LA CATTEDRA d i S T O R I A i n n e t w o r k Lezione del prof. GIAN

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LA CATTEDRA
di STORIA in network
Lezione del prof. GIAN LUIGI FALABRINO
docente nel Dams, facoltà di lettere di
Genova/Imperia
Il nostro collaboratore, Gian Luigi Falabrino, ha pubblicato la seconda edizione
aggiornata di "Effimera & Bella - Storia della pubblicità italiana", Silvana
Editoriale (la prima edizione era uscita nel 1990). Euro 49.06 Di questo volume
riportiamo il terzo capitolo come esempio di una storia settoriale condotta con
opportuni collegamenti alla storia politica e della società. Un esempio che
consideriamo un'ottima lezione per la nostra CATTEDRA
Storia della pubblicità
in Italia
LE CONTRADDIZIONI
DEGLI ANNI TRENTA
Il mito della macchina e della velocità Il mondo stava
cambiando (come sempre, del resto). Il primo decennio
del fascismo era coinciso con una vera e propria
rivoluzione del costume europeo e della cultura comune.
Era coinciso con la moda dei capelli alla garçonne, con le
gonne corte e con i balli d'importazione americana. Il
povero Pio X, che al principio del secolo aveva
condannato il tango, il ballo dei postriboli argentini con
grandi toccamenti e sfregamenti, che cosa avrebbe detto
dello shimmy e del charleston, durante i quali non ci si
stringeva,
però
...?
Il primo decennio del fascismo era coinciso anche con la
diffusione dei nuovi miti sportivi, il calcio e il ciclismo, e,
soprattutto, con una maggiore presenza dell'automobile e
della motocicletta, la prima ancora aristocratica e
borghese, la seconda un po' più popolare: cioè con il mito
della velocità. Sarà soltanto un caso ma, durante il primo
anno del nuovo governo Mussolini, s'inaugura l'autostrada Milano-Laghi, detta
l'"autostrada dei ricchi" perché collega la capitale economica con le ville lacustri dei grandi
borghesi. È la prima in Europa, e sarà seguita soltanto nel 1935 dalla "camionale"
Genova-Serravalle.
Nei primi tempi, l'auto e la moto non sono vissuti come mezzi di trasporto, ma sono carichi
di ben altre valenze: simboli di stato, ostentazione di lusso (con l'autista ben separato dai
padroni, e allo scoperto, come i cocchieri delle carrozze), oppure simboli di potenza virile,
di ebbrezza della velocità, nella quale - prima della Grande Guerra - erano accomunati
due autori apparentemente diversissimi, d'Annunzio e Marinetti. In questo, essi erano stati
gli eredi di una vecchia tradizione italiana, che contrapponeva umanesimo e "arti
meccaniche". Nella letteratura italiana, l'industria non è stata presente fino a dopo il '45 (la
pittura aveva cominciato prima, con Boccioni, e poi con Sironi). L'esaltazione della
macchina non riguarda lo strumento della produzione, ma il simbolo della potenza umana,
sia che fosse la mongolfiera di Monti, sia l'"orribile mostro" (il treno) di Carducci: era una
tendenza ad una vera e propria mitologia, che i primi del Novecento esalteranno.
L'ultimo erede della tradizione letteraria italiana, d'Annunzio, e coloro che ne apparivano
gli eversori, i futuristi, si trovarono vicinissimi nell'esaltazione della macchina (la
mitragliatrice, l'aeroplano, l'automobile) che dà nuovi poteri al guerriero, all'uomo d'azione,
allo sportivo, e altrettanto vicini nell'ignoranza della macchina produttiva, della fabbrica e
della
sua
condizione
umana.
L'automobile e l'aeroplano avevano trovato il loro cantore nel d'Annunzio di Forse che sì,
forse che no (1910), il romanzo che già alla seconda riga parla del "vento eroico della
rapidità": "il furore gonfiò il petto dell'uomo chino sul volante della sua rossa macchina
precipitosa, che correva l'antica strada romana con un rombo guerresco simile al rullo d'un
vasto tamburo metallico... La donna era separata sul suo sedile, né sfiorava pur col
gomito il compagno; ma soffriva e gioiva come se i due pugni dominatori non reggessero il
cerchio,
ben
lei
tenessero
presa
per
gli
omeri
squassandola".
E Marinetti scriveva nel primo Manifesto futurista: "Noi affermiamo che la magnificenza del
mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la
bellezza della velocità. Un automobile da corsa (è da
notare che, per la mitologia vitalistica e sessuale dei
futuristi, l'auto da corsa era senza apostrofo, dunque
maschile: e bisogna ammettere che avevano ragione
loro) col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti
dall'alito esplosivo... un automobile ruggente che sembra
correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di
Samotracia".
Nonostante le imprese pacifiche di Wright e Blériot, si
può dire che l'aeroplano sia nato come macchina di
guerra, nel 14-18 (e in più, noi italiani abbiamo il dubbio
primato del primo tentativo di bombardamento aereo, in
Libia, nel 1912). Gli anni Venti erano stati attraversati dai
progressi civili e sportivi dell'aeroplano: le avventure di
Antoine de Saint-Exupéry, pioniere dei voli postali, la
prima linea aerea italiana con gli idrovolanti della linea
Torino - Pavia - Trieste (1926: si vada a leggere la lapide
sul Po, al Valentino), i lunghi voli asiatici e americani di
De Pinedo e Ferrarin; la trasvolata atlantica senza scalo
di Lindbergh (1927), fino alla "crociera aerea del Decennale" (sottinteso della "rivoluzione
fascista"), guidata da Italo Balbo nel '32. Non è un caso che, in quegli anni, il tardo
futurismo
desse
vita
all'"aeropittura".
Né deve sorprendere che, dopo il 1920, alla pubblicità degli abiti e degli oggetti della vita
quotidiana si aggiungesse quella per le automobili, prima, per gli aerei e le navi, subito
dopo. È il tempo delle lussuose Lancia Lambda, delle Isotta Fraschini, delle Ansaldo, delle
Alfa Romeo e, naturalmente, della Fiat, la cui pubblicità era cominciata nel 1899, con un
celebre
manifesto
di
Carenato.
La "macchina" come ideale Al Gran Premio d'Europa di Monza, nel 1923, la Fiat
conquistò il primo e il secondo posto. Erano gli anni delle macchine scoperte: la Fiat 509
(un posto e mezzo), la più comoda Fiat 501, l'Itala 50. In un'inserzione del 1919,
compariva una bella ragazza con il cappello a cloche: "il suo ideale - una Fiat"
(naturalmente decappottabile). Più tardi, la donna comparirà sempre più spesso nella
pubblicità automobilistica, con Dudovich e Boccasile; come guidatrice, già nel manifesto di
Gros
del
1928.
Verso il 1930 la Fiat sembra abbandonare la velocità per la comodità, come dimostra il
manifesto di Jean Le Breton del '28, che riprende in forma più neoclassica la strana
ricaduta di Plinio Codognato nella mitologia dei Centauri e dei Mercuri per la versione non
sportiva della Fiat 509 (1925). Ma Codognato, quattro anni più tardi, fece per la Fiat 514
un
manifesto
di
ben
altra
originalità
e
modernità.
Fra le macchine "chiuse", come allora si diceva, nel '32 nasce la Balilla, primo tentativo di
macchina quasi utilitaria, sostenuta dal manifesto di Dudovich del '34 ("la nuova Balilla per
tutti - eleganza della Signora"), da una canzone divenuta presto celebre ("La famiglia
Brambilla in vacanza") e dall'orgoglio nazionalista di Mino Maccari, amico e compagno di
Longanesi
in
"Strapaese":
La
Balilla
è
meno
scicche
ma
più
fascista
della
Buicche.
Negli stessi anni, Negroni si accontentava di un paragone ciclistico e dei versi di un autore
anonimo:
Binda e Guerra son campioni, sono gli assi del pedale, Negronetto è il gran salame che la
fama
ha
mondiale.
Il nuovo "clima fascista" (come lo si chiamava allora) è presente non soltanto nel nome
della Balilla, ma anche nell'acquedotto romano del manifesto di Riccobaldi per la Fiat 1500
(1935) e nelle simbologie del grande Sironi (1936); la velocità tricolore, la lupa romana,
l'uso
stesso
del
marchio
scolpito
nella
pietra.
Ma la Fiat non si limita alle automobili, produce aeroplani e motori marini: la pubblicità si
farà istituzionale e, negli anni Trenta, produrrà quel semplicissimo slogan che durerà a
lungo:
"Fiat
terra
mare
cielo".
Anche l'Ansaldo aveva una produzione molto diversificata: navi da guerra e mercantili,
cannoni e mitragliatrici, bombe, aeroplani, automobili, veicoli industriali, locomotive e
automotrici (fra le quali la famosa "littorina" del 1938); e carri armati. Ormai erano ben
lontani gli anni nei quali Giuseppe Palanti, un cartellonista specializzato nelle opere liriche,
aveva dipinto un manifesto con i simboli tradizionali del lavoro, il martello e l'incudine,
affidati a un operaio dalla "maschia mascella volitiva" (una somiglianza con Mussolini
puramente casuale?). Si era cominciato a fare pubblicità alle automobili e ai furgoni da
trasporto, si finiva nel '38 con gli annunci per i tanks e, inevitabilmente, per i prodotti
autarchici. Quando la disfatta rese inutili le fabbriche d'armi e impose la riconversione
produttiva, l'Ansaldo dovette mettersi a fare pubblicità alle macchine per l'edilizia (1945) e
ai trattori (1947), nello stile retorico più duro a morire, quello dell'Arcadia e di O
campagnola
bella
del
maestro
Di
Lazzaro.
La terza età del manifesto Nel secondo decennio del fascismo la cultura letteraria, con le
diverse ma isolate eccezioni di Alberto Moravia e di Leonardo Sinisgalli (che non a caso,
in
epoca democratica, sarà il primo direttore di quella
grande rivista che è stata "Civiltà delle macchine"), è ben
felice di avere un'ulteriore occasione per ritirarsi in se
stessa. Non è tanto il disprezzo per l'impegno politico (le
lettere al Minculpop di troppi autori, che piativano
sovvenzioni o posti nei giornali fascisti, dimostrano il
contrario) ma disprezzo per qualunque impegno nella
società e, nel migliore dei casi, paura di compromettersi.
Nasce l'ermetismo, ed è significativo un titolo di Emilio
Cecchi,
Et
in
Arcadia
ego.
Invece, la cultura figurativa e architettonica è più ricca, e
non è tutta conformista o evasiva: per pochi anni l'Italia
vive un periodo di felici contraddizioni. Certo, non si può
parlare ancora di una contrapposizione tra fascismo e
antifascismo: quest'ultimo comincerà a prendere
coscienza di sé nei piccoli gruppi come "Corrente", dopo le leggi razziali e la sciagurata
alleanza con la Germania nazista. Ma si può parlare di una contrapposizione fra la cultura
fascista che inglobava i vari aspetti della peggior tradizione italiana (il mito della terra,
Strapaese, il classicismo, il "ritorno all'ordine") e la cultura dei giovani, anche fascisti, che
guardavano all'Europa. Erano i giovani che si lasciavano influenzare dal Bauhaus e dal
razionalismo, che propugnavano il "Novecento" come erede più razionale e sociale del
futurismo; ed era con loro un grande artista affermato da anni, dichiaratamente fascista,
Sironi, con la sua considerazione della civiltà industriale, nella sua necessità ma anche
nelle
sue
cupezze.
Mario Sironi è il grande protagonista del manifesto negli anni Trenta, ed è il caso più
esplicito di artista che si compromette nella pubblicità e nella propaganda. Gli esempi del
passato, in Italia, non erano stati né numerosi né convinti. Umberto Boccioni era stato
l'autore di un paio di affiches (uno era il manifesto per un'esposizione artistica a Brunate,
nel 1909). Più convinto di lui era stato lo scultore Leonardo Bistolfi, sostenitore dell'Art
Nouvean, e quindi dell'arte decorativa e applicata; poi Nomellini, De Carolis e i
dannunziani
e
infine
Depero.
La partecipazione di Sironi al manifesto non fu casuale come per Boccioni, né dettata da
pure ragioni di sopravvivenza. Per Sironi la partecipazione alla propaganda e alla
pubblicità nasceva da un impegno politico sentito sinceramente e da una visione dell'arte
immersa nel sociale, che per lui era industriale e cittadino, cioè moderno. Sironi è stato il
grande protagonista dell'arte applicata alla celebrazione del fascismo nei palazzi milanesi
del tribunale e del "Popolo d'Italia", alla propaganda del regime e alla pubblicità a molti
prodotti di prestigio. Dopo di lui, soltanto De Chirico, fra i grandi pittori, ha lavorato per un
prodotto automobilistico, la Fiat 1400 (nel 1954): ma il manifesto non è che un quadro
ampolloso
della
peggior
maniera
del
De
Chirico
neo-classico.
Il decennio fra la grande depressione e la seconda guerra mondiale è il periodo d'oro di
Mario Gros, una singolare figura di pittore, cartellonista e industriale grafico. Aveva
cominciato la sua carriera, giovanissimo, come autore di manifesti per l'Ambrosio Film e la
Pittaluga, quando Torino era la capitale del cinema italiano: poi nel 1925 fondò, con due
soci, lo stabilimento grafico Gros Monti & C., divenuto in seguito Mario Gros R C.
Fra il 1925 e il 1942 è stato autore di numerosi manifesti, sia per la committenza privata,
sia per lo Stato e il Comune di Torino: e anche i suoi clienti privati sono in grande
maggioranza piemontesi: la Fiat, la Bergia, la Gazzetta del Popolo, Talmone, Contratto,
Gancia, Riccadonna, Cora e altri. Nei suoi manifesti per la "Vittoria del grano" e per la
"Festa dell'uva" (1931), vincitori di concorsi banditi dal governo, come in quelli per il
Giugno radiofonico dell'EIAR e per i Campionati mondiali di calcio del '34, si vede bene
come Gros sia passato dai moduli liberty dell'inizio ("Mazurka bleu") ai forti volumi e ai
moduli
dello
stile
fascista.
Probabilmente il suo capolavoro di pittore-cartellonista è il manifesto per la Prima Mostra
nazionale della Moda (1933), dove pure il regime è presente con lo stemma del partito
nazionale fascista; ma il messaggio visivo è affidato ad un elegante recupero
dell'iconografia classica, stranamente ben sostenuta da una scelta tipografica
modernissima.
Negli anni Trenta è ancora protagonista e maestro della pubblicità commerciale il vecchio
Dudovich; ma si affaccia un giovane, Gino Boccasile, il celebratore delle gambe femminili
sulle copertine della rivista
"Le Grandi Firme" e sui manifesti commerciali, come del
resto il meno noto Barbàra, una delle colonne del foglio
umoristico "Marc'Aurelio". Boccasile era "il più fascista"
fra i cartellonisti italiani; e fu l'unico tra quelli noti che
diede poi la sua opera alla propaganda della Repubblica
sociale.
Il momento magico del 1933: Bauhaus e
Razionalismo La crisi economica del 1929, e il ristretto
potere d'acquisto delle classi proletarie e piccoloborghesi, stimolano l'intelligenza commerciale: nel 193031 nascono due grandi magazzini di livello e prezzi
notevolmente inferiori alla Rinascente: sono l'Upim (la cui
grande novità si traduce nella sigla che significa Unico
Prezzo Imposto - Milano) e nella Standa (Società Tutti
Articoli Necessari dell'Abbigliamento e Arredamento: ci
sarebbe dovuta essere un'A in più, ma si vede che i
proprietari
avevano
giudicato
negativamente
un'eventuale
sigla
Standa).
Così anche la crisi non fermò i pubblicitari italiani, che operavano in strutture molto più
piccole delle agenzie americane, con connotazioni fortemente artigianali. Nel 1930, Nino
Caimi, dopo aver dovuto chiudere l'ERWA, apre il proprio studio Enneci che lancia alcune
campagne collettive (per lo zucchero, per le banane della Somalia - allora una squisita
rarità
e
per
la
birra:
"Chi
beve
birra,
campa
cent'anni").
Nello stesso anno Anton Gino Domeneghini fonda l'IMA ("Idea-Metodo-Arte") che ha per
clienti Citterio, Gillette, Tassoni, Coca Cola; Guido Mazzali si fa consulente per l'Alpestre,
la Wamar, la Lagomarsino; Giulio Cesare Ricciardi e Pier Luigi Balzaretti danno vita alla
Balza-Ricc (Gancia, Locatelli, Alfa Collirio). Intanto l'ACME-Dalmonte continua la sua
attività, lavorando per Borletti, Pirelli, Cirio, Cinzano, Watermann, Gazzoni, Fernet Branca,
Martini
&
Rossi.
Negli anni immediatamente seguenti, si aprono gli studi di Aldo Foà, Ernesto D'Angelo e
Lanx
di
Roberto
Pomè,
uscito
dalla
Rinascente.
Erano anni di grandi contraddizioni culturali. Continuava la tradizione del manifesto con
Dudovich, Seneca, Sepo e il francese Cassandre; e il maestro del nuovo cartellonismo
artistico è un grande pittore, Sironi, considerato l'alfiere dei tempi nuovi, l'interprete
dell'anima
moderna
del
fascismo.
Però in pubblicità si affermavano nuovi artisti, e con loro nuove tecniche e nuove idee. I
giovanissimi Franco Mosca e Giaci Mondaini introducevano la fotografia nel manifesto
turistico, dal quale - nel secondo dopoguerra - dilagherà in tutti i settori merceologici. Poi il
grafico Carlo Dradi e il pittore Attilio Rossi, fra i primi in Italia ad essere influenzati da
Walter Gropius e dal Bauhaus, con un gruppo di pittori pubblicarono la modernissima
rivista
"Campo
Grafico".
Le contraddizioni culturali del fascismo si videro proprio nella Mostra della Rivoluzione
Fascista organizzata a Roma nel 1932, che mescolò la retorica del regime e del secondo
futurismo allo "Strapaese" di Maccari e Longanesi (quest'ultimo autore, fra l'altro, del
celebre motto "Libro e moschetto - fascista perfetto") e addirittura ai movimenti del
"Novecento" e del "Razionalismo". Così, nel 1933, proprio mentre in Germania Hitler va al
potere e sopprime il Bauhaus, insieme a molte altre cose a cominciare dalla libertà, in
Italia c'è un momento di grande innovazione architettonica e pubblicitaria.
In quell'anno comincia infatti la costruzione della stazione ferroviaria di Firenze, in puro
stile razionalista, invano osteggiata da un grande gerarca del partito fascista e da un
despota del fascismo culturale, rispettivamente Roberto Farinacci e Ugo Ojetti. Al Palazzo
dell'arte di Milano s'inaugura la Triennale, tutta razionalismo e Novecento, che ospita una
rivoluzionaria sezione della grafica tedesca, canto del
cigno del Bauhaus, allestita da Paul Renner, inventore
del carattere tipografico "Futura", che verrà usato
moltissimo
quarant'anni
dopo.
Nello stesso 1933, nasce a Milano lo Studio Boggeri, nel
quale lavoreranno Xanty Schavinsky e Herbert Beyer,
esuli dalla Germania nazista, Max Huber e l'esordiente
Erberto Carboni. Nasce anche, come si è detto, "Campo
grafico" che, come ha ricordato il suo primo direttore,
Attilio Rossi, tra la falsa modernità razionalista di
"Strapaese" e l'avanguardia europea di "Stracittà", scelse
quest'ultima. La rivista fu diretta da Rossi fino al febbraio
1935, poi da Luigi Minardi e Carlo Dradi sino al febbraio
1939; l'ultimo numero uscì a cura di Enrico Bona. (1)
Molto innovativa fu la copertina del primo numero, un
fotomontaggio, il primo fatto in Italia e uno dei primissimi
in tutto il mondo: era un'idea ripresa al volo dalla
proposta avanzata in quello stesso anno da Grosz e Heartfield. Inoltre, nel numero del
dicembre '34, Antonio Boggeri pubblicò una lettera nella quale profetizzava che la
fotografia sarebbe diventata la protagonista della grafica moderna. Va anche detto che
ogni numero aveva un'impaginazione diversa e che, per coerenza, anche gli annunci
pubblicitari venivano "organizzati" in modo differente, da un numero all'altro.
In quegli anni, oltre a Carboni e a Huber, si fanno notare alcuni giovani artisti, che saranno
attivi nella pubblicità ancora per molti anni dopo la seconda guerra mondiale: Bruno
Munari,
Riccardo
Ricas,
Carlo
Dinelli,
Nico
Edel.
L'organizzazione del consenso La crisi economica aveva rischiato di compromettere il
consenso, più o meno forzoso, ottenuto dal fascismo nei primi anni e culminato
nell'adesione dei cattolici con il Concordato del 1929. Contro la crisi economica, e i pericoli
di degenerazione politica, l'economia va recuperata e il consenso dev'essere organizzato:
lo
Stato
si
fa
totalitario
e
sempre
più
propagandistico.
Sul piano economico, oltre alla ristrutturazione bancaria e industriale della quale si è già
detto, il fascismo si preoccupa dell'alimentazione di base: proclama ogni anno la "battaglia
del grano", esalta la campagna e dichiara guerra all'urbanesimo. Nel 1932 dà il via alla
bonifica delle paludi pontine, dalla quale nascono Littoria (poi Latina), Pomezia, Sabaudia,
Pontinia
e
Aprilia.
Siamo moderni e futuristi, ma contadini. Mentre le altre grandi potenze (quelle che sono
tali veramente, gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Francia, la Germania e l'URSS dei terribili
piani quinquennali) si fanno sempre più ricche d'industrie, l'Italia vuole diventare sempre
più agricola. In realtà, nel 1937, per la prima volta nella storia italiana, l'industria con il 34
per cento del prodotto lordo superò l'agricoltura, rimasta al 30 per cento, ma il
capovolgimento passò quasi inosservato. Perché era arcaica e agricola l'ideologia delle
classi dominanti e degli intellettuali (basti leggere l'antifascista Salvemini, senza parlare di
poeti
e
letterati).
Era un'ideologia che affondava le radici in una lunga tradizione della cultura dei proprietari
di terre, da Virgilio a Manzoni, così diversa dalla cultura anglosassone; tanto arcaica e
profondamente nazionale da sopravvivere al fascismo e da continuare, con altre
manifestazioni apparenti, sia nel mondo cattolico del dopoguerra, sia nella sinistra, anche
nella più eversiva delle contestazioni sociali, e fino alla soglia del 1980. Allora si
manifestava con i tozzi contadini dei monumenti celebrativi e dei quadri dedicati alla
"famiglia italiana", con Mussolini che trebbiava il grano a torso nudo e ballava sulle aie con
le contadine, come nella sua giovinezza romagnola, e con l'incosciente protervia di Mino
Maccari:
"Val
più
un
rutto
del
tuo
pievano
che
l'America
e
la
sua
boria".
Più aulicamente, Mussolini faceva scrivere su tutti i muri: "È l'aratro che traccia il solco,
ma è la spada che lo difende". Bellissimo, degno di un d'Annunzio minore: ma intanto gli
"altri" preparavano i cannoni, gli aerei, il radar, i carri armati (quelli veri, non le "scatole di
sardine" del Regio Esercito), con i quali avrebbero polverizzato noi, i nostri otto milioni di
baionette, la nostra romanità del sabato fascista, e i rutti di tutti i nostri pievani, gerarchi,
federali
e
generali.
Alla crisi del 1929-32, il fascismo non reagì soltanto con la ristrutturazione bancaria e
industriale e con l'intensificazione dei programmi agricoli. Diede anche altre risposte:
l'espansione coloniale e il riarmo da una parte e, dall'altra, il tentativo di fondare uno stato
corporativo. Il corporativismo ha un primo momento di socialità (1931-34) poi, con la
guerra d'Etiopia, prende un aspetto nazionalistico e si accompagna alla nascente
autarchia, come risposta alle "inique sanzioni" promosse dalla Società delle Nazioni in
seguito
alla
nostra
aggressione
all'Etiopia.
L'organizzazione del consenso si fa totalitaria a partire dal 1932: diventa segretario del
partito il più ottuso esecutore degli ordini mussoliniani, Starace, e viene organizzata la
Mostra della Rivoluzione Fascista, nel decennale della marcia su Roma: le sezioni della
mostra sono curate da Achille Funi, Marcello Nizzoli, Arnaldo Carpanetti, Mino Maccari,
Mario Sironi e da altri. Sironi ne fece anche il manifesto. Nacque allora il modo di dire
"cambio della guardia", esteso poi ai ministri silurati e
sostituiti, passato anche al linguaggio giornalistico della
democrazia: i gerarchi, gli accademici d'Italia, gli
intellettuali facevano a turno la guardia all'ingresso della
mostra, ed è molto nota una tragicomica fotografia del
vecchio Mascagni, con fez, camicia nera, moschetto e
pancione
senile.
Due anni dopo furono istituiti gli assegni familiari per i
lavoratori che erano costretti a meno di quaranta ore
settimanali; nel '36 gli assegni familiari vennero
generalizzati.
Il paternalismo sociale del regime istituisce anche l'Opera
Nazionale Dopolavoro, le Case della Madre e del
Fanciullo, i treni popolari, e favorisce la costruzione della
Fiat 500, la "Topolino", prima utilitaria italiana.
Al paternalismo sociale si accompagnava lo stringimento
dei freni intellettuali: nel 1934 viene istituito il Ministero
della Cultura popolare (Minculpop) affidato prima al genero di Mussolini, Galeazzo Ciano,
poi ad Alessandro Pavolini. Il Minculpop esercita uno strettissimo controllo sulla stampa
(anche con le famose "veline"); ma estende la sua autorità ai nuovi strumenti che sono i
favoriti
del
regime,
la
radio
e
il
cinema.
Le radio vengono installate nelle scuole, nelle fabbriche, negli uffici pubblici, non soltanto
per fare ascoltare i sempre più frequenti discorsi del duce, ma anche per le altre
trasmissioni dichiaratamente propagandistiche, o percorse dalla propaganda: le rubriche
per
gli
agricoltori,
per
i
ragazzi,
per
le
donne.
La politica del fascismo per il cinema si articola in vari filoni: nel favorire inevitabilmente i
film di propaganda alla romanità, al nuovo Impero, alla guerra di Spagna e poi a quella del
'40 (con gli esordi di Renzo Rossellini); ma anche, contemporaneamente, nel favorire i film
d'evasione, detti spregiativamente dei "telefoni bianchi", dove emergono anche registi di
valore, come Mario Camerini, che sarà il maestro di Vittorio De Sica. Nello stesso tempo,
viene fondato l'Istituto Nazionale Luce per i cinegiornali e i documentari di propaganda al
regime, s'istituiscono i cinema viaggianti (sul modello dei carri di Tespi teatrali) per portare
i cinegiornali e i film propagandistici anche nei più piccoli paesi; infine, nel 1937, viene
fondata Cinecittà con lo scopo d'intensificare la produzione nazionale perché, come dice
Mussolini,
"la
cinematografia
é
l'arma
più
forte".
La conquista dell'Etiopia, è dimostrato, rappresenta il momento del massimo consenso
dell'Italia contadina, piccolo-borghese e anche intellettuale, frustrata da molti complessi
d'inferiorità, Adua compresa. Mentre le donne donano la "fede" alla patria, seguendo
l'esempio della Regina Elena, gli esponenti dell'antifascismo liberale, Benedetto Croce e
Vittorio Emanuele Orlando, danno alla patria fascista la medaglietta di senatore; e, con
grande realismo, o cinismo, dopo la conquista dell'impero, i giovani comunisti scrivono agli
universitari fascisti la poco nota, et pour cause, "Lettera ai fratelli in camicia nera", nella
quale propongono di usare insieme il manganello contro i borghesi.
Preferite i prodotti nazionali E' il periodo dell'autarchia: si debbono preferire i prodotti
nazionali. Tutto è nazionale, italiano, e spesso italianissimo, dalle fibre artificiali ai dadi per
brodo: si deve consumare non per vivere, o per trarne piacere, ma per provare l'orgoglio di
sostenere i prodotti dell'industria italiana. Senza volere, l'autarchia apre la strada al nuovo
linguaggio sintetico della pubblicità: Lanital, Maltoriso, Noveltex, Snia-fiocco. La pubblicità
collettiva per il cappello, maschile e femminile, risente dei tabù del tempo. Così la
pubblicità
per
la
seta:
"Elegante,
ma
solo
a
metà,
è
la
donna
che
calze
non
ha.
Se
portasse
le
calze
di
seta,
l'eleganza
sarebbe
completa".
(2)
Nella propaganda all'autarchia e ai suoi prodotti si distingue l'ufficio "tecnico" dell'UPI, la
concessionaria del "Popolo d'Italia" e dei giornali italiani all'estero. Il 28 ottobre 1932, per il
decimo anniversario della marcia su Roma, gli annunci pubblicitari raccolti dalla
concessionaria permisero l'uscita di un numero davvero speciale del "Popolo d'Italia": 16
pagine
normali
più
80
in
rotostampa.
Ampliata nel 1935 con l'incorporazione della società specializzata Augusta Edizioni e
Pubblicità, nel '39 con l'acquisizione della S.A. Italpropaganda e un anno dopo con
l'acquisto della SAPE (Società Anonima Pubblicità Estero), l'organizzazione UPI per i
paesi stranieri progettò in Italia, nei suoi uffici creativi, e diffuse all'estero, numerose
campagne per il turismo italiano, per mostre e fiere, e per molti prodotti nazionali.
All'interno, nel 1936, l'UPI diffuse due campagne di regime: l'annuncio di Domenico
Fontana per lo stato corporativo e la serie di annunci contro le sanzioni economiche che la
Società delle Nazioni aveva applicato all'Italia dopo la nostra aggressione all'Etiopia.
Due anni dopo, la stessa concessionaria presentò un progetto di pubblicità mondiale per
l'esposizione romana E42 che avrebbe dovuto celebrare il ventennale del regime fascista.
Approvato da Mussolini, il progetto venne naturalmente affidato all'UPI per la
realizzazione. La stessa società nel 1939 acquistò l'Industria Corto Metraggi (INCOM),
che era l'unico ente privato autorizzato alla produzione di documentari (a parte l'ufficiale
Istituto Luce). E, durante la guerra, ottenne la gestione dei giornali italiani in Francia e in
Grecia.
Dino Villani artista e pubblicitario Nel 1930 era arrivato a Milano un giovanotto che si
chiamava Dino Villani. Nato nel 1898, era stato capostazione a Suzzara, poi dimissionario
dalle
Ferrovie nel 1923, per incompatibilità con il fascismo: ma
di questa sua coraggiosa presa di posizione e del suo
antifascismo socialista, non si fece mai un vanto.
S'impiegò nella ditta Fratelli Bertazzoni, che aveva
alberghi e cinema fra Suzzara e Riccione, dove faceva il
contabile; ma era disegnatore e incisore, e fece per i
Bertazzoni i suoi primi annunci pubblicitari. Quando poi
s'inaugurò a Cattolica il Grand Hotel Kursaal, Villani fece
celebrare l'avvenimento con una mostra di pittura, per la
quale ideò il manifesto e la copertina del catalogo. E degli
artisti rimase sempre amico e mecenate: più tardi, con
Zavattini, inventò il premio Suzzara di pittura, poi il
premio Diomira per i giovani artisti, il premio Illustrazione
e
tanti
altri.
Nel 1928 ebbe la rivelazione del proprio futuro, vedendo
a Riccione una mostra di manifesti della Buitoni e della
Perugina: "In quel magico e mai dimenticato pomeriggio scrisse in Storia del manifesto - compresi che avrei
dovuto fare, a tutti i costi, il pubblicitario!" Due anni dopo abbandonò l'impiego: Piero
Caleffi lo presentò a Guido Mazzali e si trovò redattore de "L'Ufficio Moderno". Nel '34
diventò il capufficio pubblicità della Motta, e da quel momento si rivelò il più grande
inventore sia di campagne tradizionali, sia d'iniziative di relazioni pubbliche e di eventi che
oggi diremmo sponsorizzati. Ma non fu soltanto un grande ideatore e organizzatore di
attività pubblicitarie; fu anche sempre presente, ed elemento propulsore, delle iniziative
associative
non
ufficiali,
al
di
fuori
dei
sindacati
fascisti.
Seguiamo, per sommi capi, il primo filone del suo lavoro. Appena entrato alla Motta, affidò
il manifesto per il panettone a Sepo, che ne fece un'immagine destinata a restare per molti
anni un vero e proprio marchio del prodotto, e anche della stessa Milano; e commissionò
a Cassandre il manifesto per il lancio della colomba. Ma non si limitò a questo, affidando a
Erberto Carboni le campagne sulla stampa, e allo stesso Carboni e allo studio Boggeri il
sistematico
allestimento
delle
vetrine
dei
negozi
Motta.
Villani si pose anche il problema della pubblicità istituzionale: fare di Angelo Motta, ex
fornaio, un grande industriale nell'immagine del pubblico, oltre che nei fatti. Inventò allora
il premio "Angelo Motta - Notte di Natale", per un atto di bontà o d'altruismo; e questa fu
certamente la prima azione di relazioni pubbliche in Italia, ed ebbe una risonanza
grandissima. Villani aveva anche uno spiccato senso dell'evento da creare per attirare
l'attenzione dei mezzi di comunicazione: nel 1937 ideò la consegna del panettone gigante
ai vincitori delle tappe del Giro d'Italia e al vincitore dell'ultima tappa del Tour de France.
Passato nel '39 alla Giviemme, creò il concorso d'immediato e grande successo
"Cinquemila lire per un sorriso", che dopo la guerra divenne il concorso per Miss Italia,
oltre ai premi "Il film della vostra vita" e "La bella italiana nella pittura contemporanea".
Dopo la seconda guerra mondiale, costituì la Orma, per la pubblicità e le manifestazioni
del
gruppo
Carlo
Erba
Giviemme.
Per altri clienti, inventò il concorso nazionale "La sposa d'Italia" (Necchi) e il "Premio San
Valentino" (Saiwa e Alemagna, poi Zucchi), e un'infinità di altre manifestazioni.
Il suo senso degli "eventi" lo portò ad essere il fondatore della Festa della Mamma,
dell'Accademia italiana della cucina, dell'Associazione Amici del Po e di tante altre
iniziative.
Il secondo filone - l'associazionismo non ufficiale - lo vede, nei primissimi anni Trenta, ai
"Pranzi dell'Ufficio moderno", che si tenevano al ristorante "Penna d'oca". Da essi nacque
il Gruppo Amici della Razionalizzazione: con Villani e Guido Mazzali, c'erano personaggi
come Adriano Olivetti, Roberto Tremelloni, Libero Lenti, Ferdinando di Fenizio, Ignazio
Weiss, Lelio Basso, Piero Caleffi, Virgilio Dagnino (che era stato nel 1928 il direttore
dell'ultima rivista antifascista italiana, "Pietre"), Aldo Oberdorfer, Enzo Ferrieri, Antonio
Valeri
e
altri.
Il GAR voleva essere un gruppo per lo studio e la previsione di un'economia in sviluppo,
ma ebbe vita breve, dal 1931 al 1933, quando l'autorità di polizia lo sciolse perché vi
erano troppi antifascisti, facendolo assorbire dal Centro di studi di economia corporativa.
Nel 1950 Villani ne riprese l'idea, fondando la Brigata degli amici della Spiga. Già da
quattro anni (1946) era presidente dell'Associazione tecnici ed artisti della pubblicità; nel
1950 divenne presidente della FIP (Federazione Italiana della Pubblicità). Negli ultimi anni
della sua vita (morì nel 1989 a poco più di novant'anni) era stato un assiduo membro del
Comitato di controllo dell'autodisciplina pubblicitaria, che, nei primi tempi, aveva anche
presieduto, dimostrando una saggezza ed una comprensione per i diritti dei consumatori,
che ne facevano il meno corporativo e il più illuminato fra i professionisti che
rappresentavano la pubblicità in quel Comitat.
NOTE
1. Campo grafico (1933-39), di Attilio Rossi - Ed. Electa, 1983.
2. A proposito di pubblicità in rima: la scrittrice Donatella Ziliotto ricorda ancora questo annuncio
sentito da Radio Trieste durante la guerra:
Disse un giorno un combiné:
tutto rotto sono ahimè.
Gli rispose un reggipetto:
usa l'Adria, che è perfetto.
3. Storia del manifesto pubblicitario, di Dino Villani - Omnia Editrice, 1964.
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