L’Italia in bianco e nero
Lee Marshall
http://www.internazionale.it/opinioni/lee-marshall/2013/09/13/litalia-in-bianco-e-nero/
13 settembre 2013
Un articolo della scrittrice etiope Maaze Mengiste sul razzismo in Italia, apparso sul Guardian (e
pubblicato su Internazionale questa settimana), sta provocando un dibattito vivace sul sito del
giornale britannico. Mengiste comincia ricordando ai lettori inglesi le minacce e gli insulti continui
rivolti alla ministra Cécile Kyenge: dalla similitudine con un orango fatta da Roberto Calderoli ai
manichini cosparsi di vernice rossa sistemati a fine luglio tra gli stand della festa Pd di Cervia, dove
Kyenge era attesa (il gesto è stato bissato a Roma un mese dopo).
Certo, in questi due casi si tratta di esponenti della Lega nord e di Forza nuova, che non
rappresentano la maggioranza degli italiani. Gruppi analoghi esistono in tutta Europa, anche in Gran
Bretagna, dove il razzismo da stadio è ancora in agguato, insieme a una nuova e pericolosa forma di
razzismo “ragionevole”, fomentata anche dalle istituzioni, che si nasconde dietro alla lotta
all’immigrazione clandestina.
Ma la tesi di Mengiste riguarda anche un paese in cui è pensabile che un presidente del consiglio
definisca abbronzato Barack Obama, o un paese in cui una signora, apparentemente per bene, in fila
davanti al banco del pesce al supermercato, si rivolga all’amica dicendo: “Ah, ma io sono razzista,
non ho problemi a ammetterlo”. Questa scena me l’ha raccontata mia moglie, scioccata non tanto
per l’ammissione, quanto per il fatto che alla signora sembrasse normale farla in un luogo pubblico,
davanti a molte altre persone.
Per Mengiste c’è un legame stretto tra questa specie di libertà di sostenere (scherzosamente o no)
delle posizioni razziste, e la mancata chiusura dei conti con l’era fascista, un argomento che ho già
trattato anch’io. L’autrice, il cui nonno ha avuto esperienza diretta della ferocia delle truppe di
Badoglio, fa presente che anche dopo la caduta del fascismo la guerra in Etiopia fu presentata come
una missione civilizzante, e che per tanti anni l’uso di armi chimiche contro la popolazione locale
sia stata negata perché in contrasto con la leggenda degli italiani brava gente.
Per chi vuole approfondire l’argomento, la rivista Zapruder-Storie in movimento ha dedicato tutto
un numero al tema “Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano”.
Nell’editoriale di apertura, Elena Petricola e Andrea Tappi ricordano, per esempio, che “il Comitato
per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, una sorta di agenzia postuma di propaganda
delle imprese coloniali, è rimasta in vita fino al 1984”. Mentre, sfogliando la manualistica di storia
per i licei italiani dal dopoguerra a oggi, Tappi e Giuliano Leoni dimostrano che “il definitivo
tramonto di una narrazione stereotipata avviene solo a partire dagli anni novanta, ma senza riuscire
a superare di fatto la prospettiva italocentrica da cui si guarda all’Africa”.
Ma la parte più incisiva e lucida dell’articolo di Mengiste riguarda la narrativa che gli italiani si
sono costruiti per sentirsi una nazione. Ecco l’intero passaggio: “Dal 1861, l’anno dell’unificazione,
è stato quello di accomunare gruppi di persone molto diverse e spesso in conflitto fra loro. Si
attribuisce a Massimo d’Azeglio la frase: ‘Abbiamo fatto l’Italia. Ora dobbiamo fare gli italiani’.
L’identità collettiva dell’Italia, ammesso che esista, è stata costruita con cura. Un’identità che ha
avuto tra le sue componenti la pelle bianca. E che oggi si sente messa in discussione dalla presenza
della ministra Kyenge”.
Esattamente. E viene messa in discussione anche da Mario Balotelli, accolto al suo esordio da
diciottenne con la Juve da uno striscione con scritto: “Non ci sono negri italiani”. Oppure dal
giornalista del Tg3 Lazio Fidel Mbanga-Bauna, oppure dai medici e perfino i carabinieri di colore
(sì, esistono) che cominciano, molto lentamente, a intravedersi.
La lentezza è sicuramente determinata anche dal fatto che, come dimostra il caso Kyenge, i pionieri
sono quelli più esposti agli attacchi razzisti. E qui c’è un caso esemplare. Qualcuno forse si
ricorderà di un caso di cronaca successo a Brescia nel 2006, quando Godswill James Ekpo, un
medico di pronto soccorso presso una clinica di Brescia, cittadino italiano di origini nigeriane, è
stato insultato dal familiare di un paziente arrabbiato per la precedenza data ad altri casi più gravi.
“Quando i miei parenti italiani costruivano quest’ospedale”, disse l’aggressore, “tu eri ancora in
mezzo alla foresta. E ora vieni qui e pretendi di insegnarci a organizzare gli ospedali”.
Con il pieno appoggio dei colleghi, Ekpo ha presentato querela. Ma episodi del genere logorano.
Cercando di capire che cos’è successo a Ekpo da allora, mi sono imbattuto in una discussione sul
forum online GhanaWeb dell’agosto del 2009, in merito a un articolo su una carenza di dottori nel
paese. Ekpo ha scritto così sul forum: “Sono un medico nigeriano-italiano residente in Italia da
trent’anni. Sono specializzato in pronto soccorso, medicina generale, medicina tropicale e malattie
infettive. Vorrei lavorare in Ghana e contribuire a garantire un servizio sanitaria di qualità per il
nostro popolo” (sottolineo, a proposito della frase “il nostro popolo”, che Ekpo non è ghaneano).
Poi trovo un’altra pagina web che risale a solo una settimana fa sul sito Expatblog, una specie di
LinkedIn per espatriati in tutto il mondo. È la pagina personale di Godswill James Ekpo, che si
presenta così: “Sono un espatriato. Sono italiano, e adesso vivo in Inghilterra, a Sheffield”.
Sto cercando di mettermi in contatto con Ekpo per capire esattamente come sono andate le cose.
Può darsi che la sua decisione di emigrare non c’entra niente con gli insulti razzisti subiti.
Speriamo. Se mi risponde al messaggio che ho lasciato sul forum Expatblog, riferirò in un nuovo
post.