MY NAME IS JOE
A volte è difficile prendere la strada giusta
SCHEDA TECNICA
Anno 1998
Titolo originale My name is Joe
Durata 105
Origine Gran Bretagna
Genere Drammatico
Regia Ken Loach
TRAMA
Disoccupato ed ex alcolizzato, Joe trova la forza di reinserirsi occupandosi dei giovani del
quartiere: gli ex drogati, i disoccupati e i delinquenti che formano la squadra di football di
cui è allenatore. Joe incontra Sarah – un’assistente sociale – che fa il suo stesso lavoro ma
a livello istituzionale. Tra i due inizia una lenta relazione che sfocerà nel rapporto amoroso.
Purtroppo Joe si complicherà la vita per aiutare uno dei suoi ragazzi: Liam, che lotta per
disintossicarsi dalla droga. L’amica di Liam, Maggie, è anche lei tossicodipendente e
continua a drogarsi nonostante l’economia della coppia sia al verde e abbiano un bambino
da mantenere. Per salvare Liam dalle grinfie di McGowan - proprietario del pub del
quartiere e strozzino - Joe accetta uno sporco lavoro: trasportare una macchina carica di
droga per conto dello stesso McGowan. Quando Sarah viene a saperlo lascia Joe su due
piedi nonostante sia incinta di lui. Nonostante la società sembri sempre apparentemente
più forte, Joe non smette mai di sfidare la malasorte e il destino avverso, con coraggio e
determinazione come insegna ai ragazzi della squadra di football.
SPUNTI PASTORALI
Apparentemente la risposta di Ken Loach attraverso questo film – ma come del resto in
quasi tutta la sua poetica - è che il male, e il crimine, non si giustificano mai, neanche
quando si hanno le ragioni morali e etiche più solide per compierlo. Tuttavia il regista non
appare mai come illuso o ingenuo: sa bene che oltre la distinzione manichea tra il bene e il
male c’è l’universo ‘persona’, l’essere umano. Forse, oltre la drammaticità della storia, è
proprio questa la dura verità davanti alla quale il regista ci pone: l’essere umano è un
intreccio di dimensioni e di domande, di angosce e di attese, che spesso rendono difficile il
districarsi tra la bontà e la cattiveria di un’azione. La denuncia di Loach sembra calcare le
orme di Gesù di Nazareth quando ci ricorda che il male più grande è quello compiuto
dall’ipocrisia di chi si sente giusto e a motivo di una giustizia farisaica crica gli altri fi gioghi
insopportabili: i poveri, i disadattati, gli emarginati. In realtà il regista apre uno scorcio di
speranza proprio nel valicare questa coltre di mentalità benpensante per far ‘sporcare le
mani’ ai suoi protagonisti in virtù di motivazioni e di valori veramente alti. Questa è la
storia di Joe: una sorta di ‘guaritore ferito’, un uomo che tenta di redimere attraverso la
testimonianza della sua redenzione. Così Loach decide di ‘perdonare’ il suo protagonista –
Joe – nonostante sia allo stesso artefice della grazia e della perdizione per se e per i suoi
ragazzi. La scena finale del film – Sarah che si riavvicina a Joe – apre a diverse
interpretazioni: torneranno insieme in vista del perdono? Sarah si avvicina come assistente
sociale – nel ruolo dunque – o come amante? Il regista non vuole rispondere: anche questo
sembra essere il grande prezzo della libertà, di un perdono che stringe in un abbraccio ma
che non costringe mai.