la parola della domenica Anno liturgico C omelia di don Angelo nella Solennità della Dedicazione del Duomo secondo il rito ambrosiano 17 ottobre 2010 Is 60,11-21 Sal117 Eb 13,15-17 Lc 6,43-48 E’ la terza domenica di ottobre e noi ricordiamo nella nostra diocesi gli eventi che ebbero al centro il nostro Duomo in questa data: nell’anno 836 la consacrazione dell’edificio di S. Maria; nella terza domenica di ottobre dell’anno 1418 la consacrazione, da parte del papa Martino V, dell’altare del nuovo Duomo e sempre nella stessa domenica di ottobre dell’anno 1577 la dedicazione del Duomo da parte di san Carlo Borromeo. Andiamo orgogliosi della sua bellezza, delle sue guglie che bevono il cielo come della colonne e delle sue volte che sembrano custodire nelle vele il mistero, ma soprattutto siamo riconoscenti di quanto la sua storia ha lasciato in un popolo che lì, lungo i secoli, è convenuto. Lo pensiamo come una casa dell’anima, dell’anima del popolo di Dio. Perché è nella bellezza dell’anima che si distende la bellezza delle forme. E all’anima di un popolo sembrano alludere le letture di questa domenica che semplicemente sfioro. Mi si è allargato il cuore leggendo il brano del rotolo di Isaia. Dove di Gerusalemme – e perché per allusione non pensare al nostro Duomo? – Dio dice: “Le tue porte saranno sempre aperte. / Non si chiuderanno né di giorno né di notte, / per lasciare entrare in te la ricchezza delle genti”. Le porte aperte di giorno e di notte, un sogno, mi direte. Sì un sogno, ma verso cui andare. Dice una direzione, anche se la meta è lontana. Con le porte chiuse, dice Dio, fai opera di insensatezza, perché ti precludi la ricchezza delle genti. Se il sogno che ci conduce sono le porte aperte, camminiamo verso la bellezza della convivenza. Se il sogno che ci conduce invece sono i muri, camminiamo verso la bruttezza del convivere. Allora sono a chiedermi se il mio ingresso nella cattedrale ha l’effetto straordinario di aprire le mie porte, le mie porte dell’anima. Se esco con le porte chiuse, la casa di Dio è stata muta per me e le mie porte chiuse la stanno sconsacrando. Sfioro il brano della lettera agli Ebrei dove siamo invitati a offrire a Dio un sacrificio di lode. Ma, subito, ecco si parla di un frutto, un frutto concreto, della confessione di lode a Dio. E il frutto viene espresso nella bellezza della vita comunitaria, che è fatta di armonia di rapporti, un’armonia e una pace che nascono dal desiderio di operare ciò che è gradito a Dio. Una comunione non solo di beni spirituali, ma anche materiali. Scrive l’autore della lettera agli Ebrei: “Non dimenticatevi della beneficenza e della comunione dei beni, perché di tali sacrifici il Signore si compiace”. E io a chiedermi, se quando esco dal tempio, mi sono rafforzato in uno spirito di comunione, di armonia, di delicatezza. Perché, se esco segnato da indifferenza ed egoismo, ho annullato l’energia positiva di un luogo di culto e alla fin fine ne ho sconsacrato le mura. il brano del vangelo di Luca che sembra alludere al tempio come l’occasione di incontrare un seme buono che ha il dono segreto e sorprendente di generare frutti buoni. Vorrei dire l’opportunità, non sempre riconosciuta come grazia, di incontrare la parola di Dio. Che però chiede di diventare vita. Duro il richiamo verso coloro che a ogni piè sospinto proclamano Dio e non fanno quello che Dio dice: “Perché mi invocate ‘Signore, Signore’ e non fate quello che dico?”. E che le nostre radici siano cristiane non basteranno dichiarazioni o proclamazioni a dirlo, queste si stemperano nell’aria. Lo si riconoscerà da frutti. E sfioro Secondo Gesù andare verso di lui, ascoltare le sue parole, metterle in pratica, cioè seguirne le tracce è preservarci dalle esondazioni dei fiumi che mettono a pericolo le fondazioni di una casa. E’ insistente il richiamo: non basta proclamare, né basta ascoltare. Le parole rendetele vita, carne della vostra carne. E le parole di Gesù non sono un vuoto di vaghezza. Ho letto in questi giorni una citazione bellissima di Charles Péguy, le sue parole, con cui amo finire, mi sembrano un commento splendido a questo richiamo di Gesù nel vangelo. Eccole: “Gesù Cristo, bambina, non è venuto per dirci frivolezze, capisci, non ha fatto il viaggio di venire sulla terra [...] per venire a contarci indovinelli e barzellette. ... e Gesù non ci ha neanche dato delle parole morte che noi dobbiamo chiudere in piccole scatole (o in grandi.) e che dobbiamo conservare in olio rancido come le mummie d’Egitto. Gesù Cristo, bambina, non ci ha dato delle conserve di parole da conservare, ma ci ha dato delle parole vive. Da nutrire. Io sono la via, la verità e la vita. Le parole di vita, le parole vive non si possono conservare che vive. Nutrite vive, nutrite, portate, scaldate, calde in un cuore vivo... Come Gesù ha preso, è stato costretto a prendere corpo, a rivestire la carne per pronunciare queste parole (carnali) e per farle intendere, per poterle pronunciare, così noi, ugualmente noi, a imitazione di Gesù, così noi, che siamo carne, dobbiamo approfittarne, [...] dobbiamo nutrire, abbiamo da nutrire nel nostro cuore, con la nostra carne e col nostro sangue, col nostro cuore, le Parole carnali, le Parole eterne, temporalmente, carnalmente pronunciate. [...] È a noi, infermi, che è stato dato, è da noi che dipende, infermi e carnali,... di assicurare (è incredibile) di assicurare alle parole eterne come una seconda eternità, ... una eternità terrena”. (Ch. Péguy, Madame Gervaise, “Quaderno per la festa d’Ognissanti e per il giorno dei Morti della XIII serie”) Per la riflessione Ti sembra che dalle celebrazioni delle nostre chiese coloro che vi partecipano escano con un anelito di universalità nel cuore e nelle visioni? Escono con un desiderio di comunione di beni spirituali e materiali? E come si concretizza nella vita questo anelito di comunione di beni spirituali e materiali? Tra le parole del vangelo quali ti sembrano più lontane da una effettiva pratica?