avrebbe
velocemente portato, se lasciato libero di proliferare, alla distruzione del benessere e della
ricchezza degli Stati Uniti (Allen 1983:112-117). In questo quadro, le politiche di
sterilizzazione sembrano comprensibili nella stessa logica delle legislazioni che in molti
stati americani proibivano il matrimonio interrazziale e, soprattutto, delle “Quota Acts” del
1924, che portarono ad una rigida restrizione dei flussi immigratori sulla base della
nazione di provenienza, in maniera direttamente proporzionale alla percentuale di sangue
“inferiore” che avrebbe caratterizzato i vari gruppi etnici. Uno svedese aveva così molte
più possibilità di entrare negli Stati Uniti che non un greco. Non è un caso che, tra i
massimi sostenitori delle restrizioni vi furono gli eugenisti, i quali giocarono un ruolo
decisivo nei dibattiti parlamentari e nella commissione che era stata nominata,
precedentemente alla revisione della legislazione immigratoria, per studiare il problema.
Essi presentarono una serie di statistiche allarmanti a riguardo del rapporto tra tassi di
criminalità ed appartenenza etnica, studi sul quoziente d’intelligenza che dimostravano
“inequivocabilmente” che i risultati ottenuti dagli immigrati erano qualitativamente e
quantitativamente omologabili a quelli dei ritardati, documenti che indicavano la presenza,
nelle carceri e nei manicomi, di un numero di internati appartenenti a “razze inferiori”
assolutamente preponderante nei confronti di individui di origine etnica americana (Allen
1983:120-123).
Questa collusione tra l’eugenetica e la discriminazione su base etnica si realizza in un
momento, dal punto di vista ideologico, di parossismo razzistico negli Stati Uniti. Nel
secondo dopoguerra, il Ku Klux Klan arriva a contare oltre 5 milioni di aderenti (Randel
1965:209-210). Ma ciò che ancor di più va sottolineato è che essa si inserisce
sull’elemento infrastrutturale di una politica di standardizzazione socioeconomica:
quest’ultima, negli Stati Uniti dei primi decenni del secolo, identificò nell’immigrazione la
principale fonte di destabilizzazione dello status quo, e negli immigrati il capro espiatorio di
un sistema che, evidentemente, produceva devianza e povertà al di là delle responsabilità
dei “newcomers”. Ma, più in generale, l’eugenetica era funzionale a difendere il modello
dell’americano medio, “Americano” non solo per razza, ma anche per status economico,
culturale e sociale. Per questo motivo gli immigrati, per quanto fossero l’obiettivo principale
della discriminazione, non erano i soli a sfuggire all’archetipo WASP: l’opera di epurazione
doveva passare anche attraverso la persecuzione di quei marginali che, pur
“anglosassoni” per origine biologica, non si conformavano al paradigma socioeconomico di
“buona cittadinanza”. Un esempio su tutti basterà a chiarire il modo in cui l’eugenetica
statunitense operò trasversalmente a distinzioni di classe. Esso riguarda la legislazione
dello Stato dell’Oklahoma del 1931.
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Quest’ultima prevedeva la sterilizzazione di una non meglio specificata categoria di
delinquenti arrestati per la terza volta in quanto colpevoli di atti di “turpitudine morale”. Nel
pieno rispetto di una discriminazione di status socioeconomico, tra gli atti di “turpitudine
morale” non rientravano per esempio le frodi compiute da un ipotetico impiegato di banca
colpevole di aver sottratto per tre volte migliaia di dollari falsificando i libri contabili, o
l’evasione fiscale reiterata. Intanto i giudici dell’Oklahoma ordinavano però la
sterilizzazione forzata di “individui socialmente pericolosi” come il sig. Jack Skinner,
analfabeta, povero e ladro di polli recidivo (Reilly 1991:130).
7. C’è un elemento sul quale, prima di concludere, vorrei ritornare. Spesso, parlando
delle intolleranze e dei genocidi che hanno avuto come palcoscenico fisico il mondo
occidentale, o che hanno visto il mondo occidentale nella veste di carnefice, si ha
l’abitudine di proiettare il giudizio negativo solo sul passato, su fenomeni storici che, pur
caratterizzando l’evoluzione del mondo “civile” di cui ci sentiamo cittadini, non
sembrerebbe avere nulla a che vedere con un presente in cui, finalmente affrancati da
questi temporanei momenti di contraddizione, possiamo fregiarci di vivere in un sistema
che garantisce in maniera imparziale democrazia, libertà, diritti. E’ certamente funzionale a
preservare questa idealizzazione, come scrive Todorov in Gli abusi della memoria (1995),
destorificare, se non rimuovere completamente, certi episodi che, analizzati in maniera
diacronica, sarebbero viceversa destabilizzanti, implicando una riflessione sulle zone
d’ombra del processo di civilizzazione, e sugli stessi concetti di progresso, civiltà e
democrazia. La nostra storia, o meglio i suoi aspetti più deplorevoli, derivando da questi
usi del passato, divengono un banale accumulo di materiali inerti, di cui sostanzialmente
viene cancellata ogni relazione con problematiche che invece continuano a caratterizzare
la nostra vita ed i nostri sistemi politici. Questi sono i nostri giochi della memoria, senza i
quali il consenso e la stabilità sociale sarebbero del resto impossibili, o quanto meno ne
uscirebbero compromessi.
L’eugenetica non è solo un fenomeno storico. E’ anche, e soprattutto, una logica;
rappresenta un principio di esclusione e di discriminazione che col tempo cambia
strategia, modifica gli strumenti attraverso i quali opera, si adegua alle congiunture sociali
e geopolitiche, facendo oscillare costantemente lo spazio semantico di categorie come
quelle di devianza e normalità in relazione a coloro che, in un dato momento storico,
vanno considerati da normalizzare o da emarginare. Oggi come ieri, “bisogna difendere la
società”. Difenderla dai nemici interni e da quelli esterni. Non è qui il caso di formulare uno
sterile elenco delle categorie di individui che, a seguire il senso comune, sarebbero da
considerare “anormali”, anche perché esse variano nel tempo e nello spazio. Ciò che
conta è che, nella nostra società, è radicata in maniera profonda l’idea della devianza da
una norma, qualunque essa sia, così come è radicata la prassi dell’intolleranza nei
confronti di questa devianza. E’ il persistere di questo meccanismo biopolitico che legittima
la possibilità di interpretare passato e presente alla luce della continuità. Tanto per fare un
esempio, non è un caso che Etienne Balibar abbia parlato della frontiera come di un
gigantesco meccanismo eugenetico postmoderno, e che per legittimare la fortezza Europa
e per ottenere il consenso popolare si faccia ricorso al mito dell’ “invasione” e ad allarmanti
statistiche sui tassi di criminalità “etnica”, presentando i migranti come parassiti che
attentano al benessere ed alla identità culturale dell’occidente attraverso retoriche in cui si
confondono ragioni d’opportunismo economico ed un sempre più radicato terrore per ogni
forma di diversità (Balibar 1990:29-40). Se ripensiamo agli Stati Uniti degli anni ’20,
all’ossessione del “suicidio razziale” e del disastro economico che sarebbero derivati dalle
ondate migratorie, prospettati dai demagoghi dell’epoca, o alle allarmanti statistiche
elaborate dagli eugenisti a riguardo della supposta criminalità congenita di certi gruppi
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etnici, e che ebbero un ruolo rilevante nel determinare in senso restrittivo la legge del
1924, il paragone appare pertinente.
Se ragionassimo in termini “assoluti” di crudeltà, se fosse possibile pensare
all’eugenetica nei termini di una parentesi storica ormai ampiamente chiusa, e sulla quale
la critica scientifica si fosse già ampiamente espressa, si sarebbe dovuto qui dedicare
molto più spazio allo sterminio di centinaia di migliaia di “vite indegne” durante il regime
hitleriano. A qualcuno, probabilmente, uno sterminio sistematico come quello che
caratterizzò l’ “Aktion T4” potrà apparire come un qualcosa di molto più aberrante di
alcune decine di migliaia di sterilizzazioni forzate, dopotutto giustificabili dal punto di vista
della razionalità economica e della pianificazione demografica. Ma il problema non è di
cifre. E’ di principio. Se si è stati giustamente pronti a condannare in maniera unanime i
crimini del nazismo, ancori in pochi hanno riflettuto su sistemi politici ed ideologici che,
presentandosi come baluardo contro ogni tipo di totalitarismo, e raffigurandosi
nell’immaginario collettivo come ideale di giustizia sociale, hanno tuttavia prodotto al loro
interno una serie di evidenti discriminazioni, per non parlare delle responsabilità morali e
materiali dell’occidente (e non si parla qui né dell’occidente totalitario né di quello
dell’espansione imperialista) nei confronti delle realtà del “terzo” e “quarto” mondo.
Questo scenario può apparire apocalittico ed eccessivamente inclemente nei confronti
delle forme di vita occidentali. E’ chiaro che, in questa sede, lo scopo precipuo era quello
di occuparsi dei limiti, più che dei meriti, dell’occidente. Questi ultimi esistono, e sono
incontestabili. Primo fa tutti, quello di aver sviluppato un senso critico che ci permetta di
non legare deterministicamente l’intolleranza al tribalismo o al totalitarismo, ma anche di
saperla inquadrare all’interno di sistemi che si suole definire “democratici”. L’eugenetica di
Stato è solo una delle possibili dimostrazioni di come, per perseguire il benessere della
società organicisticamente intesa, la democrazia sia disposta ad abdicare alla sua
promessa di salvaguardare i diritti e le libertà fondamentali del suo demos. L’eugenetica di
Stato, più che a quella della democrazia, riconduce all’immagine del Leviatano. Ma,
nonostante ciò, si può ragionevolmente pensare alla possibilità di ovviare agli scompensi e
alle discriminazioni attraverso una serie di mutamenti, culturali, economici, politici, sociali,
che non possono però scaturire senza una presa di coscienza etica sulle contraddizioni
che il mondo occidentale produce. Si tratta di un invito alla riflessione, un invito a
salvaguardare innanzitutto il senso critico di fronte alle suggestioni della modernizzazione,
senza dare per scontato che i suoi effetti debbano rivelarsi necessariamente positivi per
tutti.
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