LA CATTEDRA di STORIA in network Lezione del prof. GIAN LUIGI FALABRINO docente nel Dams, facoltà di lettere di Genova/Imperia Il nostro collaboratore, Gian Luigi Falabrino, ha pubblicato la seconda edizione aggiornata di "Effimera & Bella - Storia della pubblicità italiana", Silvana Editoriale (la prima edizione era uscita nel 1990). Euro 49.06 Di questo volume riportiamo il terzo capitolo come esempio di una storia settoriale condotta con opportuni collegamenti alla storia politica e della società. Un esempio che consideriamo un'ottima lezione per la nostra CATTEDRA Storia della pubblicità in Italia LE CONTRADDIZIONI DEGLI ANNI TRENTA Il mito della macchina e della velocità Il mondo stava cambiando (come sempre, del resto). Il primo decennio del fascismo era coinciso con una vera e propria rivoluzione del costume europeo e della cultura comune. Era coinciso con la moda dei capelli alla garçonne, con le gonne corte e con i balli d'importazione americana. Il povero Pio X, che al principio del secolo aveva condannato il tango, il ballo dei postriboli argentini con grandi toccamenti e sfregamenti, che cosa avrebbe detto dello shimmy e del charleston, durante i quali non ci si stringeva, però ...? Il primo decennio del fascismo era coinciso anche con la diffusione dei nuovi miti sportivi, il calcio e il ciclismo, e, soprattutto, con una maggiore presenza dell'automobile e della motocicletta, la prima ancora aristocratica e borghese, la seconda un po' più popolare: cioè con il mito della velocità. Sarà soltanto un caso ma, durante il primo anno del nuovo governo Mussolini, s'inaugura l'autostrada Milano-Laghi, detta l'"autostrada dei ricchi" perché collega la capitale economica con le ville lacustri dei grandi borghesi. È la prima in Europa, e sarà seguita soltanto nel 1935 dalla "camionale" Genova-Serravalle. Nei primi tempi, l'auto e la moto non sono vissuti come mezzi di trasporto, ma sono carichi di ben altre valenze: simboli di stato, ostentazione di lusso (con l'autista ben separato dai padroni, e allo scoperto, come i cocchieri delle carrozze), oppure simboli di potenza virile, di ebbrezza della velocità, nella quale - prima della Grande Guerra - erano accomunati due autori apparentemente diversissimi, d'Annunzio e Marinetti. In questo, essi erano stati gli eredi di una vecchia tradizione italiana, che contrapponeva umanesimo e "arti meccaniche". Nella letteratura italiana, l'industria non è stata presente fino a dopo il '45 (la pittura aveva cominciato prima, con Boccioni, e poi con Sironi). L'esaltazione della macchina non riguarda lo strumento della produzione, ma il simbolo della potenza umana, sia che fosse la mongolfiera di Monti, sia l'"orribile mostro" (il treno) di Carducci: era una tendenza ad una vera e propria mitologia, che i primi del Novecento esalteranno. L'ultimo erede della tradizione letteraria italiana, d'Annunzio, e coloro che ne apparivano gli eversori, i futuristi, si trovarono vicinissimi nell'esaltazione della macchina (la mitragliatrice, l'aeroplano, l'automobile) che dà nuovi poteri al guerriero, all'uomo d'azione, allo sportivo, e altrettanto vicini nell'ignoranza della macchina produttiva, della fabbrica e della sua condizione umana. L'automobile e l'aeroplano avevano trovato il loro cantore nel d'Annunzio di Forse che sì, forse che no (1910), il romanzo che già alla seconda riga parla del "vento eroico della rapidità": "il furore gonfiò il petto dell'uomo chino sul volante della sua rossa macchina precipitosa, che correva l'antica strada romana con un rombo guerresco simile al rullo d'un vasto tamburo metallico... La donna era separata sul suo sedile, né sfiorava pur col gomito il compagno; ma soffriva e gioiva come se i due pugni dominatori non reggessero il cerchio, ben lei tenessero presa per gli omeri squassandola". E Marinetti scriveva nel primo Manifesto futurista: "Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa (è da notare che, per la mitologia vitalistica e sessuale dei futuristi, l'auto da corsa era senza apostrofo, dunque maschile: e bisogna ammettere che avevano ragione loro) col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia". Nonostante le imprese pacifiche di Wright e Blériot, si può dire che l'aeroplano sia nato come macchina di guerra, nel 14-18 (e in più, noi italiani abbiamo il dubbio primato del primo tentativo di bombardamento aereo, in Libia, nel 1912). Gli anni Venti erano stati attraversati dai progressi civili e sportivi dell'aeroplano: le avventure di Antoine de Saint-Exupéry, pioniere dei voli postali, la prima linea aerea italiana con gli idrovolanti della linea Torino - Pavia - Trieste (1926: si vada a leggere la lapide sul Po, al Valentino), i lunghi voli asiatici e americani di De Pinedo e Ferrarin; la trasvolata atlantica senza scalo di Lindbergh (1927), fino alla "crociera aerea del Decennale" (sottinteso della "rivoluzione fascista"), guidata da Italo Balbo nel '32. Non è un caso che, in quegli anni, il tardo futurismo desse vita all'"aeropittura". Né deve sorprendere che, dopo il 1920, alla pubblicità degli abiti e degli oggetti della vita quotidiana si aggiungesse quella per le automobili, prima, per gli aerei e le navi, subito dopo. È il tempo delle lussuose Lancia Lambda, delle Isotta Fraschini, delle Ansaldo, delle Alfa Romeo e, naturalmente, della Fiat, la cui pubblicità era cominciata nel 1899, con un celebre manifesto di Carenato. La "macchina" come ideale Al Gran Premio d'Europa di Monza, nel 1923, la Fiat conquistò il primo e il secondo posto. Erano gli anni delle macchine scoperte: la Fiat 509 (un posto e mezzo), la più comoda Fiat 501, l'Itala 50. In un'inserzione del 1919, compariva una bella ragazza con il cappello a cloche: "il suo ideale - una Fiat" (naturalmente decappottabile). Più tardi, la donna comparirà sempre più spesso nella pubblicità automobilistica, con Dudovich e Boccasile; come guidatrice, già nel manifesto di Gros del 1928. Verso il 1930 la Fiat sembra abbandonare la velocità per la comodità, come dimostra il manifesto di Jean Le Breton del '28, che riprende in forma più neoclassica la strana ricaduta di Plinio Codognato nella mitologia dei Centauri e dei Mercuri per la versione non sportiva della Fiat 509 (1925). Ma Codognato, quattro anni più tardi, fece per la Fiat 514 un manifesto di ben altra originalità e modernità. Fra le macchine "chiuse", come allora si diceva, nel '32 nasce la Balilla, primo tentativo di macchina quasi utilitaria, sostenuta dal manifesto di Dudovich del '34 ("la nuova Balilla per tutti - eleganza della Signora"), da una canzone divenuta presto celebre ("La famiglia Brambilla in vacanza") e dall'orgoglio nazionalista di Mino Maccari, amico e compagno di Longanesi in "Strapaese": La Balilla è meno scicche ma più fascista della Buicche. Negli stessi anni, Negroni si accontentava di un paragone ciclistico e dei versi di un autore anonimo: Binda e Guerra son campioni, sono gli assi del pedale, Negronetto è il gran salame che la fama ha mondiale. Il nuovo "clima fascista" (come lo si chiamava allora) è presente non soltanto nel nome della Balilla, ma anche nell'acquedotto romano del manifesto di Riccobaldi per la Fiat 1500 (1935) e nelle simbologie del grande Sironi (1936); la velocità tricolore, la lupa romana, l'uso stesso del marchio scolpito nella pietra. Ma la Fiat non si limita alle automobili, produce aeroplani e motori marini: la pubblicità si farà istituzionale e, negli anni Trenta, produrrà quel semplicissimo slogan che durerà a lungo: "Fiat terra mare cielo". Anche l'Ansaldo aveva una produzione molto diversificata: navi da guerra e mercantili, cannoni e mitragliatrici, bombe, aeroplani, automobili, veicoli industriali, locomotive e automotrici (fra le quali la famosa "littorina" del 1938); e carri armati. Ormai erano ben lontani gli anni nei quali Giuseppe Palanti, un cartellonista specializzato nelle opere liriche, aveva dipinto un manifesto con i simboli tradizionali del lavoro, il martello e l'incudine, affidati a un operaio dalla "maschia mascella volitiva" (una somiglianza con Mussolini puramente casuale?). Si era cominciato a fare pubblicità alle automobili e ai furgoni da trasporto, si finiva nel '38 con gli annunci per i tanks e, inevitabilmente, per i prodotti autarchici. Quando la disfatta rese inutili le fabbriche d'armi e impose la riconversione produttiva, l'Ansaldo dovette mettersi a fare pubblicità alle macchine per l'edilizia (1945) e ai trattori (1947), nello stile retorico più duro a morire, quello dell'Arcadia e di O campagnola bella del maestro Di Lazzaro. La terza età del manifesto Nel secondo decennio del fascismo la cultura letteraria, con le diverse ma isolate eccezioni di Alberto Moravia e di Leonardo Sinisgalli (che non a caso, in epoca democratica, sarà il primo direttore di quella grande rivista che è stata "Civiltà delle macchine"), è ben felice di avere un'ulteriore occasione per ritirarsi in se stessa. Non è tanto il disprezzo per l'impegno politico (le lettere al Minculpop di troppi autori, che piativano sovvenzioni o posti nei giornali fascisti, dimostrano il contrario) ma disprezzo per qualunque impegno nella società e, nel migliore dei casi, paura di compromettersi. Nasce l'ermetismo, ed è significativo un titolo di Emilio Cecchi, Et in Arcadia ego. Invece, la cultura figurativa e architettonica è più ricca, e non è tutta conformista o evasiva: per pochi anni l'Italia vive un periodo di felici contraddizioni. Certo, non si può parlare ancora di una contrapposizione tra fascismo e antifascismo: quest'ultimo comincerà a prendere coscienza di sé nei piccoli gruppi come "Corrente", dopo le leggi razziali e la sciagurata alleanza con la Germania nazista. Ma si può parlare di una contrapposizione fra la cultura fascista che inglobava i vari aspetti della peggior tradizione italiana (il mito della terra, Strapaese, il classicismo, il "ritorno all'ordine") e la cultura dei giovani, anche fascisti, che guardavano all'Europa. Erano i giovani che si lasciavano influenzare dal Bauhaus e dal razionalismo, che propugnavano il "Novecento" come erede più razionale e sociale del futurismo; ed era con loro un grande artista affermato da anni, dichiaratamente fascista, Sironi, con la sua considerazione della civiltà industriale, nella sua necessità ma anche nelle sue cupezze. Mario Sironi è il grande protagonista del manifesto negli anni Trenta, ed è il caso più esplicito di artista che si compromette nella pubblicità e nella propaganda. Gli esempi del passato, in Italia, non erano stati né numerosi né convinti. Umberto Boccioni era stato l'autore di un paio di affiches (uno era il manifesto per un'esposizione artistica a Brunate, nel 1909). Più convinto di lui era stato lo scultore Leonardo Bistolfi, sostenitore dell'Art Nouvean, e quindi dell'arte decorativa e applicata; poi Nomellini, De Carolis e i dannunziani e infine Depero. La partecipazione di Sironi al manifesto non fu casuale come per Boccioni, né dettata da pure ragioni di sopravvivenza. Per Sironi la partecipazione alla propaganda e alla pubblicità nasceva da un impegno politico sentito sinceramente e da una visione dell'arte immersa nel sociale, che per lui era industriale e cittadino, cioè moderno. Sironi è stato il grande protagonista dell'arte applicata alla celebrazione del fascismo nei palazzi milanesi del tribunale e del "Popolo d'Italia", alla propaganda del regime e alla pubblicità a molti prodotti di prestigio. Dopo di lui, soltanto De Chirico, fra i grandi pittori, ha lavorato per un prodotto automobilistico, la Fiat 1400 (nel 1954): ma il manifesto non è che un quadro ampolloso della peggior maniera del De Chirico neo-classico. Il decennio fra la grande depressione e la seconda guerra mondiale è il periodo d'oro di Mario Gros, una singolare figura di pittore, cartellonista e industriale grafico. Aveva cominciato la sua carriera, giovanissimo, come autore di manifesti per l'Ambrosio Film e la Pittaluga, quando Torino era la capitale del cinema italiano: poi nel 1925 fondò, con due soci, lo stabilimento grafico Gros Monti & C., divenuto in seguito Mario Gros R C. Fra il 1925 e il 1942 è stato autore di numerosi manifesti, sia per la committenza privata, sia per lo Stato e il Comune di Torino: e anche i suoi clienti privati sono in grande maggioranza piemontesi: la Fiat, la Bergia, la Gazzetta del Popolo, Talmone, Contratto, Gancia, Riccadonna, Cora e altri. Nei suoi manifesti per la "Vittoria del grano" e per la "Festa dell'uva" (1931), vincitori di concorsi banditi dal governo, come in quelli per il Giugno radiofonico dell'EIAR e per i Campionati mondiali di calcio del '34, si vede bene come Gros sia passato dai moduli liberty dell'inizio ("Mazurka bleu") ai forti volumi e ai moduli dello stile fascista. Probabilmente il suo capolavoro di pittore-cartellonista è il manifesto per la Prima Mostra nazionale della Moda (1933), dove pure il regime è presente con lo stemma del partito nazionale fascista; ma il messaggio visivo è affidato ad un elegante recupero dell'iconografia classica, stranamente ben sostenuta da una scelta tipografica modernissima. Negli anni Trenta è ancora protagonista e maestro della pubblicità commerciale il vecchio Dudovich; ma si affaccia un giovane, Gino Boccasile, il celebratore delle gambe femminili sulle copertine della rivista "Le Grandi Firme" e sui manifesti commerciali, come del resto il meno noto Barbàra, una delle colonne del foglio umoristico "Marc'Aurelio". Boccasile era "il più fascista" fra i cartellonisti italiani; e fu l'unico tra quelli noti che diede poi la sua opera alla propaganda della Repubblica sociale. Il momento magico del 1933: Bauhaus e Razionalismo La crisi economica del 1929, e il ristretto potere d'acquisto delle classi proletarie e piccoloborghesi, stimolano l'intelligenza commerciale: nel 193031 nascono due grandi magazzini di livello e prezzi notevolmente inferiori alla Rinascente: sono l'Upim (la cui grande novità si traduce nella sigla che significa Unico Prezzo Imposto - Milano) e nella Standa (Società Tutti Articoli Necessari dell'Abbigliamento e Arredamento: ci sarebbe dovuta essere un'A in più, ma si vede che i proprietari avevano giudicato negativamente un'eventuale sigla Standa). Così anche la crisi non fermò i pubblicitari italiani, che operavano in strutture molto più piccole delle agenzie americane, con connotazioni fortemente artigianali. Nel 1930, Nino Caimi, dopo aver dovuto chiudere l'ERWA, apre il proprio studio Enneci che lancia alcune campagne collettive (per lo zucchero, per le banane della Somalia - allora una squisita rarità e per la birra: "Chi beve birra, campa cent'anni"). Nello stesso anno Anton Gino Domeneghini fonda l'IMA ("Idea-Metodo-Arte") che ha per clienti Citterio, Gillette, Tassoni, Coca Cola; Guido Mazzali si fa consulente per l'Alpestre, la Wamar, la Lagomarsino; Giulio Cesare Ricciardi e Pier Luigi Balzaretti danno vita alla Balza-Ricc (Gancia, Locatelli, Alfa Collirio). Intanto l'ACME-Dalmonte continua la sua attività, lavorando per Borletti, Pirelli, Cirio, Cinzano, Watermann, Gazzoni, Fernet Branca, Martini & Rossi. Negli anni immediatamente seguenti, si aprono gli studi di Aldo Foà, Ernesto D'Angelo e Lanx di Roberto Pomè, uscito dalla Rinascente. Erano anni di grandi contraddizioni culturali. Continuava la tradizione del manifesto con Dudovich, Seneca, Sepo e il francese Cassandre; e il maestro del nuovo cartellonismo artistico è un grande pittore, Sironi, considerato l'alfiere dei tempi nuovi, l'interprete dell'anima moderna del fascismo. Però in pubblicità si affermavano nuovi artisti, e con loro nuove tecniche e nuove idee. I giovanissimi Franco Mosca e Giaci Mondaini introducevano la fotografia nel manifesto turistico, dal quale - nel secondo dopoguerra - dilagherà in tutti i settori merceologici. Poi il grafico Carlo Dradi e il pittore Attilio Rossi, fra i primi in Italia ad essere influenzati da Walter Gropius e dal Bauhaus, con un gruppo di pittori pubblicarono la modernissima rivista "Campo Grafico". Le contraddizioni culturali del fascismo si videro proprio nella Mostra della Rivoluzione Fascista organizzata a Roma nel 1932, che mescolò la retorica del regime e del secondo futurismo allo "Strapaese" di Maccari e Longanesi (quest'ultimo autore, fra l'altro, del celebre motto "Libro e moschetto - fascista perfetto") e addirittura ai movimenti del "Novecento" e del "Razionalismo". Così, nel 1933, proprio mentre in Germania Hitler va al potere e sopprime il Bauhaus, insieme a molte altre cose a cominciare dalla libertà, in Italia c'è un momento di grande innovazione architettonica e pubblicitaria. In quell'anno comincia infatti la costruzione della stazione ferroviaria di Firenze, in puro stile razionalista, invano osteggiata da un grande gerarca del partito fascista e da un despota del fascismo culturale, rispettivamente Roberto Farinacci e Ugo Ojetti. Al Palazzo dell'arte di Milano s'inaugura la Triennale, tutta razionalismo e Novecento, che ospita una rivoluzionaria sezione della grafica tedesca, canto del cigno del Bauhaus, allestita da Paul Renner, inventore del carattere tipografico "Futura", che verrà usato moltissimo quarant'anni dopo. Nello stesso 1933, nasce a Milano lo Studio Boggeri, nel quale lavoreranno Xanty Schavinsky e Herbert Beyer, esuli dalla Germania nazista, Max Huber e l'esordiente Erberto Carboni. Nasce anche, come si è detto, "Campo grafico" che, come ha ricordato il suo primo direttore, Attilio Rossi, tra la falsa modernità razionalista di "Strapaese" e l'avanguardia europea di "Stracittà", scelse quest'ultima. La rivista fu diretta da Rossi fino al febbraio 1935, poi da Luigi Minardi e Carlo Dradi sino al febbraio 1939; l'ultimo numero uscì a cura di Enrico Bona. (1) Molto innovativa fu la copertina del primo numero, un fotomontaggio, il primo fatto in Italia e uno dei primissimi in tutto il mondo: era un'idea ripresa al volo dalla proposta avanzata in quello stesso anno da Grosz e Heartfield. Inoltre, nel numero del dicembre '34, Antonio Boggeri pubblicò una lettera nella quale profetizzava che la fotografia sarebbe diventata la protagonista della grafica moderna. Va anche detto che ogni numero aveva un'impaginazione diversa e che, per coerenza, anche gli annunci pubblicitari venivano "organizzati" in modo differente, da un numero all'altro. In quegli anni, oltre a Carboni e a Huber, si fanno notare alcuni giovani artisti, che saranno attivi nella pubblicità ancora per molti anni dopo la seconda guerra mondiale: Bruno Munari, Riccardo Ricas, Carlo Dinelli, Nico Edel. L'organizzazione del consenso La crisi economica aveva rischiato di compromettere il consenso, più o meno forzoso, ottenuto dal fascismo nei primi anni e culminato nell'adesione dei cattolici con il Concordato del 1929. Contro la crisi economica, e i pericoli di degenerazione politica, l'economia va recuperata e il consenso dev'essere organizzato: lo Stato si fa totalitario e sempre più propagandistico. Sul piano economico, oltre alla ristrutturazione bancaria e industriale della quale si è già detto, il fascismo si preoccupa dell'alimentazione di base: proclama ogni anno la "battaglia del grano", esalta la campagna e dichiara guerra all'urbanesimo. Nel 1932 dà il via alla bonifica delle paludi pontine, dalla quale nascono Littoria (poi Latina), Pomezia, Sabaudia, Pontinia e Aprilia. Siamo moderni e futuristi, ma contadini. Mentre le altre grandi potenze (quelle che sono tali veramente, gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Francia, la Germania e l'URSS dei terribili piani quinquennali) si fanno sempre più ricche d'industrie, l'Italia vuole diventare sempre più agricola. In realtà, nel 1937, per la prima volta nella storia italiana, l'industria con il 34 per cento del prodotto lordo superò l'agricoltura, rimasta al 30 per cento, ma il capovolgimento passò quasi inosservato. Perché era arcaica e agricola l'ideologia delle classi dominanti e degli intellettuali (basti leggere l'antifascista Salvemini, senza parlare di poeti e letterati). Era un'ideologia che affondava le radici in una lunga tradizione della cultura dei proprietari di terre, da Virgilio a Manzoni, così diversa dalla cultura anglosassone; tanto arcaica e profondamente nazionale da sopravvivere al fascismo e da continuare, con altre manifestazioni apparenti, sia nel mondo cattolico del dopoguerra, sia nella sinistra, anche nella più eversiva delle contestazioni sociali, e fino alla soglia del 1980. Allora si manifestava con i tozzi contadini dei monumenti celebrativi e dei quadri dedicati alla "famiglia italiana", con Mussolini che trebbiava il grano a torso nudo e ballava sulle aie con le contadine, come nella sua giovinezza romagnola, e con l'incosciente protervia di Mino Maccari: "Val più un rutto del tuo pievano che l'America e la sua boria". Più aulicamente, Mussolini faceva scrivere su tutti i muri: "È l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende". Bellissimo, degno di un d'Annunzio minore: ma intanto gli "altri" preparavano i cannoni, gli aerei, il radar, i carri armati (quelli veri, non le "scatole di sardine" del Regio Esercito), con i quali avrebbero polverizzato noi, i nostri otto milioni di baionette, la nostra romanità del sabato fascista, e i rutti di tutti i nostri pievani, gerarchi, federali e generali. Alla crisi del 1929-32, il fascismo non reagì soltanto con la ristrutturazione bancaria e industriale e con l'intensificazione dei programmi agricoli. Diede anche altre risposte: l'espansione coloniale e il riarmo da una parte e, dall'altra, il tentativo di fondare uno stato corporativo. Il corporativismo ha un primo momento di socialità (1931-34) poi, con la guerra d'Etiopia, prende un aspetto nazionalistico e si accompagna alla nascente autarchia, come risposta alle "inique sanzioni" promosse dalla Società delle Nazioni in seguito alla nostra aggressione all'Etiopia. L'organizzazione del consenso si fa totalitaria a partire dal 1932: diventa segretario del partito il più ottuso esecutore degli ordini mussoliniani, Starace, e viene organizzata la Mostra della Rivoluzione Fascista, nel decennale della marcia su Roma: le sezioni della mostra sono curate da Achille Funi, Marcello Nizzoli, Arnaldo Carpanetti, Mino Maccari, Mario Sironi e da altri. Sironi ne fece anche il manifesto. Nacque allora il modo di dire "cambio della guardia", esteso poi ai ministri silurati e sostituiti, passato anche al linguaggio giornalistico della democrazia: i gerarchi, gli accademici d'Italia, gli intellettuali facevano a turno la guardia all'ingresso della mostra, ed è molto nota una tragicomica fotografia del vecchio Mascagni, con fez, camicia nera, moschetto e pancione senile. Due anni dopo furono istituiti gli assegni familiari per i lavoratori che erano costretti a meno di quaranta ore settimanali; nel '36 gli assegni familiari vennero generalizzati. Il paternalismo sociale del regime istituisce anche l'Opera Nazionale Dopolavoro, le Case della Madre e del Fanciullo, i treni popolari, e favorisce la costruzione della Fiat 500, la "Topolino", prima utilitaria italiana. Al paternalismo sociale si accompagnava lo stringimento dei freni intellettuali: nel 1934 viene istituito il Ministero della Cultura popolare (Minculpop) affidato prima al genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, poi ad Alessandro Pavolini. Il Minculpop esercita uno strettissimo controllo sulla stampa (anche con le famose "veline"); ma estende la sua autorità ai nuovi strumenti che sono i favoriti del regime, la radio e il cinema. Le radio vengono installate nelle scuole, nelle fabbriche, negli uffici pubblici, non soltanto per fare ascoltare i sempre più frequenti discorsi del duce, ma anche per le altre trasmissioni dichiaratamente propagandistiche, o percorse dalla propaganda: le rubriche per gli agricoltori, per i ragazzi, per le donne. La politica del fascismo per il cinema si articola in vari filoni: nel favorire inevitabilmente i film di propaganda alla romanità, al nuovo Impero, alla guerra di Spagna e poi a quella del '40 (con gli esordi di Renzo Rossellini); ma anche, contemporaneamente, nel favorire i film d'evasione, detti spregiativamente dei "telefoni bianchi", dove emergono anche registi di valore, come Mario Camerini, che sarà il maestro di Vittorio De Sica. Nello stesso tempo, viene fondato l'Istituto Nazionale Luce per i cinegiornali e i documentari di propaganda al regime, s'istituiscono i cinema viaggianti (sul modello dei carri di Tespi teatrali) per portare i cinegiornali e i film propagandistici anche nei più piccoli paesi; infine, nel 1937, viene fondata Cinecittà con lo scopo d'intensificare la produzione nazionale perché, come dice Mussolini, "la cinematografia é l'arma più forte". La conquista dell'Etiopia, è dimostrato, rappresenta il momento del massimo consenso dell'Italia contadina, piccolo-borghese e anche intellettuale, frustrata da molti complessi d'inferiorità, Adua compresa. Mentre le donne donano la "fede" alla patria, seguendo l'esempio della Regina Elena, gli esponenti dell'antifascismo liberale, Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, danno alla patria fascista la medaglietta di senatore; e, con grande realismo, o cinismo, dopo la conquista dell'impero, i giovani comunisti scrivono agli universitari fascisti la poco nota, et pour cause, "Lettera ai fratelli in camicia nera", nella quale propongono di usare insieme il manganello contro i borghesi. Preferite i prodotti nazionali E' il periodo dell'autarchia: si debbono preferire i prodotti nazionali. Tutto è nazionale, italiano, e spesso italianissimo, dalle fibre artificiali ai dadi per brodo: si deve consumare non per vivere, o per trarne piacere, ma per provare l'orgoglio di sostenere i prodotti dell'industria italiana. Senza volere, l'autarchia apre la strada al nuovo linguaggio sintetico della pubblicità: Lanital, Maltoriso, Noveltex, Snia-fiocco. La pubblicità collettiva per il cappello, maschile e femminile, risente dei tabù del tempo. Così la pubblicità per la seta: "Elegante, ma solo a metà, è la donna che calze non ha. Se portasse le calze di seta, l'eleganza sarebbe completa". (2) Nella propaganda all'autarchia e ai suoi prodotti si distingue l'ufficio "tecnico" dell'UPI, la concessionaria del "Popolo d'Italia" e dei giornali italiani all'estero. Il 28 ottobre 1932, per il decimo anniversario della marcia su Roma, gli annunci pubblicitari raccolti dalla concessionaria permisero l'uscita di un numero davvero speciale del "Popolo d'Italia": 16 pagine normali più 80 in rotostampa. Ampliata nel 1935 con l'incorporazione della società specializzata Augusta Edizioni e Pubblicità, nel '39 con l'acquisizione della S.A. Italpropaganda e un anno dopo con l'acquisto della SAPE (Società Anonima Pubblicità Estero), l'organizzazione UPI per i paesi stranieri progettò in Italia, nei suoi uffici creativi, e diffuse all'estero, numerose campagne per il turismo italiano, per mostre e fiere, e per molti prodotti nazionali. All'interno, nel 1936, l'UPI diffuse due campagne di regime: l'annuncio di Domenico Fontana per lo stato corporativo e la serie di annunci contro le sanzioni economiche che la Società delle Nazioni aveva applicato all'Italia dopo la nostra aggressione all'Etiopia. Due anni dopo, la stessa concessionaria presentò un progetto di pubblicità mondiale per l'esposizione romana E42 che avrebbe dovuto celebrare il ventennale del regime fascista. Approvato da Mussolini, il progetto venne naturalmente affidato all'UPI per la realizzazione. La stessa società nel 1939 acquistò l'Industria Corto Metraggi (INCOM), che era l'unico ente privato autorizzato alla produzione di documentari (a parte l'ufficiale Istituto Luce). E, durante la guerra, ottenne la gestione dei giornali italiani in Francia e in Grecia. Dino Villani artista e pubblicitario Nel 1930 era arrivato a Milano un giovanotto che si chiamava Dino Villani. Nato nel 1898, era stato capostazione a Suzzara, poi dimissionario dalle Ferrovie nel 1923, per incompatibilità con il fascismo: ma di questa sua coraggiosa presa di posizione e del suo antifascismo socialista, non si fece mai un vanto. S'impiegò nella ditta Fratelli Bertazzoni, che aveva alberghi e cinema fra Suzzara e Riccione, dove faceva il contabile; ma era disegnatore e incisore, e fece per i Bertazzoni i suoi primi annunci pubblicitari. Quando poi s'inaugurò a Cattolica il Grand Hotel Kursaal, Villani fece celebrare l'avvenimento con una mostra di pittura, per la quale ideò il manifesto e la copertina del catalogo. E degli artisti rimase sempre amico e mecenate: più tardi, con Zavattini, inventò il premio Suzzara di pittura, poi il premio Diomira per i giovani artisti, il premio Illustrazione e tanti altri. Nel 1928 ebbe la rivelazione del proprio futuro, vedendo a Riccione una mostra di manifesti della Buitoni e della Perugina: "In quel magico e mai dimenticato pomeriggio scrisse in Storia del manifesto - compresi che avrei dovuto fare, a tutti i costi, il pubblicitario!" Due anni dopo abbandonò l'impiego: Piero Caleffi lo presentò a Guido Mazzali e si trovò redattore de "L'Ufficio Moderno". Nel '34 diventò il capufficio pubblicità della Motta, e da quel momento si rivelò il più grande inventore sia di campagne tradizionali, sia d'iniziative di relazioni pubbliche e di eventi che oggi diremmo sponsorizzati. Ma non fu soltanto un grande ideatore e organizzatore di attività pubblicitarie; fu anche sempre presente, ed elemento propulsore, delle iniziative associative non ufficiali, al di fuori dei sindacati fascisti. Seguiamo, per sommi capi, il primo filone del suo lavoro. Appena entrato alla Motta, affidò il manifesto per il panettone a Sepo, che ne fece un'immagine destinata a restare per molti anni un vero e proprio marchio del prodotto, e anche della stessa Milano; e commissionò a Cassandre il manifesto per il lancio della colomba. Ma non si limitò a questo, affidando a Erberto Carboni le campagne sulla stampa, e allo stesso Carboni e allo studio Boggeri il sistematico allestimento delle vetrine dei negozi Motta. Villani si pose anche il problema della pubblicità istituzionale: fare di Angelo Motta, ex fornaio, un grande industriale nell'immagine del pubblico, oltre che nei fatti. Inventò allora il premio "Angelo Motta - Notte di Natale", per un atto di bontà o d'altruismo; e questa fu certamente la prima azione di relazioni pubbliche in Italia, ed ebbe una risonanza grandissima. Villani aveva anche uno spiccato senso dell'evento da creare per attirare l'attenzione dei mezzi di comunicazione: nel 1937 ideò la consegna del panettone gigante ai vincitori delle tappe del Giro d'Italia e al vincitore dell'ultima tappa del Tour de France. Passato nel '39 alla Giviemme, creò il concorso d'immediato e grande successo "Cinquemila lire per un sorriso", che dopo la guerra divenne il concorso per Miss Italia, oltre ai premi "Il film della vostra vita" e "La bella italiana nella pittura contemporanea". Dopo la seconda guerra mondiale, costituì la Orma, per la pubblicità e le manifestazioni del gruppo Carlo Erba Giviemme. Per altri clienti, inventò il concorso nazionale "La sposa d'Italia" (Necchi) e il "Premio San Valentino" (Saiwa e Alemagna, poi Zucchi), e un'infinità di altre manifestazioni. Il suo senso degli "eventi" lo portò ad essere il fondatore della Festa della Mamma, dell'Accademia italiana della cucina, dell'Associazione Amici del Po e di tante altre iniziative. Il secondo filone - l'associazionismo non ufficiale - lo vede, nei primissimi anni Trenta, ai "Pranzi dell'Ufficio moderno", che si tenevano al ristorante "Penna d'oca". Da essi nacque il Gruppo Amici della Razionalizzazione: con Villani e Guido Mazzali, c'erano personaggi come Adriano Olivetti, Roberto Tremelloni, Libero Lenti, Ferdinando di Fenizio, Ignazio Weiss, Lelio Basso, Piero Caleffi, Virgilio Dagnino (che era stato nel 1928 il direttore dell'ultima rivista antifascista italiana, "Pietre"), Aldo Oberdorfer, Enzo Ferrieri, Antonio Valeri e altri. Il GAR voleva essere un gruppo per lo studio e la previsione di un'economia in sviluppo, ma ebbe vita breve, dal 1931 al 1933, quando l'autorità di polizia lo sciolse perché vi erano troppi antifascisti, facendolo assorbire dal Centro di studi di economia corporativa. Nel 1950 Villani ne riprese l'idea, fondando la Brigata degli amici della Spiga. Già da quattro anni (1946) era presidente dell'Associazione tecnici ed artisti della pubblicità; nel 1950 divenne presidente della FIP (Federazione Italiana della Pubblicità). Negli ultimi anni della sua vita (morì nel 1989 a poco più di novant'anni) era stato un assiduo membro del Comitato di controllo dell'autodisciplina pubblicitaria, che, nei primi tempi, aveva anche presieduto, dimostrando una saggezza ed una comprensione per i diritti dei consumatori, che ne facevano il meno corporativo e il più illuminato fra i professionisti che rappresentavano la pubblicità in quel Comitat. NOTE 1. Campo grafico (1933-39), di Attilio Rossi - Ed. Electa, 1983. 2. A proposito di pubblicità in rima: la scrittrice Donatella Ziliotto ricorda ancora questo annuncio sentito da Radio Trieste durante la guerra: Disse un giorno un combiné: tutto rotto sono ahimè. Gli rispose un reggipetto: usa l'Adria, che è perfetto. 3. Storia del manifesto pubblicitario, di Dino Villani - Omnia Editrice, 1964.