AA 2012 /’13 – Terza parte Dispense Corso Vangeli sinottici – prof. d. Davide Arcangeli
5. VANGELO DI LUCA E ATTI DEGLI APOSTOLI
5. 1. UN’UNICA OPERA IN DUE VOLUMI
5. 1.1. AUTORE
Tre riferimenti (Fm 24; Col 4, 14; 2 Tm 4, 11) indicano Luca come compagno e collaboratore di
Paolo, fedele anche nella prigionia. Egli è appellato come il “caro medico” (Col 4, 14) e il suo nome
viene dopo un elenco di compagni (Aristarco, Marco, Gesù, Epafra) che vengono dalla circoncisione,
ossia dal giudaismo (4, 11). Sembra dunque che anche Luca, che fa parte della lista seguente, non
debba essere considerato parte dei compagni giudei di Paolo. Una conferma interna all’opera può
venire da Lc 2, 22: qui infatti Luca sembra pensare ad una purificazione riguardante non solo la donna
ma anche l’uomo: questo errore non sarebbe plausibile per un autore giudeocristiano. Infine la sua
descrizione geografica della Palestina non è accurata (cfr. 4, 44; 17, 11). Ulteriori elementi vengono
dal suo stile greco, con una grande capacità di imitazione di stili diversi, dalla retorica classica del
discorso di Paolo all’areopago di Atene (At 17, 16 – 31), al prologo delle opere storiche in Lc 1, 1 –
3, allo stile della LXX nei racconti dell’infanzia (Lc 1 – 2). Nel prologo egli si include tra coloro che
hanno raccolto le notizie dai testimoni oculari e ministri della parola.
Da questi elementi possiamo dedurre che Luca è un greco, di livello culturale alto, con una profonda
conoscenza della LXX (traduzione greca dell’Antico Testamento). Egli è un pagano convertito al
cristianesimo a causa dell’incontro con Paolo e con la prima comunità cristiana. La sua conoscenza
dell’Antico Testamento si può giustificare anche ipotizzando che prima dell’incontro con Cristo, Luca
fosse un timorato di Dio, ossia un pagano in contatto col giudaismo sinagogale.
5.1.2 LETTORE IMPLICITO
Le ultime righe del libro degli Atti degli Apostoli (At 28, 25 – 28) si riferiscono al compiersi delle
profezie dell’Antico Testamento nella conversione dei gentili al Vangelo. Questa osservazione mostra
già in modo assai probabile che il Vangelo di Luca sia stato scritto per un uditorio di pagani e non di
giudeocristiani. Inoltre Luca lascia cadere le espressioni aramaiche di Marco e nomi di luogo, perché
probabilmente non potevano essere compresi dal suo lettore. Ancora nella sua narrazione della vita e
della passione di Gesù Luca cerca di scagionarlo da ogni riferimento alla violenza, alla trasgressione
della legge romana e a connotazioni di tipo politico/militare, insistendo molto sulla sua innocenza
(cfr. 23, 4. 21. 41). Probabilmente si preoccupa che il lettore pagano non percepisca il Vangelo come
in opposizione all’impero romano e alle sue leggi (cfr. At 17, 7), accusa che poteva facilmente essere
rivolta anche da giudei ostili. Ancora ci sono caratteristiche nella presentazione di Gesù che riflettono
il romanzo ellenistico pagano, come ad esempio la narrazione dell’infanzia e dell’adolescenza di
Gesù. Infine la resistenza a presentare Gesù sofferente e l’insistenza sulla consolazione si addice
particolarmente ad una presentazione adatta al mondo pagano. La tradizione secondo cui Luca fu
compagno di Paolo rende verisimile che Lc/Atti fossero indirizzati a chiese che avevano avuto origine
dalla missione paolina.
5.1.3 DATAZIONE
Gli esegeti sono pressochè concordi nel ritenere che Luca abbia utilizzato Marco come fonte (cfr.
teoria delle due fonti). Su tale base, dal momento che Marco va datato a cavallo della distruzione di
Gerusalemme e del Tempio ad opera di Tito (70 d.C.), bisogna datare Luca almeno dopo l’80 d.C..
Infine non è ipotizzabile una datazione posteriore al 100 d.C. dal momento che non c’è traccia
nell’opera lucana di un modello ecclesiale evoluto come quello (Vescovo – presbiteri – diaconi)
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testimoniato da Ignazio di Antiochia nelle sue lettere, databili all’inizio del II sec., ma si parla soltanto
di “presbiteri”.
5.2 COMPOSIZIONE NARRATIVA
5.2.1. COMPOSIZIONE NARRATIVA GLOBALE
La composizione obbedisce ad un progetto globale, già anticipato in Lc 4, 16 – 28, episodio
dell’annuncio di Gesù a Nazareth. Infatti nei vv. 24 – 27 Gesù stesso si presenta come il compimento
dell’annuncio e del destino dei profeti, annuncio universale rivolto alle nazioni, che passa attraverso
il rifiuto del suo popolo. Egli è, come già affermato da Simeone, in una preghiera rivolta a Dio: “luce
per rivelarti ai popoli, e gloria del tuo popolo Israele” (2, 32). Questo progetto di rivelazione culmina
nella passione, morte e resurrezione di Cristo a Gerusalemme e nell’annuncio a tutti i popoli in vista
della loro conversione e del perdono dei peccati (cfr. Lc 24, 46 – 47). Se la prima parte della
rivelazione si compie nel Vangelo la seconda parte di compie con gli Atti degli Apostoli. La prima
parte va dalla Galilea a Gerusalemme, dove il mistero pasquale culmina con la resurrezione e
l’ascensione, la seconda parte invece da Gerusalemme fino a Roma, che rappresenta, per la presenza
di Cesare, a cui Paolo si era appellato, il centro simbolico dell’universalità dei popoli pagani. Il libro
degli Atti si conclude infatti con il compimento della profezia Isaiana (Is 6, 9 – 10) interpretata alla
luce della storia della salvezza, per la quale il rifiuto del Vangelo da parte dei giudei apre l’annuncio
a tutti i popoli pagani (cfr. 28, 28). Si comprende allora perché in questo progetto narrativo non trovi
posto il martirio degli apostoli. A Luca è infatti sufficiente narrare l’arrivo del Vangelo fino ai confini
della terra e inoltre ha già parlato della conformazione martiriale del discepolo a Cristo narrando la
morte di Stefano e anche le sofferenze di Paolo. Infine si comprende anche il grande ruolo che Paolo
assume in tutta la seconda parte del libro. Egli è infatti l’Apostolo, che porta a compimento il disegno
profetico con l’annuncio del Vangelo ai pagani.
5.2.2 COMPOSIZIONE NARRATIVA DEL VANGELO
Luca presenta lo stesso schema generale dei vangeli di Matteo e di Marco: un’introduzione, la
predicazione di Gesù in Galilea, la sua salita verso Gerusalemme, il compimento finale della sua
missione in questa città attraverso la passione e resurrezione. Ma la costruzione di Luca è elaborata
con cura allo scopo di far risaltare in questa storia i tempi e i luoghi della storia della salvezza.
I SEZIONE: TEMPO DELLA NASCITA.
Fino a 4, 3 Luca introduce tutto il quadro narrativo di Luca / Atti con la sezione dell’infanzia (1, 5 –
2, 51), del battesimo e delle tentazioni (3, 1 - 4, 13), ponendo la nascita e il ministero storico di Gesù
in rapporto con Giovanni il Battista. Gesù è il messia dotato di Spirito Santo (4, 1), il Figlio di Dio
(3, 22; 4, 9) che compie le promesse dell’Antico Testamento, globalmente rappresentate dalla
predicazione del Battista (cfr. 3, 1 – 6).
II SEZIONE: TEMPO DEL MINISTERO STORICO. INIZIO IN GALILEA.
Con la prima predicazione a Nazareth (4, 14 – 29) ricapitolativa del progetto di Dio che, passando
attraverso il rifiuto dei suoi, vuole portare il Vangelo fino ai pagani (cfr. 4, 25 – 27) inizia la nuova
sezione del ministero di Gesù in Galilea, che si protrae fino a 9, 50. Dopo la prima giornata
missionaria a Cafarnao (4, 31 – 44 cfr. Mc 1, 21 - 34 ) Luca, distanziandosi dalla sua fonte marciana,
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colloca la chiamata dei discepoli (5, 1 – 11) ma poi ritorna a seguire l’ordine di Marco con la
guarigione del lebbroso ( 5, 12 – 16 cfr. Mc 1, 40 – 45). Fino a 6, 11 Luca pone una serie di cinque
controversie con i farisei, seguendo Mc 2, 1 – 3, 6. Da 6, 17 a 8, 3 Luca abbandona l’ordine di Marco
e segue piuttosto un filo conduttore a partire da materiale in comune con Matteo (cfr. Mt 5 – 8). Si
tratta del discorso di Gesù sulle beatitudini e sull’amore del nemico (Lc 6, 17 – 49) e di compimento
delle promesse messianiche in Gesù a partire dalla testimonianza del Battista (7, 18 – 50). La sequenza
seguente (Lc 8, 4 – 25) riprende Marco con la sezione delle parabole del Regno (cfr. Mc 4, 1 – 41) e
con le domande sull’identità di Gesù, la confessione di Pietro e gli annunci della passione (Lc 9, 1 –
50. Cfr. Mc 6, 1 – 9, 40).
III SEZIONE: TEMPO DEL MINISTERO STORICO. GESÙ IN VIAGGIO VERSO
GERUSALEMME.
Da 9, 51 a 19, 27 Gesù si mette in viaggio verso Gerusalemme e il narratore si ferma ripetutamente
a ricordarlo, dopo lunghe sezioni discorsive (cfr. 13, 22; 17, 11). In 19, 28 con la narrazione
dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme termina la sezione del viaggio. Unicamente lucani sono:
l’incontro ostile con un villaggio samaritano (9, 51 – 56), la missione dei settantadue (10, 1 – 12), la
parabola del buon samaritano (10, 29 – 37), la parabola della donna che ha perso e ritrovato la sua
moneta e del padre misericordioso (15, 8 – 32), dell’amministratore disonesto (16, 1 – 8), del giudice
iniquo (18, 1 – 8) del fariseo e pubblicano (18, 9 – 14) e i racconti dei dieci lebbrosi (17, 11 – 19) e
di Zaccheo (19, 1 – 10).
IV SEZIONE: TEMPO DEL MINISTERO STkORICO. GERUSALEMME.
Da 19, 28 a 21, 38 viene narrato il ministero di Gesù a Gerusalemme. Dopo il suo ingresso regale
(19, 28 – 38) Gesù dà inizio al suo insegnamento nel tempio, che prova gravi contrasti e domande da
parte dell’autorità ( 19, 47 – 20, 8). Da 20,9 fino a 20, 44 una parabola (vignaioli omicidi) e tre
controversie (tributo a Cesare, resurrezione dei morti, Cristo figlio di Dio e Signore di Davide)
vengono concluse dal giudizio degli scribi e dei ricchi (20, 45 – 47. 21, 1 – 4). In 21, 5 – 37 si trova
il discorso escatologico.
V SEZIONE: FINE DEL TEMPO STORICO DI GESÙ. PASSIONE, MORTE, RESURREZIONE
E ASCENSIONE IN GERUSALEMME
Da 22, 1 a 24, 53 si trova la sezione del racconto della passione/morte ( 22- 23) e resurrezione (24)
di Gesù. Unicamente lucano è il racconto dei discepoli di Emmaus (Lc 24, 13 – 35).
Luca segna con chiarezza la distinzione tra il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa, perché dedica
il primo libro al tempo storico di Gesù e il secondo al tempo della Chiesa. Fin dall’inizio sottolinea
l’oggi della salvezza, indirizzata soprattutto ai poveri e agli ultimi. L’opera di Gesù è il tempo della
visita, il momento che occorre cogliere (Lc 2, 29. 19, 42 – 44), con una decisione definitiva di
conversione nell’ora della salvezza (Lc 4, 2. 7, 29 - 30). L’itinerario storico di Gesù va dalla Galilea
a Gerusalemme, luogo in cui si compie la sua vicenda terrena con l’ascensione (Lc 24, 50 – 53).
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5.2.3 COMPOSIZIONE NARRATIVA E TEOLOGICA DI ATTI
1, 1 – 14 introduzione con la narrazione dell’ascensione (1, 6 – 10), che si riaggiancia alla fine del
Vangelo.
I PARTE 1, 12 – 8, 4 è la parte in cui si parla della comunità gerosolimitana; 1, 12 – 2, 47 i Dodici e
la Chiesa 2, 42 – 8, 4 comunità e missione; 2, 42 – 47 sommario come perno; 1, 12 – 14 transizione;
8, 1b – 4 II transizione.
II PARTE 8, 1b – 14, 28 inizio missione con Filippo e Pietro e anticipo vicenda di Paolo. Sommario
in 9, 31 e in 12, 24.
12, 24 – 14, 28 Barnaba – Paolo14, 27 – 28 transizione
III PARTE: 14, 27 – 16, 5 assemblea di Gerusalemme 15, 25 – 16, 5 transizione
IV PARTE: 15, 35 – 19, 22 missione di Paolo Macedonia – Acaia; Asia; Efeso
V PARTE: 19, 20 – 28, 16 passione di Paolo; 19, 20 – 23, 11 Gerusalemme; 23, 11 – 28, 16 verso
Roma
28, 14b – 31 conclusione preceduta da transizione in 14b – 16.
La composizione si semplifica molto considerando le due parti 1 – 12, 23 e 12, 24 – 28. Nella prima
parte protagonista principale è pietro, assieme ai dodici e ai diaconi Stefano e Filippo. Nella seconda
parte il protagonista assoluto è Paolo. Le due parti sono ben allacciate insieme da un’anticipo della
narrazione di Paolo in 9, 1 – 30 e una ricomparsa del protagonismo di Pietro in 15, 1 – 12, che sancisce
la posizione di Paolo e Barnaba sulla loro missione ai pagani.
Nel tempo della Chiesa la geografia lucana ha un grande valore teologico. La missione parte da
Gerusalemme e, dopo la persecuzione scoppiata a partire dall’uccisione di Stefano (8, 1), si diffonde
con la dispersione dei discepoli in Giudea e Samaria (cfr. 8, 2. 4 – 8), a Cipro, in Fenicia fino ad
arrivare ad Antiochia (cfr. 11, 19 – 20). Da qui inizia il cammino di Paolo che porta l’annuncio ai
pagani fino ai confini del mondo, rappresentati idealmente dalla città di Roma (At 13, 28).
5.3 APPROFONDIMENTO TEOLOGICO: ATTI COME PERCORSO DELLA
TESTIMONIANZA.
Gli atti sono il percorso della testimonianza. In At, 1, 8 Gesù annuncia ai suoi discepoli, subito prima
di essere assunto in cielo: “mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la giudea e la Samaria e fino
ai confini della terra”. Egli avendo il potere nei cieli, alla destra del padre, può ormai assicurare ai
suoi discepoli una testimonianza che si allarga a cerchi concentrici fino a coprire tutta l’estensione
della terra. Si parte da Gerusalemme e dalla giudea nei primi capitoli di Atti (fino a 8, 4) per poi
estendersi in Samaria con la predicazione di Filippo (cfr 8, 5 – 8. 26 – 40) ai pagani di Cesarea con
Pietro (c. 10), fino ai confini della terra con Paolo.
Cosa significa “sarete testimoni di me”? Questa espressione può indicare l’origine della
testimonianza, che è Gesù , colui che ha stabilito gli apostoli come testimoni e insieme anche il
contenuto della testimonianza che è Gesù stesso. Se nel Vangelo Gesù aveva mandato gli apostoli ad
annunciare il regno e guarire i malati (cfr.Lc 9, 2), negli Atti degli Apostoli tale annuncio del Regno
è radicalmente cristologizzato.
L’annuncio degli Apostoli è inseparabilmente una testimonianza di Gesù e in particolare della sua
resurrezione. Non a caso, quando si tratta di ricostituire il gruppo dei dodici sostituendo Giuda, i
requisiti richiesti per la scelta di un nuovo membro siano l’essere testimone della resurrezione di
Gesù, avendo condiviso con lui il suo ministero storico a partire dal battesimo di Giovanni fino
all’ascensione. (cfr. 1, 21 – 22)
Questa sostituzione indica altresì una componente decisiva della testimonianza, la sua pluralità o, più
esattamente, il suo carattere collegiale. Infatti Pietro sottolinea particolarmente la necessità di una
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persona che “ha vissuto con noi”, e di conseguenza è in grado di “testimoniare insieme”. Quando,
nel giorno di Pentecoste, Pietro parla alla folla radunata davanti agli apostoli, egli parla
rappresentando anche tutti gli altri: “questo Gesù, Dio l’ha resuscitato e noi tutti ne siamo testimoni”
(At 2, 32).
5.3.1 LA FORZA DELLO SPIRITO
La travolgente onda della testimonianza apostolica ha un propulsore che a tratti si manifesta nella sua
identità e conferma con i suoi segni l’agire e il parlare degli apostoli: lo Spirito Santo. Annunciato
già da Gesù prima della sua ascensione come forza che li sosterrà continuamente (At 1, 8), lo Spirito
Santo irrompe all’improvviso sugli apostoli in lingue di fuoco che si posano ciascuna su ogni
discepolo e li rendono capaci di un annuncio universale, in ogni lingua del mondo. Da quel momento
inizia la testimonianza degli Apostoli, con il lungo discorso di Pietro (1, 14 – 36), che identifica in
questi effetti di una parola profetica moltiplicata, il compiersi della Scrittura del profeta Gioele (1, 17
– 21). Lo Spirito conduce al compimento della Scrittura, con la nascita di un popolo profetico negli
ultimi giorni e produce la gioia dei tempi messianici (cfr. 8, 8; 13, 52). Questo popolo profetico
riproduce in se quelle caratteristiche che erano proprie del messia Gesù nel primo volume dell’opera
lucana: esso è infatti sospinto dalla consolazione e dalla forza dello Spirito Santo. Se si vuole la
Pentecoste negli Atti degli Apostoli corrisponde al battesimo d Gesù (Lc 3, 21 – 22).
Se nel c. 2 la parola di Pietro conferma l’agire dello Spirito riconoscendone i segni, nel c. 10 sarà
viceversa lo Spirito a confermare la parola di Pietro discendendo sulla famiglia del centurione
Cornelio, in quella che si può definire come una seconda Pentecoste, ossia la Pentecoste dei pagani.
Lo spirito irrompe al culmine della testimonianza di Pietro, ossia quando egli dichiara il compimento
della Scrittura profetica nel perdono dei peccati per mezzo del nome del risorto (10, 43 – 44).
5.3.2 I DISCEPOLI MODELLI DI CRISTO
Gli effetti dello Spirito si rivelano nel muovere questi discepoli ad una sempre maggiore
assimilazione al loro modello, Cristo. Stefano, pieno di Spirito Santo (7, 55) va incontro al suo destino
di morte per lapidazione, perdonando i suoi nemici come Gesù; Paolo, colmo di Spirito Santo (13, 9)
affronta i nemici della Parola di Dio con successo e predica ad Antiochia di Pisidia suscitando grande
concorso di gente e l’invidia dei giudei, proprio come Gesù nel Vangelo.
I discepoli di Gesù con la loro vita sono testimonianza del messia. Barnaba e Paolo affermano che è
Gesù ad aver ordinato loro di portare la salvezza “fino agli estremi confini della terra”, secondo la
profezia di Isaia, che vede nel servo di JHWH colui che è la luce delle genti (Atti 13, 43; cfr. Is 42,
6. 9). Questa profezia compiutasi in Gesù si compie ora in Paolo e Barnaba per la parola stessa di
Gesù (Lc 23, 34), facendo di essi modelli di Cristo stesso.
Come Cristo, i discepoli parlano con franchezza e operano segni e prodigi (14, 3), fanno miracoli,
guariscono paralitici e storpi (cfr. 8, 7; Lc 5, 17 - 26), scacciano i demoni (8, 7; Lc 5, 31 - 37), fanno
risorgere i morti (20, 7 – 12; Lc 8, 40 - 56).
Come Cristo affrontano la morte e la persecuzione (cfr. 7, 55 – 60; Lc 22, 39 - 46), come Cristo
predicono le loro sofferenze e le affrontano nella debolezza e precarietà (cfr. 20, 23 – 24; Lc 9, 22).
Se Paolo ha predetto le sue sofferenze mosso dallo Spirito, negli ultimi capitoli, che narrano l’arresto
di Paolo, la sua prigionia e l’arrivo a Roma, lo Spirito Santo non è quasi più citato. Come nel racconto
della passione di Gesù, anche qui le forze del potere umano diventano protagoniste e sembrano
sommergere la forza dello Spirito. In realtà sottotraccia il lavoro dello Spirito consiste in
un’assimilazione di Paolo in catene a Cristo sofferente, così che il Vangelo possa provvidenzialmente
essere testimoniato con la vita di Paolo fino a Roma.
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5. 4 ATTI 11, 19 – 26. 27 – 30; 12, 24 – 25. 13, 1 – 3.
Dopo l’inizio della missione ai pagani, sancito dall’iniziativa di Pietro su impulso dello Spirito Santo,
ora Luca si concentra sulla fondazione della comunità di Antiochia, la prima comunità in cui
convivono insieme giudeo – cristiani e pagano – cristiani.
Luca si riallaccia direttamente ad At 8, 1b – 4, dove si narra la diffusione della Parola dovuta alla
provvidenziale dispersione dei discepoli dopo la persecuzione scoppiata con il martirio di Stefano. In
tal modo la nascita della Chiesa di Antiochia crocevia della missione cristiana verso l’Asia e in Europa
e vero laboratorio di comunione ecclesiale ed evangelizzazione finisce per dipendere direttamente
dalla Chiesa di Gerusalemme e dalla “fecondità” della persecuzione che tale Chiesa madre ha dovuto
subire.
La breve unità letteraria di 11, 19 – 26 si può dividere in tre sottounità: vv. 19 – 21: arrivo dei dispersi
ad Antiochia, evangelizzazione e successo. vv. 22 – 24: arrivo di Barnaba, esortazione e successo.
vv. 25 – 26 arrivo di Saulo insegnamento e successo. Appendice (v. 26d): nasce la definizione di
cristiani.
5.4. 1 LA PRIMA MISSIONE DI ANONIMI DISCEPOLI: PERICOLOSO
DILETTANTISMO?
vv. 19 – 21 si riprende con le stesse parole il breve sommario della missione in Samaria e lungo la
costa palestinese per riferire che ora la Parola viene proclamata in Fenicia a Cipro e perfino ad
Antiochia, la metropoli situata sul fiume Oronte, a 35 Km dal mare, nell’attuale Turchia poco lontana
dalla frontiera con la Siria. La diffusione del Vangelo continua senza ostacoli, anzi ribaltando
paradossalmente gli ostacoli e le persecuzioni incontrate in nuove occasioni di annuncio, sempre più
lontano. A questo punto Luca si preoccupa di chiarire che l’annuncio della Parola era riservato
unicamente ai Giudei, come già era avvenuto per la Chiesa di Gerusalemme. Questa breve
annotazione prepara la svolta (v. 20) alcuni giudei provenienti da Cipro e da Cirene, che erano parte
del gruppo dei giudei cacciati da Gerusalemme, incominciano a predicare ai greci, ossia ai pagani,
che “Gesù è il Signore”. Si tratta di una breve formula “kerigmatica” in uso nella Chiesa pagano
cristiana di lingua greca (cfr. Rm 10, 9) e che indica la sovranità di Gesù risorto su tutta la storia e
atteso per la fine dei tempi.
Il successo di questa impresa spontanea è attribuito dal narratore all’azione della mano del Signore,
qui da intendersi come riferimento consueto a Dio (cfr.Ez 40, 1; Lc 1, 66). Tuttavia lo stesso termine
“Signore” viene usato nella stessa frase per indicare colui al quale i pagani credono e si convertono,
ossia Cristo. È evidente allora che qui l’azione provvidenziale di Dio è cristologizzata. È Cristo che
opera con la potenza della sua sovranità, dopo la ascensione al Padre, per confermare l’azione
spontanea di alcuni discepoli e indicare a tutta la Chiesa un modello di comunicazione del vangelo al
passo con i tempi.
È dunque interessante, in questo modello ecclesiale della Chiesa apostolica, come ci sia una
reciprocità tra ministero apostolico e missione spontanea dei discepoli. Pietro era stato il primo ad
annunciare il Vangelo ai pagani su impulso dello Spirito (At 10), poi vi è l’iniziativa dei discepoli,
che appare in un primo momento quasi scollegata. Tuttavia è l’azione stessa di Dio (lo Spirito nel
caso di Pietro e la mano Signore nel caso di discepoli) a garantirne la continuità. Sarà la presenza di
Barnaba ad esplicitare questo legame tra apostolicità e missione dei discepoli.
5.4.2 BARNABA, AUTORITÀ APOSTOLICA E INSIEME CARISMATICA.
vv. 22 – 24 Così come in 8, 14, avendo saputo dell’evangelizzazione in Samaria, gli apostoli avevano
inviato Pietro e Giovanni, qui la Chiesa di Gerusalemme invia Barnaba ad Antiochia. Egli giunge e
vede la grazia di Dio, che è una conferma del favore divino per questa missione (cfr. At 14, 3). D’altra
parte Barnaba è descritto come uomo pieno di fede e di Spirito Santo, dotato dunque delle lenti giuste
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per poter osservare l’agire di Dio nella comunità antiochena. Altri due verbi descrivono la sua azione
pastorale: “si rallegrò” e “esortava”. La gioia accompagna sempre la presenza della grazia di Dio (cfr.
charis/chairo), ed è un segno dell’adesione di fede della comunità o di una singola persona (cfr. At 8,
8. 39). Barnaba sa abbandonarsi alla gioia della fede nel contemplare i frutti di una missione a cui
egli non ha dato inizio in prima persona, di cui non è né il “padre” né il riferimento insostituibile. Egli
in prima istanza non arriva ad Antiochia per imporre una sua “visione” o per lasciare una qualche
“impronta” personale a questa Chiesa, ma semplicemente per osservare la grazia di Dio, rallegrarsi e
infine esortare. Con questo termine si allude alla funzione di annuncio della Parola non in chiave di
prima evangelizzazione, ma di approfondimento didattico e insieme “profetico” del mistero cristiano.
Barnaba, figlio dell’esortazione (At 4, 36), e profeta (cfr. At 13, 1) è chiamato ad approfondire la
fondazione di questa comunità sulla pietra angolare di Cristo, facendole percorrere un cammino di
“mistagogia”, per approfondire il mistero di quella Parola che gli antiocheni avevano già accolto.
Questa azione di Barnaba porta con se una ulteriore propulsione missionaria della comunità, e nuovi
considerevoli ingressi nella comunità (v. 24).
La comunione resa possibile dal ministero di Barnaba tra la Chiesa madre di Gerusalemme e la
neonata Chiesa di Antiochia, fondata sul discernimento dell’azione dello Spirito nelle iniziative
spontanee dei discepoli, sulla promozione e sull’esortazione è come un moltiplicatore della
potenzialità di questa comunità. Essa lungi dall’esaurire la propria attività all’esterno, appagata dai
suoi risultati, con la guida di Barnaba si abbandona sempre più alla potenza comunicativa del
Vangelo. È interessante la figura di Barnaba. Egli, chiamato a rappresentare le istanze degli apostoli
nella Chiesa di Antiochia, si mostra “profeta e dottore”, in grado di esortare ed insegnare. Egli
partecipa del dono dello Spirito di cui gode questa comunità e si pone a servizio di esso perché la
comunità possa essere sempre più consapevole dell’azione e della volontà di Dio in essa. Emerge un
profilo ecclesiale dell’apostolo che mette in discussione le nostre tradizionali distinzioni tra “carisma”
e “istituzione”.
5.4.3 BARNABA E PAOLO MODELLI DI “PASTORALE INTEGRATA”
vv. 25 – 26. Sospesa in 9, 30 la narrazione riguardante Paolo riprende qui il filo, grazia all’attività
mediatrice di Barnaba. Egli lo trova a Tarso di Cilicia, la sua città natale e lo conduce ad Antiochia.
Anche qui bisogna rendere a Barnaba l’onore della sua apertura di mente, di cuore e della sua
genialità spirituale. Perché andare a chiamare un uomo come Saulo, che a Gerusalemme aveva
fortemente rischiato la vita? In 9, 26 era stato lo stesso Barnaba a presentarlo agli apostoli, che invece
lo evitavano perché ne avevano paura. Anche qui Barnaba, da vero profeta, sa cogliere l’enorme
potenzialità del carisma spirituale di Paolo e al contempo intuisce la possibilità di metterlo a servizio
per la Chiesa di Antiochia, chiesa ricca di carismi e soprattutto di differenze radicali tra cristiani
provenienti dal giudaismo e cristiani provenienti dall’ellenismo. In un tale laboratorio di fede e
missione c’era bisogno di uno che fosse adeguatamente fondato sulla Scrittura, per comunicare ai
greci, che non conoscevano questo patrimonio profetico, il compimento della Parola di Dio in
Cristo. C’era bisogno di un “maestro” riconosciuto, in grado di “insegnare” insieme a Barnaba alla
Chiesa la verità delle Scritture compiuta in Cristo, anche ai pagani, per completare il disegno
formativo della “mistagogia” precedentemente iniziato con l’esortazione da parte di Barnaba.
Barnaba fornisce un modello innovativo per una spiritualità presbiterale. Egli non solo evita il rischio
di considerarsi unico punto di riferimento della Chiesa di Antiochia e garante dell’azione dello
Spirito. Non solo non azzera tutto ciò che era nato prima che lui arrivasse per ricostruire da capo
secondo la sua volontà. Egli “si rallegra” di ciò che vede e che non è dovuto a lui, si pone a servizio
dell’azione dello Spirito che è già operante e individua gli ulteriori bisogni della comunità,
discernendo la volontà di Dio. A tali bisogni non pensa di dover rispondere solo lui, ma è in grado di
attivare collaborazioni con altri intuendo quali specifici carismi potevano essere necessari in ordine
ai bisogni della comunità. Senza gelosie si mette a lavorare con Saulo di Tarso, dopo averlo cercato
e trovato nella sua città natale.
7
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5.4.4 KOINONÌA E MISSIONE UNIVERSALE
11, 27 – 30 Un gruppo di profeti viaggia da Gerusalemme fino ad Antiochia. Come abbiamo già visto
per Barnaba si tratta di un carisma che è dono di Dio e non è frutto dell’imposizione delle mani da
parte dell’autorità e la sua parola può avere molti frutti, tra cui incoraggiare nelle prove, consolare,
predire. Il legame tra Gerusalemme e Antiochia non è caratterizzato solo da una responsabilità
ministeriale da parte della Chiesa madre, ma anche da un flusso di carismi, che arricchiscono
Antiochia. La risposta della giovanissima Chiesa di fronte alla profezia di Agabo è la manifestazione
concreta di questa koinonìa, comunione ecclesiale, che si è stabilita con Gerusalemme. La colletta, di
cui Paolo si farà portatore ben oltre i bisogni di questa carestia, è vista già qui come il dono materiale
delle Chiese della gentilità in risposta al dono della fede ricevuto dalla Chiesa giudeo – cristiana di
Gerusalemme (cfr. Rm 15, 25 – 27). Tale colletta viene consegnata agli “anziani” di Gerusalemme,
prima interessante indicazione di un incarico ministeriale, distinto da quello degli apostoli, a capo
della Chiesa madre.
La comunione ecclesiale è un fatto insieme concreto e spirituale, che mostra il disegno di Dio in atto
(giudei e pagani insieme, che fanno della loro differenza un dono reciproco). L’elezione del popolo
di Dio è per i gentili e l’ingresso dei gentili porta a Gerusalemme le ricchezze delle nazioni (cfr. Is
60, 1 – 5). Tale koinonìa è insieme anche apertura universale della Chiesa, a tutti i tempi e tutti i
luoghi. La Chiesa di Antiochia si mostrerà pronta a donare due dei suoi più autorevoli membri, Paolo
e Barnaba, per una missione che oltrepassa i suoi confini territoriali.
5.4.5 PRESBITERIO, LUOGO DI PROFETI E DOTTORI
12, 24 – 25. 13, 1 – 3. Dopo aver narrato l’arresto di Pietro ad opera di Erode e la sua miracolosa
liberazione e la morte di Erode, Luca, con un brevissimo sommario accenna al fatto che la parola di
Dio cresceva e si diffondeva, senza che nessun potere umano potesse ormai ostacolarla. In questo
contesto di persecuzione e di crescita della Parola Paolo e Barnaba avevano compiuto il loro servizio
(diakonìa) verso la Chiesa di Gerusalemme e, avendo preso con se Giovanni Marco, tornarono ad
Antiochia. Questa comunità viene nuovamente descritta da Luca come retta da profeti e dottori.
Preghiera collettiva e digiuno sono la modalità con cui la Chiesa si pone in comunicazione con Dio
per fare la Sua volontà ed è in questo contesto che interviene nuovamente lo Spirito Santo, che designa
Paolo e Barnaba per l’opera alla quale sono stati chiamati e che il lettore scoprirà essere la grande
opera di evangelizzazione delle genti.
La conoscenza e la profezia sono due polarità entrambe necessarie e spesso compresenti in ciascuno
di questi leader della comunità antiochena. Infatti una conoscenza senza profezia manca di orecchi
per ascoltare le indicazioni concrete e spesso improvvise dello Spirito. Ma anche una profezia senza
conoscenza è pericolosa, perché rischia di perdere di vista il disegno complessivo della missione
ecclesiale connessa alla profondità del mistero di Cristo attestato dalle Scritture. Profondità di visione
e capacità di intuire i passi concreti da fare e le persone da promuovere: questo è mix che la polarità
di profeti e dottori può assicurare ad una Chiesa in cammino.
5. 5 EXCURSUS METODOLOGICO.
5.5.1 LA QUESTIONE SINOTTICA
La questione sinottica concerne il tentativo di individuare l’interrelazione e le reciproche dipendenze
tra i tre vangeli sinottici. L’ottanta per cento del materiale di Mc si trova in Mt e il 65 in Lc. Il
materiale di Mc che si trova in ambedue è chiamato triplice tradizione. Il materiale non marciano che
Mt e Lc hanno in comune è chiamato duplice tradizione.
8
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Si ipotizza che esista un vangelo prima dei sinottici. Già nel xviii sec Lessing ipotizzò l’esistenza di
un protovangelo in Aramaico, soluzione poi sviluppata da Eichorn e negli ultimi anni da Boismard,
che individua quattro fonti documentarie utilizzate dagli evangelisti sinottici.
Un’altra soluzione ipotizza che Matteo fu il primo Vangelo e Luca usò Matteo. Questa ipotesi fu
anzitutto di Agostino, ma fin dall’antichità Matteo è stato considerato il primo vangelo. Secondo essa
Matteo fu scritto per primo, Marco austeramente abbreviò Matteo e poi vennero Luca e Giovanni
ognuno dei quali attinse ai suoi predecessori. In epoca moderna Griesbach (1789) riprende tale ipotesi
sostenendo che Marco fu scritto per ultimo come riassunto che riporta prevalentemente materiale sul
quale concordano Matteo e Luca. Inoltre ci sono brani, come Mt 26, 68 e par. in cui Luca e Matteo
sono in accordo contro Mc, così che sembra che Luca usi Mt. Tuttavia vi sarebbe da spiegare
l’omissione da parte di Mc di tutta la duplice tradizione, nonché i diversi racconti in cui Lc e Mt sono
palesemente contraddittori (cfr. racconto dell’infanzia), nonché il diverso ordine con cui viene usato
in Mt e Lc il materiale che hanno in comune (Fonte Q).
Altra soluzione, quella generalmente più accettata, è quella delle due fonti. In questa soluzione si
ipotizza che Matteo e Luca dipendono da Mc e scrivono indipendentemente l’uno dall’altro. Ciò che
essi hanno in comune e che non dipende da Mc ossia la duplice tradizione, viene spiegato ipotizzando
la fonte Q. Essa spiega bene come mai Mt e Lc concordano con Mc nell’ordine e nella formulazione
e consente ragionevoli congetture sul perché se ne distanzino. Un argomento contrario potrebbe
essere quello degli accordi minori, ossia dove Mt e Lc concordano contro Mc (cfr. Mt 26 , 68, che
spesso viene spiegato ammettendo una forte presenza della comune tradizione orale).
Luca accoglie da Mc un 35 per cento del materiale, omettendo alcune parti ( Mc 6, 45 – 8, 26; 9, 41
– 10, 12), con alcune modifiche, con già in Matteo, per mettere in miglior luce i discepoli, ed evitando
espressioni irriguardose nei confronti di Gesù. Accentua il distacco dai beni elimina le traslitterazioni
dall’aramaico. Diversamente da Matteo l’evangelista Luca conserva il materiale di Q in due sequenze
in 6, 20 – 8, 3 e in 9, 51 – 18, 14 e utilizza certamente del materiale proprio, come per alcune parabole
come quella del padre misericordioso e del buon samaritano. Luca ha fatto ben più che raccogliere
materiale disparato, ha organizzato un’opera unitaria,con uno stile controllato e costante e con un
progetto teologico unitario.
5.5.2 IL METODO REDAZIONALE
Senza entrare troppo nei dettagli, basta qui descrivere in modo semplice i presupposti e le operazioni
di tale metodo. Il presupposto fondamentale è che l’evangelista utilizzi delle fonti, più o meno
organizzate o scritte, e che egli ha in comune con altri evangelisti (ad esempio Lc utilizza Mc e Q
come fonti, che ha in comune con Mt). Anche se non è possibile determinare nel dettaglio la natura e
l’estensione di tale materiale tradizionale, è sufficiente ipotizzare che esso esiste ed è precedente
rispetto all’evangelista. Nel caso di Luca è certamente necessario dare per assodata la teoria delle due
fonti.
Le operazioni che il metodo prevede si compiono inizialmente attraverso la sinossi. Solo attraverso
di essa è infatti possibile individuare paralleli e differenze tra i sinottici e identificare il materiale
tradizionale.
Dopo aver identificato ciò che proviene dalla tradizione, il passo successivo è quello di chiedersi
come l’evangelista lo modifica e quali sono le sue inserzioni di carattere redazionale. Per far questo
è necessario mostrare le espressioni che sono proprie dell’evangelista, il suo stile letterario e teologico
e comprendere come egli interviene concretamente.
Il terzo passo è sviluppare le motivazioni narrative e teologiche degli interventi redazionali
dell’evangelista. Solo quando questo passo è affrontato, si può dire che la proposta esegetica sia
compiuta.
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6. “GIUSTIFICARE” DIO
Lc 7, 29 – 30 tra tradizione e redazione
6. 1 INTRODUZIONE
Nella sezione lucana su Giovanni il Battista (7, 18 – 35), posta all’interno dell’ampia sequenza sul
ministero galilaico di Gesù (cc. 4 – 9), i vv. 29 – 30 interrompono bruscamente la descrizione del
ministero del Battista per introdurre una constatazione sui destinatari del suo messaggio, divisi tra
coloro che lo accolgono e coloro che lo rifiutano.
Tenendo conto del fatto che lungo tutta la sequenza del ministero pubblico di Gesù in Galilea Luca
descrive le opposte reazioni degli interlocutori al suo messaggio, si può già intuire l’importanza
narrativa di questi due versetti per Luca, che intende in tal modo collocare l’origine di tali reazioni a
Gesù nell’accoglienza o nel rifiuto del ministero del Battista.
Ma perché l’evangelista inserisce proprio a questo punto questi due versetti nel suo lavoro
redazionale? E perché subito dopo il v. 35 fa seguire una nuova sezione narrativa, con il racconto
dell’unzione di Gesù da parte della donna peccatrice in casa del fariseo Simone?
Si può notare che i due personaggi di questo racconto erano già stati introdotti dall’evangelista proprio
nei vv. 29 – 30, li dove si parla di pubblicani e peccatori da un lato e di farisei e dottori della legge
dall’altro. Si tratta di un caso o di una precisa scelta narrativa?
A partire da un’analisi degli interventi redazionali nei versetti 29 – 30, con cui Luca rielabora la
tradizione a lui pervenuta, si intende approfondire le motivazioni narrative dell’evangelista alla luce
del contesto (7, 18 – 50) e offrire qualche chiave interpretativa per comprendere il suo intento
teologico e comunicativo in questa sezione del terzo vangelo.
6. 2. BREVE INQUADRAMENTO
Si può notare che dal v. 24, a partire dal quale inizia il discorso di Gesù su Giovanni il Battista, fino
al v. 28 Luca presenti piccole differenze rispetto a Matteo (cfr. Mt 11,7-11), quasi tutte riconducibili
con ogni probabilità a miglioramenti stilistici e letterari della fonte da parte di Luca.1
Invece nei vv. 29 - 30 le differenze sono notevoli. Luca non riporta qui il detto di Gesù sulla legge e
i profeti che sono in vigore fino a Giovanni il Battista e sul regno che soffre violenza (cfr. Mt 11, 1213), ma lo presenta più avanti nella sua narrazione (cfr. Lc 16,16). Inoltre egli tralascia completamente
il riferimento all'Elia redivivo applicato a Giovanni il Battista (cfr. Mt 11,14), che corrisponde
piuttosto alla concezione teologica sul ruolo di Giovanni il Battista propria di Matteo e di Marco (cfr.
Mc 9,13).2
1
Luca aggiunge probabilmente ἱματίοις (v. 25) alla sua fonte per migliorare la comprensione del suo lettore.
Al v. 28 sopprime Ἀμὴν e semplifica la frase sostituendo ἐγήγερται con ἐστιν. Nell’introduzione ( v. 24a par.)
Luca riprende il termine τῶν ἀγγέλων Ἰωάννου, probabilmente per riconnettersi al v. 18 segnalando così un
nuovo inizio. cfr. F. BOVON, Luca ( Brescia 2005 ) I, 434. Orig.: Das Evangelium nach Lukas ( Neukirchen –
Vluyn 1989 ).
2
Vedremo che questi cambiamenti sono il frutto del lavoro redazionale di Luca. È invece molto difficile
stabilire se la versione riportata da Matteo in 11,12-14 corrisponde più fedelmente alla fonte Q, perché anche
in Matteo gli interventi redazionali sono pesanti. In questo caso oltre a notare il carattere tradizionale dei
detti di riportati in Mt 11, 13 / Lc 16, 16a e Mt 11, 12 / Lc 16, 16bc non è possibile proseguire a ricostruire nel
dettaglio la fonte Q. Cfr. U. LUZ, Matteo ( Brescia 2010 ), II 224 orig. Das Evangelium nach Matthaus (
Neukirchen – Vluyn, 1990 ).
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Al posto di questi riferimenti nei vv. 29-30 Luca offre una valutazione teologica della divisione
attuatasi nel popolo di Israele in relazione al battesimo di Giovanni. Da un lato tutto il popolo e i
pubblicani hanno ricevuto il battesimo, così da riconoscere la giustizia di Dio, dall'altro i farisei e i
dottori della legge hanno rifiutato il battesimo e dunque hanno annullato la volontà di Dio su di loro.
L’evangelista sposta volutamente l’attenzione dall’identità di Giovanni il Battista agli effetti del suo
ministero nel popolo di Israele, caratterizzati insieme dall’ accoglienza e dal rifiuto del suo
messaggio, così da introdurre un nuovo apoftegma di accusa nei confronti di coloro che hanno
rifiutato il Battista, prendendolo dalla fonte che egli ha in comune con Matteo (vv. 31-35).
In tal modo Luca crea una nuova ripresa del discorso di Gesù, articolandolo in due versanti (24-28.
29-35) il primo dei quali è centrato su Giovanni il Battista, mentre il secondo sulla reazione degli
ascoltatori al suo messaggio.
Da quanto affermato emerge l’importanza dei vv. 29-30, perché in essi l’evangelista concentra i suoi
interessi e la sua peculiare visione, così da conferire una connotazione precisa anche al contesto.
Tali versetti presentano un carattere redazionale e ciò viene ammesso da tutti gli interpreti. Viene
tuttavia anche comunemente affermato che in essi si trova del materiale preesistente che è stato
riformulato dall’evangelista attraverso la sua propria prospettiva letteraria e teologica.
Qui si cercherà di comprendere quale tradizione Luca riformuli e con quale interesse letterario e
teologico.
6. 3 UN’IPOTESI DIACRONICA
I versetti 29-30, malgrado l’originale formulazione lucana, non sono una creazione ex novo da parte
dell’evangelista, ma dipendono da una tradizione preesistente.
Si trova un interessante parallelo in Mt 21,31b-32, dove Gesù commenta la parabola dei due figli,
esplicitando l'accusa contro la classe sacerdotale del tempio. I pubblicani e le prostitute, credendo a
Giovanni, precedono i sacerdoti, che non si sono pentiti e non hanno creduto a Giovanni.
Questo parallelo autorizza a ricostruire qui un loghion gesuano, che ogni evangelista avrebbe posto
nel luogo più confacente al suo percorso letterario e teologico? Se così fosse quale dei due evangelisti,
inoltre, conserverebbe la posizione originaria del loghion nella fonte?
Si può osservare anzitutto che nonostante le notevoli differenze nella formulazione, ci sono
importanti somiglianze formali e di contenuto tra Mt 21,31b-32 e Lc 7,29-30. Esse sono: 1. menzione
di Giovanni il battista; 2. Presenza di due gruppi di personaggi, ossia figure di peccatori come i
pubblicani da un lato e figure di leadership religiosa dall’altro; 3. Attitudine opposta di questi due
gruppi nei confronti di Giovanni; 4. Accoglienza positiva di Giovanni da parte del gruppo dei
peccatori e negativa da parte dei capi. Sono proprio tali somiglianze a condurre all’ipotesi di un
loghion tradizionale.
Infatti dal momento che i due evangelisti riportano indipendentemente una stessa affermazione di
Gesù, seppure con formulazioni alquanto diverse, è plausibile che, sulla base del criterio
dell'attestazione molteplice, tale affermazione facesse parte di una tradizione, orale o scritta, che li
precedeva3, cioè fosse un loghion di Gesù.
Molto più difficile è rispondere alla seconda domanda, ossia quale potrebbe essere la collocazione
originaria di questo loghion “vagante”. Esso era collocato in un più ampio apoftegma gesuano, magari
in connessione con la parabola dei due figli, come in Mt 21,28-32?
A motivo dell'abbondante rimaneggiamento redazionale, sia da parte di Matteo4 che da parte di Luca,
è impossibile stabilire la formulazione originaria di questo loghion e ricostruire con esattezza il
contesto in cui era inserito nella fonte.
3
Cfr. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, ( Brescia 1973 ), 97. Orig. Die Gleichnisse Jesu ( Göttingen 1952 ).
Per approfondire il carattere redazionale in Matteo, che non è possibile mostrare qui per ragioni di spazio,
cfr. J. SCHLOSSER, Le regne de dieu dans le dits de jesus ( Paris 1980 ), 456.
11
4
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Tuttavia alcune osservazioni di natura formale e contenutistica possono fondare adeguatamente
un’ipotesi su come tale loghion sia stato conservato e trasmesso dalla tradizione.
Anzitutto si possono notare le somiglianze tra i due contesti in cui tale parola è inserita in Luca e in
Matteo. In entrambi i contesti è presente un’accusa da parte di Gesù contro i capi del popolo5, nella
quale sono presenti motivi sapienziali e parabolici e c’è in entrambi i motivi un riferimento ai figli
(cfr. Mt 21,28-30 e Lc 7,31-32.35). Infine tale accusa è in entrambi i casi relazionata al battesimo di
Giovanni: in Matteo, infatti, essa scaturisce da una disputa sul battesimo di Giovanni (cfr. 21,24-27)
e in Luca il confronto tra pubblicani e popolo da una parte e farisei e dottori della legge dall’altra è
formulato in relazione al battesimo di Giovanni (cfr. 7,29-30). Inoltre il confronto fra capi e
pubblicani / prostitute può essere considerato come un espediente retorico di accusa, proprio della
tradizione profetica in Israele, per manifestare al popolo il suo peccato.6
È dunque possibile che l’ambiente vitale di questo loghion fosse quello di una accusa di Gesù nei
confronti dei capi, in stile profetico e con probabili riferimenti a Giovanni Battista.
In ogni caso quello che si può ora affermare con sicurezza è che Luca rielabora un loghion che gli
proviene dalla tradizione, introducendo un contrasto tra farisei e scribi da una parte e popolo e
pubblicani dall’altra, per spostare il destinatario dell’accusa da tutto il popolo ai capi e preparare in
tal modo quello che racconterà nell’episodio dell’unzione di Gesù da parte della donna peccatrice.
6. 4 I VERSETTI 29 – 30 TRA REDAZIONE E TRADIZIONE.
6.4.1 REDAZIONALITÀ
Il carattere redazionale dei versetti in esame può essere evidenziato dalle seguenti espressioni.:
1.πᾶς ὁ λαὸς (tutto il popolo) (v. 29); . 2. βαπτισθέντες τὸ βάπτισμα (ricevere il battesimo) / βάπτισμα
Ἰωάννου (battesimo di Giovanni) (v. 29) 3. τὴν βουλὴν τοῦ θεοῦ ἠθέτησαν (hanno annullato la
volontà di Dio) (v. 30). 4. νομικοὶ (scribi) (v. 30).
1. (pas o laos): l'espressione in esame presenta 20 ricorrenze nel NT, di cui 15 sono in Lc/Atti ( 9 in
Lc e 6 in Atti ). Già questa osservazione quantitativa mostra la predilezione di Luca per questa
formulazione, che egli trova nel lessico proprio della LXX. Entrando un poco nei dettagli si può
notare che in tre contesti appartenenti alla tradizione comune a Mc e Lc, Luca modifica Marco
aggiungendovi proprio l'espressione in esame (cfr. Lc 8,47; 9,13; 21,38 e par. in Mc). In altri due
ricorrenze della triplice tradizione Luca o aggiunge tale espressione (Lc 18,43 e par in Mc e Mt) o la
sostituisce al più generico ὄχλος ( cfr. Lc 20,45 e par Mc /Mt ). In 7, 29 Luca modifica una fonte che
ha in comune con Matteo togliendo il riferimento alle prostitute (πόρναι) e sostituendolo con la
notazione riguardante tutto il popolo. Nelle sei ricorrenze di Atti (3,9; 3,11; 4,10; 5,34; 10,41; 13,24)
Luca si riferisce sempre non ad una folla generica, ma precisamente al popolo di Israele. Si tratta del
popolo che si riunisce nel tempio di Gerusalemme per il culto dovuto al Dio d’Israele ( cfr. 3,9.11 ) e
al quale si rivolge Pietro per annunciare il vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto ( cfr. 4,10 ). In
5
In Luca l’accusa viene sviluppata nei vv. 31 – 35. Che tale accusa sia rivolta ai capi, ossia farisei e dottori della
legge, lo si capisce però solo alla luce dei vv. 29 – 30, come vedremo.
6
Tale confronto ( in questo caso con pubblicani e prostitute ) fa parte del repertorio retorico profetico di
accusa per spingere l’interlocutore alla comprensione dell’irragionevolezza del suo comportamento. Si legga
ad esempio Is 1, 3, dove è presente un confronto odioso di natura parabolica con gli animali o anche Ger 2,
11; Ger 3, 6 – 10 o ancora Ez 33, 34. 47 (qui le prostitute sono più intelligenti di Gerusalemme, ed essa ha
fatto peggio di Samaria e di Sodoma ). Per il NT si veda anche Mt 11, 20 -24 o Lc 7, 45 – 50.
12
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queste ricorrenze anche una piccola folla, radunata attorno al tempio, può rappresentare la totalità di
Israele, perché ciò che a Luca interessa è la funzione teologica e non la totalità materiale.
Si può concludere affermando che tale espressione è chiaramente redazionale ed è usata
dall’evangelista per esprimere la totalità “teologica” del popolo di Israele.
2. Il verbo baptízo con oggetto interno (o figura etimologica) ricorre 5 volte in tutto il NT, di cui 2
in Luca e una in Atti. È interessante notare che la ricorrenza di tale espressione in Lc 12,50 è parallela
a Mc 10,38-39 e (probabilmente, ma non vi è evidenza testuale) a Mt 20,22-23. All'infuori di questa
tradizione, che riporta un loghion di Gesù nel dialogo con Giacomo e Giovanni, le uniche ricorrenze
si trovano in Lc 7,29 e Atti 19,4. Si tratta probabilmente di un'espressione tradizionale che Luca più
degli altri evangelisti fa propria. In particolare il parallelo con Atti 19, 4 è illuminante. Anche qui è
in gioco il battesimo di Giovanni e il suo ruolo nella teologia della storia proposta da Luca. Prima
viene il battesimo di Giovanni, che è un battesimo di conversione amministrato per il popolo in vista
della fede nel veniente (εἰς τὸν ἐρχόμενον, cfr. anche Lc 7,19). Poi verrà il dono dello Spirito che gli
efesini si appresteranno a ricevere per l'imposizione delle mani di Paolo. Questa duplice scansione
dei tempi è presente implicitamente anche in Lc 7,29-30, dal momento che nei versetti successivi (vv.
31-35), il rifiuto del battesimo di Giovanni viene posto come preludio e motivazione profonda del
successivo rifiuto del figlio dell’uomo
Tale battesimo infatti è posto sempre da Luca come preparazione del ministero di Gesù (cfr. Atti
10,37; 13,24). Inoltre tutta l’azione storico – salvifica di Cristo che culmina con il mistero pasquale
e l’ascensione ai cieli ha il suo inizio nel battesimo ricevuto da Gesù stesso (cfr. Atti 1,22), così che
battesimo e ascensione risultano i due eventi - limite di quel mistero di cui gli apostoli sono testimoni
diretti.
Anche l' espressione “battesimo di Giovanni”(βάπτισμα Ἰωάννου), presente nella tradizione ( cfr. Mt
21,25 e par; Mc 11,30 e par; ) si ritrova soprattutto in Atti ( cfr. At 1,22; 18,25; 19,3 ).
Ciò dunque mostra l'utilizzo ripetuto e personale che l'evangelista fa di espressioni presenti nella
tradizione riguardante Giovanni Battista, per sottolineare la funzione del suo battesimo nella storia
della salvezza.
3. il termine βουλὴ (boulè)presenta 12 ricorrenze in totale nel NT, di cui 9 in Lc/ Atti ( 2 nel Vangelo
e 7 in Atti ) e altre 3 ricorrenze in 1 Cor, Ef, Eb. Si può mostrare che Luca utilizza questo termine per
indicare una decisione, un progetto di natura umana ( cfr. Lc 23,51; At 27,12; At 27,42 ) o voluto da
Dio ( cfr. Lc 7,30; Atti 2,23; 4,28; 5,38; 13,36; 20,27 ). In particolare in Lc 7,20, Atti 13,36 e 20, 27
è presente esplicitamente l'espressione βουλὴ τοῦ θεοῦ. In Atti 2,23 e 4,28 tale progetto di Dio è
quello che riguarda la consegna di Gesù e la sua morte. In 5,38 è Gamaliele a prendere parola con
saggezza, per mettere in guardia il sinedrio di fronte all'inutilità della loro lotta contro un progetto
che se viene dagli uomini, finirà da solo, e se invece viene da Dio, non potrà essere contrastato. Tale
progetto di Dio, che si compie nella Chiesa per l'annuncio degli apostoli, trova un ulteriore riferimento
in Atti 20,27, nel discorso di Paolo agli anziani di Efeso. È dunque evidente la densità teologica di
questo termine per l'evangelista.
Si può quindi affermare che l’espressione τὴν βουλὴν τοῦ θεοῦ ἠθέτησαν sia un chiaro conio lucano,
utile ad indicare in estrema sintesi da un lato tutto il disegno salvifico di Dio che culmina nella morte
e resurrezione di Cristo e che si prolunga nella storia della Chiesa e dall’altro la grave responsabilità
di chi lo rifiuta.
4. il termine νομικοὶ (nomikoi=scribi) è usato praticamente solo da Luca fra gli evangelisti ( c'è una
sola ricorrenza in Mt 22, 35 ma essa è dubbia dal punto di vista testuale7). Su 8 ricorrenze totali nel
7
L’inserimento di questo termine in diversi testimoni della versione matteana si può spiegare come
armonizzazione a luogo parallelo. Cfr. B. M. METZGER, A Textual Commentary on the greek new Testament (
Stuttgart 1994 ), 48.
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NT 6 sono nel terzo Vangelo e 2 nella lettera a Tito. Si può inoltre notare che Luca usa il sinonimo
grammatѐus ogni volta in cui dipende da Mc ( cfr. 5,21.30; 9,22; 19,47; 20,1. 46; 22,2 ). Queste
osservazioni mostrano con sufficente chiarezza che tale vocabolo è proprio del redattore del terzo
Vangelo.
6. 4. 2 L’USO DI DIKAIÒŌ
Il verbo dikaióō (trad. riconoscere la giustizia o giustificare) in Luca si trova con oggetto riferito a
persona umana, nelle parti dove è chiaro l’intervento redazionale di Luca (cfr. Lc 10,29; 18,14).
Quest'uso è comune anche ad Atti, dove l'accezione del verbo è propriamente paolina ( cfr. At 13,
38.39; cfr. anche Lc 18,14 ).
Le uniche due ricorrenze di dikaióō con Dio per oggetto si trovano in 7, 29.35, in un contesto dove
Luca dipende da una fonte che ha in comune con Matteo.8
Questo significa che Luca usa questo verbo con un'accezione piuttosto tradizionale, che proviene
dalla fonte che egli utilizza. Ma qual è qui la connotazione precisa e a quale tradizione fa riferimento?
L'uso di dikaióō con Dio come oggetto è attestato nel NT, quasi unicamente nei passi che stiamo
esaminando ( Lc 7, 29.35 e Mt 11,19; cfr. anche Rm 3,4, che è una citazione del Salmo 51,6 e 1 Tm
3,16). Esso in prima analisi, ha qui il significato di "riconoscere, dichiarare giusto" 9. Uno sguardo
più ampio alle ricorrenze di tale connotazione può arricchire la comprensione. Si tratta
prevalentemente di contesti sapienziali, nei quali tale espressione comporta il riconoscimento della
giustizia del piano di Dio e della sua salvezza. Nel Salmo 51 ad esempio, in un contesto penitenziale,
il riconoscimento del proprio peccato è simultaneamente un riconoscere Dio come giusto10.Non si
tratta qui unicamente di un atto di comprensione intellettuale, ma di un processo di conversione che
attraversa tutta la persona. Nei versetti lucani che stiamo esaminando il contesto complessivo di
accusa nei confronti dei notabili e i riferimenti penitenziali al battesimo di Giovanni devono aver
orientato l'evangelista a scegliere questa particolare connotazione di dikaióō, per esprimere che il
processo di conversione dei peccatori comporta simultaneamente un riconoscimento della giustizia
del piano salvifico di Dio, conforme alla volontà stessa di Dio.
6. 5. I vv. 29-30 NEL CONTESTO DELLA SEZIONE SUL BATTISTA (vv. 18-35 )
6. 5. 1 UNA DIFFERENZA IN ISRAELE.
Dopo aver dimostrato che i versetti in esame presentano evidenti tracce di rielaborazione redazionale
da parte dell’evangelista, ora ci si può chiedere quale motivazione, insieme teologica e letteraria,
abbia guidato Luca in tale lavoro redazionale. Per far questo è necessario approfondire i legami di
questi versetti con la più ampia pericope in cui sono inseriti (vv. 24-35 ). Si è già osservato come
Luca segua da vicino la fonte che ha in comune con Matteo dal v. 24 fino al v. 28 e come sia poi
assente in Luca il riferimento matteano all’Elia redivivo, applicato a Giovanni il Battista, e al suo
posto vi siano i vv. 29-30 in esame. Si avverte una certa tensione nel passaggio dal v. 28 al v. 29.
Infatti al v. 28 ci si trova ancora all’interno della presentazione di Giovanni il Battista da parte di
Gesù con un confronto tra i due eoni della storia della salvezza, in cui il più piccolo nell’eone del
regno di Dio è più grande di Giovanni il Battista. Invece con il v. 29 Giovanni il Battista non è più
direttamente l’oggetto del discorso, ma viene introdotto improvvisamente un altro paragone, quello
tra il popolo e i pubblicani da una parte e i farisei e i dottori della legge dall’altra. Infine tale versetto
è il primo dell’intera pericope in cui si chiama in causa il battesimo di Giovanni. Fino ad ora infatti
8
Cfr. J. JEREMIAS,
die Sprache des Lukasevangeliums ( Göttingen 1980 ), 165.
cfr.G. SCHRENK, “δικαιόω”, GLNT III, 1290.
10
cfr. P. BOVATI, Ristabilire la giustizia AnBib 2005, 89.
9
14
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si era parlato di Giovanni e non del suo battesimo. Per queste ragioni non è possibile, come invece fa
Bock11, considerare i due versetti come parte integrante del discorso di Gesù su Giovanni il Battista.
Al v. 31 poi l’evangelista riprende la fonte comune con Matteo che presenta un’accusa diretta, con
connotazioni sapienziali, nei confronti di questa generazione. Essa, non comprendendo l’annuncio
penitenziale di Giovanni, non è potuta entrare nella gioia della comunione con il figlio dell’uomo.
Nella versione lucana questa seconda parte (vv. 31-35 ) si riallaccia con ciò che precede, in modo tale
che “questa generazione” ( v. 31) viene a coincidere con “i farisei e i dottori della legge” ( v. 30 ).
Così se nella versione di Matteo l’espressione “questa generazione” va intesa in senso globale, invece
Luca, grazie all’inserzione dei vv. 29-30 ha introdotto una separazione. 12 L’accusa è diretta nei
confronti dei capi (farisei e scribi), e non di tutto il popolo. C’è infatti una parte di popolo, umile e
peccatore, con cui si identifica teologicamente la totalità del popolo che, facendosi battezzare da
Giovanni, ha riconosciuto la giustizia di Dio.
Alla luce di queste considerazioni risulta più chiaro il ruolo chiave assunto da questi due versetti nel
contesto della pericope. Quando nella fonte che Luca utilizza la presentazione di Giovanni il Battista
arriva ad un punto culminante con il confronto tra i due eoni al v. 28, a Luca interessa soffermarsi
sulle condizioni di accesso all’eone del Regno di Dio e sulla separazione che viene a crearsi tra coloro
che accolgono il piano e coloro che non l’hanno accolto, proprio in relazione al ruolo storico-salvifico
giocato da Giovanni come precursore. In tal modo l’attenzione si sposta sensibilmente da Giovanni
il Battista agli uditori del messaggio di salvezza così da motivare più profondamente le loro opposte
reazioni al battesimo di Giovanni e quindi al messaggio stesso di Gesù.
L’incomprensione del proprio peccato davanti a Dio e la conseguente assenza di una dimensione
penitenziale nella propria esistenza, dimensione sottolineata dal battesimo di Giovanni e simbolizzata
dall’incapacità di piangere di fronte al lamento (cfr. v. 32), porta alla conseguente radicale
incomprensione del messaggio di salvezza proposto da Gesù, simbolizzata dall’incapacità di danzare
al suono flauto.
6. 5. 2 CHI SONO COLORO CHE GIUSTIFICANO DIO.
Ma ci sono alcuni che hanno compreso, perché la sapienza è stata riconosciuta giusta dai suoi figli.
Luca riconnette abilmente il v. 29 al v. 35 tramite la ripresa di dikaióō, che funge così da segnale
redazionale d’ inclusione e nello stesso tempo fonda su un versetto proveniente da materiale
tradizionale la sua interpretazione teologica. Chi sono questi figli della sapienza secondo Luca?
Sono i pubblicani, i più peccatori tra il popolo e, insieme a loro, il popolo stesso. L’accostamento tra
una figura esemplare di peccatori e un’indicazione di totalità del popolo è una felice endiadi lucana,
per la quale si deve leggere qui un unico soggetto. Si tratta non di un popolo particolare, o di una
parte precisa del popolo, ma del popolo come tale, in quanto peccatore, rappresentato da coloro che
più di altri sono considerati l’emblema del peccato di Israele. Il figli della Sapienza sono allora, per
Luca, nient’altro che un popolo peccatore e umile, un resto che diviene figura dell’intero popolo,
attraverso un percorso di conversione e di riconoscimento della giustizia di Dio nella storia della
salvezza.
6. 5. 3 IL BATTESIMO DI CONVERSIONE.
Come avviene per Luca tale percorso di conversione per il popolo di Israele? Attraverso il battesimo
di Giovanni che, come abbiamo visto, Luca introduce qui di proposito, ricollegandosi alla sua fonte
nel punto in cui essa distingue i due eoni della storia della salvezza (v. 28). Nella concezione lucana
il battesimo di Giovanni è descritto come battesimo di conversione (cfr.Lc 3, 3; At 13,24; At 19,4),
11
12
D. L. BOCK, Luke, ( Grand Rapids NIV Application Commentary, 1996 ), 210s.
F. BOVON, 443.
15
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un’espressione che Luca trova probabilmente nella tradizione (cfr. anche Mc 1, 4) ma che utilizza
volentieri per esprimere in modo condensato il significato che egli attribuisce al ruolo del battista
nella storia della salvezza. Il battesimo di Giovanni è il segno esplicito ed esteriore di un cammino di
rinnovamento morale ed esistenziale che prepara all’ingresso in una nuova epoca della storia della
salvezza.
La connessione lucana del verbo kerýsso (annunciare) con báptisma (battesimo) come complemento
oggetto (cfr. Lc 3,3; Atti 10,37) mostra che il battesimo è il segno che qualifica nel suo insieme una
più ampia missione di predicazione, volta a chiamare il popolo a penitenza. Infatti il battesimo di
Giovanni non può essere considerato solo dal punto di vista cultuale, ma deve essere accompagnato
da “frutti di conversione”(cfr. 3,8-9) che mostrino un coinvolgimento concreto ed esistenziale della
persona (cfr. 3,10-14). Qual è la finalità di questo battesimo di conversione nella storia della
salvezza? Porsi a cavallo tra due eoni, per preparare l’ingresso nella storia di colui che viene, ossia
Gesù. In effetti in Atti il battesimo di Giovanni viene usato per datare l’inizio del ministero storico di
Gesù (cfr. Atti 1,22; 10,37).
In particolare in At 19,4 questo battesimo di conversione è chiaramente finalizzato alla fede in colui
che viene, Gesù, e non può sostituire il battesimo cristiano, nel nome del Signore Gesù, il quale
comporta il dono dello Spirito (cfr. vv. 5-6) e caratterizza l’ingresso nel nuovo eone della storia della
salvezza.
6. 6. QUALCHE CONSIDERAZIONE SU Lc 7,36-50
Dopo aver mostrato l’interesse teologico e letterario di Luca nel rielaborare il materiale che gli è
pervenuto, in particolare nei vv. 29 – 30, alla luce della pericope ( vv. 24 -30 ), può essere utile
ampliare un po’ il campo di indagine e, mostrando le connessioni di quanto abbiamo scoperto con il
contesto prossimo della pericope, illuminare ulteriormente l’interesse teologico di Luca.
La maggioranza dei commentatori sono d’accordo nell’individuare un rapporto tra la sezione su
Giovanni il Battista (vv. 18-35) e il seguente episodio della donna peccatrice (vv. 36-50). Infatti la
menzione del fariseo Simone (v. 36) richiama la precedente menzione dei farisei e dottori della legge
(v. 30), il contesto del pranzo richiama le aggettivazioni poste nei confronti di Gesù (mangione e
beone v. 34), e Gesù stesso, definito amico dei peccatori e dei pubblicani (v. 34), si mostra amico, in
particolare, di una donna peccatrice (v. 37)13. Inoltre ciò che Gesù dice a proposito dei farisei e dottori
della legge, in contrasto con il popolo dei peccatori (v. 29-30), Luca sembra mostrarlo in atto
attraverso il comportamento del fariseo Simone e della donna peccatrice nei confronti di Gesù.
Aver chiarificato quale interesse di Luca motiva il suo lavoro redazionale ai v. 29-30 aiuta a
comprendere non solo la sezione su Giovanni il Battista ma anche l’episodio della donna peccatrice
e del fariseo Simone. Quella divisione all’interno del popolo che si stabilisce tra i notabili che hanno
annullato la volontà di Dio su di loro rifiutando il battesimo di Giovanni e il popolo dei peccatori che
hanno riconosciuto la giustizia di Dio viene qui riproposta nel contrasto tra il fariseo Simone e la
donna peccatrice.
Infatti i gesti d’amore della donna e il suo pianto segnalano una conversione di questa donna dalla
sua storia di peccato e una comprensione profonda del disegno amoroso di Dio che si compie in Gesù.
Viceversa l’atteggiamento di giudizio nei confronti della donna e di sospetto nei confronti della
qualità profetica del ministero di Gesù da parte di Simone, mostrano quanto egli sia ancora lontano
dall’entrare in quell’ora della salvezza che Gesù ha ormai inaugurato.
L’intervento redazionale in 29-30 sembra allora attuato da Luca non solo per riferire l’accusa
profetica seguente (vv. 31-35) ai farisei e ai notabili del popolo, ma anche in vista dell’episodio che
sta per narrare dopo aver terminato la sezione su Giovanni il Battista. È possibile ottenere una
conferma di carattere narrativo a questa affermazione, basata non solo su alcuni richiami
13
cfr. G. ROSSÈ, 271.
16
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terminologici e di contenuto? Occorre anzitutto osservare che, poiché Luca non fa conoscere al lettore
la risposta definitiva del fariseo Simone all’accusa di Gesù, il suo interesse narrativo è di provocare
la risposta personale del lettore, suggerendogli di identificarsi con Simone. L’evangelista rivolge
l’accusa profetica di Gesù non tanto al gruppo dei farisei storici - come invece accade in Matteo, per
esempio con la parabola dei due figli e il loghion che abbiamo esaminato precedentemente (Mt 21,
31)14 – ma al lettore stesso.
Ciò è di fondamentale importanza per capire l’interesse narrativo di Luca che, dopo aver spiegato le
condizioni di accesso al nuovo eone del Regno di Dio attraverso la figura di Giovanni Battista (vv.
29-30), vuole concretamente mostrare al suo lettore, che non ha mai conosciuto Giovanni Battista né
ricevuto il suo battesimo, come tali condizioni si verificano per lui, nella sua vita.
Questo è il motivo per cui i vv. 29-30 vanno letti come un’anticipazione in termini esplicativi
(telling) di ciò che l’evangelista mostrerà al suo lettore (showing) per sollecitarne una risposta di fede.
Che valore ha per la fede del lettore di Luca sapere che i farisei hanno annullato per loro la volontà
di Dio rifiutando il battesimo di Giovanni? L’evangelista lo mostra nell’episodio seguente, dove il
lettore non è richiamato ad attuare qualche pratica cultuale di tipo penitenziale come il battesimo di
Giovanni, ma piuttosto a riconoscere il proprio peccato di fronte all’amore e alla giustizia di Dio che
si compiono in Gesù. Luca intende attualizzare per il suo lettore il rischio spirituale che avevano corso
i notabili di Israele al tempo del ministero terreno di Giovanni il Battista: ossia il rischio che corre
colui che, pensando di non avere grandi peccati e ritenendosi in fondo giusto, ama poco, ed è quindi
incapace di entrare in un vero percorso di conversione e di maturazione nell’amore di Dio. Luca,
come aveva fatto Giovanni il Battista per i suoi uditori, propone al suo lettore un percorso di
conversione, di carattere penitenziale, che comporta simultaneamente il riconoscimento del proprio
peccato e della giustizia del piano amoroso di Dio nella propria storia. Come si è già sottolineato, si
tratta quindi di un percorso attivo ed esistenziale, che mette in gioco i pensieri e le azioni dell’uomo
e che non si contrappone alla grazia di Dio, ma anzi è reso possibile da essa. È il percorso mostrato
in modo esemplare dagli atti di pentimento e di amore della donna peccatrice nei confronti di Gesù
Questa considerazione può essere utile per risolvere il vero problema interpretativo di questo
episodio, ossia l’opposizione di significato che si registra tra la parabola dei due debitori raccontata
da Gesù e la sua applicazione alla donna. Se nella parabola i debitori amano nella misura del debito
che è stato loro condonato, invece alla donna sono stati perdonati i peccati perché ha molto amato.
Questa tensione viene spiegata da molti come il segno della redazionalità della composizione. Luca
avrebbe inserito una parabola tradizionale in un racconto altrettanto tradizionale, quello dell’unzione
di Gesù da parte della donna. Così il gesto d’amore della donna, che fa parte della tradizione più
originaria a cui Luca attinge, viene integrato da una parabola, attinta anch’essa da una tradizione
precedente, con uno scopo catechetico, ossia per mostrare il rapporto tra perdono di Dio ed etica.
Nella sua rielaborazione Luca mantiene questa tensione tra le due tappe redazionali, che si può
cogliere per il contrasto tra il versetto 47a e 47b.15 Questa considerazione, tuttavia, lascia intatto il
problema esegetico. Ci sono due possibilità: o Luca è un pessimo scrittore, perché lascia una
contraddizione palese nella sua attività redazionale, oppure egli vuole mantenere tale tensione di
14
È possibile che Luca abbia rielaborato tale loghion di accusa e ricollocato precedentemente in un contesto
dove l’accusa contro i farisei e i capi del popolo era meno esplicita, perché il suo interesse narrativo è di
rivolgersi ad un lettore che proviene dalla gentilità, che probabilmente non ha mai avuto a che fare con i
farisei o i dottori della legge o i sacerdoti del tempio.
15
cfr. F. BOVON, 462 e G. ROSSÈ, 278. Green cerca di risolvere il problema ammettendo che la donna era
stata già perdonata precedentemente, e che ora si tratta solo di manifestare tale perdono dinanzi alla
comunità. Ma rimane comunque la contraddittorietà nell’affermazione di Gesù. J. B. GREEN, The Gospel of
Luke ( Grand Rapids 1997 ), 313.
17
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significato, perché in essa è nascosto il significato profondo del suo messaggio. Se la seconda
possibilità è quella giusta, come provarlo, e quale significato Luca vorrebbe veicolare al lettore?
Abbiamo appena mostrato come i versetti 29-30 giochino un ruolo essenziale per comprendere
l’intenzione di Luca in questo racconto della donna peccatrice e del fariseo Simone e possono fornire
una chiave interpretativa del messaggio che Luca intende comunicare al lettore. Il comportamento
della donna e di Simone attualizzano per il lettore ciò che è stato spiegato nei vv. 29 - 30 a proposito
del popolo e dei pubblicani da una parte e dei farisei e dottori della legge dall’altra, perché il lettore
possa comprendere quali sono nella sua vita, le condizioni concrete per entrare nella salvezza.
Ora il lettore di Luca ha di fronte a sé due possibilità, la donna peccatrice e il fariseo Simone.
La donna è colei che ha molto amato, ossia che ha fatto della sua miseria e del suo pubblico peccato
il luogo antropologico in cui riconoscere la propria debolezza e insieme la grazia e l’amore di Dio e
così ha reso attivo per lei quel perdono di Dio che è il frutto del disegno d’amore di Dio per ogni
uomo. Così il perdono di Dio è chiaramente incondizionato e gratuito ed è fonte della risposta d’amore
della donna in rapporto a quella di Simone (“a chi è perdonato poco, ama poco” 47b). Tuttavia nello
stesso tempo dipende dall’uomo accogliere tale perdono e renderlo attivo nella propria vita (“le sono
rimessi i suoi molti peccati, perché ha molto amato”, 47a). Ella con la sua vita ha “giustificato” Dio,
mostrando di essere una vera figli della Sapienza ed entrando così a pieno diritto nel nuovo eone del
Regno di Dio che si compie in Gesù.
Egli mostra in questo racconto ciò che ha già spiegato a riguardo del popolo peccatore e dei farisei e
dottori della legge nei vv. 29-30: tutto dipende dalla volontà di Dio che vuole essere giustificato dagli
uomini e tutto allo stesso tempo dipende dalla libertà dell’uomo di accogliere o meno tale volontà.
6.7 BIBLIOGRAFIA CITATA.
BOCK, D. L., Luke, ( Grand Rapids NIV Application Commentary, 1996 ).
BOVON, F., Das Evangelium nach Lukas ( Neukirchen –Vluyn 1989 ), I - II.
FITZMYER, J., The Gospel according to Luke, ( Garden City 1981.85).
GREEN, J. B., The Gospel of Luke ( Grand Rapids 1997 ).
JEREMIAS, J., Die Gleichnisse Jesu ( Göttingen 1952 ).
JEREMIAS, J., die Sprache des Lukasevangeliums ( Göttingen 1980 ).
LUZ, U., . Das Evangelium nach Matthaus ( Neukirchen – Vluyn, 1990 ) I - II.
ROSSÈ, G., Il vangelo di Luca ( Roma 1992 ).
SCHLOSSER, J., Le regne de dieu dans le dits de jesus ( Paris 1980 ).
SCHRENK, G., “δικαιόω”, GLNT III.
TANNEHILL R. C., The narrative Unity of Luke – Acts, ( Philadelphia 1986 ) I - II.
7. LINEE TEOLOGICHE PER I SINOTTICI
7. 1 VANGELO DI MARCO.
Il vangelo di Marco fa iniziare l’attività di Gesù con l’annuncio del Regno di Dio. Dice Gesù: “Il
tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete nel Vangelo”. Sullo sfondo di
questo sunto della predicazione di Gesù c’è la concezione profetica della regalità di Dio sulla storia
e sul tempo. L’arrivo della salvezza di Dio è considerato imminente e il profeta ha il compito di
annunciarlo e insieme renderlo presente con il suo annuncio. Il Vangelo diviene allora un annuncio
che trasforma la realtà, rendendo attuale la stessa salvezza di Dio: “Come sono belli i piedi di colui
che annuncia la pace, dell’evangelizzatore che annuncia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo
Dio. Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano poiché vedono con gli occhi il
ritorno del Signore a Sion.” (Is 50,7-8). La parola profetica diviene evento di Dio, presenza salvifica,
realtà che trasforma il castigo dell’esilio nella gioia del ritorno a Sion. Modellato su tale teologia
anche l’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù è una parola profetica che si realizza nell’atto
stesso in cui viene proclamata. Essa è infatti una parola autorevole, non solo un insegnamento, che si
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concretizza in segni di salvezza e di liberazione dal male (cfr. 1,27-28). Il Regno di Dio si instaura
con la sconfitta definitiva delle potenze del male e in particolare di Satana (3,22-30) e con la chiamata
dei Dodici (3,13-18) che sono il primo seme del Regno di Dio, inviati anch’essi a predicare e a
scacciare i demoni. Con il male vengono sconfitte da Gesù anche le sue conseguenze, ossia il peccato
e la morte. Il peccato viene vinto dal perdono definitivo che Gesù porta nel mondo (cfr. 2,1-22). Il
Regno assume qui i connotati della novità assoluta, la novità di una festa di nozze che lo Sposo, il
messia, celebra con l’umanità (2,19-22) grazie alla definitiva sconfitta della morte. Egli sposa
l’umanità malata, sofferente e incapace di generare alla vita, per ridarle la speranza radicale della
resurrezione (cfr. 5,21-43 racconto dell’emorroissa e della figlia di Giairo).
Se in un primo momento il Regno di Dio predicato da Gesù sembra distinto dalla sua persona, man
mano che il vangelo prosegue nella sua narrazione, si comprende sempre meglio che il cuore del
Regno di Dio annunciato da Gesù con la parabola del seme gettato nel terreno che porta frutto, è la
persona stessa di Gesù. Subito dopo aver pronunciato il discorso in parabole Gesù seda la tempesta
con la sua Parola e i discepoli si chiedono: “Chi è costui, al quale il vento e il mare obbediscono?”.
Come abbiamo già sottolineato, la narrazione procede attraverso le successive domande sull’identità
di Gesù, attraverso cioè quella che si dovrebbe definire come una cristologia implicita, basata sui
segni e le parole di Gesù, fino al cuore del vangelo di Marco, li dove i discepoli per bocca di Pietro,
arrivano finalmente alla proclamazione dell’identità messianica di Gesù: “Tu sei il Cristo, il Messia”
(7, 29).
Da questo punto in poi inizia il secondo versante del vangelo di Marco, in cui non si tratta più di
stabilire chi è Gesù, ma come Egli agisce, e che tipo di Messia egli è. Da qui in poi, in una successione
martellante di tre annunci della passione, Gesù afferma subito pubblicamente (notare il contrasto con
la richiesta di segretezza a riguardo della sua messianicità) di dover subire il destino di rifiuto dei
capi, sofferenza e morte, per poi risorgere dopo tre giorni.
Ci concentriamo un po’ di più sul terzo annuncio (Mc 10,32-34) che avviene immediatamente prima
dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme ed è un po’ più descrittivo dei precedenti. I dettagli sono
significativi: si parla non solo di condanna a morte e di consegna ai pagani, ma anche di derisioni,
sputi e flagellazioni. Non è a detrimento della verità storica sulla passione di Gesù considerare che
questa sequenza ripercorre esattamente le sofferenze descritte nel cosiddetto terzo canto del servo,
all’interno della raccolta profetica deuteorisaiana: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie
guance a coloro che mi strappavano la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi” (Is
50,6). È difficile non riconoscere qui l’intento dell’evangelista di mostrare che il messia non è altri
che un servo mite e umile, destinato a compiere la sua missione universale attraverso la sofferenza
assunta confidando in Dio che solo rende giustizia (Is 50,8). Non si può seguire Gesù fin sotto la
croce, se non accettando di essere da lui guariti nella nostra cecità di discepoli attratti da un maestro
potente e carismatico (cf. 10,46-52). La cristologia marciana è così un grande commento narrativo ai
canti del servo di jhwh, visti alla luce della vicenda storica di Gesù, che culmina con il mistero
pasquale della sua morte in croce e resurrezione. Infatti solo nell’umiltà della croce il messia si rivela
definitivamente come il servo sofferente di Dio e solo a questo punto il discepolo con le parole del
centurione potrà affermare - definitivamente e senza paura di fraintendimenti o ambiguità - : “Costui
era veramente il Figlio di Dio”.
Di fronte a questa progressiva descrizione narrativa della cristologia, Marco intende anche fornirci
qualche elemento di ecclesiologia. Cos’è la Chiesa per Marco? Certamente essa è concentrata nei
discepoli e in particolare nei Dodici, che sono a servizio del Regno di Dio, chiamati anzitutto da Gesù
a stare con lui e poi inviati a predicare e scacciare demoni (3,13-19). Lo stesso numero Dodici indica
l’Israele escatologico che si instaura con l’avvento del Regno di Dio. Essi costituiscono il seme, il
nucleo più intimo della nuova famiglia di Gesù, ossia di coloro che fanno la volontà di Dio ( 3,31-35)
e come Gesù si muovono nei villaggi affidandosi totalmente alla potenza dell’invio di Gesù e non a
mezzi umani (6,7-13). Essi sono i testimoni dei segni di Gesù, in particolare della moltiplicazione dei
pani (6,30-44) ma al contempo sono incapaci di comprenderli fino in fondo, perché condividono la
durezza di cuore degli uomini (6,51-52). Marco sottolinea nettamente l’incomprensione che i
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discepoli manifestano nei confronti del loro maestro, che non cessa al momento in cui Pietro confessa
l’identità messianica di Gesù, ma anzi per così dire aumenta (cfr.8, 33). Ogni annuncio della passione
è seguito da un episodio che manifesta la totale mancanza di sintonia dei discepoli (cfr. anche 9,3337; 10,35-40) e che rende necessaria un’ulteriore catechesi da parte di Gesù, in forma di parole e di
gesti. Alcuni personaggi secondari nella narrazione, mostrano le caratteristiche positive che dovrebbe
avere il discepolo, in particolare la sua fede nei confronti di Gesù. Un esempio importante è
certamente quello della donna sirofenicia, donna straniera che costituisce un richiama implicito alla
futura nascita di una comunità cristiana di provenienza pagana.
Da questi elementi possiamo trarre qualche conclusione sull’ecclesiologia marciana: la Chiesa è una
famiglia che attualizza il Regno di Dio in se stessa, un seme del Regno. Essa è per sua natura
missionaria, perché inviata dal messia Gesù con una parola potente a compiere i segni del Regno nella
sua storia. Essa accoglie al suo interno anche tutti i popoli, è dunque universale. Essa è anche la
comunità in cui la fede in Cristo può essere maturata solo stando con lui, e passando attraverso il
travaglio della sua croce e resurrezione. Solo alla luce della croce la Chiesa può comprendere fino in
fondo chi è chiamata a seguire lungo i sentieri della storia.
7. 2 VANGELO DI MATTEO.
Notiamo subito che Matteo non parla di Regno di Dio, ma, con un’espressione ancor più semitica, di
Regno dei cieli (cfr. 13,11). Se il Regno dei cieli nel discorso della montagna deve essere
caratterizzato da una sovrabbondante giustizia, che sola può integralmente compiere la Legge di Mosè
(5,17-20), sono le parabole (c. 13) a manifestare il mistero di tale sovrabbondante giustizia.
La parabola del seminatore (13,3-9) mostra il contrasto tra una semina sovrabbondante e persino
sprecata e una risposta differenziata dei diversi terreni. Alcuni di essi non rispondono positivamente,
non fanno fruttificare questo dono del seme. Come è possibile che ciò accada, se la parola è rivolta a
tutti? Come è possibile che la parola di Gesù fallisca, producendo in molti casi rifiuto anziché
accoglienza? È questo l’interrogativo di fondo dei discepoli, sul perché Gesù parli il linguaggio
oscuro e difficile delle parabole (cfr. 13,10). Le parabole mostrano la caratteristica paradossale del
Regno dei cieli, che si instaura senza imporre una verità con la forza, ma donando a tutti, anche a chi
lo rifiuterà, il seme della Parola di Dio. Così il suo insegnamento parabolico rispetta la libertà
dell’interlocutore e non gli impone una verità per via di sillogismi o dimostrazioni. Egli lo invita
piuttosto a convertire il cuore all’amore del Padre, che semina sprecando illogicamente il suo seme e
che lascia crescere la zizzania insieme con il grano, per non correre il rischio di tagliare anche il grano
(13,24-30). Si può arrivare ad affermare che secondo Matteo compimento della giustizia deve passare
attraverso il rifiuto degli uomini e in particolare del popolo di Israele, perché è proprio quando il
popolo arriva al culmine della sua durezza di cuore, della sua incapacità di ascoltare e comprendere
la parola di Dio, che il Signore potrà realizzare improvvisamente la sua guarigione e la sua
conversione (cfr. 13, 14 – 14; Iss 6, 9 – 10). Come?
Attraverso la logica della croce, che è il vero mistero significato dal seme gettato in terra della
parabola. In fondo anche per Matteo il Regno dei cieli ha a che fare con Gesù, Lui che è il servo mite
di Jhwh che non grida la verità in piazza (cfr. 12,19, Is 42,2) e porta la giustizia con misericordia (cf.
12,20 cit. di Is 42,3). Nella cristologia di Matteo è molto più sottolineato che in Marco il carattere
ebraico del messia. Egli è collegato a Davide e Abramo nella sua genealogia (1, 1) è figlio di Davide
(1, 17.20) è l’emmanuele di Isaia, ossia il discendente regale che porta Dio in mezzo al suo popolo
(Mt 1,23;cfr. Is 7,14) è il re-pastore (cf. 9,36) e il messia d’Israele (2,6), cosa che Gesù stesso afferma
ripetutamente (10,6; 15,24). È solo dopo il rifiuto di Israele che i discepoli saranno inviati da Gesù
sul monte della galilea a fare discepoli tutti i popoli (28,19). Infatti il rifiuto di Israele fa sì che il
Regno di Dio sarà tolto ai capi giudaici “e sarà dato ad un popolo che lo farà fruttificare (21,43)”.
Il seme di questo nuovo popolo è già presente nel Vangelo di Matteo nei discepoli e apostoli di Gesù.
La loro caratterizzazione è più positiva che non in Marco. Essi infatti sono ammessi all’intimità con
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Gesù e possono accedere alla spiegazione delle parabole e alla comprensione profonda dei misteri del
Regno dei cieli. Non solo, ma sono inviati da Gesù a mostrare la gratuità del Padre nell’annuncio del
Regno dei cieli (10,8), fatto a parole, ma anche con i segni delle guarigioni, con la povertà e
soprattutto con la perseveranza nelle persecuzioni (10,17-39). In filigrana compare il volto di una
Chiesa giudeocristiana fortemente messa alla prova dallo scontro con il giudaismo che si
riorganizzava nella sua componente farisaica, dopo la recente distruzione di Gerusalemme e del
tempio. Si tratta di una Chiesa che alla saggezza umana dei dottori della legge oppone la sapienza
della croce, definitiva sapienza dei piccoli, che rivela il volto del Padre e il misterioso e abissale
rapporto d’amore tra il Padre e il Figlio (11, 25 – 27). Pur essendo compresa anche dai piccoli, non
si tratta di una sapienza infantile o ingenua, anzi, i discepoli di Gesù sono definiti scribi (13,51), che
devono tenere insieme cose nuove e cose antiche (AT e NT) nell’unica sapienza della croce, sono
profeti, sapienti e scribi che vivranno su di se il mistero del messia rifiutato e ucciso dal suo popolo
(cfr. 23,34) ma che saranno ricompensati dal ritorno glorioso di Gesù alla fine dei tempi alla luce
dell’amore che avranno manifestato, imitando il Padre (24,3.27; 25,31-46). Questa Chiesa ha un
punto di riferimento centrale in Pietro, del quale viene affermato senza mezzi termini il primato a
partire dalle parole di Gesù: “ <<Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze
degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del Regno dei cieli: tutto ciò che legherai
sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli>>. Allora
ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.”.
7. 3 QUADRI DI TEOLOGIA LUCANA
7. 3. 1 INTRODUZIONE ALLA TIPOLOGIA
I vangeli sono inseriti all’interno di un canone, comprendente Antico e Nuovo Testamento, e una
interpretazione esegetica e teologica di essi non può non tenere conto dei rapporti che intercorrono
tra questi testi e il loro con-testo. Il documento sulla Parola di Dio del Concilio Vaticano II,
denominato Dei Verbum, afferma al n.16 la mutua dipendenza ermeneutica tra Antico e Nuovo
Testamento : « …i libri dell’Antico Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica,
acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento, che essi a loro volta
illuminano e spiegano.>>. Da una parte si afferma che il Nuovo Testamento porta a compimento ciò
che è significato nell’Antico, ma dall’altra si mostra che non si può comprendere il Nuovo senza i
libri dell’Antico, che lo illuminano e lo spiegano. Non si possono dunque conoscere adeguatamente
i Vangeli senza tener conto dell’Antico Testamento.
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Si potrebbe fondare questa affermazione sia dal punto di vista storico che dal punto di vista letterario.
L’influenza del mondo giudaico e della letteratura religiosa che ha contribuito a forgiare la sua
identità, ossia quello che noi oggi chiamiamo Antico Testamento, e, più nel dettaglio,
l’interpretazione viva dell’antico Testamento (torà orale) propria dell’ebraismo del I secolo, sono la
matrice nella quale si forgiano tutte le creazioni letterarie successivamente inserite nel canone del
Nuovo Testamento. Dal punto di vista letterario poi si trovano forti legami, sottoforma di citazioni,
allusioni, echi, riletture che i testi del NT fanno di altri testi dell’AT. In definitiva l’AT costituisce
sempre lo sfondo dei testi del NT ed anche dei vangeli, come si può abbondantemente dimostrare
anche attraverso un elenco e una catalogazione di tutti i richiami interni al NT.
Tuttavia il lavoro esegetico e teologico che parte da questa constatazione non può certamente fermarsi
ad essa. Ci si pone infatti una domanda di fondo, estremamente importante a livello teologico : quale
tipo di rapporto viene configurato da tale dipendenza storico- letteraria del NT e dei Vangeli nei
confronti dei testi dell’Antico Testamento? Data la poliformità letteraria di testi del NT e il loro
diverso utilizzo dell’AT, non è per nulla semplice ricavare delle leggi generali. Talvolta bisogna
accontentarsi di ritrovare lo sfondo veterotestamentario e notare l’interesse del narratore nel riferire
un compimento. Talaltra però si può scavare maggiormente e notare dei rapporti più precisi e definiti
tra elementi dello sfondo veterotestamentario ed altri elementi presenti nel testo del NT. Ogni qual
volta si può accostare ad una figura (tipo) propria di un racconto dell’AT, elementi di un racconto
del NT (antitipo), mostrando un rapporto di continuità / discontinuità tra di essi, in modo tale che
l’antitipo riprende e supera il tipo compiendolo, qui siamo di fronte ad un funzionamento letterarioteoogico che possiamo denominare tipologia. Tali elementi (tipi) possono essere costituiti da eventi,
circostanze, persone, popoli, istituzioni e il loro rapporto deve essere di compimento, ossia l’uno è
una preparazione dell’altro. Ci può essere una tipologia esodale, mosaica, profetica, regale,
sacerdotale, cultuale ecc…
Per il nostro studio è sufficente ammettere che in via di principio non è possibile escludere la
possibilità che gli autori del NT abbiamo fatto uso di tale strumento interpretativo, poiché esso era
presente nella cultura giudaica ed ellenistica del periodo intertestamentario e perchè l’Antico
Testamento stesso, al suo interno, ne ha fatto uso. Lo studio della tipologia risulta allora
particolarmente interessante, dal momento che contribuisce a riconnettere i Vangeli nel loro contesto
canonico e mette in luce in modo assai convincente le loro teologie, nel quadro globale del
compimento delle Scritture.
7. 3. 2 LA TIPOLOGIA NEL VANGELO DI LUCA (Lc 17,11-19).
Nel Vangelo di Luca la tipologia profetica, applicata a Gesù, risulta particolarmente evidente ed
estesa. A partire dal c. 4 in cui Gesù predica a Nazareth, nella sua terra natale, Gesù è dipinto con i
caratteri di un profeta (cfr. 4,24) che predica la parola di Dio e che è rifiutato dal suo popolo, secondo
il destino proprio di tutti i profeti di Israele. Gesù appena consacrato dalla discesa dello Spirito Santo
su di lui, dopo il battesimo, è dotato di una “parola” profetica, che si esprime attraverso azioni e
discorsi (cfr. 24,19) e che rende attuale la salvezza di Dio, il tempo del compimento delle promesse
di salvezza di Isaia (cfr. 7,18-23).
Ormai al termine del suo itinerario verso Gerusalemme attraversando la Galilea e la Samaria, (Lc 17,
11) Gesù incontra dieci lebbrosi, che si fermano a distanza, e appellandosi alla sua qualità di maestro
lo supplicano di avere pietà di loro: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi”. (Lc 17, 12).
La scena della guarigione dei dieci lebbrosi (17, 11 – 19), dipinta con una certa rapidità da Luca,
mostra di avere uno sfondo veterotestamentario profetico (cfr. 2 Re 5). In quale modo il narratore
allude a tale sfondo? Quali sono gli elementi comuni e le differenze? Gesù è accreditato come un
profeta?
Per rispondere a queste domande è necessario approfondire l’esegesi di questo testo.
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Dobbiamo anzitutto notare che questo racconto interrompe una serie di discorsi di Gesù con un
miracolo di guarigione. L’ultimo miracolo di Gesù prima di questo è in 14, 1 – 6, dopodichè si tratta
di una serie di insegnamenti fino a 17,11. Inoltre la notazione geografica di Luca sul cammino verso
Gerusalemme contribuisce a creare uno stacco preciso da ciò che precede e favorisce l’idea di un
nuovo inizio della narrazione. Si tratta della terza ed ultima sezione del viaggio di Gesù verso
Geursalemme che prosegue fino a 19, 27.
Il racconto di questo miracolo si conclude con l’affermazione di Gesù: “alzati e va, la tua fede ti ha
salvato” (v. 19), perché dopo il samaritano ex lebbroso sparisce e ritornano in scena i farisei. È
interessante il paragone che viene a crearsi (syncrisis) tra la fede constatata da Gesù a proposito del
samaritano, che evidentemente ha saputo riconoscere in Gesù la fonte del segno di guarigione appena
manifestasi in lui, e la mancanza di fede mostrata dai farisei nei termini di una ricerca esteriore di
segni. Il seguito dei discorsi di Gesù porterà avanti il tema della fede parlando della venuta del figlio
dell’uomo (Gesù) in rapporto ai segni (cfr. vv. 17, 22 – 37), della preghiera (18, 1 – 14), dell’umiltà
di chi accoglie il Regno come un bambino, abbandonando le sue ricchezze per seguire Gesù (18, 15
– 30).
Il cuore di questa sequenza narrativa che culmina con il terzo annuncio della passione e l’arrivo a
Gerico ( 18, 31 – 34) è dunque la fede in Gesù come condizione dell’ingresso nel Regno dei cieli.
Il racconto del lebbroso samaritano contribuisce a introdurre questo tema di fondo, dal momento che
il miracolo non è che un passaggio, neanche brevemente descritto, per arrivare a sottolineare invece
la salvezza ottenuta per mezzo della fede (v. 18). In effetti il culmine della trama non si ha con il
miracolo, ma con la constatazione della fede del samaritano: è qui infatti che la portata rivelativa del
racconto si mostra in modo improvviso. Su dieci lebbrosi guariti, la fede è paradossalmente
prerogativa di uno solo, di un samaritano, ossia di un eretico, disprezzato dal giudaismo ufficiale
dell’epoca rappresentato dai farisei.
Inizialmente il racconto, sapientemente orchestrato da Luca, sembra andare in una direzione più
consueta. Come ogni racconto di miracolo che si rispetti, vi deve essere l’incontro con Gesù, alle
porte della città o all’interno del villaggio. Qui i lebbrosi si fermano a distanza, per motivi cultuali
perché sono dichiarati impuri dalla legge di santità del levitica (Lv 13, 45) e a distanza lo supplicano
con il titolo di maestro, usato da Luca normalmente per i discepoli (Lc 5, 5; 8, 24) e con l’implorazione
“abbi pietà”, che nei salmi si rivolge a Dio stesso (Sal 31, 10; 51, 3). In questi lebbrosi c’è certamente
una fede incoativa, iniziale in Gesù, necessaria perché avvenga il miracolo (cfr. Lc 5, 13ss). Fin qui
tutto avviene secondo copione.
Dal v. 14 avviene un primo spostamento rispetto alla trama consueta di un racconto di guarigione di
miracolo. Ossia Gesù non guarisce direttamente con la sua parola i lebbrosi, prima di mandarli dal
sacerdote, ma li invia prima di guarirli. Questa modifica fa si che il miracolo divenga una prova di
fede. In questo spostamento Luca segue un altro copione, che gli proviene dall’Antico Testamento, e
particolarmente dal racconto, lungo e articolato, di guarigione del lebbroso Naaman, servitore del re
siriano, da parte del profeta Eliseo (cfr. 2 Re 5). Infatti il miracolo è una prova di fede di Naaman,
che è invitato dal profeta ad andare a bagnarsi del fiume Giordano. Non sono complicati riti fisici a
causare la guarigione, ma la fede nella parola del profeta Eliseo (2 Re 5, 12 – 15). Come il profeta
Eliseo guarisce il lebbroso Naaman, servitore del re siriano, semplicemente con la sua parola e con
l’obbedienza di andarsi a lavare nel Giordano, anche nel nostro testo il miracolo di guarigione dei
lebbrosi avviene a distanza, tramite la semplice obbedienza alla parola profetica di Gesù, di andare a
presentarsi ai sacerdoti. Le analogie non si fermano qui. Come Naaman il siriano ritorna dal profeta
Eliseo per mostrare la sua fede nel Dio di Israele e per ringraziarlo attraverso un dono materiale così
anche il lebbroso ritorna indietro per ringraziare Gesù (v. 15). Infine ancora come Naaman è uno
straniero cui viene donata insieme alla guarigione, la fede nel Dio d’Israele, così anche il lebbroso è
un samaritano, a differenza degli altri nove lebbrosi guariti, che invece sono giudei.
Come in 2 Re 5 la posta in gioco del racconto non è quindi semplicemente il miracolo di guarigione
fisica, ma più profondamente la fede dello straniero ed è questa fede ad essere manifestata dal
ringraziamento del samaritano e autorevolmente confermata dalla dichiarazione finale di Gesù (vv.
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18–19). Gesù si trova dunque nella stessa posizione del profeta Eliseo: egli è dotato di una parola
profetica, in grado di realizzare ciò che dice per mezzo della fede dell’interlocutore, e al termine del
miracolo egli stesso è chiamato ad esplicitarla autorevolmente.
Fino a questo punto abbiamo mostrato con considerazioni di tipo narrativo che il nostro racconto ha
una sfondo profetico e che tale figura è applicata a Gesù. Ora bisogna chiarire se questa figura
dell’antico testamento è applicata in una chiave tipologica, ossia se vi è un compimento del tipo
profetico nell’antitipo (Gesù), che prevede anche una differenza, un superamento dell’antitipo rispetto
al tipo.
Dobbiamo ricorrere ancora a considerazioni di tipo narrativo. Ci sono alcune differenze tra Eliseo e
Gesù. Quando Naaman va da Eliseo per ringraziarlo, il profeta rifiuta il dono, mentre Gesù non
sembra rifiutare la lode del samaritano. Inoltre i gesti del samaritano sono ben più estremi di quelli
di Naaman. Il samaritano infatti si prostra davanti a Gesù, con un atto d’adorazione che è appropriato
soltanto per Dio. Infine le parole del ringraziamento sono diverse. Naaman afferma la sua fede nel
Dio d’Israele, mentre il Samaritano: “lodando Dio a gran voce, si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi,
per ringraziarlo” (v. 16). Nella costruzione retorica di questa frase la lode di Dio è posta in parallelo
alla prostrazione davanti a Gesù e al suo ringraziamento.
“Tornava indietro,
a gran voce lodando Dio
e si prostrò con la faccia ai suoi piedi,
ringraziando Lui.
Se Naaman loda il Dio d’Israele, più di Naaman nel samaritano la lode del Dio di’Israele è
strettamente associata con la prostrazione e con il ringraziamento di Gesù. Lodare Dio e ringraziare
Gesù sono un unico atto per questo samaritano, che riserva a Gesù l’onore dovuto a Dio prostrandosi
ai suoi piedi.
Se il dono rifiutato da Eliseo lascia intendere l’impossibilità di far coincidere la sua persona con il
Dio d’Israele, la lode accettata e ratificata da Gesù suggerisce che il compimento del tipo profetico
consiste in un radicale superamento della figura stessa. Gesù è un profeta, ma è più che un profeta,
perchè è il mistero di una presenza personale di Dio stesso. Egli compie la parola profetica, come
profeta definitivo, come messia, come Figlio di Dio. Il samaritano lo riconosce e questa è la vera
guarigione, il vero miracolo, la vera salvezza che egli ottiene, e di cui la salvezza fisica era solo un
segno provvisorio. Se i nove lebbrosi giudei dopo essere guariti non ritornano indietro è perché
evidentemente non riconoscono in Gesù che un profeta, un semplice mediatore di una salvezza, che
in fin dei conti è altro da lui. Essi sono incapaci di cogliere il compimento della figura profetica in
Gesù come radicale superamento. Essi, a differenza del samaritano, non comprendono che in Gesù la
parola profetica e il contenuto che essa annuncia, ossia il Regno di Dio e la sua salvezza, sono
radicalmente fusi e identificati. Egli è la salvezza stessa, è il Figlio del Dio altissimo. A questo
compimento ci conduce l’intero itinerario del terzo Vangelo.
Infatti per tutto il tempo in cui Gesù è in cammino dalla galilea a Gerusalemme prevale la tipologia
profetica, ma quando arriva a Gerusalemme ritorna, come vedremo meglio, la tipologia del messia
regale (19, 28 – 37), che è propria dei racconti dell’infanzia (cfr. 2, 8 – 14). Al culmine di questa
successione di figure (profeta, re) la narrazione penetra nel mistero del Figlio di Dio. Al termine del
Vangelo infatti i discepoli di Emmaus, dialogando con il misterioso viandante che gli si accosta,
definiscono Gesù come “un profeta potente in parole ed in opere, davanti a Dio e a tutto il popolo”
(Lc 24, 19). Questa consapevolezza non è però sufficiente a liberarli dalla loro tristezza e disillusione
a riguardo della morte in croce di Gesù, segno che sono ancorati alla figura del messia regale, senza
riuscire ad oltrepassarla: “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”(21a). Solo
la parola del viandante, che si rivelerà come lo stesso Gesù risorto, li renderà capaci di scorgere
progressivamente in questa morte il compimento messianico delle profezie e di tutte le Scritture di
Israele. Solo la luce della resurrezione permette di comprendere che in quel profeta potente in parole
e opere che muore in croce si compie tutta la Scrittura e che Egli è realmente il Figlio di Dio (cfr. 22,
70).
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7. 4 LA TIPOLOGIA REGALE IN MATTEO
7.4.1 MT 21, 1 – 11. SFONDO DELLE NOTAZIONI TOPOGRAFICHE.
Il testo di Matteo si apre con l’arrivo di Gesù a Betfage, verso il monte degli Ulivi. Matteo a differenza
di Marco e di Luca non cita Betania, ma mette in maggiore rilievo la menzione del monte degli Ulivi
e di Betfage. Come mai?
Anzitutto dobbiamo notare la menzione del termine “Signore”: “Se qualcuno vi dirà qualcosa, gli
risponderete che il Signore ne ha bisogno”(v. 2). Questo termine, come abbiamo già potuto notare,
ha una forte connotazione teologica e cristologica, esso indica il riconoscimento dell’autorità stessa
di Dio in Gesù (cfr. Mt 14, 28. 30; 15, 22. 25. 27; 17, 4. 15 ecc.).
La duplice menzione del termine Signore e della notazione geografica sul monte degli Ulivi si trova
in Zc 14, 3 – 4, testo in cui si parla del combattimento finale di Dio contro le nazioni che culmina sul
monte degli Ulivi dove si instaura definitivamente la Signoria regale di Dio su tutta la terra (v. 9).
Tale regalità sarà adorata nel giorno di Sukkot, o festa della capanne, in cui tutti i superstiti delle
nazioni andranno ad adorare il re, il Signore degli eserciti (v. 16).
Altre occorrenze interessanti riguardo al monte degli Ulivi, perché connesse al tema della regalità,
sono 2 Sam 15, 13 – 23, in cui troviamo Davide che deve fuggire da Gerusalemme a causa
dell’insurrezione guidata dal figlio Assalonne e sale l’erta degli Ulivi piangendo o ancora Ez 11, 23,
dove si parla del monte ad oriente della città, identificabile col monte degli Ulivi, luogo da dove si
diparte la gloria del Signore che stava nel tempio, per andarsene da Gerusalemme.
Betfage non appare mai nell’Antico Testamento. La sua traduzione dall’ebraico è “casa del fico” e
il fico è tradizionalmente secondo il Talmud, figura di Israele stesso. Sempre secondo il Talmud, i
pani della proposizione, offerti nella liturgia del tempio (Lv 24, 5 – 9), potevano essere cotti a Betfage.
Questo richiama il lettore all’episodio di 1 Sam 21, 2 – 10, in cui si parla di Davide e dei suoi soldati
che si nutrono dei pani santi, nella località di Nob, non distante dal monte degli Ulivi.
7.4.2 UNA CONFERMA NARRATIVA
Lo sfondo escatologico e regale alluso dalle menzioni topografiche e dall’uso dell’appellativo
“Signore” viene confermato se guardiamo al percorso narrativo di Matteo in questa sequenza
dell’ingresso a Gerusalemme. Appena fatto il suo ingresso Gesù, al v. 12 entra nel tempio e scaccia i
venditori. Il subitaneo ingresso di Gesù nel tempio non sembra causale. In Mt 11, 10 si trova un
riferimento a Giovanni il Battista come all’annunciatore che sta davanti a Gesù per preparare la strada
davanti a lui. Questo testo è una citazione esplicita combinata di Es 23, 20 e di Mal 3, 1. In particolare
in Mal 3, 1 leggiamo: “ Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito
entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate”. Dunque la citazione di Gesù a riguardo del Battista
indica che dopo il tempo dell’annunciatore, del Battista, vi è l’ingresso del Signore nel tempio. Il
tempo escatologico è arrivato e il Signore prende possesso del tempio in Gerusalemme, come è
confermato dalla narrazione in 21, 12. Ecco perché appena fatto il suo ingresso a Gerusalemme Gesù
entra nel tempio. Qui la narrazione conferma lo sfondo regale/escatologico che abbiamo identificato
e accredita la figura regale applicata a Gesù come una tipologia. Si tratta di un messia regale, la cui
messianicità implica una presenza radicale di Dio, una definitiva presenza di Dio con noi nel suo
tempio!
7.4.3 CITAZIONI ESPLICITE E NARRAZIONE MATTEANA
La trattazione dei versetti che seguono fornisce ulteriori e decisive conferme.
Le citazioni esplicite di Zc 9, 9 e di Is 62, 11 sono concentrate nel v. 5. Si parla qui della figlia di
Sion. Il monte Sion è il cuore di Gerusalemme e indica la città stessa di Davide ( 1 Re 8,1; 2 Ch 5,
2). Nei Salmi essa è scelta da Dio stesso (Sal 132, 13), per essere la dimora di Dio (cfr. Sal 50, 2; 99,
2) la dove ciascuno è benedetto e nato (Sal 128, 5; Sal 87, 5). Dunque la città di Davide viene ad
essere identificata con la stessa dimora di Dio, dove il Signore consente di abitare (cfr 2 Sam 7, 5 –
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6). Il termine “figlia di Sion” si trova anche nei testi profetici, ad indicare Israele come soggetto della
collera divina e insieme del suo amore geloso o anche la nuova Gerusalemme/Israele esultante per il
ritorno dall’esilio (Is 1, 8; Is 52, 2; 62, 11). Questi testi vengono ad adattarsi bene al messaggio di
fondo di Zaccaria, nel quale troviamo l’instaurazione della regalità di Dio, del Signore a
Gerusalemme.
Riguardo alla citazione di Zaccaria è ancora interessante notare che Matteo la modifica, tralasciando
le due qualifiche iniziali date al Re messia, ossia “giusto e vittorioso”. In tal modo risalta quasi
unicamente l’umiltà e la mitezza di questo re che entra in Gerusalemme. L’umiltà è segnalata
dall’asino, sul dorso del quale Gesù entra e che è una cavalcature propria del tempo di pace, come
conferma il prosieguo della citazione di Zaccaria: “Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da
Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti…” (Zc 9, 10). Questi è il
re mite e umile di cuore che dona pace e consolazione a tutti coloro che sono oppressi (Mt 11, 29). È
anche interessante notare che la definizione della cavalcatura del Signore viene ribadita due volte, un
asino, ossia un puledro figlio d’asina nella citazione di Zaccaria. Zaccaria in questo modo cita Gen
49, 11 il testamento di Giacobbe nei riguardi di Giuda, la tribù dalla quale nasce il messia davidico,
proprio per indicare che tale Signore è proprio il messia regale atteso. Matteo reduplica gli animali
(v. 7) e afferma che Gesù monta sopra entrambi, per sottolineare maggiormente, con il suo particolare
gusto narrativo del raddoppiamento, la qualità messianico – regale dell’ingresso di Gesù a
Gerusalemme. Inoltre Matteo toglie il riferimento alla gioia e all’esultanza in Zc 9, 9 insistendo
piuttosto sull’annuncio alla luce di Is 62, 11: “Dite alla figlia di Sion”. In questo modo la profezia si
inserisce in modo più coerente col progetto narrativo di Matteo. L’ingresso di Gesù a Gerusalemme
è un annuncio che richiede una conversione, un riconoscimento da parte di Gerusalemme, perché la
vittoria non è ancora stata ottenuta. Come Gerusalemme accoglierà il suo re mite ed umile? È
evidente l’intento narrativo di Matteo. Gesù è certamente il re – messia, ma la narrazione confermerà
che tale messianismo non assume la forma di una vittoria politico – militare, bensi si compie nella
forma del servo sofferente, che instaura il suo regno passando attraverso il rifiuto del suo popolo e la
morte. Anche qui la figura regale viene chiaramente appoggiata e insieme superata dalla narrazione,
assumendo la connotazione di una “tipologia”.
Nei vv. 6 – 11 viene descritta un’accoglienza festosa del “figlio di David”. Matteo cita esplicitamente
il Salmo 118, 26a: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Non a caso questo Salmo viene
cantato nella festa popolare delle tende (sukkot) nella quale il popolo, ricordando il cammino nel
deserto e l’attesa della terra promessa, attende l’arrivo del messia regale. La liturgia di questa festa,
accennata dal Salmo (cfr. v. 27b), prevede l’uso di rami frondosi in corteo, fino ad arrivare ai lati
dell’altare, e richiama certamente la descrizione matteana dei rami tagliati dagli alberi e disposti lungo
la strada (v. 8). Anche il grido “Osanna” è ripreso dal Salmo 118 al v. 25, dove il testo ebraico recita:
“hoshî’anna’” che si traduce: “ tu fai la salvezza”. 16
L’espressione “figlio di Davide” è tipicamente giudaica e matteana. La troviamo nella genealogia di
Gesù, fin dall’inizio del Vangelo (1, 20) e in altri contesti di supplica e guarigione (9, 20; 12, 23; 15,
22; 20, 30 – 31), in cui è messa in gioco la fede nel messia. In particolare in 12, 23 il titolo davidico
applicato a Gesù da un lato esprime una domanda di fede della folla, ma dall’altro sembra anticipare
il rifiuto dei farisei e dei capi giudaici, in altri termini l’incomprensione e il rifiuto di Israele (cfr. 12,
24; 22, 42). Anche qui nell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, la folla reagisce alla fine rispondendo
alle domande agitate dei cittadini: “Chi è costui?”: è il profeta Gesù da nazareth d Galilea”. (v. 11)
Al termine del nostro percorso matteano, possiamo ben affermare che questa affermazione della folla
non possa affatto essere sposata dal narratore anzi, perché Gesù è ben più che un profeta! Essa esprime
e quasi inaugura il futuro rifiuto di Gerusalemme nei confronti nel messia regale umile e pacifico che
è arrivato a lei.
16
Nella festa di sukkot, l’ultimo giorno di festa la folla agita il “lulav”, un bouquet di rami, al grido di Osanna (cfr. Lv 23,
40).
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7.4.4 NEL QUADRO DEL MACRORACCONTO
Una simile agitazione aveva preso i notabili della corte di Erode all’arrivo de magi, che chiedevano:
“Dov’è il re dei giudei che è nato?”. Questa allusione alla regalità di Gesù è stata confermata nel
racconto matteano dell’infanzia dalla citazione esplicita di Is 7,9 in 1,23, che riguarda un messia
davidico e ancora in 2,5-6 dove viene citato Mic 5,1.3. Tutta la narrazione inoltre suggerisce uno
scontro tra il re davidico Gesù e il falso re Erode, che intende mantenere il potere con la violenza,
opponendosi al piano divino. La vittoria divina viene qui anticipata misteriosamente: non si tratta
però di una vittoria ottenuta con le armi della politica e con gli eserciti, ma con la forza umile di un
re che muore in croce per la salvezza del suo popolo.
Ancora una volta la figura regale appare, lungo tutto il percorso del vangelo, compiuta nella mitezza
e umiltà del servo sofferente. Qui si compie l’Emmanuele, il messia Dio con noi, che con la potenza
della resurrezione acquisterà potere sulla terra e nei cieli (cf. 28,18). Egli sarà con i suoi discepoli
tutti i giorni, fino alla fine del mondo (cf, 28,20). Il tipo regale trova compimento definitivo nel
mistero pasquale, lì dove grazie alla potenza della resurrezione, il re umile sarà vittorioso in ogni
tempo e in ogni luogo. È l’instaurazione ultima del Regno dei cieli che si compie nella storia grazie
all’invio dei discepoli di Gesù.
7. 5 LA TIPOLOGIA DEL SERVO SOFFERENTE
Lo sfondo di Is 53 si trova ben presente nelle fonti che i sinottici utilizzano per descrivere la passione
e morte di Gesù. Gli annunci della passione (Mc 8,31/ Mt 16,21-23/ Lc 9,22; Mc 9,30-31/ Mt 17,2223/ Lc 9,43-45; Mc 10,33-34/ Mt 20,17-19/ Lc 18,31-33) si basano su delle fonti che hanno come
riferimento Is 53,1-12. L’uso del verbo “consegnare” (paradidomi cf. Mc 9,31 par.: “Il figlio
dell’uomo viene consegnato nella mani degli uomini e lo uccideranno, ma dopo tre giorni risorgerà”;
Mc 10,33 par.; Is 53,6 LXX: “κύριος παρέδωκεν αὐτὸν ταῖς ἁμαρτίαις ἡμῶν” Trad: Il Signore lo ha
consegnato per i nostri peccati”; Is 53,12: “διὰ τοῦτο αὐτὸς κληρονομήσει πολλοὺς καὶ τῶν ἰσχυρῶν
μεριεῖ σκῦλα ἀνθ᾽ ὧν παρεδόθη εἰς θάνατον ἡ ψυχὴ αὐτοῦ καὶ ἐν τοῖς ἀνόμοις ἐλογίσθη καὶ αὐτὸς
ἁμαρτίας πολλῶν ἀνήνεγκεν καὶ διὰ τὰς ἁμαρτίας αὐτῶν παρεδόθη”: “per questo erediterà i molti e
dei forti farà bottino, al posto dei quali fu consegnata alla morte la sua vita e fu annoverato tra gli
empi ed egli stesso portò i peccati di molti e per i loro peccati fu consegnato”) è un allusione al testo
di Is 53,6.12 perché il soggetto della consegna è Dio. Nonostante questo termine si trovi spesso anche
nei Salmi per indicare la consegna nelle mani dei nemici, in realtà si tratta di un’invocazione del
Salmista nei confronti di Dio per scongiurarla (Sal 26,12 LXX; Sal 74,19 LXX; Sal 87,9 LXX).
Anche nel Salmo 87 in fondo prevale una tonalità di supplica che intende quasi “accusare” Dio per
suscitare una sua risposta d’amore, che verrà in effetti nel Salmo 88, con un rapido passaggio dalla
supplica alla lode.
Solo in Is 53 la consegna del servo sofferente è vista come un progetto di Dio stabilito fin dall’inizio
e di fronte al quale il servo si pone in atteggiamento di obbedienza silenziosa (cf. Is 53,7) ed è
precisamente questa la prospettiva degli annunci della passione.
Lo sfondo del servo sofferente di Isaia assume un carattere tipologico, che emerge chiaramente nella
volontà del narratore in altri punti dei vangeli, come ad esempio in Mt 12,15-21, dove si trova un
ampia citazione esplicita di Is 42,1-4 a commento del silenzio imposto da Gesù verso i beneficiari dei
suoi miracoli di guarigione (cf v.16). La mitezza del servo si pone in antitesi con la violenza dei suoi
avversari, che tengono consiglio contro Gesù per farlo morire (cf.12,14), dopo un miracolo compiuto
in giorno di sabato. Segue la controversia di Gesù con i farisei a motivo dell’autorità con cui egli
scaccia i demoni (cfr. vv. 22-23). Il contesto narrativo prepara lentamente il corso degli eventi futuri,
ossia il rifiuto che Israele, rappresentato dai suoi capi, farisei e scribi, opporrà al figlio dell’uomo e la
sua messa a morte per i peccati del popolo (cf. Mt 26,28; Is 53,12).
Nella versione matteana della cena pasquale (Mt 26 26-30) è sottolineato il carattere espiatorio della
morte di Gesù, ossia la sua funzione di remissione dei peccati. Si tratta di una reinterpretazione del
testo di Is 53,5-6.12 dove viene affermato il fatto che il servo sofferente è stato consegnato da Dio a
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causa dei peccati del popolo e che tramite questo castigo ne è derivata una salvezza per il popolo. Se
qui l’idea dell’espiazione è solo implicita (non si parla infatti esplicitamente di remissione dei peccati,
ma solo genericamente di salvezza) nel testo di Matteo l’istituzione del sangue della nuova alleanza
versato per la remissione dei peccati acquista una connotazione innegabilmente sacrificale ed
espiatoria. La morte di Gesù in croce, anticipata e già simbolicamente contenuta nell’istituzione
eucaristica, è considerata come un sacrificio che espia i peccati del popolo e questa “consegna” di
Dio compie il disegno rivelativo e salvifico del servo sofferente proprio passando attraverso il rifiuto
e il male degli uomini e di Israele in particolare.
Non a caso è proprio il sangue di Gesù che viene invocato dalla folla inferocita che chiede a Pilato la
crocefissione di Gesù: “il suo sangue ricada su di noi e suoi nostri figli (cf. 27,25-26)”. Ad una prima
lettura sembra che si tratti di una colpa da far semplicemente ricadere sul popolo, dal momento che
Pilato se ne lava le mani dichiarandosi innocente del sangue (v. 24). In realtà proprio il riferimento
all’innocenza e alla colpa richiama la tipologia del servo sofferente. Come il servo Gesù porta su di
sé il peccato del popolo, più del servo Gesù espia il peccato con il suo sangue, il sangue della nuova
alleanza che ricade sul popolo e sui figli non per condannarli ma per salvarli in modo definitivo.
Anche in Marco la tipologia del servo è sviluppata. L’ultimo dei tre annunci della passione è quello
che mostra più riferimenti espliciti al servo di JHWH in Isaia. Possiamo notare i seguenti agganci:
Is 50,6: τὸν νῶτόν μου δέδωκα εἰς μάστιγας τὰς δὲ σιαγόνας μου εἰς ῥαπίσματα τὸ δὲ πρόσωπόν μου οὐκ
ἀπέστρεψα ἀπὸ αἰσχύνης ἐμπτυσμάτων. “ Ho dato il mio dorso alle percosse, la mia guancia agli schiaffi, non
ho sottratto la mia faccia dalla vergogna degli sputi”
Mc 10,33-34: ὅτι ἰδοὺ ἀναβαίνομεν εἰς Ἱεροσόλυμα, καὶ ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου παραδοθήσεται τοῖς
ἀρχιερεῦσιν καὶ τοῖς γραμματεῦσιν, καὶ κατακρινοῦσιν αὐτὸν θανάτῳ καὶ παραδώσουσιν αὐτὸν τοῖς ἔθνεσιν
34 καὶ ἐμπαίξουσιν αὐτῷ καὶ ἐμπτύσουσιν αὐτῷ καὶ μαστιγώσουσιν αὐτὸν καὶ ἀποκτενοῦσιν, καὶ μετὰ τρεῖς
ἡμέρας ἀναστήσεται. (Mar 10:33-34 BGT).
Ancora in 10,45 si trova una connotazione sacrificale ed espiatoria nel descrivere la morte di Gesù,
come riscatto per tutti. Si può trovare un parallelismo in Is 53,10-12:
Is 53,10-12: ἀπὸ τοῦ πόνου τῆς ψυχῆς αὐτοῦ δεῖξαι αὐτῷ φῶς καὶ πλάσαι τῇ συνέσει δικαιῶσαι
δίκαιον εὖ δουλεύοντα πολλοῖς καὶ τὰς ἁμαρτίας αὐτῶν αὐτὸς ἀνοίσει. αὐτὸς ἁμαρτίας πολλῶν
ἀνήνεγκεν καὶ διὰ τὰς ἁμαρτίας αὐτῶν παρεδόθη.
Mc 10,45: δοῦναι τὴν ψυχὴν αὐτοῦ λύτρον ἀντὶ πολλῶν
Questi elementi da soli non sono sufficienti a provare una tipologia del servo sofferente. Bisogna
mostrare come la narrazione li riprenda e li porti a compimento. Se in Matteo è il tema del sangue
dell’alleanza che più di ogni altro consente di mostrare il compimento della figura del servo, in Marco
sono più che altro i temi della flagellazione (15,20) e degli sputi (Mc 14,65; 15,19) e degli schiaffi
(Mc 14,65) che ritorneranno nel racconto della passione a mostrare tale compimento. Anche la nota
del silenzio del servo, che non apre la sua bocca (Is 53,7), si ritrova in Mc 14,61 dove Gesù non
risponde nulla all’interrogatorio del sommo sacerdote. In realtà tutto il racconto della passione e la
pericope della resurrezione sono connessi a questa figura e ne mostrano un compimento paradossale
e imprevedibile. Infatti la resurrezione di Gesù, in certo modo adombrata dalla discendenza numerosa
del servo e dalla gioia della sua conoscenza, finisce per costituire una definitiva conferma del
compiersi di questa figura
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8. FILIAZIONE E COMPIMENTO NEI VANGELI
Nel vangelo di Luca e, in particolare, nei racconti dell’infanzia (cc. 1-2) lo Spirito è il vero
protagonista. Egli è colui che colma i protagonisti di questi racconti (Elisabetta, Zaccaria e Maria cfr.
1, 35. 41. 67) perché accada la novità straordinaria, la nascita miracolosa del figlio dalla sterile e del
Figlio dalla vergine.
Ciò che accade compie l’attesa antica e le figure originarie di questa attesa, Abramo e Sara, ma anche
Isacco e Rebecca, Giacobbe e Rachele. Figure di spose amate ma sterili, je di padri nella fede in
avanzata età (cf. Gen 18, 11; Lc 1, 7), che hanno attraversato la valle di tenebre del dubbio (cf. Gn
15, 2; Lc 1, 20).
Nel Vangelo dell’infanzia il compimento dello Scritture è nascita, filiazione, novità improvvisa e
inaspettata di un dono: il dono di un figlio, nel quale si anticipa il dono stesso del Figlio. Nella storia
di Zaccaria ed Elisabetta è ricapitolata tutta la storia dell’Antico Testamento, storia di un’attesa,
l’attesa di un figlio, che diviene sempre più attesa definitiva del Figlio che ci è stato dato perché sia
il Dio con noi (cfr. Lc 1, 32 – 33. 43 - 44).
Ma l’opera dello Spirito non si ferma qui. Egli non solo compie la generazione fisica nella novità del
miracolo, ma molto più opera la comunione tra padri e figli, una comunione rinnovata in una rete di
rapporti carnali e insieme spirituali. Giovanni il Battista è colui che dovrà preparare un popolo ben
disposto con la potenza dello Spirito Santo, riconducendo il cuore dei padri verso i figli (Lc 1, 17),
ultima e definitiva ripresa della missione di Elia, secondo l’ultimo profeta dell’Antico Testamento
(Mal 3, 24).
Rinnovata comunione tra padri e figli: è questo che opera lo Spirito Santo anche nella tessitura
narrativa del vangelo dell’infanzia secondo Luca. Non è forse Maria a recarsi dalla <<madre>>
Elisabetta onorando in essa l’anzianità? Non è forse Elisabetta a ricambiare l’onore definendo Maria
la “Madre del mio Signore”? (Lc 1, 43). Lo Spirito ha reso uguali nell’onore due generazioni distanti
e la sua voce entra talmente nella carne da farsi udire nel ventre: “Ecco appena la voce del tuo saluto
è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo” (Lc 1, 44).
Lo Spirito opera l’unione di padri e figli perchè egli stesso è l’amore che compie Antico e Nuovo
Testamento nel Figlio e in Lui li rende simultaneamente veri. Nel reciproco onore che Elisabetta e
Maria si rendono per opera dello Spirito Santo, c’è la mutua reciprocità di Antico e Nuovo Testamento
che sono entrambi affacciati al mistero del Figlio, come due grembi partorienti in gioioso contatto tra
di loro (Lc 1, 44).
Lo Spirito opera l’unione di padri e figli perché Egli stesso è l’amore del Padre e del Figlio movimento
di perenne novità che rivela Gesù come il Figlio amato (Lc 3, 21 – 22) e lo sospinge al compimento
della Sua missione (cfr. Lc 4, 1. 14).
Al versante opposto del Vangelo lo Spirito, che verrà donato il giorno di Pentecoste, viene promesso
dal Figlio prima della Sua ascensione (Lc 24, 49), per trasferire ad ogni uomo la benedizione di Gesù,
benedizione di un padre nei confronti dei suoi figli (Lc 24, 50; cfr. Gn 49; Dt 33). Attraverso lo Spirito
che ci ha donato Gesù ci rende figli, così da farci penetrare nella misericordia del Padre, sia che siamo
figli maggiori come Israele, sia che siamo figli minori come i pagani (cfr. Lc 15, 11 – 32).
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