1 Lucio Gentilini STATI UNITI D`AMERICA: ESPANSIONE ED

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Lucio Gentilini
STATI UNITI D’AMERICA: ESPANSIONE ED
IMPERIALISMO DI UNA DEMOCRAZIA IN ARMI
PARTE PRIMA:
RAGGIUNGIMENTO E CONSOLIDAMENTO DEI CONFINI INTERNI
Introduzione
Nella sua opera più importante, ‘La democrazia in America’ (1835 e 1840), Alexis de
Tocqueville affermò che la fortuna aveva collocato gli Stati Uniti ‘in mezzo a un
deserto in cui non hanno, si può dire, vicini’: nonostante l’indubbio valore e le note
capacità dell’autore, questa affermazione non può essere accettata perchè a quel
tempo i vicini degli Stati Uniti invece c’erano e la spinta all’espansione – con
l’espulsione di tutti coloro che vi si opponevano - stava già chiaramente
caratterizzando la storia di quella terra di emigranti e di pionieri e sarebbe continuata
fino ai giorni nostri.
In queste pagine si cercherà allora di segnalare i momenti più importanti di questa
continua spinta a superare sempre nuove frontiere, vero marchio distintivo di questa
nazione straordinaria.
Guerra d’indipendenza ed espansione
La volontà di espansione – allora l’attraversamento degli Allegheny – fu addirittura
una delle cause della guerra d’indipendenza stessa degli USA per cui si può
sicuramente affermare che gli Stati Uniti sono nati anche con e per questa
insopprimibile volontà di affermazione e di conquista.
Con la fine della guerra dei Sette anni (1756-63) l’Inghilterra aveva esteso i suoi
domini americani dal Labrador alla Florida e dall’Atlantico al Mississippi: le tredici
colonie (i cui abitanti erano concentrati soprattutto nel New England, cioè in
Connecticut, Rhode Island, New Hampshire e Massachussets) che nel 1775 si
ribellarono e combatterono per l’indipendenza fino al suo conseguimento (il 3
settembre 1783) avevano quindi il Canada a nord ed a nord-est, la Florida (ex-colonia
spagnola) a sud e, a ovest, la vasta zona dagli Allegheny al Mississippi in cui gli
inglesi, in base ad un apposito proclama reale (emanato il 7 ottobre 1763), per
rimanere in pace con gli indiani avevano vietato l’insediamento dei coloni.
Tale proclama aveva stabilito il confine tra le tredici colonie inglesi ed i territori degli
indiani appunto sugli Allegheny, ma (prevedibilmente) non era stato possibile
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garantire un limite del genere, contestato dai coloni che continuavano invece ad
aumentare i loro insediamenti ad ovest di quella catena montuosa (soprattutto negli
attuali Kentucky e Virginia occidentale), e ciò spiega facilmente perché durante la
guerra d’indipendenza (1776- 83) gli indiani combatterono dalla parte degli inglesi.
Certamente questa fu una soltanto delle cause della guerra, nondimeno essa va messa
in luce con tutta la chiarezza necessaria per illustrare la natura stessa degli USA e la
continuità della loro politica.
Con la fine della guerra d’indipendenza gli USA ampliarono notevolmente i confini
delle tredici ex-colonie sia a nord che a ovest: essi raggiunsero i Grandi Laghi a nord
(lungo una linea di confine non ben specificata) e ad ovest il Mississippi, ma non la
costa sul golfo del Messico la quale (Nouvelle Orléans compresa) passò ora alla
Spagna che si era ripresa anche la Florida, rivendicava inoltre l’ampio territorio del
basso corso del fiume stesso e possedeva infine tutta l’area a ovest del Mississippi.
Già nel 1783 insomma, nel momento stesso della loro nascita, l’espansione degli
USA aveva compiuto il primo decisivo passo.
La cartina seguente mostra le tredici colonie prima dell’indipendenza e gli USA dopo
l’indipendenza: le acquisizioni ottenute con la guerra d’indipendenza sono quelle
colorate di verde chiaro.
(Come si può leggere, l’immenso territorio ad ovest del Mississippi - la Louisiana nel 1800 sarebbe poi stato restituito dalla Spagna alla Francia.)
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Lo scontro con l’Inghilterra non era stato comunque solo una guerra d’indipendenza:
la lunghezza della guerra (sette anni!) e la sua durezza avevano infatti trasformato (e
per sempre) una terra di coloni in una nuova nazione e la guerra era stata dunque
anche una rivoluzione.
Essa fu una rivoluzione per molteplici motivi:
a) gli USA nacquero in base ai celeberrimi principi apertamente rivoluzionari
enunciati con chiarezza nella Dichiarazione d’Indipendenza (4 luglio 1776);
b) i terribili sacrifici, la violenza, le devastazioni e le atrocità commesse dagli
inglesi, dai mercenari tedeschi al loro soldo, dagli indiani Irochesi ed i costi
umani e materiali della guerra vennero accettati e sopportati fino in fondo dai
patrioti;
c) durante la guerra le tredici colonie divennero così stati popolati da cittadini
liberi che presero in mano il loro destino;
d) tutti questi stati mandarono delegati al Congresso, ne accettarono l’autorità e si
riconobbero così parti di un’unità più vasta;
e) nell’ambito della guerra contro gli inglesi fu infine combattuta anche una
guerra civile fra patrioti (whigs) e lealisti (tories) che raggiunse anch’essa tratti
che risultano addirittura inspiegabili per la loro brutalità.
Con l’entrata della Francia, poi della Spagna, poi dell’Olanda, a fianco dei patrioti e
con la formazione della Lega della Neutralità Armata (favorevole ai patrioti con cui si
voleva continuare il commercio) guidata dalla zarina Caterina II, la guerra divenne
poi anche una guerra europea: l’Inghilterra si trovò quindi sola contro tutti e
vulnerabile proprio a causa della vastità del suo impero ormai mondiale.
Certamente l’aiuto internazionale fu fondamentale per il successo dei ribelli, ma le
nazioni europee entrarono in guerra (per riequilibrare le conquiste inglesi nella guerra
dei Sette Anni) dopo che i patrioti avevano dimostrato tutta la loro volontà di
resistere e le loro capacità militari e si decisero per l’intervento solo nel 1778, dopo
l’inequivocabile e convincente vittoria americana di Saratoga (17 ottobre 1777).
Quando l’Europa intervenne i patrioti avevano quindi già dimostrato di essere
diventati ormai cittadini consapevoli di una nuova nazione fondata su nuovi principi
(rivoluzionari) difesi con le unghie e con i denti.
Se la guerra fosse stata breve e se l’Inghilterra avesse ceduto subito non si sarebbe
formata (almeno per il momento) quella coscienza politica che invece si affermò e si
consolidò nel sangue e nel dolore dei lunghi penosi anni di lotta e di resistenza contro
un nemico così potente: la guerra di indipendenza fu insomma anche una rivoluzione
perché fu una guerra di popolo e di volontari che espulsero e sconfissero anche quegli
americani favorevoli invece al dominio inglese e che combatterono dalla sua parte.
In America l’Illuminismo si fece rivoluzione concreta e spazzò via ogni
compromesso col vecchio ordine monarchico e tradizionalista: il popolo cosciente ed
in armi pagò tutti i prezzi necessari alla sua indipendenza ed alla sua libertà
repubblicana.
Ma era un popolo di pionieri e di emigranti che con la vittoria aveva infranto solo il
primo – seppur decisivo – ostacolo alla sua espansione ed al suo dilagare sempre
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superando nuove frontiere: con l’indipendenza cominciò così la corsa al ‘Wild West’,
cioè il riorientamento della politica USA che fino a quel momento era stata
indirizzata al mare ed al commercio atlantico mentre ora iniziava in grande stile la
corsa alle sconfinate ed ancora sconosciute terre ad ovest: certamente l’avventura dei
pionieri al di là degli Allegheny non era cosa nuova, ma fino all’indipendenza era
stato un movimento illegale, autonomo e decisamente minoritario mentre ora
assumeva i caratteri di una vera e propria strategia politica del nuovo stato.
Nuovi territori e nuovi stati
Dopo l’indipendenza gli USA avevano più che raddoppiato l’estensione delle
precedenti tredici colonie e l’emigrazione verso ovest – portata avanti da tanti eroi,
esploratori, avventurieri e lunghe colonne di carri di pionieri - conobbe una forte
accelerazione, ma si pose immediatamente anche il problema di chi dovesse
esercitare il legittimo potere sui nuovi territori e di chi così avesse il diritto di dare (e
ricevere) in assegnamento quelle terre.
Una soluzione al problema era necessaria ed urgente così già nel 1787 un’apposita
Ordinanza per i Territori del Nordovest (quelli che si stendevano appunto a nordovest del fiume Ohio (il grande affluente del Mississippi) e ad est del Mississippi
stesso) – scritta da Jefferson e molto importante perchè smentiva le pretese degli stati
di allargarsi a dismisura verso ovest - stabilì che il Congresso li avrebbe presi in
carico nominando governatore e giudici provvisori in attesa che ogni futuro nuovo
stato, per il momento segnato soltanto sulla carta geografica, raggiungesse il numero
stabilito di 5mila abitanti maschi adulti per divenire un ‘territorio’ autoamministrato e
di 60mila per divenire a tutti gli effetti un nuovo stato dell’Unione.
In questi territori di nuova acquisizione il Congresso vietò la schiavitù - ma non ad
est dell’Ohio (!) - e regolò anche la suddivisione ed i criteri di assegnazione delle
terre ai coloni: stabilì insomma tutte le procedure che sarebbero state poi adottate in
tutte le successive sistemazioni dei successivi nuovi territori che via via si sarebbero
venuti ad aggiungere all’Unione.
Nel 1790 il primo censimento della popolazione registrò un totale di quasi 4 milioni
di residenti (da 1/5 a 1/6 dei quali schiavo), ma dall’Europa arrivavano
continuamente emigranti attratti dall’offerta di lavoro, dalla terra a disposizione e
dalla fama degli USA paese della libertà: data l’abbondanza di spazio a disposizione
gli emigranti venivano relativamente ben accolti e potevano diventare cittadini dopo
un breve periodo di residenza nella nuova nazione.
L’economia degli Stati Uniti recuperava gli inevitabili disagi del dopoguerra con
rapidità soprattutto al Sud dopo che nel 1793 Eli Whitney inventò la rivoluzionaria
‘cotton gin’: la rivoluzione industriale coi suoi effetti dirompenti era partita anche
negli USA ed anzi ne stava accompagnando la nascita ed il vertiginoso sviluppo.
La spinta ad ovest era ulteriormente accelerata dal fatto che i grandi proprietari si
impadronivano delle terre migliori (che poi facevano lavorare agli schiavi) spingendo
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via i piccoli coltivatori indipendenti cui non restava altro da fare che andare ancora
più ad ovest verso la sempre nuova frontiera, la parola-chiave di questo periodo.
Comunque già nel 1790 il Vermont (che vietava la schiavitù) entrò nell’Unione
come 14° stato ed il Kentucky (che invece la permetteva) come 15°; nel 1796 fu poi
la volta del Tennessee (che permetteva la schiavitù) come 16° e nel 1803 dell’Ohio
(dov’era appunto stata vietata) come 17°.
Tuttavia, anche se il Congresso in pratica li considerava tali, questi immensi spazi
non erano disabitati ed erano invece popolati dagli indiani: la convivenza fra le due
razze non era possibile e la presenza dei bianchi significò l’annientamento dei rossi,
che, seppur spesso sostenuti dagli inglesi, vennero combattuti e ricacciati sempre più
indietro, cioè ad ovest, come bestie selvatiche.
La guerra più lunga e sanguinosa contro di loro si verificò proprio nella prima fase, al
tempo della conquista dell’Ohio e del Kentucky, e per raggiungere questo scopo non
fu trascurato nessun mezzo, dalla guerra allo sterminio, dall’alcol alla distruzione
delle mandrie di bisonti, predisposta e voluta per togliere agli indiani la base
fondamentale del loro sostentamento e della loro esistenza stessa.
Dopo la sconfitta degli Irochesi nella guerra d’indipendenza nel 1794 fu così la volta
dei 20-30mila indiani a nord dell’Ohio e dei 70mila Chicksaws, Choctaws,
Cherokees e Creeks a sud-ovest: i primi furono sconfitti e scacciati dall’attuale stato
dell’Ohio, mentre con gli altri per il momento furono invece raggiunti accordi.
La nuova repubblica rivoluzionaria, patria della libertà e che presto si sarebbe dotata
di una sapiente ed equilibrata Costituzione che ancor oggi mostra tutti i suoi pregi e la
sua validità, non solo era nata schiavista nei confronti dei negri, ma fin da subito fu
impegnata in un genocidio - od in una radicale pulizia etnica - dei legittimi abitanti
indigeni, gli indiani, incompatibili cogli inarrestabili nuovi padroni bianchi.
L’incredibile acquisto della Louisiana
L’acquisto della Louisiana da parte degli Stati Uniti è una pagina di storia dagli strani
contorni, tanto importante quanto difficilmente spiegabile: è dunque necessario
ripercorrere tutte le fasi di ciò che accadde per avere almeno un quadro completo
degli eventi salienti che la caratterizzarono.
Innanzitutto per Louisiana due secoli fa si intendeva la sterminata fascia centrale
degli USA - dai Grandi Laghi al golfo del Messico e dagli Allegheny alle Montagne
Rocciose - là dove i lunghissimi fiumi navigabili (come l’Ohio, il Missouri, il
Mississippi ed loro i numerosi affluenti) scorrono longitudinalmente per migliaia di
chilometri: a sud poi quest’ampia fascia si veniva restringendo fino a comprendere
solo l’ultimo tratto del corso del Mississippi.
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Anche se a partire dal 1528 i primi europei che avevano esplorato l’immenso bacino
del Mississippi erano stati gli spagnoli, erano stati però i francesi che avevano
cominciato ad occuparlo sia da sud (dal golfo del Messico) che da nord (dal Canada)
per dar vita ad un loro impero commerciale che si estendesse appunto dal Canada al
golfo del Messico: avevano fondato così una colonia che avevano chiamarono
Louisiana in onore di Luigi XIV.
Ben presto la sconfinata colonia si era andata sviluppando grazie a nuove
esplorazioni ed a nuovi insediamenti, ma i francesi non l’avevano considerata di
popolamento e non furono mai numerosi sul territorio, anche se avevano saputo
organizzare un’efficace linea di forti e di stazioni commerciali che punteggiavano le
rive dei grandi fiumi nel lunghissimo arco che dal golfo di San Lorenzo arriva a
quello del Messico.
In collaborazione con la Spagna (che dopo la guerra di successione spagnola (170013) fu costante alleata della Francia) gli stabilimenti erano divenuti presto fiorenti:
erano sorte poi vaste piantagioni di cotone, le ricche dimore dei piantatori e le prime
città che, come soprattutto Nouvelle Orléans, Mobile (Alabama) e Biloxi
(Mississippi), erano cresciute in estensione e di importanza.
La sconfitta nella guerra dei Sette Anni (1756-63) aveva inferto, come si è già detto,
un duro colpo all’impero americano della Francia che aveva dovuto cedere
all’Inghilterra l’area ad est del Mississippi ed il resto della Louisiana (ad eccezione di
Nouvelle Orléans e di qualche altro insediamento) alla Spagna (che in cambio aveva
ceduto la Florida all’Inghilterra): migliaia di francesi, espulsi dagli inglesi dal Canada
ora in loro possesso, avevano trovato comunque rifugio nella Louisiana sudoccidentale.
Vent’anni dopo, l’indipendenza degli USA aveva insomma comportato un ulteriore
trasferimento di proprietà perché l’area ad ovest del Mississippi era stata ora
assegnata alla Spagna insieme alla Florida ed alla costa sul golfo del Messico
(Nouvelle Orléans compresa).
La Louisiana occidentale era divenuta interamente spagnola, tuttavia la Spagna non
aveva avuto la forza necessaria per resistere alla triplice spinta degli statunitensi da
est, degli inglesi da nord (in Canada) e, soprattutto di Napoleone, il nuovo astro
nascente della Francia desiderosa di riconquistare anche in America le posizioni
perdute.
Il 1 ottobre 1800 Napoleone, ormai padrone della Francia, aveva costretto così la
Spagna a firmare il trattato (tenuto segreto per due anni) di San Ildefonso in base al
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quale quest’ultima aveva ceduto la Louisiana occidentale e Nouvelle Orléans alla
Francia in cambio della promessa di ottenere il costituendo Regno di Etruria (l’exGranducato di Toscana) per la dinastia dei Borboni di Parma: la Francia era tornata
così in America, anche perché l’ambiziosissimo Primo Console aveva già formulato
progetti di egemonia mondiale che spaziavano dall’India all’Australia (!) e che per il
momento, oltre che in Europa, si concentravano appunto in America.
Napoleone aveva immaginato di costituirvi infatti un nuovo impero imperniato sullo
zucchero delle isole dei Caraibi (e infatti l’effimera pace di Amiens con l’Inghilterra
(25 marzo 1802) aveva incluso anche il ritorno alla Francia della Martinica e di
Guadalupe): in questo disegno la Louisiana avrebbe dovuto fungere, almeno per il
momento, da magazzino e da retrovia, oltre a costituire un cuscinetto ed un argine
all’avanzata verso ovest degli statunitensi.
Effettivamente nella loro avanzata all’interno del continente gli statunitensi per
spedire le loro merci si erano trovati nella necessità di aggirare gli Allegheny e la via
più semplice e redditizia era quella di navigare sull’Ohio e poi sul Mississippi fino a
Nouvelle Orléans per arrivare così al golfo del Messico.
E’ evidente insomma che la spinta francese e quella americana erano in rotta di
collisione e che la Francia bloccava gli USA: il nuovo presidente Thomas Jefferson,
oltre a chiedere il diritto di libera navigazione sul Mississippi, aveva cercato così di
negoziare con la Francia l’acquisto di Nouvelle Orléans e di una parte della riva
orientale del grande fiume per 2 milioni di dollari (che presto erano arrivati a 10), ma
la questione, che pure avrebbe potuto avere serie conseguenze e forse portare alla
guerra, si risolse praticamente da sola.
Nell’ottobre 1801 Napoleone aveva inviato un esercito ad Haiti che si era ribellata,
aveva abolito la schiavitù e si era proclamata indipendente (vedere a questo
proposito la parte relativa nel mio ‘America Latina’), ma la spedizione era finita
in un disastro e si era conclusa con l’ingloriosa ritirata dei francesi nel 1803, nello
stesso anno in cui l’Inghilterra aveva ripreso le ostilità ed aveva cominciato ad
organizzare una terza coalizione antifrancese: il sogno di un impero americano era
svanito improvvisamente mentre in Europa Napoleone doveva affrontare gli
urgentissimi problemi di una nuova e difficile guerra.
Fu in questi frangenti che Napoleone, assillato anche da problemi di bilancio, decise
di vendere l’intera ed inutilizzabile Louisiana agli Stati Uniti e che l’11 aprile 1803 i
delegati americani Livingston e Monroe, in Francia per trattare l’acquisto di Nouvelle
Orléans e di parte della riva del Mississippi, si sentirono proporre da Talleyrand (il
potente ministro degli Esteri francese) l’acquisto dell’intera Louisiana (!!!): temendo
che l’offerta potesse essere ritirata e che la risposta dagli USA potesse quindi arrivare
quand’era troppo tardi, i due delegati di propria iniziativa accettarono con prontezza e
già il 30 aprile il contratto fu siglato al costo concordato di 60 milioni di franchi
(circa 15 milioni di dollari).
Negli USA l’acquisto della Louisiana colse tutti di sorpresa a partire dal presidente
stesso: Jefferson, che era stato disposto a pagare 10 milioni di dollari per Nouvelle
(ora New) Orléans e qualche tratto di riva, ora per 15 si vedeva invece offrire un’area
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immensa (compresi i territori che aveva voluto acquisire) che avrebbe comportato il
raddoppio dell’estensione degli USA stessi!!!
Egli fu entusiasta di questo enorme aumento territoriale e della conseguente potente
espansione a ovest del paese che esso implicava, ma trovò opposizione nel Congresso
(!!!) da parte di quei Federalisti (egli era repubblicano, il nuovo nome degli AntiFederalisti) che temevano – a ragione – che esso comportasse un ridimensionamento
del peso e del ruolo del New England, da sempre traino e dirigente del paese: i
Federalisti contrari arrivarono a definire la Louisiana un deserto senza valore (!!!),
ma la loro opposizione venne superata e il Senato approvò il trattato il 30 ottobre
1803.
Il pagamento venne effettuato con bond statunitensi che poi Napoleone vendette ad
olandesi ed inglesi all’ 87,5% del loro valore nominale: fu anche con questo denaro
che venne finanziata la guerra contro l’Inghilterra stessa (!).
Per rendersi conto ancora meglio della vastità dell’aumento territoriale degli USA, si
consideri che per Louisiana nel 1800 si intendeva allora (su una superficie di
2.100.000 kmq.) l’area degli attuali stati di Louisiana (18°), Indiana (19°),
Mississippi (20°), Illinois (21°), Missouri (24°), Arkansas (25°), Michigan (26°),
Iowa (29°), Wisconsin (30°), Minnesota (32°), Kansas (34°), Nebraska (37°),
North Dakota (39°), South Dakota (40°) Oklahoma (46°). [Non facenti parte del
territorio acquistato, l’Alabama intanto divenne il 22° stato ed il Maine il 23°].
Si trattava comunque di territori che fino a quel momento erano stati popolati solo da
indiani, spagnoli e francesi, quindi estranei agli Stati Uniti, tanto che solo dopo la
guerra di secessione ne fu intrapresa la definitiva anglicizzazione e che solo nel 1915
l’inglese ne divenne l’unica lingua ufficiale.
Gli statunitensi avevano comprato un territorio che anche per loro era ancora
largamente sconosciuto e Jefferson inviò subito una spedizione ben selezionata ed
equipaggiata che, guidata da due ufficiali dell’esercito, cominciasse ad esplorarlo ed
arrivasse fino al Pacifico: partiti nel 1804, gli esploratori riuscirono nell’impresa
dopo aver navigato su piccole imbarcazioni il Missouri per oltre 4mila chilometri,
catturato e domato cavalli selvaggi, incontrato tribù indiane che non avevano mai
visto l’uomo bianco, attraversato le Montagne Rocciose e disceso il Columbia
(Oregon) fino all’oceano.
Intanto le merci statunitensi poterono essere trasportate lungo i grandi fiumi fino al
golfo del Messico proprio quando questo percorso venne enormemente potenziato
dalla navigazione a vapore: nel 1807 Robert Fulton costruiva infatti il primo battello
a vapore, il ‘Clermont’, e ben presto miriadi di battelli simili navigarono in ambedue i
sensi i corsi dei grandi fiumi imprimendo un’accelerazione decisiva allo sviluppo di
tutta l’area che si stendeva dagli Allegheny alle Montagne Rocciose.
Nel 1819 la prima nave a vapore americana attraversò addirittura l’Atlantico e su tale
oceano la flotta mercantile americana superò quelle europee e quella inglese (!),
almeno fino all’era del ferro e del carbone che si sarebbe affermata nell’ultimo quarto
di secolo.
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Questi i fatti, questo il modo in cui la marcia degli statunitensi verso ovest conobbe
un’accelerazione impensabile, imprevista ed imprevedibile per quelle che fino a poco
più di una ventina d’anni prima erano tredici colonie inglesi affacciate sull’Atlantico.
La guerra di sistemazione contro l’Inghilterra
Le guerre che sconvolsero l’Europa in seguito alla rivoluzione francese ed acuite al
tempo dell’epopea napoleonica (guerre che, oltretutto, furono combattute anche come
prosecuzione dello scontro anglo-francese per il dominio dei mari, del commercio
mondiale e dell’egemonia sui continenti extra-europei) non poterono non avere
ripercussioni anche in America.
Nel 1806 l’Inghilterra tentò chiudere i porti francesi al commercio internazionale e
Napoleone rispose col Decreto di Berlino del 21 novembre che istituì quello che è
passato alla storia come ‘blocco continentale’: ognuna delle due nazioni, impegnate
in una lotta senza quartiere, pretendeva di estendere insomma i suoi divieti ed il suo
diritto di confisca anche alle navi dei paesi terzi (come quelle americane) che
giudicava nemiche se volevano commerciare col suo avversario - tanto che
l’Inghilterra arrivò addirittura ad arruolare a forza sui suoi vascelli i marinai
statunitensi che prelevava dalle loro navi che si sentiva autorizzata a controllare (!).
Gli USA si trovarono così stretti nella morsa dei due imperialismi che li coinvolse
loro malgrado e contro la loro volontà: essi furono fortemente ostacolati da ambedue i
paesi belligeranti e subirono seri danni alla loro economia senza riuscire a decidere da
che parte stare ed a chi semmai dichiarare guerra, anche perché il presidente Jefferson
era contrario ad un intervento armato e cercava di restare fuori dal conflitto.
In ogni caso la potenza navale stessa dell’Inghilterra rendeva la sua azione sui mari
(compresi il ‘diritto di perquisizione’ ed il sequestro di uomini e cose) ben più
efficace di quella francese, così come gli inevitabili e conseguenti attriti con gli USA.
Il fatto era che l’Inghilterra, per quanto sconfitta nella guerra d’indipendenza, trattava
ancora gli Stati Uniti con sufficienza e scarsa considerazione, mentre gli USA stessi
in fondo non avevano conseguito una vittoria completa perché molti loro interessi
vitali erano ancora profondamente legati all’ex-madrepatria.
Come se tutto ciò non bastasse, lo scontro fra Federalisti e Repubblicani si manifestò
anche in questo frangente e così mentre i Federalisti (di Hamilton) puntavano a
sfruttare la guerra in Europa per sistemare amichevolmente ma definitivamente i
conti con l’Inghilterra (soprattutto farle abbandonare le fortificazioni che nel nordovest erano ancora nelle sue mani e costringerla ad aprire i suoi mercati), i
Repubblicani (di Jefferson) giudicavano indegni questi sistemi ed insistevano
sull’importanza dell’alleanza con la Francia, la vera amica degli americani.
Nel 1795 era sembrato che a prevalere fosse stata la linea dei Federalisti che col
Trattato negoziato da Jay avevano ottenuto lo sgombro pacifico dei forti del nordovest in cambio dell’accettazione americana del dominio inglese dell’Atlantico, ma la
vittoria di Jefferson alle elezioni del 1800 aveva segnato un riavvicinamento alla
Francia (di cui la vendita della Louisiana fu evidente conseguenza).
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Dopo otto anni di presidenza Jefferson, nel 1808 vinse le elezioni Madison, altro
esponente repubblicano di spicco, e le relazioni con la Francia rimasero quindi buone
mentre il blocco delle importazioni dall’Inghilterra dovuto alla guerra stava
favorendo lo sviluppo industriale negli USA.
Alla fine le provocazioni e le costrizioni (abilmente esasperate da Napoleone)
britanniche furono giudicate insopportabili e, nonostante gli USA non avessero né
una vera marina da guerra né un esercito professionale ed addestrato, il 18 giugno
1812, una settimana prima che Napoleone con l’attraversamento del Niemen desse
inizio alla sua dissennata invasione della Russia, il Congresso dichiarò guerra
all’Inghilterra - ed è impossibile non vedere la connessione fra i due eventi.
La guerra in America durò due anni e mezzo e si sviluppò su vari fronti e con varie
complicazioni che riproposero quelli di trent’anni prima ai tempi della guerra
d’indipendenza.
Innanzitutto gli indiani combatterono ancora una volta insieme agli inglesi:
esasperati dalla costante pressione che gli invasori americani esercitavano su di loro e
sulle loro terre, impoveriti dalla contrazione delle esportazioni di pelli che i blocchi
dei porti comportavano, riforniti di armi da fuoco e di whisky dai commercianti di
frontiera e spinti infine dagli inglesi, sotto la guida del grande capo Tecumseh i
Wabash del nord-ovest insorsero contro gli americani ma andarono incontro ad una
definitiva sconfitta cui seguì un trattato ‘di pace’ durissimo per loro e per le tribù loro
alleate. Stessa sorte toccò ai Creeks del sud, anch’essi scesi in guerra nel disperato
tentativo di riprendersi le terre che i bianchi avevano strappato loro.
Il West era sempre più libero per l’espansione dei bianchi.
Un altro fronte di guerra fu aperto dal tentativo statunitense di conquistare il Canada
che tuttavia fallì (com’era successo trent’anni prima).
La vera guerra si combattè comunque sulle coste atlantiche degli USA e qui gli
inglesi riuscirono ad infliggere colpi pesanti ai loro avversari, come ad esempio
l’occupazione di Washington e la distruzione dei suoi edifici pubblici, dalla sede del
presidente alla libreria del Congresso (!), ma gli statunitensi riuscirono a reagire, a
riorganizzare efficacemente le loro forze terrestri e navali ed a bloccare e respingere
gli invasori finchè fu chiaro che nessuno dei due contendenti era in grado di
sconfiggere l’altro.
Il 24 dicembre 1814 - mentre al Congresso di Vienna da un paio di mesi si celebrava
la sconfitta di Napoleone (ancora una volta non si trattò certamente una coincidenza)
– anche in America fu giocoforza arrivare alla pace e quella di Ghent di fatto
ripristinò lo status quo (purtroppo però la notizia arrivò in ritardo a New Orléans
dove gli statunitensi – a pace firmata - combatterono ancora duramente per impedire
agli inglesi di occupare l’importantissima e vitale foce del Mississippi).
A prima vista sembrerebbe insomma che questa seconda guerra anglo-americana si
sia conclusa senza vinti né vincitori, ma non fu così.
Gli USA avevano infatti decisamente mostrato all’Inghilterra che erano ormai una
nazione affermata e di tutto rispetto, ben decisa ad essere autonoma ed inflessibile nel
difendere la sua libertà: era divenuta insomma una realtà che non era più possibile
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ignorare e la sua nascita non era stata dunque il risultato di una guerra fra potenze
europee.
La sede del presidente fu naturalmente ricostruita e venne dipinta di bianco: da allora
divenne così la Casa Bianca, simbolo di questa maturità conquistata al prezzo di duri
sforzi e sacrifici.
La famosa ‘dottrina’ che nel 1823 il presidente Monroe avrebbe enunciato per
rifiutare l’alleanza con l’Inghilterra contro l’eventuale tentativo della Santa Alleanza
di intervenire a favore della Spagna contro l’America Latina ribelle, ‘l’America agli
americani’, fu figlia e conseguenza di questa guerra e della decisa rivendicazione
americana di autonomia e di controllo del proprio continente (politica che in seguito
sarebbe stata definita ‘isolazionismo’).
In realtà le cose non erano però così semplici perché la libertà con cui gli statunitensi
poterono ora dedicarsi alla conquista del West, volgendosi decisamente ad ovest
verso il Pacifico, dipendeva (paradossalmente) proprio dallo scudo offerto loro dalla
Royal Navy inglese che dopo la sconfitta francese ed il declino della Spagna (cacciata
dalle sue ex-colonie americane) dominava incontrastata l’Atlantico mantenendolo
tranquillo ed in pace.
Un’altra conseguenza di questo conflitto fu che i Federalisti (gli ex-tories), forti
soprattutto fra gli yankees del New England, da sempre filo-inglesi e contrari alla
guerra, come compenso per la loro sconfitta riuscirono a far approvare dal Congresso
una serie di emendamenti alla Costituzione che rafforzavano il potere degli stati nei
confronti dell’Unione.
Il dibattito che aveva animato la stesura della Costituzione stessa, e cioè se gli USA
dovevano diventare una nazione unitaria o una federazione di stati pressochè sovrani,
non si sopiva e, insieme a quello sulla schiavitù, si sarebbe risolto soltanto nel 1865
dopo che con la guerra di secessione tutti i conti sarebbero stati regolati, tutti i dubbi
chiariti e gli Stati Uniti avrebbero assunto definitivamente i caratteri di nazione unica
ed indivisibile che avrebbero poi mantenuto fino ad oggi.
L’acquisto della Florida
Dopo l’abbandono dell’America da parte della Francia e sistemati i rapporti con
l’Inghilterra relegata in Canada, con l’Atlantico vigilato dall’efficiente marina inglese
e per il momento senza nemici (bianchi) sul continente, per gli USA si era sempre più
aperta la corsa all’Ovest: masse di coloni (con un alto tasso di natalità che ne faceva
raddoppiare il numero ogni ventidue anni, cioè ad ogni generazione!) ormai privi di
ogni possibile concorrenza da parte di inglesi, francesi e spagnoli, si riversarono così
nelle fertili vallate del Midwest e la prima nuova acquisizione fu la Florida.
L’occasione fu offerta dal fatto che dalla vicina Georgia gli schiavi negri fuggitivi
avevano trovato sempre più numerosi rifugio in Florida presso le tribù indiane dei
Seminole che, temendo come tanti altri indiani l’avanzata degli americani, nella
recente guerra avevano combattuto dalla parte degli inglesi (dai quali erano stati
conseguentemente armati).
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In teoria la Florida era ancora possedimento spagnolo ma la Spagna post-napoleonica
logorata oltretutto dalle guerre d’indipendenza nell’America Latina era troppo debole
per poterla ancora conservare e così il generale Andrew Jackson, il comandante delle
truppe statunitensi del Sud, l’invase e in cinque mesi la conquistò devastandola con
brutalità ed accanendosi spietatamente contro i Seminole che distrusse come entità
autonoma ed indipendente.
Le proteste di Spagna e di Inghilterra nel 1819 portarono al Trattato Adams-Onís in
base al quale la Spagna cedette la Florida agli Stati Uniti per 5 milioni di dollari (ed
anche in cambio della rinuncia da parte statunitense di avanzare qualsiasi richiesta o
rivendicazione sul Texas).
Nel 1821 la Florida divenne così territorio nominalmente autonomo e solo il 3 marzo
1845 sarebbe entrata a far parte ufficialmente dell’Unione come suo 27° stato, ma di
fatto fu di fatto parte integrante degli USA fin dall’arrivo di Jackson.
Per parte sua Jackson, massimo esponente del partito repubblicano (in quegli anni
praticamente senza opposizione), venne eletto alla presidenza dal 1828 al 1836 e per
la sua energica guida tale periodo fu definito ‘il regno di Andrew Jackson’, tanto che
i Federalisti tornarono a farsi chiamare ‘whigs’ in ricordo degli oppositori di Giorgio
III cui si sentivano affini nella loro lotta contro la ‘tirannia’.
Gli USA erano comunque entrati in un ciclo di sviluppo e di espansione interna: il
flusso degli immigranti dall’Europa decuplicò passando dagli 8mila del 1820 agli
80mila del 1840, mentre la popolazione complessiva nel 1820 era già arrivata a
contare 9.638.453 abitanti; le linee ferroviarie cominciarono a moltiplicarsi in tutta la
fascia atlantica; la grande ‘Cumberland road’ unì il Maryland con l’Indiana per
aiutare gli emigranti verso l’Ovest; il canale Eire (oltre 580 km.!) unì le acque di tale
lago con quelle dell’Hudson e di lì proseguì fino a New York, gli Appalachi, il San
Lorenzo e il Susquehanna mettendo così in comunicazione diretta il Midwest con
l’Atlantico; … ma tutta questa espansione e questo attivismo portarono alla ripresa
del conflitto con gli indiani sempre più minacciati, respinti e spazzati via senza pietà.
I Cherokees della Georgia durante la presidenza Jackson furono definitivamente
deportati ad ovest del Mississippi e le tribù in Illinois, Wisconsin e Iowa, nonostante
la fiera resistenza opposta sotto la guida del loro capo Falco Nero, alla fine furono
anch’esse schiacciate e deportate: nessuno si preoccupò di contare le migliaia di
poveretti che morirono di stenti nel lungo straziante viaggio.
Jackson fu chiarissimo nell’esprimere la mentalità dei colonizzatori bianchi quando
nel 1830 nel suo cosiddetto ‘Manifest Destiny’ si chiese retoricamente “Quale uomo
saggio potrebbe preferire un Paese coperto di foreste e attraversato da qualche
migliaio di selvaggi alla nostra estesa Repubblica, costellata di paesi, città e
prosperose fattorie … occupata da più di dodici milioni di persone felici e colme di
ogni benedizione di libertà, civiltà e religione?”
Per parte sua Henry Clay, pur grande oppositore whig di Jackson praticamente in
ogni settore, concordava anch’egli che “Era impossibile civilizzare gli indiani dal
momento che erano destinati all’estinzione”.
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E’ ovvio che per gli indiani non c’era scampo possibile e che questi sfortunati popoli
si trovarono sulla strada di un’espansione che non potevano fermare e con la quale
non potevano nemmeno cercare un accordo: si trovarono così dalla parte sbagliata
della storia e furono annientati, scacciati e schiacciati senza pietà.
I sopravvissuti alla fine furono rinchiusi nelle ‘riserve’ (dove tutt’oggi vivono),
allontanati, emarginati ed isolati nelle zone che non avevano nessun interesse per i
nuovi conquistatori, vigilati e controllati perché non fossero di nessun intralcio e non
dessero più alcun danno alla marcia trionfale dei nuovi arroganti occupanti: nessuno
mostrò considerazione e pietà per il loro tragico destino.
Era ormai evidente che la campagna conquistatrice del continente si sarebbe fermata
solo sulle rive del Pacifico.
Nel 1837 il Canada si ribellò all’Inghilterra e gli USA sarebbero stati interessati ad
aiutarlo, ma la questione si risolse invece con l’accordo Webster-Ashburton in base al
quale vennero fissati i confini settentrionali dall’Atlantico alle Montagne Rocciose –
confini che sono rimasti immutati fino ad oggi: rimase aperta però la questione dei
territori settentrionali dalle Montagne Rocciose al Pacifico, cioè dell’Oregon.
Per quanto riguarda infine la vita politica degli USA, ormai il sistema democratico e
bipartitico stava mostrando tutti i suoi vantaggi permettendo che le tensioni e le
ostilità si risolvessero nelle competizioni elettorali dove che vinceva non era sicuro di
mantenere la vittoria e chi era sconfitto poteva puntare a rimontare la china alla
prossima occasione. Il tutto civilmente e pacificamente.
Questa combinazione di espansionismo e formazione di un impero da una parte e di
mantenimento delle libertà civili e democratiche dall’altra è rimasta una costante
della storia degli Stati Uniti e si può tranquillamente aggiungere che ancor oggi ne
rappresenta uno dei caratteri peculiari ed originali.
La guerra contro il Messico
Il Texas faceva parte del Messico, ma era molto scarsamente popolato: gli spagnoli
erano infatti stati sempre attratti dai territori americani in cui fossero già presenti altre
popolazioni (Aztechi, Incas, Maya, ecc.) e quindi avevano lasciato il Texas
largamente a se stesso.
Tutto al contrario i coloni inglesi prediligevano invece territori vergini e spopolati (o,
se c’erano indiani, da spopolare) in cui impiantare ex-novo la loro società e dunque
erano stati attratti dalla vastità del Texas ed avevano cominciato ad insediarvisi
finchè, divenuti sufficientemente numerosi (circa 20mila), nel 1833 si erano ribellati
e, sconfitte e scacciate le truppe messicane, guidati dal generale Sam Houston nel
1835 avevano proclamato l’indipendenza del nuovo stato e lo stesso Houston suo
presidente. Questa ribellione non potè che portare alla guerra col Messico e all’inizio
del 1836 il presidente-dittatore-generale Santa Anna nonostante l’inclemenza del
tempo (addirittura tempeste di neve sui valichi!) attraversò così il rio Grande col suo
esercito di 6500 soldati.
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Uno dei suoi primi obiettivi fu la conquista di Alamo, una vecchia missione spagnola
(El Alamo, il pioppo) vicino a San Antonio in cui si erano asserragliati circa 200
indipendentisti texani: sebbene in origine non fosse certo un obiettivo militare, i
volontari texani l’avevano trasformata in un forte e vi avevano portato 18 cannoni, la
maggiore concentrazione di artiglieria ad ovest del Mississippi.
Dei 6500 soldati di Santa Anna ne erano rimasti tra i 4000 e i 5000 perchè una parte
aveva disertato ed altri erano stati uccisi da malattie, ma solo 1700 parteciparono
all’assalto finale.
Il 6 marzo 1836 dopo un assedio durato 13 giorni i messicani riuscirono ad avere la
meglio sui difensori che combatterono anche corpo a corpo e, espugnata la missione,
li uccisero tutti (anche coloro che erano stati fatti prigionieri).
Per i texani (e gli statunitensi) Alamo fu dunque una sconfitta ma, nonostante ciò, la
battaglia assurse subito a simbolo della lotta per l’indipendenza (e non solo del
Texas) ed ancor oggi è uno dei miti fondativi degli stessi Stati Uniti che il tempo non
ha fatto che ingrandire fino a farla apparire addirittura come il momento decisivo
dell’espansione ad Ovest e del successivo consolidamento del paese.
Certamente alla nascita di questa leggenda contribuì la morte di tutti i difensori (ma
un paio di dozzine tra donne e bambini e 2 schiavi (!) furono rilasciati), il loro
comportamento eroico (prima della battaglia Santa Anna aveva dato l’ordine di issare
una bandiera rossa per indicare ai difensori che l’attacco sarebbe stato senza quartiere
fino allo sterminio del nemico, ma questi avevano rifiutato ugualmente la resa), il
fatto che molti degli ufficiali dell’esercito messicano erano veterani mercenari
europei e che ad Alamo erano accorsi volontari anche da fuori del Texas, come i
‘New Orleans Greys’, i ‘Tennessee Mounted Volunteers’ guidati dal famosissimo
ex-deputato Davy Crockett, mentre la milizia era comandata da Jim Bowie e le forze
‘regolari’ (in realtà volontari del Governo Provvisorio del Texas che si erano
impegnati a proteggerlo e ad obbedire agli ordini dei suoi ufficiali) dal tenente
colonnello William Barret Travis che in uno dei dispacci che riuscì a far uscire
fortunosamente dal forte per chiedere (inutilmente) rinforzi aveva scritto che ‘Il
nemico mi ha chiesto di arrendermi, ho risposto loro con un colpo di cannone, non mi
arrenderò mai’.
Tutti questi coraggiosi sono entrati nel mito: i loro nomi sono ancor oggi ricordati ed
hanno funto da esempio per intere generazioni di statunitensi.
Alamo dal punto di vista strettamente militare fu comunque solo un episodio minore:
qualche tempo dopo i texani vinsero la guerra, ma quando nella battaglia di San
Jacinto (21 aprile 1836) le forze di Santa Anna furono infine sconfitte dalle truppe
texane guidate da Sam Houston, il loro grido di battaglia fu ‘Ricordatevi di Alamo!’.
Il Texas era divenuto indipendente ma per anni il dibattito sulla sua annessione o
meno nell’Unione agitò la scena politica perché essa era voluta dai texani stessi, dal
Sud e dai (chiamiamoli così) nazionalisti, ma era guardata con sospetto dal liberali
del Nord che temevano che il Texas schiavista avrebbe fatto pendere la bilancia in
modo decisivo dalla parte dei sostenitori della schiavitù e della sua diffusione nei
nuovi stati.
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Alle elezioni presidenziali venne infine eletto il democratico (così si chiamava ora
l’ex-partito repubblicano!) James K. Polk, favorevole all’annessione dell’Oregon e
del Texas (secondo lui facente parte degli acquisti della Louisiana) che nel dicembre
1845 fu così annesso e divenne il 28° stato dell’Unione.
Tuttavia rimaneva ancora aperto il problema dei confini del nuovo stato membro (e
quindi ora dell’Unione stessa) col Messico: mentre infatti quest’ultimo avrebbe
voluto fissarlo sul rio Nueces (che sfocia a Corpus Christi dopo un corso di oltre 500
chilometri), gli USA insistevano per un confine più a sud lungo il rio Grande.
La situazione precipitò subito: nel marzo 1846 il generale Zachary Taylor,
comandante delle truppe in Texas, ricevette dal presidente Polk l’ordine di marciare
fino al rio Grande, la reazione messicana non si fece attendere e fu nuovamente
guerra.
Taylor fu presto vittorioso, in grado di attraversare il rio Grande e di sconfiggere i
messicani mentre anche il generale Wool giungeva in suo aiuto: ancora una volta
erano i democratici (gli ex-repubblicani) ad essere a favore della guerra mentre i
whigs (gli ex-federalisti) la contrastavano (sempre per il timore che l’acquisizione del
Texas avrebbe rafforzato la causa schiavista dentro e fuori il Congresso.
Comunque nel 1847 la guerra fu proseguita sotto la suprema direzione del generale
Winfield Scott che invece che da sud volle arrivare dal mare e sbarcò così a Vera
Cruz continuando a sconfiggere i messicani finchè il 14 settembre, dopo la fuga del
generale-presidente-dittatore Santa Anna, le sue truppe entrarono a Città del Messico.
Addirittura, prima ancora di questa decisiva entrata nella capitale nemica, truppe
americane erano sciamate in quelli che sarebbero diventati l’Arizona, lo Utah, il
Colorado, il Nevada, il New Mexico e la California (settentrionale) in cui erano già
presenti pionieri statunitensi.
Gli USA insomma avevano ormai ottenuto tutto quel che avevano voluto ed erano
arrivati al Pacifico con confini per loro pienamente soddisfacenti sia a nord che a sud:
il trattato di Guadalupe Hidalgo (2 febbraio 1848) fu così la semplice registrazione
del fatto compiuto: il Messico perse quasi la metà del suo territorio e gli USA lo
indennizzarono con 18 milioni di dollari, fu stabilita la libera navigazione nel golfo di
California ed i confini allora tracciati sono rimasti in vigore fino ad oggi.
Tuttavia rimaneva ancora il problema che la costituzione del Texas permetteva la
schiavitù e (nonostante l’anno seguente lo Iowa entrasse nell’Unione) col suo
ingresso gli stati schiavisti erano divenuti maggioranza, 15 contro 14, alterando il
delicato e precario equilibrio che, sempre mantenuto, aveva fino ad allora impedito lo
scontro fra schiavisti ed abolizionisti: il problema fu temporaneamente risolto nel
1848 con l’ingresso nell’Unione del Wisconsin (non schiavista) come suo 30° stato.
Per parte sua, anche il problema dei confini dell’Oregon era intanto stato risolto con
un trattato che, dopo una campagna militare nel 1844, nel 1846 aveva stabilito il
confine col Canada inglese lungo il 49° parallelo: anche in questo caso tale confine è
rimasto immutato fino ad oggi e il 14 febbraio 1859 l’Oregon venne ammesso
nell’Unione come suo 33° stato.
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I successi della giovane repubblica erano strabilianti: in tre anni, dal 1845 al 1848,
erano stati occupati più di 1.600.000 chilometri quadrati di nuovi territori in modo
che la sua estensione era aumentata di 1/3 (solo l’Oregon di allora era più esteso di
Francia, Germania, Boemia e Slovacchia messe insieme!).
Iniziava ora il compito di amalgamare ed organizzare l’immenso stato (o insieme di
stati) e per fare questo fu necessario continuare a sterminare e spazzare via le
centinaia di migliaia di indiani, strappare loro le terre che abitavano ed infine
confinare i superstiti nelle riserve, cioè nei territori meno appetibili per i bianchi.
Anche queste ultime guerre contro gli indiani furono condotte con la brutalità
consueta nell’aperta convinzione della loro inferiorità razziale e per i militari
impegnati furono utili esperienze: gli indiani continuavano a sparire nel silenzio e
nell’indifferenza generale mentre la trionfante marcia degli statunitensi verso ovest
proseguiva indisturbata.
I mormoni dello Utah
Il Trattato di Guadalupe Hidalgo aveva assegnato anche l’Utah (già messicano) agli
Stati Uniti, ma qui li attendeva lo spinoso problema della presenza dei mormoni.
I colonizzatori del West erano persone tanto ardimentose quanto ignoranti e, alla
ricerca di identità e certezze, si ispirarono sempre alla Bibbia ed a, diciamo così,
rivelazioni addizionali: l’entusiasmo religioso (‘The Great Revival’) fu dunque una
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caratteristica di questi uomini così decisi a costruire un mondo del tutto nuovo ed uno
dei suoi momenti salienti si verificò con la pubblicazione del ‘Libro di Mormon’
secondo il quale un certo Joseph Smith (1805-44), proveniente da una famiglia
povera del Vermont, sarebbe stato indicato dall’angelo Moroni come il Profeta di Dio
destinato a redimere il mondo.
Questo angelo avrebbe inoltre guidato Smith a scoprire alcune lastre d’oro su cui
Mormon, il padre dell’angelo stesso, aveva scritto in egizio antico le verità definitive
della fede: con l’aiuto dell’angelo Smith era riuscito a tradurre le pagine (che undici
testimoni affermarono di aver visto) e, appunto, le diede alle stampe.
Il programma si risolveva nella (solita) missione di ritornare gli originari ed autentici
insegnamenti di Cristo ed asseriva così che gli eletti avrebbero dovuto fondare una
nuova Chiesa in un nuovo luogo sotto una nuova guida abbandonando ogni rapporto
coi Gentili: il 6 aprile 1830 venne così fondata la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi
dell’Ultimo Giorno, da tutti subito chiamati ‘mormoni’, che, mentre Smith riceveva
continuamente nuove rivelazioni, raccolse rapidamente ferventi adepti.
Uno dei punti più tipici della dottrina dei mormoni fu senz’altro la loro pratica della
poligamia che aggirava almeno in parte i rigidi (e sempre meno sopportabili) divieti
della morale puritana che infastidivano ormai anche le pie donne, sposate o no che
fossero.
Nonostante la poligamia (maschile, s’intende) per tutte le altre persone fosse la
principale fonte di scandalo, i mormoni seppero ugualmente costruire il successo
della loro società grazie alla loro formidabile organizzazione gerarchica, strettamente
cooperativa ed a tratti comunista: essi si sostenevano, si aiutavano e collaboravano
strettamente fra di loro così che, ben diretti ed inquadrati dai loro apostoli e vescovi, i
loro villaggi prosperavano sbaragliando facilmente la concorrenza degli altri uomini
della frontiera, individualisti abituati a far da soli ed isolati l’uno dall’altro.
I mormoni riuscirono così ad accaparrarsi spesso le terre migliori vincendo con una
certa facilità la competizione coi loro concorrenti che agivano senza coordinamento.
Il successo dei mormoni aumentò naturalmente il numero dei nuovi convertiti, tanto
che Brigham Young (1801-77), uno dei primi seguaci di Smith, nel 1838 si recò a far
proseliti addirittura in Inghilterra e questi presero a raggiungere i loro correligionari
in America e/o a mandar loro denaro: la coesione interna dei mormoni (motivo del
loro successo) era anche una grande garanzia di sicurezza e di sopravvivenza per
persone che erano spesso vissute nella disperazione, nell’incertezza e nelle
ristrettezze, mentre ora si trovavano unite e protette nell’ideale socialista della
fratellanza e della solidarietà – anche se dovevano abbandonare le loro pretese di
libertà e di autodeterminazione alla Chiesa ed al suo profeta.
Nel 1838 i mormoni si erano spostati dall’Ohio e dal Missouri all’Illinois, dove
arrivarono ad essere 25mila, baciati sempre più dal successo e facendo sentire sempre
più il loro peso e la loro influenza: essi ottennero di fondare una loro città, Nauvoo,
dotata di una sua costituzione, ma anche qui – come dovunque fossero arrivati - essi
generarono però scandalo e suscitarono da parte dei Gentili ostilità e reazioni violente
che portarono a scontri sempre più gravi.
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I mormoni avevano istituito una loro propria milizia, la ‘Nauvoo Legion’ che
rispondeva del suo operato solo a Smith, ma ciò non fermò la violenza che culminò
nel 1844 con l’arresto ed il linciaggio dello stesso Smith e di suo fratello (!) e, l’anno
seguente, colla revoca della costituzione di Nauvoo da parte delle autorità.
I mormoni rimasero comunque uniti e trovarono in Young una guida energica e
decisa, ma i Gentili erano altrettanto determinati e più numerosi di loro così che gli
scontri aumentarono di intensità spingendo alla fine Young a fare la scelta più
radicale: nel Far West c’erano ancora spazi sterminati dove poter ricostruire la
propria chiesa e la propria società ed i circa 16mila mormoni dell’Illinois decisero
così di spostarsi in massa alla ricerca di una nuova patria nei territori vergini ed
ancora liberi.
Appena seppero del progetto dei mormoni i Gentili non persero tempo nello spingerli
su quella strada ricorrendo ai sistemi già usati contro i Cherokees, come per esempio
costringere una famiglia a caricare tutto quello che poteva sui carri e farla assistere
all’incendio della propria casa, magari in piedi nella neve.
I mormoni furono costretti a vendere a prezzi minimi (quando poi poterono farlo) i
loro numerosi capi di bestiame e tutto quel che poteva interessare i Gentili predatori
finchè il 4 febbraio 1846 i primi emigranti mormoni attraversarono il Mississippi
lungo quello che avrebbero poi chiamato il ‘Sentiero delle lacrime’.
La California era allora ancora messicana, l’Oregon ancora inglese ed erano da
evitare anche i territori dove si trovavano già altri coloni, così la meta della terra
promessa fu individuata nel Grande Bacino al di là del ‘Continental Divide’ (lo
spartiacque costituito dal crinale delle Montagne Rocciose) dove ancora nessuno
aveva ancora avanzato richieste.
Le condizioni del viaggio, iniziato in pieno inverno, furono terribili e proibitive e
nulla fu risparmiato ai disperati emigranti: neve, piogge torrenziali, fango, nugoli di
zanzare, serpenti, asperità di un territorio completamente selvaggio, li tormentarono
in continuazione senza dar loro mai respiro, ma essi dimostrarono di possedere le
qualità eroiche di chi non si ferma di fronte a nulla.
Young fu l’eccezionale guida dell’impresa e non trascurò nessun mezzo per la sua
riuscita: egli fece versare fondi a tutte le altre comunità di mormoni (in Ohio,
Mississippi e perfino in Inghilterra) e fornì 500 soldati agli USA in guerra col
Messico (di cui ai mormoni non interessava nulla) per ricevere la loro paga.
La marcia fu interrotta vicino all’attuale Omaha (Nebraska) dove vennero istituiti i
quartieri d’inverno, cioè una prima base: si trattò di una vera e propria città di
agricoltori che provvidero ad arare ed a seminare la terra per ottenere una fonte di
sostentamento al popolo che nel 1847 potè riprendere la sua marcia in condizioni più
sicure finchè nel luglio raggiunse la sua meta sulle sponde del Gran Lago Salato
(dove in seguito sarebbe sorta la capitale Salt Lake City).
Young organizzò la sua gente con la consueta determinazione istituendo un regime
cooperativo e comunistico in cui era vietata la proprietà privata di acqua e legname e
dove i vescovi organizzavano i gruppi di lavoro che dovevano costruire dal nulla tutte
le infrastrutture (dighe e canali per l’irrigazione ad esempio): come sempre fu un
successo, il miglior caso di associazionismo nell’intera storia degli USA.
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I mormoni iniziarono subito a colonizzare il territorio circostante e nel 1849
fondarono il loro nuovo stato che chiamarono Deseret (ad est del 42° di latitudine e
ad ovest del Continental Divide) la cui bandiera era un alveare, simbolo
dell’operosità associata dei coloni mormoni.
I sistemi adottati da Young per mantenere l’unità del suo popolo e per imporre la sua
ferrea volontà erano durissimi e raggiungevano facilmente l’omicidio e l’incitamento
alla violenza, ma nei trent’anni seguenti a Deseret arrivarono sempre più mormoni il
cui numero crebbe (anche per il forte tasso di natalità) passando dagli 11mila del
1850 agli 87mila di vent’anni dopo.
I mormoni facevano tutto in nome di Dio, convinti com’erano di essere gli eletti che
dovevano redimere la Terra dalla maledizione del peccato di Adamo e di Eva: il
lavoro organizzato, la vita semplice e spartana, il reinvestimento continuo di ogni
utile, la disciplina e la dedizione assolute al lavoro ed al dovere erano le chiavi del
loro successo.
E’ evidente che nel loro pionierismo c’era molto del puritanesimo del New England
e d’altra parte la componente religiosa fu sempre importantissima nella costruzione
degli USA e sicuramente decisiva nel permettere agli ardimentosi pionieri e
colonizzatori di sopravvivere, di prosperare e di costruire davvero un mondo nuovo.
In ogni caso proseguiva inarrestabile anche la marcia verso ovest (e l’annientamento
degli indiani) degli altri emigranti che muovevano verso l’Oregon e la California: i
mormoni insomma erano stati semplicemente i primi a giungere nel futuro Utah ed
ora erano stati raggiunti dal generale flusso migratorio.
L’avanzata dei pionieri era pianificata dal Congresso che da Washington stabiliva le
dimensioni dei nuovi territori e poi dei nuovi stati: il Congresso già nel 1850 ridusse
così la superficie di Deseret entro i confini attuali dello Utah (il nuovo nome del
territorio) ma Deseret-Utah non venne però ancora riconosciuto come stato: il
presidente Fillmore (1850-53) nominò Young governatore, ma si trattava
evidentemente di una sistemazione transitoria.
Deseret-Utah non fu infatti mai in pace sia per il forte spirito autonomistico ed
indipendentistico dei mormoni sia perché le aggressioni dei vicini continuarono come
prima e più di prima (e furono contrastate con altrettanto vigore) finchè nel maggio
1857 il presidente James Buchanan decise di reprimere quella che avvertiva come
una ribellione degli indocili coloni mormoni.
Iniziò così quella che è stata chiamata Guerra dell’Utah, Spedizione dell’Utah, Gaffe
di Buchanan, Guerra mormone o Ribellione mormone, in realtà un confronto armato
tra i coloni mormoni nei territori dell’Utah e le forze armate del governo federale
degli Stati Uniti che si protrasse fino al luglio dell’anno seguente.
La ‘guerra’ non fu combattuta con battaglie (vi furono però schermaglie nell’attuale
Wyoming sudoccidentale) e le sue vittime furono principalmente civili gentili - come
nel caso del massacro di 120 gentili (donne e bambini compresi) l’11 settembre 1857
a Mountains Meadows - e costò complessivamente oltre 300 vittime.
Dopo un anno di scontri la questione venne finalmente conclusa tramite negoziati che
compresero la grazia completa per i mormoni, il trasferimento del governatorato dello
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Utah da Young (che rimaneva comunque a capo della Chiesa) al non-mormone
Alfred Cumming e l’ingresso dell’esercito statunitense nello stato.
Era il riconoscimento che gli USA erano arrivati ormai anche nello Utah e che nel
grande paese non c’era più spazio per stati autonomi: Young preferì fare buon viso a
cattivo gioco concedendo quel che ormai non poteva più essere rifiutato ma
rimanendo ugualmente arbitro della situazione dei suoi mormoni.
Egli comunque non si era rassegnato: nella guerra di secessione i mormoni,
nonostante lo Utah fosse uno stato nordista, rimasero neutrali e Young sperò in una
vittoria del Sud che giudicava avrebbe potentemente indebolito la spinta dell’Unione
e che, in nome dell’autodeterminazione, avrebbe permesso la secessione anche della
repubblica dei mormoni oltre a quella degli stati del Sud
Egli, convinto di appartenere ad una élite di eletti, giudicava inoltre i negri inferiori e
meritevoli di schiavitù, mentre la campagna contro la poligamia aveva punti in
comune con quella contro la schiavitù stessa in quanto ai suoi occhi anche le donne
erano esseri inferiori (agli uomini): infine, come nel Sud i proprietari di schiavi erano
una minoranza, anche i mormoni poligami lo erano (per parte sua, egli aveva 70
mogli!).
La vittoria del Nord cancellò comunque tutte le speranze di Young: anche nello Utah
arrivò la ferrovia, sempre più gentili e sempre più truppe, ma nel Congresso forti
continuarono ad essere le opposizioni all’ingresso dello Utah nell’Unione che potè
avvenire solo dopo che furono modificate alcune dottrine mormone e soprattutto
dopo che la poligamia – già vietata nel 1882 dall’’Edmunds Act’ – venne ripudiata
definitivamente (almeno in via ufficiale) dalla stessa Chiesa mormone nel 1890, anno
in cui, in seguito ad una rivelazione (!) ricevuta dall’allora suo presidente Wilford
Woodruff , essa non solo pubblicò una dichiarazione formale (conosciuta come il
‘Manifesto’) di rinuncia a tale pratica, ma addirittura minacciò di scomunica coloro
che non avessero osservato tale divieto (!): i tempi erano così ormai maturi ed il 4
gennaio 1896 lo Utah divenne il 45° stato dell’Unione.
La corsa all’oro in California
Il trattato di Guadalupe Hidalgo cedette agli USA anche la California (settentrionale)
dove già il 14 giugno 1846, in seguito ad una rivolta degli statunitensi che vi
risiedevano (in concomitanza con la guerra col Messico), era stata proclamata la
Repubblica della California (detta anche ‘Repubblica della bandiera con l’orso’): essa
aveva avuto brevissima durata (26 giorni) ed aveva cessato di esistere già il 9 luglio,
quando l’esercito statunitense aveva preso il controllo del paese, ma aveva
testimoniato quant’era diffusa anche in California l’insofferenza dei coloni
statunitensi nei confronti del governo messicano.
La California aveva la popolazione necessaria per chiedere al Congresso l’ingresso
nell’Unione come stato: essa si dotò così di una costituzione (che vietava la schiavitù)
e prima della fine del 1849 potè presentare domanda di ammissione, ma, ancora una
volta, si affacciò il problema dell’equilibrio fra stati schiavisti e non e ancora una
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volta gli stati del Sud si opposero finchè nel 1850, sotto il presidente Fillmore, fu
trovato il compromesso che risolse – almeno temporaneamente – la situazione e,
insieme, regolò anche le acquisizioni degli altri territori strappati al Messico.
La California divenne il 31° stato il 9 settembre 1850, ma per riequilibrare la
situazione la schiavitù venne fatta continuare nel Distretto della Columbia (!) e venne
adottata ancora una volta la Legge sugli schiavi fuggitivi che puniva (duramente) chi
li aiutava – e nel Nord c’erano organizzazioni antischiaviste che si prodigavano in
questo senso.
Lo Utah inglobò per il momento anche il Nevada (36° stato nel 1864), il New
Mexico (47° stato nel 1912) e l’Arizona (48° stato nel 1912) mentre il Texas venne
indennizzato con 10 milioni di dollari per la sua rinuncia al New Mexico.
Tutto questo avvenne nei febbrili anni in cui la California veniva investita dalla
febbre dell’oro e dalla corsa che ne derivò.
La corsa (o febbre) all’oro californiana (il famoso ‘Gold Rush’) ebbe inizio il 24
gennaio 1848 (pochissimi giorni prima che il Messico cedesse ufficialmente la
California agli Stati Uniti!) quando James Marshall, dipendente del proprietario di
segherie di origine svizzera Johan Suter (americanizzato in John Sutter), scoprì un
filone d’oro lungo il fiume Sacramento nella Sierra Nevada (California centrale):
Sutter tentò di non rivelare che si potevano trovare molto facilmente pagliuzze d’oro
nelle sabbie e pepite nelle ghiaie dei fiumi, ma la notizia si diffuse invece molto
rapidamente.
Subito dalla California stessa accorsero in tanti: per esempio il 12 maggio 1848
quando la notizia della scoperta raggiunse San Francisco la popolazione maschile
della città era di circa 600 individui, ma tre giorni dopo si era ridotta a 200 ed il 1
giugno in città erano rimasti solo donne e bambini.
Storie di minatori che erano diventati ricchi in un solo giorno si diffusero come il
vento e, se molte di queste erano esagerazioni, alcune di esse erano però vere.
Alla fine del 1848 i cercatori arrivavano ormai dal nord (fin dall’Oregon) dall’ovest
(fin dalle Isole Hawaii) e dal sud (fin dal Messico e dal Cile) viaggiando su carri
attraverso pianure, deserti e montagne.
Già il 2 febbraio 1848 erano salpati alla volta della California addirittura i primi
sudditi del Celeste Impero (la Cina era più vicina dell’Est) che si rivelarono buoni e
disciplinati lavoratori che imparavano in fretta: nelle zone aurifere si diedero a
scavare nei giacimenti abbandonati dai cercatori bianchi per finire di estrarre tutto
l’oro che era rimasto.
Ci volle circa un anno perchè la notizia giungesse all’Est ma quando arrivò anche da
qui la corsa iniziò subito sfrenata: nelle città e nei centri dell’Est sembrava quasi si
fosse tornati al tempo di guerra e migliaia di uomini lasciavano le loro case e le loro
famiglie per imbarcarsi e doppiare capo Horn (da New York arrivarono anche 230
mormoni) in cerca di fortuna mentre le loro donne si trasferivano dai parenti o
dovevano provvedere da sole a se stesse.
Alcuni si arricchirono senza dover scavare per l’oro: i commercianti facevano pagare
a carissimo prezzo forniture e servizi ai minatori che mancavano di tutto, i lavoratori
22
erano ricercatissimi e molto profumatamente remunerati mentre le (poche) donne
realizzavano grandi guadagni vendendo pasti caldi o lavando le camicie nei campi
auriferi.
Nel tumultuoso turbine della corsa all’oro in California erano giunti inevitabilmente
anche avventurieri, banditi, ladri, giocatori, imbroglioni, procacciatori di prostitute ed
ogni sorta di feccia in cerca di facili quanto illeciti guadagni: nel clima di anarchia
generalizzata i conti si regolavano con le armi in pugno e la legge di Linch era
disinvoltamente praticata finchè nel 1851 a San Francisco venne costituito un primo
Comitato di Vigilanza che cominciò a portare ordine e una qualche legalità dopo tre
anni di assenza dello stato.
Naturalmente per accaparrarsi le preziose risorse gli episodi di violenza si
moltiplicarono soprattutto da parte degli statunitensi che volevano escludere dalla
corsa coloro che venivano dai paesi latini: quando i campi e le miniere cominciarono
a non essere più tanto produttivi i minatori americani cacciarono quelli francesi,
messicani, cileni e cinesi generando incidenti e dando inizio a problemi di ordine
razziale che si sarebbero risolti solo nel giro di alcuni decenni.
Alla fine, la gran parte dell’oro che poteva essere scavato a mano era stato trovato e
per estrarre il restante ci sarebbe stato bisogno di pesanti macchinari (allora del tutto
assenti).
La travolgente corsa all’oro durò insomma pochi anni e nel 1855 la gran parte
dell’oro che poteva essere trovato coi mezzi di allora era stato trovato: molti minatori
erano intanto morti (in incidenti o per malattie come il colera) o tornarono a casa
senza aver ottenuto alcun successo (John Sutter lasciò la California nel 1851
pesantemente indebitato per il fallimento delle sue segherie rimaste improvvisamente
senza manodopera e James Marshall morì in povertà nel 1885).
Naturalmente alcuni fecero invece fortuna, ma, soprattutto, molti minatori rimasero in
California e cambiarono mestiere risolvendo in un colpo solo l’endemica scarsità di
manodopera e popolando e facendo fiorire il nuovo stato sia coltivando le sue fertili
valli che dando vita a nuove città: per esempio nel 1856 San Francisco aveva più di
50mila abitanti ed era divenuta la più grande ed importante città dell’Ovest sulle cui
strade camminava gente proveniente da ogni angolo del pianeta.
La California completamente trasformata era divenuta una terra prospera e lo stato
americano più famoso e conosciuto in tutto il mondo con una popolazione che in un
decennio si era quadruplicata.
La corsa all’oro in California si verificò insomma al momento giusto per favorire
potentemente lo spostamento di popolazione ad ovest e per unire più strettamente gli
USA: appena i confini coast-to-coast e Messico-Canada erano stati stabiliti il
problema era stato infatti quello di popolare le nuove immense distese e di coordinare
ed amalgamare lo sterminato paese.
Contribuirono ulteriormente a questo processo le immediatamente successive corse
all’oro in Colorado, in Nevada ed in Montana mentre in Arizona si scoprì l’argento
(nella zona di Tombstone): seppur meno spettacolari, anche queste corse si risolsero,
23
come in California, in significativi trasferimenti di popolazione ad ovest con la
conseguente fondazione di nuove città e l’ulteriore sviluppo delle campagne.
La guerra di secessione
Fin dalla loro nascita gli USA avevano dovuto convivere con due problemi che
continuamente risorgevano ad ogni nuova occasione: il dissidio fra Federalisti ed
Anti-federalisti e la schiavitù.
Il primo consisteva nel disaccordo sulla forma politica che gli USA avrebbero dovuto
assumere, se quella di una federazione volontaria di stati largamente autonomi ed
indipendenti o quella di un’Unione più centralizzata nella quale le autonomie dei
singoli stati sarebbero dovute risultare decisamente ridimensionate in favore del
potere e del ruolo centrale dell’Unione stessa – che sola avrebbe potuto garantire
sviluppo e progresso grazie anche alla raccolta ed alla disposizione delle risorse e dei
capitali necessari alla costruzione delle grandi opere e delle grandi infrastrutture (era
questo l’’American System’).
La guerra di secessione americana (1861-65) è comunque passata alla storia come la
sanguinosa guerra combattuta dal Nord contro il Sud per la liberazione degli schiavi
negri che negli stati meridionali esistevano ancora (dal 1808 negli USA era stata
vietata solo l’importazione di carne umana dall’Africa), ma, anche se effettivamente
questo motivo fu ben presente e nel 1865 la schiavitù venne definitivamente abolita,
esso si collegò però inestricabilmente con l’altro, che fin da subito risultò addirittura
il preminente: il vero obiettivo del Nord fu infatti impedire la secessione del Sud,
così la guerra civile si chiamò di secessione e i combattenti del Nord unionisti.
La guerra di secessione risolse definitivamente e per sempre ambedue i problemi e
segna dunque uno spartiacque nella storia degli Stati Uniti che dopo di essa
avrebbero seguito un corso omogeneo e senza più scosse interne: dato il ruolo
egemone che gli USA avrebbero poi avuto nel secolo seguente - e che non avrebbero
mai potuto svolgere se il Nord non avesse vinto e non avesse imposto tutte le sue
condizioni al Sud (ed all’intera Unione) - essa ebbe conseguenze enormi anche nella
storia del mondo intero stesso (!).
In questa guerra si giocò insomma l’assetto ed il futuro degli Stati Uniti giunti ormai
al momento della verità, quando dovettero scegliere il loro destino e la loro identità
fra i due progetti politici largamente opposti ed incompatibili fra loro: è dunque
necessario precisare meglio i due diversi corsi (economici, sociali e politici) che Nord
e Sud avevano intrapreso per comprendere poi che quando questi divennero
definitivamente inconciliabili e senza possibilità di mediazione la parola passò alle
armi.
I
Innanzitutto lo sviluppo economico del Nord e del Sud era avvenuto in modo
diverso ed anzi conflittuale perché mentre il primo a cavallo del secolo aveva sùbito
24
seguito le orme dell’Inghilterra e stava procedendo a grandi passi sulla strada della
manifattura e dell’industrializzazione, il secondo si era concentrato invece
sull’agricoltura - e soprattutto sulla produzione del cotone di cui i mercati europei (e
soprattutto inglesi) erano avidi consumatori.
La prima conseguenza di questo dualismo era stata che al Nord la schiavitù era
divenuta via via antieconomica (lo schiavo non si specializza, quindi lavora meno e
peggio, va vigilato ed inoltre non consuma) ed era di gran lunga preferibile avere a
disposizione manodopera operaia capace e specializzata (ed in grado di sopportare il
clima freddo, i carichi di lavoro maggiori, i salari da fame, l’assenza di ogni forma di
assistenza e di sostegno e la licenziabilità).
In ogni caso comunque anche nel Nord la schiavitù (seppure in dimensioni ben più
ridotte che nel Sud) si era mantenuta a lungo e, per esempio, nel Rhode Island venne
abolita solo nel 1848, nel New Hampshire nel 1857 e nel New Jersey addirittura nel
1865.
Nel Sud, tutto al contrario, con l’aumento delle piantagioni la schiavitù era divenuta
invece sempre più necessaria ed aveva conosciuto un’ulteriore diffusione.
Le due economie potrebbero sembrare anche complementari, ma in realtà i loro
interessi erano invece divergenti e sfociarono così in un lunghissimo scontro che dal
punto di vista economico si concentrò principalmente sulla politica dei dazi doganali
e sull’organizzazione del credito.
Il Nord aveva tutto l’interesse ad impedire e ad ostacolare che le merci provenienti
dall’Europa (di cui giustamente temeva la concorrenza) entrassero negli Stati Uniti
mentre voleva che i prodotti del Sud gli rimanessero disponibili a bassi costi e così fu
sempre protezionista ed a favore di alte barriere doganali.
Il Sud era invece un esportatore netto di prodotti agricoli (3/4 dei suoi raccolti erano
destinati al mercato estero) e grande importatore di prodotti manifatturieri ed
industriali ed aveva dunque la necessità di poter vendere e comprare liberamente: fu
così sempre liberista ed a favore della massima riduzione possibile dei dazi doganali.
Lo scontro fra le due economie si incentrò dunque sull’introduzione o meno dei dazi
doganali: terminata la guerra contro l’Inghilterra nel 1812, i mercati americani si
erano riaperti alle merci inglesi che avevano immediatamente invaso i porti degli
Stati Uniti: di fronte alla crisi dei produttori locali i deputati Henry Clay e John C.
Calhoun nel 1816 fecero approvare un’alta tariffa doganale che inclusero in un più
vasto ed ambizioso piano economico nazionale (di cui si dirà e che aveva le sue radici
nel programma di Alexander Hamilton quand’era stato ministro del Tesoro nei primi
anni dell’indipendenza e che lo stesso Clay definì ‘sistema americano’).
Nel 1824 sempre Clay riuscì a far quasi raddoppiare il tasso medio dei dazi e nel
1828 questo arrivò addirittura quasi al 50% tanto che i deputati e senatori del Sud
(che in massa avevano sempre votato contro) lo chiamarono ‘the Tariff of
Abominations’.
Contro una misura del genere, che naturalmente portava ad un cospicuo aumento dei
prezzi, la Carolina del Sud pose il veto in nome dei suoi autonomi poteri statali e,
nonostante momenti di tensione, riuscì a spuntare un buon compromesso.
25
Questo fu comunque solo l’inizio di una netta inversione di tendenza che alla fine
degli anni Cinquanta ridusse il tasso medio dei dazi al 15%: era evidente infatti che
l’aumento dei dazi, ovviamente fin da subito controbilanciato da analoghi aumenti da
parte dei paesi importatori, danneggiava non solo il Sud ma anche tutte le regioni
agricole, anch’esse largamente esportatrici.
Tuttavia il neonato Partito Repubblicano (erede nel 1854 del partito Whig),
adducendo come scusa la recessione del 1857 e scontrandosi con l’opposizione
democratica (soprattutto del Sud), appena fu in grado di farlo nel 1859-60 fece votare
alla Camera dei Rappresentanti un forte rialzo dei tassi (‘the Morrill Tariff’) e
Lincoln, appena eletto presidente, nel 1861 si adoperò perché venisse approvato
anche dal Senato.
Uno scontro analogo a quello sulla politica dei dazi protezionistici si verificò negli
stessi anni a proposito della creazione o meno di un Banca Centrale che potesse
emettere cartamoneta non convertibile in oro ed in argento, ma questa volta furono i
democratici a prevalere imponendo invece l’’Independent Treasury System’, in base
al quale ogni stato aveva la sua propria banca che poteva emettere solo moneta
convertibile.
II
L’abolizionismo (della schiavitù) era nato da tempo, almeno dal 1831, quando
William Lloyd Garrison aveva fondato a Boston il giornale ‘Liberator’, e da allora fra
abolizionisti e schiavisti la lotta era stata condotta senza esclusione di colpi, ma più
spesso – come si è già visto - i due schieramenti si erano affrontati sull’estensione
della schiavitù negli stati di nuova formazione cui si opponevano i sostenitori
dell’antischiavismo (da non confondere col precedente).
Negli anni Cinquanta proprio quest’ultima questione venne a dividere ulteriormente
(se possibile) il Nord dal Sud e cioè l’estensione o meno della schiavitù nei territori
delle valli del Kansas e del Nebraska (non ancora stati), fortemente osteggiata anche
dai freesoilers (coloro che ricevevano le terre libere dell’Ovest e che non volevano
negri nei loro stati di nuova formazione).
In realtà c’era poco da decidere perché il ‘compromesso del Missouri’ (raggiunto nel
1820) aveva permesso in via eccezionale la schiavitù in quello stato, ma l’aveva
vietata a nord di 36° 30’ di latitudine (cioè a nord del confine meridionale del
Missouri!) e Kansas e Nebraska ne erano a settentrione, quindi si trovavano nella
zona in cui la schiavitù era vietata.
Tuttavia per la pressione dei democratici il Kansas-Nebraska Act (maggio 1854)
aveva fatto un’ulteriore eccezione stabilendo che nel caso dei due futuri stati la
decisione sulla schiavitù sarebbe spettata invece alle rispettive assemblee provvisorie
territoriali: per partecipare così alle elezioni e volgerne il risultato a proprio favore
torme di freesoilers si precipitarono in Kansas da est e masse di abitanti del Missouri
(schiavista) da sud.
Fra accuse di brogli e recriminazioni, scontri, colpi di scena e scorrere del sangue
(vero preannuncio della tragedia che si sarebbe presto abbattuta sull’intera Unione)
26
alla fine, nel luglio 1859, in Kansas fu approvata una costituzione che proibiva la
schiavitù, ma gli animi si erano pericolosamente scaldati, anzi, surriscaldati.
Ad accendere ulteriormente e definitivamente gli animi fu infine il generoso ma
intempestivo tentativo di John Brown.
Il 16 ottobre 1859 questo ardente abolizionista insieme a diciotto seguaci attaccò
l’arsenale ad Harper’s Ferry (Virginia) e lanciò un proclama di rivolta agli schiavi: il
suo piano era quello di organizzare un esercito di schiavi ribelli e di asserargliarlo
negli Appalachi meridionali perché divenisse un richiamo per tutti gli schiavi e la
guida della rivolta per abolire la schiavitù.
Il tentativo di Brown venne presto soffocato ed egli finì impiccato, ma nonostante
molti nordisti avessero giudicato Brown un criminale e lo stesso Lincoln avesse
pensato che egli era stato impiccato a ragione, sull’immaginario collettivo del Sud
l’impressione che l’episodio produsse fu potente perché la rivolta dei negri era
l’incubo che agitava sotterraneamente l’intera società sudista: Brown segnò insomma
il punto di non ritorno nello scontro fra Nord e Sud sulla schiavitù.
III
Come si vede, la politica americana era fortemente agitata da numerosi problemi che
comunque rientravano tutti in quello molto più vasto del futuro assetto degli Stati
Uniti stessi.
Da una parte stavano coloro che volevano un forte governo centrale, una potente
Banca Federale (col potere di emettere banconote non convertibili in oro ed argento),
una Corte Suprema (unica arbitra a decidere sulla costituzionalità delle leggi) ed una
tassazione che favorisse e permettesse il finanziamento e la costruzione delle grandi
opere (ferrovie, porti, strade, servizi) grazie alle quali soltanto gli USA sarebbero
potuti diventare una grande potenza moderna: i fautori di questo ‘American System’,
di questo grande progetto (come Lincoln) erano sostenuti e sostenevano le grandi
corporations del Nord ed i loro notevoli interessi: essi si erano raccolti dapprima nel
partito Whig, poi assorbito nel Partito Repubblicano (nato a Jackson, Michigan, il 6
luglio 1854 in seguito alle proteste per il Kansas-Nebraska Act).
Essi mettevano l’Unione prima degli stati cui negavano il diritto di abbandonarla
e credevano nel modello centralista del potere come unica condizione di
grandezza e sviluppo.
I repubblicani avevano fatta propria la mentalità borghese del ‘free soil, free labor
and free man’, della scalata alla felicità e del successo secondo il merito e le capacità,
con quella puritana delle origini: in base a quest’ultima essi si sentivano chiamati a
combattere per la giusta causa voluta da Dio (di cui essi si sentivano gli eletti
portatori) contro il male da estirpare e da distruggere.
Dall’altra parte stavano coloro che, forti della lettera della Costituzione e della
volontà dei Padri Fondatori, tutto al contrario erano per l’autonomia degli stati
(liberi anche di mantenere la schiavitù nelle loro costituzioni) che secondo loro
accettavano volontariamente di far parte dell’Unione al cui governo centrale
volontariamente affidavano una parte dei loro poteri: essi sostenevano il diritto degli
27
stati di porre il veto alle leggi che il governo centrale emanava e, soprattutto, il
diritto e la libertà di secedere dall’Unione stessa.
Essi mettevano insomma gli stati prima dell’Unione ed erano contrari ad uno
sviluppo che – guidato, finanziato e diretto dall’alto - avvenisse a costo della perdita
dell’autonomia e della libertà dei loro stati.
Il Sud si opponeva poi all’American System sostenendo che in questo modo tutti
avrebbero dovuto pagare per opere che andavano a beneficio del Nord.
Il Partito Democratico, espressione di questa visione politica, si sposava
perfettamente agli interessi del Sud agricolo, esportatore e schiavista, ed infatti era
espressione soprattutto (ma non solo) del Sud, la cui cultura romantica ed idilliaca si
fondava sulla tradizione e sulla conservazione.
Il Nord si era ormai legato sempre più al Midwest (la regione compresa fra le
Montagne Rocciose e il fiume Ohio) dove si era venuta affermando un’agricoltura
meccanizzata e capitalistica mentre il Sud viveva ancora in uno stato di arretratezza e
di separazione acuito oltretutto dalla recente aggiunta dei territori strappati al
Messico.
Era sempre più chiaro che questi due sistemi, queste due concezioni e questi due
gruppi di interessi - così contrapposti - non potevano più convivere a lungo nello
stesso stato e l’esplodere finale e risolutore del contrasto dipendeva ormai solo da un
incidente (o da una scusa adatta allo scopo).
IV
La situazione precipitò con le elezioni presidenziali del 1860: alla convenzione dei
democratici quelli del sud sostennero che gli schiavi erano proprietà e che - come
tutte le proprietà - andavano preservate e difese anche dal Congresso, mentre
quelli del nord si opposero: il partito si divise e si formarono così due convenzioni
democratiche – una dei meridionali ed una dei settentrionali - che scelsero due
candidati diversi.
I repubblicani proposero invece unanimi l’homo novus, il cinquantunenne avvocato
delle corporations (soprattutto ferroviarie), l’ex-whig Abraham Lincoln,
convintissimo sostenitore che gli USA dovessero divenire uno stato unico ed unito
che raccogliesse le forze di tutti per procedere alla concentrazione delle risorse ed al
loro impiego in direzioni unitarie e coordinate e potesse così dotarsi di tutte le
strutture necessarie allo sviluppo ed al progresso industriale (sempre secondo
l’American System).
A proposito della schiavitù Lincoln non era un abolizionista (ed anzi giudicava gli
abolizionisti dei fanatici) e riteneva che la schiavitù fosse un affare interno del Sud,
ma la giudicava ormai un cascame del passato che gli stessi stati del Sud avrebbero
fatto bene a liquidare progressivamente, liberamente e dietro adeguato indennizzo
(come nel corso del secolo avevano fatto tutti gli altri stati schiavisti europei): era
però fermamente contrario che i nuovi stati dell’Ovest potessero a loro volta
diventare schiavisti anche perché egli li voleva liberi da negri e riservati ai soli
bianchi; del resto egli aveva già pensato di ‘rimpatriare’ gli ex-schiavi negri in Africa
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(in Liberia) come anche al loro trasferimento ad Haiti o a scavare canali a Panama
(allora pesantemente infestato dalla malaria).
In ogni caso Lincoln era per una politica di, diciamo così, contenimento: a suo
giudizio un Sud bloccato nella sua volontà di espandere lo schiavismo (per questo
motivo egli si oppose al progetto di annettere Cuba o altre isole caraibiche al Sud
stesso) non avrebbe potuto resistere nel suo isolamento alle varie pressioni
antischiaviste ed alla crescita stessa della popolazione negra.
Erano queste le posizioni del Partito Repubblicano che voleva l’Ovest per i
freesoilers, protezionismo doganale e unione a tutti i costi.
Alle elezioni del 1860 si presentò poi anche un candidato whig, così Lincoln risultò
ancora più agevolmente il vincitore netto, seppure con poco più del 40% dei voti
popolari (concentrati solo in 17/33 stati!) ma 180/303 voti elettorali.
V
Il problema era che Lincoln aveva vinto solo negli stati del Nord mentre nel Sud non
aveva raccolto praticamente alcun voto: la divisione degli USA in due campi
contrapposti non poteva essere più evidente nè il Sud poteva accettare di dipendere
così massicciamente dal Nord.
Nonostante la posizione dei democratici e dei sudisti in parlamento fosse ancora
molto buona, che il partito repubblicano e Lincoln fossero molto accomodanti e
comprensivi nei confronti della schiavitù e che la stragrande maggioranza degli
abitanti del Sud non possedesse schiavi, la convenzione appositamente eletta nella
Carolina del Sud già il 20 dicembre ruppe però gli indugi e proclamò all’unanimità
la secessione dall’Unione, subito seguita dalle analoghe delibere di Mississippi,
Florida, Alabama, Georgia, Louisiana e Texas.
Il 4 febbraio 1861 i rappresentanti di questi stati proclamarono la nascita degli Stati
Confederati d’America, con una Costituzione provvisoria (fondamentalmente quella
degli Stati Uniti dove ‘Unione’ fu sostituito con ‘Confederazione’ e venne meglio
specificata la sovranità e l’indipendenza dei vari stati) ed una bandiera: due giorni
dopo Jefferson Davis venne eletto all’unanimità presidente.
Per i sudisti era infatti evidente che la convivenza col Nord era diventata impossibile
a meno che il Sud stesso non ne accettasse l’egemonia e la trasformazione forzosa
secondo la sua economia, la sua cultura ed i suoi interessi: il Sud non poteva accettare
insomma di sentirsi chiedere la propria distruzione.
Convinto che la Costituzione prevedeva l’adesione volontaria all’Unione e quindi il
diritto alla secessione, il Sud scelse così la sua indipendenza e cercò di proseguire
libero per la sua strada: il dado era stato tratto ed ora mancava solo l’elemento
occasionale per scatenare una guerra che nessuno diceva di volere ma che appariva
ormai inevitabile.
Mentre Lincoln attendeva di entrare in carica, Buchanan, il suo predecessore, lasciò
fare e addirittura permise che la Confederazione eliminasse tutte le istituzioni
dell’Unione sul suo territorio così che in poche settimane nel Sud rimasero
all’Unione praticamente solo Fort Pickens (sulla costa della Florida) e, soprattutto,
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Fort Sumter che controllava il nevralgico (per il Sud) porto di Charleston nella
Carolina del Sud, dove batteva il cuore dello spirito sudista.
VI
Nella notte fra il 12-13 aprile 1861 i confederati assediarono e presero a cannonate
Fort Sumter finchè la guarnigione nordista dovette arrendersi (con l’onore delle
armi): a Fort Sumter non ci furono né morti né feriti ma Lincoln – che pure fin dal
momento del suo insediamento il 4 marzo aveva offerto al Sud il mantenimento dello
status quo in cambio della rinuncia alla secessione - già il 15 aprile dichiarò che era
scoppiata una ribellione, proclamò il blocco di tutti i porti del Sud ed organizzò le
prime truppe (75mila volontari) per sedarla.
Di fronte al precipitare degli eventi pochissimi giorni dopo Virginia (che pure non
era uno degli ‘stati del cotone’ ma dipendeva da essi), Arkansas, Tennessee e
Carolina del Nord uscirono anch’essi dall’Unione e si unirono ai confederati: da
Montgomery la capitale fu trasferita a Richmond (Virginia).
Gli altri quattro stati sudisti (e schiavisti) fecero altre scelte: il Delaware rimase
nell’Unione, il Maryland ed il Missouri vennero occupati militarmente ed il Kentucky
optò per la neutralità.
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Lo scontro era davvero impari: il Nord con 22 milioni di abitanti (contro i 9 del Sud)
aveva l’esercito, l’intero apparato industriale e cantieristico, la rete ferroviaria, il
telegrafo, la navigazione a vapore e la marina militare con la quale potè agevolmente
porre il blocco navale sulle coste del Sud (che ricorse addirittura alle lettres de
marque per forzarlo!) agricolo ed arretrato.
Che il Sud abbia accettato lo scontro in condizioni così totalmente favorevoli al
nemico è la dimostrazione più eloquente del suo idealismo e del suo romanticismo: il
Sud comunque - oltre a sperare nell’aiuto dei democratici del nord e nell’appoggio
delle nazioni europee, già sue partners commerciali - voleva solo difendere la sua
secessione e dunque sperava che il Nord, se posto di fronte ad una resistenza
convinta, sentita ed accanita – ed ai costi della guerra! – si sarebbe stancato, ricreduto
e avrebbe accettato il fatto compiuto.
Il Sud riuscì a realizzare veri prodigi nel creare praticamente dal nulla un’industria
degli armamenti e seppe dotarsi di una trentina di corazzate (!) – contro le 54 degli
unionisti - che tentarono di proteggere le proprie coste ed i propri porti ed inferirono
colpi anche gravissimi ai traffici da e per gli Stati Uniti operando fin nei mari della
Cina, dell’Australia, di Bering ed in quelli europei (!): altro ritrovato del Sud furono
le mine marittime che alla fine del conflitto avevano colato a picco 58 unità da guerra
nemiche (!).
Tuttavia per quanti sforzi e sacrifici il Sud facesse era inevitabilmente sempre in
condizioni di inferiorità in tutti i settori mentre la vera guerra era quella combattuta
dagli eserciti di terra che si affrontavano in battaglie accanite e soprattutto
estremamente sanguinose: il Sud aveva praticamente tutti gli uomini validi in guerra
ed affrontava la lotta impari con convinzione e tenacia tanto che vien da chiedersi che
senso avesse mai pretendere di mantenere con la forza all’interno dell’Unione popoli
che non ne volevano sapere e che combattevano così duramente per starne fuori.
VII
Per parte sua, il problema della schiavitù fu centrale fin dal primo momento della
guerra ma venne tenuto piuttosto celato per non urtare le suscettibilità di quanti anche
a nord detestavano i negri e per mantenere dalla propria parte quegli stati schiavisti
che si erano schierati con l’Unione.
Lincoln comunque il 22 settembre 1862 varò il ‘Proclama preliminare di
emancipazione’ (degli schiavi): per il momento esso affermava che i diritti di
proprietà (di schiavi!) sarebbero stati mantenuti negli stati leali all’Unione ed in
quelli che si fossero arresi entro il 1 gennaio 1863: dopo tale data negli stati ancora
ribelli gli schiavi sarebbero stati invece ‘liberi per sempre’.
Il proclama fu una vera e propria rivoluzione e fin dal momento del suo varo la
guerra divenne apertamente anche la guerra per abolire la schiavitù: finalmente anche
i negri vennero arruolati (come avevano chiesto in massa fin dall’inizio delle ostilità)
e molti di loro vennero messi a lavorare alla costruzione di tutte le numerose e
necessarie opere di guerra: 178.975 soldati negri combatterono nelle fila dell’Unione
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organizzati in 166 reggimenti (1/8 dell’esercito e ¼ della marina) ottenendo ben 14
Medaglie all’Onore del Congresso, la più alta onorificenza militare.
Nel Sud fra i negri analfabeti e che si cercava di mantenere isolati e disinformati la
notizia corse invece di bocca in bocca per canali che i loro padroni non erano mai
riusciti ad interrompere e dovunque arrivassero le truppe dell’Unione (o anche dove
esse ancora non erano arrivate) gli schiavi fuggivano e si univano a loro guidandole
ed informandole.
Oltre ad essere una preziosa risorsa per il Nord, la loro fuga metteva in ancor più
serie difficoltà l’economia e la società del Sud.
La schiavitù cominciò a dissolversi ed a sgretolarsi irreversibilmente - e con essa il
Sud stesso: alla scadenza prefissata nel proclama provvisorio, il 1 gennaio 1863
Lincoln firmò infine quello definitivo.
VIII
Intanto nel 1862 nel Nord anche l’Independent Treasury System venne abolito in
favore di un’unica Banca Centrale col potere di emettere valuta non convertibile,
essenziale allo sforzo bellico in atto ed ai cospicui investimenti necessari per
l’ammodernamento dello stato e delle sue infrastrutture: mentre la guerra continuava
sempre più sanguinosa il progetto centralizzatore faceva così un altro passo avanti (e
favoriva egregiamente i suoi investitori).
In piena guerra il 1 aprile 1862 fu addirittura deliberata la costruzione della ferrovia
transcontinentale (lungo il tracciato che aveva voluto il Nord) mentre lo ‘Homestead
Act’ assegnava le terre dell’Ovest a tutti quei capifamiglia che non avessero preso le
armi contro l’Unione.
IX
La guerra proseguiva con un numero di perdite terrificante: essa fu il primo conflitto
dell’età industriale in cui ferrovie (oltre 35mila km. nel Nord e più di 14mila nel
Sud), fabbriche moderne, rifornimenti e ritrovati bellici, davano ai combattenti una
forza distruttiva notevolmente superiore che nel passato: dopo due anni di guerra le
perdite erano così alte che ambedue i contendenti dovettero ricorrere alla leva
obbligatoria (che comportò seri problemi soprattutto al Nord).
Fino a quel momento si era proceduto invece con la richiesta di volontari in tutti gli
stati e per esempio la California inviò sempre il numero richiesto dall’Unione (ma
una minoranza partì invece per la Confederazione!).
Anche i costi diventavano sempre più proibitivi soprattutto per il Sud meno
sviluppato che fra l’altro dovette trasformare le piantagioni in campi coltivati per
prodotti commestibili (in Europa si faceva intanto ricorso al cotone dell’India).
Altro elemento di modernità fu la nascita al Nord di quello che nel Novecento
sarebbe stato chiamato il ‘fronte interno’, cioè la lotta ai dissidenti ed ai contrari alla
guerra: Lincoln dopo averla dichiarata senza il voto (legalmente necessario) del
Congresso, durante la guerra stessa aveva infatti sospeso l’habeas corpus, fatto
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imprigionare decine di migliaia di critici ed oppositori, sottoposto arbitrariamente a
censura le comunicazioni telegrafiche e chiuso d’autorità più di trecento giornali
d’opposizione (!).
X
Nonostante l’accanita resistenza del Sud la guerra volgeva inevitabilmente a favore
del Nord su tutti i fronti (quello – fondamentale - nord-sud, quello est-ovest e quello
marittimo lungo le coste del Sud) e poteva così iniziare l’assalto da nord e da ovest
alla ‘fortezza atlantica’ confederata che comunque si era riorganizzata ed era ben
decisa a resistere.
Dopo varie vicende (di cui non si ritiene utile dar conto in questa sede) l’evento che
segnò il momento di non-ritorno sul fronte nord-sud fu il 3-4 luglio 1863 la battaglia
di Gettysburg (Virginia), quando l’audace e geniale manovra di sfondamento del
generale Lee (comandante delle truppe confederate) si infranse in un terribile bagno
di sangue da cui iniziò il lungo e disperato ripiegamento delle truppe sudiste.
Sul fronte est-ovest lo stesso giorno (!) la piazzaforte sudista di Vicksburg
(Mississippi) dovete arrendersi alle forze preponderanti degli assedianti unionisti del
generale Grant che, espugnato anche Port Hudson, ebbero il controllo dell’immenso
fiume e tagliarono così la possibilità dei confederati di ricevere aiuti da sud-ovest;
intanto la flotta nordista, che già aveva bloccato i porti meridionali, nel maggio 1862
era riuscita a conquistare addirittura New Orleans.
XI
Nonostante l’orrore dello sforzo bellico Lincoln non perse mai il senso politico di
quel che stava accadendo e lo dimostrò con le condizioni poste alla Louisiana (il
primo stato confederato riconquistato): se almeno 1/10 dei votanti avesse giurato
fedeltà all’Unione ed avesse rinunciato alla schiavitù, avrebbe potuto eleggere un
nuovo governo e sarebbe stata riammessa nell’Unione mentre il perdono sarebbe
stato concesso a chiunque le avesse giurato fedeltà (ad esclusione dei comandanti
della ribellione).
Lincoln sperava che anche gli ex-proprietari di schiavi si convincessero della
necessità di adattarsi alla nuova realtà delle cose, ma purtroppo si sbagliava: oltretutto
dall’altra parte, nel Congresso, prevaleva una linea molto più intransigente della sua.
Intanto Grant era stato nominato comandante generale dell’esercito unionista e si
batteva sanguinosamente direttamente contro Lee che alla fine, il 9 aprile 1865, non
potè che arrendersi e consegnarsi a Grant stesso: in pieno spirito lincolniano Grant
permise agli stracciati ed affamati soldati sudisti di poter tornare a casa (disarmati),
lasciò loro i cavalli per poter arare i campi e li rifornì addirittura di razioni, ma non
era stato certamente questo il comportamento tenuto dai suoi pur brillanti sottoposti
Sheridan (che devastò la valle di Shenandoah in modo tale da fargli dire che anche un
corvo che l’avesse sorvolata avrebbe dovuto portarsi dietro le provviste e sostenne
che bisognava ‘lasciare ai sudisti solo gli occhi per piangere’) e Sherman che dopo
33
aver espugnato Atalanta fece terra bruciata in Georgia (a suo avviso bisognava ‘far
ululare la Georgia’) e poi nella Carolina del Sud (la cui capitale Columbia venne data
interamente alle fiamme).
I soldati morti erano stati 359mila al Nord e 258mila al Sud, imprecisato ma altissimo
il numero dei civili periti, un milione i feriti ed i menomati ed infine i costi economici
della guerra erano stati semplicemente troppo alti per poter essere calcolati.
Il Sud non esisteva semplicemente più ed aveva lasciato il posto a cumuli di macerie
fumanti, a territori devastati, a cimiteri pieni ed a superstiti ridotti alla fame ed alla
disperazione.
Al Sud si era sperato che alle elezioni presidenziali del 1864 i repubblicani potessero
perdere in favore dei democratici o comunque di un presidente disposto a terminare la
guerra, ma Lincoln era stato rieletto (con 212 voti elettorali contro 21) scontentando
però subito i nordisti più estremisti perché si era pronunciato per una pacificazione
col Sud sconfitto su un piano di parità: il 14 aprile 1865 egli venne però assassinato
da un fanatico sudista ed i fautori nordisti della ‘pace cartaginese’ non dovettero così
fare i conti con la sua ragionevolezza ed umanità.
XII
Il problema della schiavitù aveva agitato per decenni gli USA ed era tornato
prepotentemente alla ribalta durante il sanguinoso conflitto, ma ora anch’esso venne
risolto una volta per tutte grazie al XIII emendamento alla Costituzione degli Stati
Uniti d’America che abolì ufficialmente la schiavitù e proibì i lavori forzati (permessi
solo nei confronti di chi fosse stato riconosciuto colpevole di alcuni reati particolari).
Fu un provvedimento rivoluzionario perché fino a quel momento le leggi approvate
dal Congresso avevano protetto o comunque permesso la schiavitù (in genere
affidando tale scelta ai singoli stati) e le proposte per abolirla erano state respinte.
In realtà in quel momento la schiavitù era rimasta (legale) solo in Delaware,
Kentucky, Missouri, Maryland (cioè negli stati schiavisti che combattevano per
l’Unione!) e nel New Jersey, mentre in tutto il resto degli Stati Uniti gli schiavi erano
stati liberati o dai singoli governi statali o dal Proclama di Emancipazione, ma non
era questo il punto perché i vari stati avrebbero potuto reintrodurla nelle loro
costituzioni.
Era insomma necessario abolire la schiavitù in tutta l’Unione con un emendamento
inserito nella Costituzione degli Stati Uniti in modo che nessuna costituzione di
nessuno stato potesse più introdurla.
Venne finalmente imboccata la strada del non-ritorno: il Senato approvò
l’emendamento l’8 aprile 1864 (con 36 voti a favore e 6 contrari), ma le resistenze
erano ancora forti e la Camera dei Rappresentanti lo respinse (!).
Fu necessario che lo stesso Lincoln pretendesse che l’emendamento fosse inserito nel
programma elettorale repubblicano per le elezioni presidenziali del novembre 1864:
solo così finalmente nel gennaio 1865 la Camera l’approvò (con 119 voti a favore e
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56 contrari) ed esso potè essere inviato agli stati per la ratifica (erano necessarie le
ratifiche di almeno 2/3 degli stati).
Dopo le ratifiche l’emendamento venne definitivamente adottato il 18 dicembre 1865.
Per comprendere l’effetto che l’emendamento produsse basterà ricordare che il 4
aprile 1865 quando Lincoln si recò a visitare Richmond caduta venne riconosciuto
appena sbarcato e fu circondato da una folla di negri festanti: dopo la visita fece poi
ritorno alla nave scortato da un reparto di cavalleria negro.
Dalla schiavitù alla segregazione
L’assassinio di Lincoln (e l’attentato al suo Segretario di Stato Seward restato
seriamente ferito) che aveva espresso - ed aveva iniziato – un processo di pace attento
ed equilibrato, rappresentò un grosso danno soprattutto per il Sud: gli successe il suo
vice-presidente, Andrew Johnson, un democratico che veniva dal Tennessee (stato
sudista) e che, sostenitore delle ragioni dell’Unione, era stato l’unico senatore degli
stati secessionisti a rimanere al suo posto durante la guerra civile.
Fu Johnson a gestire la prima fase della difficilissima ricostruzione post-bellica: egli,
approfittando del fatto che il Congresso non si sarebbe riunito fino al dicembre 1865,
prese subito in mano la direzione della Ricostruzione (o Restaurazione come la
chiamò lui) secondo precise linee di intervento: durante la guerra Lincoln aveva
nominato governatori temporanei negli stati secessionisti occupati e Johnson ne
nominò nei restanti stati; il debito della Confederazione era illegale e andava quindi
respinto; il XIII emendamento era ormai parte della costituzione degli USA e valeva
dunque per tutti gli stati; quegli stati che accettavano queste novità e forgiavano
adeguate costituzioni sarebbero stati riammessi nell’Unione (e Johnson li incoraggiò
in questo senso); centinaia di leaders confederati vennero perdonati e poterono così
rientrare in politica.
Il Sud era occupato militarmente (e la ‘Military Reconstruction Act’ del 2 marzo
1867 l’avrebbe diviso poi in cinque distretti militari) ed i comandanti ebbero il
compito di organizzare il voto e la nascita dei nuovi governi: questi nuovi governi,
gestiti da unionisti bianchi – i cosiddetti ‘scalawags’ (mascalzoni) - avevano assoluto
bisogno anche del voto dei 4,5 milioni di ex-schiavi liberati (i ‘freedmen’) che
risposero con entusiasmo arrivando a fornire anche un’alta percentuale del personale
politico (persino due senatori, un giudice della Corte Suprema della Carolina del Sud
e molti vice-governatori).
Scesero poi dal Nord industriali, capitalisti ed altri bianchi – i cosiddetti
‘carpetbaggers’ (opportunisti) - mentre il ‘Freedmen’s Bureau’ (istituito dal
Congresso ancor prima della fine della guerra), protetto dall’esercito, lavorava
intensamente a soccorrere, aiutare, proteggere, difendere e curare gli ex-schiavi nella
loro complessa transizione verso la libertà, dato che ora improvvisamente masse di
freedmen nullatenenti, analfabeti o incolti, non-specializzati e disprezzati, si
riversarono improvvisamente nella società e non potevano essere abbandonate a se
stesse.
35
Ma il Sud sconfitto, prostrato e semidistrutto, era pieno di risentimento e continuò a
resistere come potè: se si era visto imporre l’abolizione della schiavitù, non per
questo il suo disprezzo razziale verso i negri era scemato.
La manifestazione più estrema di questa avversione fu il Ku Klux Klan che, fondato
il 24 dicembre 1865 a Pulaski (Tennessee) da ex-ufficiali sudisti, aveva un
programma chiarissimo: ‘Il nostro principale e fondamentale obiettivo è il
MANTENIMENTO DELLA SUPREMAZIA DELLA RAZZA BIANCA … La
storia e la fisiologia ci insegnano che noi apparteniamo ad una razza che la natura ha
dotato di un’evidente superiorità su tutte le altre razze e che il Creatore, elevandoci
così sopra il livello comune dell’uomo, ha inteso darci il dominio sulle razze inferiori
dal quale nessuna legge umana può … derogare.’
Il Klan non iniziò però subito le sue sanguinose gesta e il Sud all’inizio cercò di
operare invece per vie legali: le legislature statali cancellarono le ordinanze che
avevano portato alla proclamazione della secessione, rifiutarono di pagare i debiti
della Confederazione ed adottarono il XIII emendamento … ma vararono in cambio i
cosiddetti ‘Black Codes’, intesi a privare i freedmen dei più basilari diritti civili e
delle libertà più elementari.
Secondo i Black Codes infatti, anche se i freedmen potevano sposarsi (ma non con
bianchi/e), adire in tribunale, ricevere salari e acquisire proprietà, essi però non
potevano possedere armi, dovevano essere assunti per un anno alla volta senza potersi
licenziare e scioperare e, se scoperti disoccupati o in viaggio senza il permesso del
loro datore di lavoro, venivano imprigionati, multati ed assegnati forzosamente a
qualsiasi datore di lavoro (bianco) che ne facesse richiesta: non ci fu infine nessun
provvedimento per la loro educazione.
Il Congresso reagì però con altrettanta decisione: mentre i comandanti militari nel
Sud abrogarono i Black Codes, esso istituì una commissione bicamerale che
preparasse un programma di ricostruzione e, soprattutto, vietò ai rappresentanti ed ai
senatori eletti secondo le costituzioni volute da Johnson di entrare in carica finchè
tale programma non fosse stato adottato.
Johnson denunciò questi provvedimenti come incostituzionali, ma la vasta
maggioranza repubblicana lo ignorò e procedette senza indugi a promulgare il XIV
emendamento secondo il quale tutti i cittadini degli USA, freedmen compresi, erano
sottoposti alle stesse leggi (Johnson non potè opporsi al XIV emendamento ma lo
denunciò ugualmente); il Congresso varò poi una legge sui diritti civili secondo la
quale le persone nate negli USA ‘di ogni razza e colore, senza riferimento ad alcuna
precedente condizione di schiavitù o di servitù involontaria’ godevano degli stessi
diritti; aumentò infine i poteri del Freedmen’s Bureau.
Ancora una volta Johnson pose il veto a queste due ultime misure, ma il Congresso le
licenziò ugualmente avendo la maggioranza di almeno 2/3 in ambedue le Camere.
Il comportamento di Johnson risulta a dir poco incomprensibile se si tiene conto che
egli come governatore del Tennessee (1862-65) si era adoperato con determinazione
per liberare il suo stato dai simpatizzanti dei ribelli, ma egli probabilmente giudicava
che le misure del Congresso erano troppo radicali e non tenevano conto dei reali
sentimenti del Sud e della concreta situazione in quegli stati – ed in ciò aveva
36
probabilmente ragione! -, ma lo scontro permanente fu pagato a caro prezzo dal Sud
stesso che non trovò una direzione politica condivisa e concorde cui collegarsi e cui
far riferimento.
Dalla parte di Johnson stavano i Democratici (del Nord e del Sud) e fu per questo che
egli riuscì a non subire l’impeachment nella primavera del 1868, ma alle elezioni di
quell’autunno venne sconfitto dal repubblicano eroe di guerra Grant.
Ora che non aveva più l’impedimento di un presidente costantemente ostile, il
Congresso volle finalmente procedere sulla via della vera ricostruzione.
Per quanto importanti ed assolutamente dovute le trasformazioni di carattere politico
e le leggi ed i provvedimenti sui diritti civili e sull’uguaglianza delle razze fossero,
perché si verificasse una reale trasformazione del Sud era infatti necessario che ne
cambiasse la struttura economica e dunque sociale: le misure di tipo politicogiuridico a favore dei freedmen erano destinate a restare lettera morta senza una
concreta emancipazione economica che sola li avrebbe potuti rendere davvero liberi
ed indipendenti.
Perché il Sud potesse sbarazzarsi del peso soffocante della sua aristocrazia di
piantatori era quindi necessario che si industrializzasse, che la terra delle piantagioni
(oltretutto non più economiche senza il lavoro degli schiavi) venisse divisa e
trasformata in aziende agricole da assegnare indifferentemente a bianchi e neri, che le
città crescessero e che anche al Sud si affermasse il sistema bipartitico, l’unico in
grado di spezzare il predominio del Partito Democratico e di
permettere
competizione e rotazione delle cariche.
Anche in questo caso i freedmen continuarono a dimostrare una maturità ed una
determinazione inaspettate: essi volevano diventare proprietari della terra necessaria a
mantenere loro e le loro famiglie, chiedevano scuole, cominciarono a spostarsi
soprattutto alla ricerca di amici e parenti che la schiavitù aveva separato e, se
dipendenti nelle piantagioni, volevano essere assunti liberamente, pretendevano di
essere pagati in denaro ed orari di lavoro più umani (cioè 9-10 ore al giorno) ed infine
rifiutavano l’organizzazione in squadre che ricordava troppo la schiavitù.
Ma con l’adozione di queste nuove condizioni di lavoro inevitabilmente la
produttività e la produzione si contrassero proprio mentre a causa della concorrenza
dell’India e dell’Egitto il prezzo del cotone crollava sui mercati internazionali.
Se i negri fossero diventati proprietari ed avessero dunque lavorato per se stessi
sicuramente la produttività del Sud sarebbe risalita, ma sperare questo era pretendere
troppo in tempi e luoghi come quelli: durante la guerra, quando le piantagioni della
Carolina del Sud e del Mississippi erano state affidate a loro, i negri avevano già
mostrato cosa erano in grado di fare, ma con la pace ed il perdono non era più stato
possibile procedere a confische e ad assegnazioni di terre: in quei due stati Johnson
aveva poi già dovuto (e/o voluto) restituire le piantagioni ai loro antichi proprietari.
In un paese devastato, impoverito ed ancora pieno di pregiudizi verso i freedmen il
programma elaborato dal Congresso era destinato ad un inevitabile fallimento: i
governi del tempo di Johnson furono sciolti, il XV emendamento stabilì che ‘il
diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o ridotto … a
causa della razza, del colore o della precedente condizione servile’, ma il problema
37
vero era che i più analfabeti che ignoranti freedmen erano ancora una massa
nullatenente, povera o poverissima.
Avendo in qualche modo ottemperato nelle rispettive nuove costituzioni alle Leggi
sulla Ricostruzione, il Tennessee era stato riammesso nell’Unione nel 1866, il
Nebraska nuovo 37° stato il 1 marzo 1867, l’Alabama, l’Arkansas, la Florida, la
Louisiana, la Carolina del Nord e la Carolina del Sud nel 1868, la Georgia, il
Mississippi, il Texas e la Virginia nel 1870: i cinque distretti militari in cui il Sud era
stato diviso erano stati aboliti e l’esercito era tornato al Nord (dove comunque il
pregiudizio verso i negri continuava a persistere).
Nel 1872 il Freedmen’s Bureau venne chiuso e la corruzione dell’amministrazione
Grant (anche nella Ricostruzione) fu facile bersaglio dei Democratici ansiosi di
tornare al potere.
La conclusione fu quella che noi italiani chiameremmo ‘gattopardismo’, cioè un
adattamento dei vecchi padroni del Sud al nuovo corso dell’Unione in cambio del
mantenimento del possesso della terra (e quindi anche del potere) e, al di là dei
proclami e della facciata, la rassegnazione (ed un crescente disinteresse) del Nord a
lasciare che sotto la linea Mason-Dixon gli abitanti del Sud se la vedessero fra di
loro, nè fu di nessun aiuto che i Democratici del Nord abbandonassero (almeno
ufficialmente) il razzismo dell’immediato dopoguerra.
Senza schiavitù le piantagioni non poterono tuttavia essere mantenute e vennero
effettivamente frazionate in aziende date in affitto (a bianchi e a neri), ma si trattava
di affittuari senza mezzi che per iniziare le loro attività dovettero indebitarsi cogli expiantatori ora locatori: ne seguì una sorta di mezzadria nella quale il locatorecreditore dettava legge e ricominciò a pretendere che si producesse ancora cotone.
Di questa situazione profittarono quei mercanti che erano in grado di fornire i capitali
necessari e di smerciare il prodotto: la nuova classe dominante fu così costituita da
mercanti e da proprietari terrieri (magari le stesse persone) che tennero i coltivatori
(bianchi e neri) in pugno e monopolizzarono di nuovo l’economia.
Il progresso sociale era bloccato e le conseguenze furono l’aperta resistenza alla
politica del governo federale da parte della vecchia classe dominante di nuovo
saldamente al potere; l’entusiasmo religioso, i canti e la musica da parte dei negri; la
violenza (il linciaggio divenne una pratica comune) da parte dei bianchi che l’odio
razziale teneva ancora uniti impedendo a quelli poveri di far causa comune coi neri e
di unire quindi le forze con loro.
Le violenze del KKK (e di organizzazioni simili come i Cavalieri della Camelia
Bianca) divennero tristemente comuni: per anni gli incappucciati commisero
impuniti omicidi e violenze di ogni genere per intimidire, escludere ed emarginare i
neri (ed anche i bianchi che tentavano di difenderli), ma, paradossalmente, dopo
cinque lunghi anni di atrocità le loro gesta infami sortirono l’effetto opposto a quello
desiderato perché costrinsero il Nord ad occuparsi ancora –controvoglia – del Sud e
nel 1873 il KKK dovette essere (molto controvoglia) almeno ufficialmente ripudiato
(ma non cessò certamente le sue attività).
Finalmente nel 1876 con l’elezione (in mezzo ai brogli e con un solo voto di
maggioranza) di Hayes alla presidenza i giochi si chiusero: alcuni storici parlano
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addirittura di ‘compromesso del 1877’ con la rinuncia esplicita dei Repubblicani di
intervenire negli affari del Sud (ma di costruirvi una linea ferroviaria) in cambio di un
rispetto formale e di pura facciata per la legalità e per i diritti dei neri, ormai invece
discriminati, bloccati e relegati in fondo alla piramide sociale.
Brogan riassume efficacemente che ‘La Ricostruzione … non riuscì a salvare il Sud
da se stesso, e gli Afro-Americani dal Sud’ (pag. 372): oltre al pregiudizio razziale, la
causa fondamentale di tutto ciò fu che – come nel nostro Mezzogiorno dopo l’Unità –
la terra era rimasta a chi l’aveva prima.
Così negli anni seguenti i neri, conclude Brogan, avrebbero ‘perso sempre più terreno
nel Sud segregazionista e … nel Nord l’opinione pubblica avrebbe abbandonato la
loro causa in favore della riconciliazione coi bianchi del Sud’ (pag. 414).
L’acquisto dell’Alaska
Negli anni immediatamente seguenti la guerra civile, e nonostante gli enormi
problemi della ricostruzione, la costante spinta espansiva degli USA non solo non si
fermò, ma anzi proseguì con l’acquisto dell’Alaska.
Dopo che Bering (già al servizio dello zar Pietro I) l’aveva raggiunta dalla Siberia,
nel 1747 l’Alaska era stata annessa all’impero russo che tuttavia l’aveva colonizzata
solo in minima parte per la caccia alle lontre, alle foche e ad altri animali, e per la
commercializzazione delle loro pellicce.
La maggior parte dei pochi russi che si trasferivano in Alaska in genere preferiva
tornare in patria dopo essersi arricchita ed i rapporti cogli indigeni molto spesso erano
stati caratterizzati da soprusi e violenze nei loro confronti (e dalle inevitabili
ritorsioni): verso la fine degli anni Quaranta del XIX secolo i nativi erano stati però
definitivamente sconfitti ed i missionari ortodossi erano riusciti sia a convertirne una
buona parte sia a convincere il governo locale russo a limitare i saccheggi, le ruberie
e le repressioni armate.
Nel 1867 in Alaska vivevano circa 2.500 russi o meticci e circa 8mila aborigeni, tutti
insediati in 23 villaggi sparsi per le isole o sulle coste meridionali e tutti sotto
l’autorità diretta della Compagnia d’America: i circa 80mila eschimesi non erano stati
invece raggiunti dall’amministrazione coloniale.
L’Alaska era diventata comunque sempre meno interessante per la Russia:
innanzitutto essa era troppo distante (un messaggero impiegava allora più di un anno
per andare da San Pietroburgo a Nuova Arcangelo, la capitale, e fare ritorno); in
secondo luogo, con l’ormai avvenuta estinzione delle lontre (per le stragi compiute
dai cacciatori delle loro pellicce) essa aveva presto esaurito la sua risorsa principale;
in terzo luogo, i nativi non erano presenti in numero sufficiente per poter sostenere
veri rapporti commerciali; in quarto luogo, l’Alaska era certamente ricca di legname,
ma la Finlandia ne aveva di migliore ed in abbondanza; in quinto luogo, sbarcato in
America con forze molto esigue, l’impero russo temeva che prima o poi sarebbe stato
costretto a cedere senza compensi l’amplissimo e spopolato territorio all’insaziabile
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impero britannico che già possedeva il confinante Canada; in sesto luogo, non si
poteva ancora prevedere quando e dove gli USA, questa nuova potenza emergente, si
sarebbero fermati nella loro avanzata (nemmeno loro stessi lo sapevano ancora) e non
era consigliabile trovarsi invischiati in un possibile futuro conflitto con loro; in
settimo luogo, in seguito alla sconfitta nella guerra di Crimea (1853-56) ed alle
riforme intraprese dallo zar Alessandro II (1855-81), fra le quali spiccava la
liberazione dei servi della gleba, la Russia si trovava in serie difficoltà finanziarie.
Visto che oltretutto la Russia possedeva già sconfinati e spopolati territori, non può
stupire insomma che lo zar Alessandro II decise di vendere l’Alaska e probabilmente
la sua cessione agli USA si sarebbe potuta concretizzare addirittura già negli anni
Cinquanta se intanto non fosse scoppiata la guerra di secessione.
Gli Stati Uniti dell’epoca apparivano infatti come un paese decisamente meno
aggressivo dell’impero britannico, ed anzi durante la guerra di Crimea, quando la
Russia si era trovata isolata contro le Potenze Europee (e ciò l’aveva stupita ed
addolorata), solo gli USA si erano schierati invece dalla sua parte: l’amicizia e la
riconoscenza della Russia furono tali che pochi anni dopo navi russe vennero
discretamente inviate a New York ed a San Francisco per dissuadere Francia ed
Inghilterra dal cercare di approfittare delle difficoltà degli Stati Uniti travolti dalla
guerra civile (come poteva suggerire il tentativo di Napoleone III di mettere le mani
sul Messico tramite l’effimero imperatore Massimiliano d’Asburgo).
L’intermediario russo a Washington, l’enigmatico ‘barone’ Eduard de Stoeckl, ai
primi di marzo 1867 aprì così i negoziati con il segretario di stato statunitense
William H. Seward e il 30 marzo 1867 il prezzo d’acquisto venne stabilito in
7.200.000 dollari americani (circa 2 miliardi di dollari del 2013), 5 dollari al kmq..
Ambedue le nazioni erano convinte che l’’Alaska Purchase’ fosse un favore fatto da
ognuna all’altra (!), ma l’opinione pubblica americana non accolse favorevolmente
l’affare: l’Alaska, la ‘ghiacciaia di Seward’, ‘lo zoo degli orsi polari di Andrew
Johnson’, secondo la ‘New York Tribune’ era un ‘mondo selvaggio e gelato’ ed il suo
acquisto fu giudicato la ‘follia di Seward’.
Il contratto venne comunque sottoscritto dal Segretario di Stato William Seward,
convinto sostenitore dell’espansione territoriale degli Stati Uniti, e dal presidente del
Comitato Affari Esteri del Senato Charles Sumner: oltretutto, secondo loro l’impero
russo si era dimostrato un utile alleato durante la guerra di secessione (specie se
paragonato all’Inghilterra che, al contrario, si era quasi apertamente schierata con i
confederati) e dal punto di vista strategico pareva dunque saggio aiutarlo in una
faccenda tutto sommato marginale, mentre al contempo si evitava un possibile
rafforzamento della colonia britannica del Canada (tanto che l’influente ‘New York
Tribune’ scrisse che l’acquisto dell’Alaska era una ‘manovra nel fianco del Canada’).
Motivazione forse ancora più importante, l’acquisto dell’Alaska ribadiva ed attuava
la ‘dottrina Monroe’ (‘l’America agli americani’), un tema sempre molto sentito che
insisteva sul fatto che in America gli europei non dovevano avere né possedimenti né
voce in capitolo: non a caso la Francia di Napoleone III venne presto definitivamente
frustrata nel suo tentativo di approfittare della sconfitta del Messico e della guerra di
secessione per rovesciare il governo repubblicano del Messico ed imporre l’effimero
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imperatore-fantoccio Massimiliano d’Asburgo: appena terminata la guerra di
secessione il presidente Johnson impose il ritiro delle truppe francesi dal Messico
così che Massimiliano, lasciato a se stesso, fu fucilato dagli insorti messicani (con il
compiaciuto consenso di Johnson) di lì a poche settimane, il 19 giugno 1867.
L’acquisto dell’Alaska venne ratificato dal Senato degli Stati Uniti il 9 aprile 1867
(con 37 voti a favore e 2 contrari) ma il pagamento fu autorizzato un anno più tardi a
causa dell’opposizione della Camera dei rappresentanti che acconsentì all’acquisto
solo nel luglio 1868 (con 113 voti a favore e 48 contrari).
La cerimonia di passaggio dei poteri era comunque già avvenuta a Nuova Arcangelo
il 18 ottobre 1867.
Con l’eccezione di qualche commerciante di pellicce e di qualche uomo di Chiesa la
maggior parte dei russi fece ritorno in patria.
L’Alaska coi suoi 1.717.854 kmq era – ed è – il territorio più grande di tutta l’Unione
e non era – né è - contiguo agli altri stati: il suo clima e la sua geografia erano – e
sono - poi scoraggianti perché solo nella zona costiera meridionale e nelle isole
Aleutine (l’arcipelago ad arco ad ovest della punta sudoccidentale), molte delle quali
peraltro con vulcani attivi, era minimamente abitata mentre nell’interno, coi suoi
grandi (e misteriosi) fiumi come lo Yukon ed il Kuskokwim, e nella parte
settentrionale la temperatura era proibitiva ed arrivava ai - 60°.
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La strada perché l’Alaska divenisse uno stato sarebbe stata così ancora lunga ed il suo
territorio nel 1884 divenne un distretto dell’Oregon.
Nel 1898 lungo il Klondike, affluente dello Yukon, venne scoperto l’oro e, come
mezzo secolo prima in California, la febbre dell’oro tornò a salire vertiginosamente
provocando un’analoga corsa ed una vera e propria invasione di cercatori d’oro (tra i
quali anche lo scrittore Jack London): altro oro venne scoperto nel vicino territorio
canadese e l’Alaska fu allora utilizzata come base di partenza per i cercatori.
Ancora una volta tutto ciò favorì ulteriormente la fondazione e la crescita delle prime
città e l’apertura delle prime strade nell’entroterra sud-orientale verso lo Yukon: le
conseguenze della scoperta dell’oro in Alaska furono insomma simili a quelle in
California, cioè una vistosa accelerazione della colonizzazione, del popolamento e
dello sviluppo dei suoi territori.
Nel 1904 la travolgente corsa all’oro si era esaurita, ma ormai l’Alaska era stata
penetrata a fondo e, oltretutto, lungo i suoi grandi fiumi era in pieno corso la pesca
del salmone che divenne presto un’altra straordinaria fonte di arricchimento.
Proclamata territorio autonomo nel 1912, il 7 luglio 1958 il presidente Eisenhower
firmò l’’Alaska Statehood Act’ in base al quale il 3 gennaio 1959 l’Alaska divenne a
tutti gli effetti il 49º stato dell’Unione.
Nel 1968 in Alaska fu scoperto infine il più grande giacimento di petrolio e di gas
naturale di tutto il Nordamerica, sfruttato pienamente a partire dal 1977 (quando un
oleodotto lungo circa 1.300 km. lo collegò al porto di Valdez) che ancor oggi è fonte
di importanti risorse energetiche.
Anche senza tener conto dell’importanza strategica dell’Alaska (come si vide con
l’occupazione giapponese delle Aleutine nella seconda guerra mondiale ed ai tempi
della ‘guerra fredda’ con l’URSS), il suo acquisto fu davvero un buon affare.
La svolta storica degli USA
La guerra di secessione significò la totale vittoria non solo del Nord, ma, soprattutto,
del progetto di riplasmare profondamente - e per sempre - l’Unione: come dice
DiLorenzo ‘Il partito di Lincoln si prefisse di trasformare il governo americano fin
dalle fondamenta, da una confederazione decentralizzata di stati sovrani ad un
consolidato, monolitico impero’ (pag. 139).
DiLorenzo sostiene che - ai sensi della Costituzione - nel 1787 gli stati avevano
aderito in forma volontaria all’Unione e fino al 1865 avevano quindi mantenuto il
diritto di secedere da essa, così secondo lui Lincoln e gli unionisti, imponendo invece
con la guerra l’adesione alla nazione centralizzata, tradirono la Costituzione e lo
spirito stesso dei Padri Fondatori.
Brogan è però di parere diametralmente opposto ed afferma che fin dal momento
della ratifica e dell’accettazione della Costituzione (nel 1787) ‘gli stati e la loro
identità divennero secondari rispetto alla nazione ed alla sua identità. L’idea che uno
stato potesse secedere dall’Unione come se questa fosse un’opportuna alleanza era
assurda e non era contemplata nelle condizioni della Costituzione; davvero la grande
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quantità di diritti degli stati riconosciuti nella Costituzione avrebbe avuto poco senso
… se gli stati avessero mantenuto il rimedio sovrano e con la secessione avessero
potuto rompere la macchina. … la Costituzione era ed è un documento nazionale ed
un programma nazionale …’ (pag. 205).
Sia come sia, costituzionalmente o no, il disegno centralizzatore venne pienamente
realizzato e le immense risorse e capacità degli USA poterono così essere raccolte in
istituzioni ed organizzazioni (governo centrale, Congresso e Senato, Banca Centrale,
corporations, ferrovie, politica estera, difesa e legiferazione uniche, ecc.) e venire
indirizzate con chiarezza ed unità d’intenti verso gli scopi fissati per l’intera nazione.
Con Lincoln gli USA divennero uno stato unico ed unito (o un impero) nel quale, fra
l’altro, finalmente non c’era più posto per la schiavitù: non a caso ne ‘La storia’ della
Biblioteca di Repubblica egli viene paragonato a Bismarck ed a Cavour e da
DiLorenzo a Bismarck ed a Lenin, tutti costruttori di stati forti, militaristici ed
accentrati (e dotati di una pesante burocrazia) dove prima aveva regnato la
molteplicità e la divisione.
Data l’importanza storica di questa svolta è dunque giusto e comprensibile che il 16°
presidente sia oggi celebrato nel Lincoln Memorial, solitario ed imponente nel
National Mall di Washington D.C. in cui, circondata da un ampio colonnato classico,
sorge la gigantesca la sua statua.
Nel 1860 i 5/6 della popolazione degli Stati Uniti - in gran parte protestante e di
discendenza britannica - erano contadini, ma con l’unificazione definitiva
dell’immenso stato tutto ciò sarebbe rapidamente cambiato: gli USA entrarono infatti
in un periodo di grande prosperità economica, l’Età dell’Oro del Paese dei Miliardi di
Dollari, e vissero tutte le radicali trasformazioni che essa comportò.
I
Seguendo ancora una volta il copione tristemente noto e tanto spesso adottato, le
Grandi Praterie (e non solo quelle) erano state e furono sgombrate dagli indiani e
dalla loro fonte di vita e sostentamento, le numerosissime mandrie di bisonti (i veri
padroni di quegli sconfinati spazi): fu questa la spietata cancellazione di un mondo e
di una civiltà, come sempre portata avanti con brutalità e senza scrupolo alcuno.
Il modo di risolvere il problema degli indiani era già stato sperimentato molte volte:
essi vennero combattuti, sconfitti, sterminati, cacciati via dalle loro terre (per ultime
quelle della California e dell’Oregon), emarginati e rinchiusi nelle riserve ad essi
destinate: quando presi dalla disperazione tentavano di uscirne e di ribellarsi al
tragico destino loro assegnato venivano spietatamente massacrati ed i superstiti di
nuovo rinchiusi.
Con sistematiche operazioni genocide o da pulizia etnica l’esercito ‘ripuliva’
accuratamente i territori che erano destinati ai bianchi: le ultime resistenze epiche e
drammatiche dei Nez Percé, dei Sioux e degli Apaches non impedirono la loro triste
e dolorosissima fine e furono utili esercitazioni per i soldati che le infransero.
La resistenza degli indiani alla rassegnazione ed all’assimilazione alimentò i
pregiudizi razziali nei loro confronti; le loro violenze, razzie, attacchi ed uccisioni di
43
bianchi erano additati al pubblico orrore e li facevano giudicare degli irrimediabili
crudeli selvaggi; le poche voci che si levarono in loro difesa o che cercarono di
comprenderne il loro dramma furono messe facilmente a tacere.
La marcia trionfale dei bianchi non poteva né voleva tollerare inciampi o intoppi sul
suo cammino.
II
Dopo tale radicale distruzione genocida sorse potente la nuova civiltà dei bianchi e la
terra così ‘libera’ e ‘liberata’ divenne pascolo per le mandrie di bovini che i cow-boys
allevavano e spostavano lungo le lunghissime piste polverose oppure venne ceduta ai
nuovi coltivatori bianchi ed ai costruttori di ferrovie.
Inutile dire che ancora una volta gli speculatori si lanciarono a capofitto sulle nuove
fantastiche opportunità e che, dopo essersi appropriati di grandi estensioni di terra a
bassissimo prezzo, poterono poi rivenderle ai coltivatori realizzando facili e colossali
profitti (si disse che il West era una provincia di New York, già da allora la maggior
piazza bancaria e finanziaria del paese), nè avrebbero potuto arricchirsi così a
dismisura senza ricorrere ad una diffusa, montante e sfacciata corruzione.
La seconda rivoluzione industriale trionfò potentemente anche negli USA
(culturalmente affini alla Gran Bretagna) il cui Pil quadruplicò dal 1870 al 1890:
industrializzazione, petrolio, carbone, urbanesimo, ferrovie, navigazione a vapore,
telegrafo, elettricità, centralizzazione della politica creditizia, slancio dato al sistema
capitalistico dei grandi gruppi, ecc. unirono sempre più e sempre meglio l’immenso
paese mentre tutti gli indicatori economici schizzavano verso l’alto.
Il netto progresso economico fu accompagnato e favorito dalla politica repubblicana
di alti dazi doganali che rimasero tali anche dopo la riforma del 1883.
Iniziarono allora le ricchezze, anzi gli imperi, dei Rockefeller (petrolio), dei Carnegie
(acciaio) e dei Frick (coke) e ben presto i mercati anziché teatro di scontri furibondi e
distruttivi per tutti, in seguito ad opportuni accordi fra i grandi magnati vennero
razionalizzati ed organizzati in trusts od in altre forme di spartizione.
In tutto il mondo la costruzione di reti ferroviarie fu una delle caratteristiche della
seconda metà dell’Ottocento ed anche gli USA si lanciarono in tale gigantesca
impresa senza la quale non sarebbero mai diventati sul serio un unico paese: nel
1890, anche se erano state costruite da singole compagnie private senza un organico
piano generale, le linee correvano da un capo all’altro del paese per quasi 270mila
chilometri.
Le dimensioni delle imprese erano tali che ben presto - inevitabilmente - la proprietà
e la guida del processo stesso passò dall’industria alla grande finanza (dove si impose
Morgan).
Nel 1893 a Chicago ben 28 milioni di persone visitarono la grande Esposizione
Mondiale Colombiana che celebrava la grandezza dell’America.
44
III
La richiesta di numerosa manodopera non qualificata attirò anche un crescente
numero di cinesi (una cui avanguardia era giunta in California al tempo della corsa
all’oro) che, occupata in particolare nella costruzione delle reti ferroviarie, salì dai
3.500 entrati nel 1855 ai 19mila di vent’anni dopo.
I laboriosi ed estremamente frugali cinesi si accontentavano però di salari più bassi di
quelli pretesi dai bianchi ed inevitabilmente la preferenza nei loro confronti suscitò
malumori, poi proteste ed infine scontri anche seri finchè il governo degli Stati Uniti
dovette intervenire dapprima limitando e poi nel 1882 vietando l’ingresso di nuovi
lavoratori cinesi per un periodo di dieci anni.
Ma i cinesi erano solo una goccia nel mare dell’immigrazione.
IV
Sotto la spinta di uno sviluppo così impetuoso la popolazione salì vertiginosamente
riempiendo sempre più gli sconfinati territori messi a disposizione ed i 31 milioni di
statunitensi del 1860 divennero 50 nel 1880 e 63 nel 1890 con 9 milioni di cittadini
nati fuori dagli Stati Uniti ed ¼ dei 445.680 europei entrati quell’anno proveniente
dall’Europa orientale e meridionale (e questa percentuale sarebbe cresciuta sempre
più).
Complessivamente nel secolo trascorso da Waterloo alla prima guerra mondiale 35
milioni di europei entrarono negli Stati Uniti (e presto sarebbe venuto il momento di
Africa, Asia ed America Latina): si trattava di persone che avevano affrontato la
lunga e terribile traversata sulle navi a vela (con un tasso di mortalità che poteva
raggiungere quello sulle navi negriere!) e che solo con la navigazione a vapore
avevano trovato condizioni più decenti, mentre, giunti dall’altro oceano, giapponesi e
cinesi si stabilivano in California e nelle Hawaii.
Dati i vastissimi spazi ancora da riempire i nuovi arrivati erano accolti con favore ed
in genere si stabilivano nelle città (dove comunque le loro condizioni abitative erano
pessime) colmando i vuoti lasciati da coloro che partivano per il West.
Naturalmente c’erano anche momenti in cui trionfava il ‘nativismo’ ed i nuovi
arrivati dovettero affrontare a più riprese l’ostilità ed una legislazione avversa da
parte di chi temeva il papismo dei cattolici (soprattutto irlandesi), che gli immigrati si
accontentassero di peggiori condizioni di lavoro, che gli individui appartenenti a
razze inferiori (giapponesi) contaminassero quella superiore e che quelli che
arrivavano nel Sud non fossero abbastanza razzisti nei confronti dei negri: erano
questi insomma gli atteggiamenti tipici di chi teme lo snaturamento del proprio paese
e della propria civiltà (ed oggi in Italia non possiamo certo stupircene).
Soprattutto a noi italiani può sembrare strano che in questi anni di un così tumultuoso
sviluppo e di tanto numerosi arrivi da altri continenti la migrazione dal Sud degli
USA sia stata al contrario estremamente scarsa, ma nemmeno al Nord i negri erano
accettati, sia per motivi apertamente razziali che per le loro minori richieste ai datori
di lavoro che, ancora una volta, si temeva danneggiassero la contrattazione.
45
V
Una volta entrati nella nuova turbinosa età del grande sviluppo, sembrava che per gli
Stati Uniti la guerra civile non ci fosse mai stata (!): essa venne presto dimenticata ed
al Nord il problema razziale dei negri venne ugualmente rimosso e la loro
segregazione , più o meno tacitamente e/o rassegnatamente, accettata come un dato di
fatto.
Dopo tanti presidenti repubblicani i democratici tornarono a vincere (nel 1884 e nel
1892 con Cleveland) ma anche loro erano ormai del tutto convertiti alla politica
imposta all’Unione dal Nord: la vecchia concezione sudista dell’autonomia degli stati
era stata completamente superata, dimenticata ed abbandonata, né era più seriamente
proponibile.
Eloquente segnale di questo superamento e di questa nuova atmosfera si produsse nel
1885 quando alla morte dell’ex-generale-in-capo nordista ed ex-presidente Grant la
sua scomparsa fu compianta anche dagli ex-soldati confederati – anche se, a
differenza di coloro che avevano combattuto per l’Unione, lo stato non provvide mai
con pensioni né per loro né per le loro vedove ed orfani.
VI
Non tutto in questa età fu però oro: ci furono periodi anche lunghi di crisi e di
recessione, la corruzione era endemica e la società si venne caratterizzando per una
sproporzionata concentrazione della ricchezza in poche mani mentre amplissimi
settori della società (soprattutto i lavoratori nelle industrie e gli agricoltori) erano
condannati ad un’esistenza del tutto grama.
I due partiti storici apparivano completamente coinvolti in tutti questi processi e fu
così che nel 1892 a Omaha (Nebraska) venne fondato il Partito del Popolo con un
programma sicuramente riformatore, progressista e volto a limitare lo strapotere dei
magnati.
Il Partito del Popolo ottenne un successo storico perché, nonostante non vincesse
contro i due grandi partiti tradizionali, riuscì però a penetrare ed a plasmare
dall’interno il Partito Democratico trasformandolo profondamente: da partito del Sud
e dell’autonomia degli stati (schiavisti) esso divenne così il partito delle riforme in
favore dei poveri, delle classi meno abbienti e delle minoranze.
Alle elezioni del 1896 il Partito Democratico fu sconfitto dal repubblicano McKinley
(1897-1901) e perse anche la maggioranza in ambedue le Camere, ma ormai la sua
fisionomia era chiara, come anche quella del Partito Repubblicano, legato agli
interessi delle classi dominanti e loro difensore: anche questo fu un motivo di grande
modernità e di trasformazione.
Riassumendo, negli anni di fine-secolo si verificò il massiccio spostamento verso
ovest dei residenti; sotto l’urto dell’industrializzazione i territori e la società si
trasformarono profondamente, rapidamente e radicalmente; il flusso migratorio
continuò sostanzialmente ininterrotto; la corruzione era diffusissima … ma le
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istituzioni ressero tranquillamente a tanti sconquassi dimostrando la loro solidità e la
loro efficienza, né ci fu bisogno di nuovi emendamenti alla costituzione (!).
Brogan può così concludere efficacemente che ‘l’America aveva istituzionalizzato il
terremoto’ (pag. 406).
Alla fine del secolo gli Stati Uniti avevano veramente concluso una fase - trionfale della propria storia ed altrettanto trionfalmente un’altra si aprì subito dinanzi a loro.
Sottomarina settembre 1013
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Bibliografia
La biblioteca di Repubblica: ‘La Storia’ – 2004.
Various: ‘History Of The United States’ – State Printing office, Sacramento
California.
Edwin Williamson: ‘The Penguin History of Latin America’ – Penguin Books,
London 2009.
Hugh Brogan: ‘The Penguin History of the USA’ – Penguin Books, London 1999.
Thomas J. DiLorenzo: ‘Lincoln Unmasked’ – Three Rivers Press, New York 2006.
Edward P. Jones: ‘The Known World’ – Amistad, New York 2004.
Raimondo Luraghi: ‘La spade e le magnolie’- Donzelli, Pomezia (Roma) 2007.
James A. Michener: ‘Alaska’ – Fawcett Crest, New York 1989.
Paul Kennedy: ‘Ascesa e declino delle grandi potenze’ – Garzanti, Milano 1989.
Numerosi saggi, articoli e dati trovati in Internet.
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