Carla Maria Fabiani, Aporie del moderno. Riconoscimento e plebe nella Filosofia
del diritto di G.W.F. Hegel, Lecce, Pensa MultiMedia, 2011.
Recensione a cura di Daniele Iannotti
Non è scontato affrontare questo tema, perché esso mette in luce una difficoltà
intrinseca, costitutiva e genetica, dell’intero impianto filosofico hegeliano, cioè la resa
alla dolorosa contraddizione del mondo moderno: l’esistenza della plebe. Nella nota
filologica che apre il testo, Pöbel, come l’autrice ben fa presente, non è la semplice
povertà (Armut) pre-moderna, ma “povertà sentita come ingiusta” (pp. 15-16); “la
plebe” continua la Fabiani “possiede una sua specifica Gesinnung, che, in sede logica,
corrisponde all’atteggiamento dell’intelletto negativo astratto: il dire sempre di no al
potere dello Stato” (p. 16). Quindi, sembrerebbe aprirsi una breccia nel monolitico
sistema hegeliano, una falla fatta di “non-linguaggio” e perciò di ontologica forclusione
alla logica ed alla dynamis del riconoscimento; l’autrice usa correttamente il termine
forclusione per tracciare una esclusione “ex-ante” della plebe, che non può quindi
esporsi (ed imporsi) al movimento di mediazione dialettica tra il sé e l’altro da sé; essa è
l’anti-sintesi in agguato. La nota filologica, poi, si conclude con una rassegna dei vari
significati che Hegel attribuisce al termine plebe nelle sue diverse opere.
Nell’introduzione, l’autrice ci fornisce l’ambito teorico (e pratico) nel quale intende
apporre le proprie considerazioni: un contesto di matrice etico-politica e politicoeconomica, riconoscendo che il legame tra plebe e riconoscimento (Anerkennung) non è
stato oggetto di una specifica letteratura critica. Il nodo anche teoretico della vicenda
oggetto di trattazione è quello secondo il quale, all’interno di questa prospettiva, viene
riprodotta una forma di soggettività strabordante che eccede lo sviluppo del
riconoscimento, pienamente e compiutamente operante nello Stato hegeliano;
soggettività la quale si ossifica, è priva di spirito, come nota giustamente la Fabiani (cfr.
p.22). Questo Stato è dunque una totalità mancata, in questo senso; capire però se sia
un’incompiutezza intenzionale od un ostacolo ineludibile e tremendo, sarà la croce e la
delizia di ogni interprete di queste pagine.
Prima di proporre una disamina del corpus centrale del testo, mi preme precisare che
l’impianto generale proposto dall’autrice mi trova sostanzialmente concorde. Essa
mostra abilmente come, per poter discettare circa le questioni del contesto politico ed
economico tratteggiato da Hegel, sia necessario conoscere e mettere in risonanza sia la
sua concezione antropologica, così come essa si mostrava già prima della
Fenomenologia dello Spirito, sia la scansione logica con la quale Hegel imprime al suo
pensiero una robustezza categoriale (nel senso greco del termine), senza però
imprigionarlo in gabbie nomotetiche, ma rendendolo vivo e pulsante, a tal punto da
riscontrare posizioni aporetiche come l’esistenza stessa della plebe o quella della vita
(intesa come zoé, diremmo oggi), definita da Hegel “contraddizione insoluta” ne La
Scienza della logica.
Il primo capitolo del libro si apre con una panoramica molto accurata dello Hegel a Jena
(1803-06). Ne La Filosofia dello spirito è l’antropologia a risultare fondativa perché si
pone in rilievo lo scarto che esiste internamente alla natura, e che è apportato dalla
coscienza dell’uomo come aspetto del percorso operato dallo spirito, il quale, a sua
volta, trasfigura il ciclo della natura; trasfigurazione perché ne muta ed evolve le forme
rimanendo nella natura, ma superando lo stadio animale col volto dell’uomo. Il
passaggio è proprio dalla morte dell’animale che apre lo stato al divenire dello spirito,
per questo si tratta di una “trasfigurazione e non di trascendimento”; lo spirito, seppur in
maniera non del tutto consapevole, inizia a muovere i suoi primi passi emancipandosi
dal naturale, che è per definizione sottrazione alla mediazione apportata dal linguaggio,
e dalla propria ipseità. La Fabiani a tal proposito scrive: “la natura dell’uomo, in quanto
natura, è innanzi tutto voce (aria), poi strumento (terra) ed infine pensiero (etere)” (p.26)
per poi aggiungere “la coscienza […] in quanto ‘natura umana’, si conduce
spontaneamente verso il superamento di quella irriducibilità ad altro dell’individuo come
tale, cioè naturale” (p.27) ove palesa la propria libertà, accanto alla necessità della
naturalità; libertà che possiede la propria cifra specifica nella dimensione
interindividuale. Questa liberazione è “formale” in quanto il naturale non è eliminato,
piuttosto è superato, e assume la forma di una negazione determinata e non assoluta
(come se si trattasse di un altro ordine di realtà). “Coscienza dunque è concetto, unità
consapevole (individuale) di opposte determinazioni (universale e particolare)” (p.29).
Non siamo ancora all’interno di una soggettività pienamente sorta, piuttosto in una
dimensione che definiremo psichica, c’è bisogno di quello che Hegel intercetterà nella
Fenomenologia come il tema del “per noi”(für Uns). Sarà, infatti, nell’ethos della vita
sociale, nello spirito di un popolo (Volksgeist) e nella lotta per il riconoscimento (Kampf
um Anerkennung) che la coscienza potrà superare e togliere (aufheben) l’opposizione tra
natura e spirito, conservandone però la distinzione; solo così essa potrà definitivamente
affrancarsi da quella scissione. “Gli individui” sostiene l’autrice “sono lo spirito; esso è
la loro opera comune, che, al contempo, prende forma autonoma, proprio come ‘seconda
natura’ (p.37). Una coscienza che parla, che usa strumenti e che possiede (i frutti del
proprio lavoro e non solo) e che vive nella famiglia come cellula sociale primaria (cfr.
p.38); tali forme autonome (dalla natura) dello spirito sono propriamente umane e
costituiscono il “medio” fra sé e l’altro da sé. Qui si schiude l’avvincente avventura
umana propria del linguaggio, nelle sue articolazioni interne e nelle sue estrinsecazioni,
la sua forma volatile ed il suo perdurare; un’avventura che la Fabiani ripercorre
efficacemente e che qui non è il caso di riproporre nel dettaglio.
Risulta quindi del tutto evidente come l’uomo (ovvero spirito in continua chiarificazione
di sé) sia un fenomeno limite, caratterizzato ontologicamente da un circolo di “natura
(prima)-spirito-natura (seconda)”; il punto sta nel capire l’intreccio e l’evoluzione che
Hegel pone tra prima e seconda natura (cfr. pp. 50-51). L’attività spirituale si
concretizza come produzione di sé come di un altro, e dunque è negazione. Però lo
spirito né può identificarsi con questa negazione della natura prima che è infinita
(almeno in potenza) né solo col processo della negazione stessa. È unicamente rendendo
il prodotto della negazione “virtualmente autonomo” (p. 51) che lo spirito può dare
inizio al procedimento di identificazione di sé con sé, in quanto “espelle” l’oggetto della
negazione e codesto gli resiste ponendo fine al cattivo infinito, cioè a quella negazione
della natura prima di cui sopra.
Questo lungo antefatto antropologico, come amo definirlo, risulta di importanza capitale
perché fa comprendere come il procedimento di ricomposizione della separazione,
ovvero di negazione della negazione, non trova il proprio vulnus nella coscienza del
singolo, ma proprio in quella seconda natura dispiegata come mondo dell’economia
politica e delle sue stesse leggi, quello che Hegel individuerà nel 1821 come il ‘sistema
dei bisogni’. Questo esito giunge, in effetti, a determinare un duplice aspetto: da un lato
sono già gettati i prodromi della struttura relazionale della natura umana (come seconda
natura, ma già come coscienza pensate e agente) dall’altro, tuttavia, ne mostra la
fallacia. L’uomo sostituisce se stesso con la macchina, con lo strumento, il quale ha
certamente il pregio di affrancarlo dalla fatica del lavoro (che è pur sempre fatica dello
spirito), ma, al tempo stesso, determina la perdita di autonomia dell’uomo che si trova
ad esserne sostituito. Questa è, dunque, la schizofrenia dello spirito nell’era moderna, il
quale cerca di calare nella natura la manifestazione del suo progressivo riscatto dalla
natura stessa, fenomeno che Hegel rintraccia nell’introduzione della scienza economica;
la libertà individuale trova il suo riflesso nella libertà dispiegata di un popolo (cui
quell’individuale appartiene) ma paga il dazio di consegnare se stessa ad una eccessiva e
reificante organizzazione e divisione del lavoro, di chiara matrice smithiana. Hegel
adduce, a questo livello, alcune preziose considerazioni: 1) tale impostazione teorica e
produttiva ha certamente il vantaggio di implementare la quantità della merce prodotta,
ma con sé arreca la diminuzione del valore del lavoro come strumento di conquista e
riconoscimento del singolo nel prodotto della propria attività; la mano non è più
l’artefice dell’oggetto, ne diventa un testimone quasi muto; 2) se diminuisce il valore del
lavoro del singolo, lo stesso dovrà lavorare di più per acquisire i beni che gli
necessitano; 3) la produzione si specializza in beni di lusso sulla scia della crescita
economica, e questo effetto determina un miglioramento delle condizioni “generali” ed
un peggioramento di quelle del “singolo”; tradotto in termini filosofici, il discorso ha le
nefaste conseguenze di scindere il piano economico del possesso da quello etico e
politico della persona come polo di soggettività dispiegata e significante; verrebbe da
dire che si divide il mercato dalla comunità. La Fabiani descrive in modo magistrale
queste osservazioni hegeliane, centrando la ricostruzione di come il filosofo tedesco
abbia cercato di integrare le analisi smithiane del moderno con spunti che si mostrano di
una contemporaneità sconvolgente: insomma, Hegel aveva ben capito che se il mercato
era nato per diffondere civiltà e benessere economico e sociale, non doveva essere
lasciato solo a se stesso, così come lo stesso ciclo produttivo, che va certamente
razionalizzato, non deve essere spersonalizzato. Il denaro è sì uno scambiatore
universale e razionale nel suo uso, ma non dobbiamo giungere a ritrovare i volti degli
uomini impressi sulle monete, come unica traccia delle persone, come unica
documentazione della presenza dello spirito.
Nella Filosofia dello spirito del 1805-06 Hegel fornisce prova di una maggiore
consapevolezza, in quanto egli vuole portare alla luce la struttura sillogistica che lega
l’Io della coscienza alle cose del mondo nelle quali è immersa. Non si tratta più di un
‘giudizio’ nel quale si assisteva alla contrapposizione insanabile tra due termini,
soggetto e oggetto, ma appunto siamo nel sillogismo che “in quella separazione,
intravede il ‘terzo’, cioè proprio la relazione” (p.73). Perciò, gettando un ponte nel
mondo delle istituzioni politiche ed economiche, la libertà che in esse viene riconosciuta
ed esercitata non è un mero distacco dal naturale-necessario, ma è libertà incarnata nelle
istituzioni stesse, grazie alla loro trama relazionale, frutto appunto del ‘sillogismo della
ragione’. Le relazioni di natura etica, perciò, si oggettivano ed incardinano all’interno
dello Stato di diritto, in un progresso che, come nota la Fabiani, è tanto storico quanto
una bildung; dei tre livelli proposti dall’autrice, maggiormente sondati e più
considerevoli risultano gli ultimi due, ovvero: a) la lotta per il riconoscimento; b)
l’essere riconosciuto (Anerkanntsein). Molto appropriata, in tal proposito, è la nota (la
99 a p.77) con la quale l’autrice pone l’accento sulla divergenza parziale tra la propria
posizione e quella di un importante autore e critico di Hegel, A. Honneth; in particolare,
se quest’ultimo propone una teoria normativa del conflitto sociale, rileggendo la lotta
per il riconoscimento hegeliana, la Fabiani pone giustamente in rilievo la differenza tra
di essa e l’essere riconosciuto da parte di uno Stato moderno e della sua società civile.
Nella lotta per il riconoscimento è in atto una lotta tra famiglie per il possesso della
terra, in un contesto premoderno, e solo alla sua conclusione interviene l’apparato
normativo statale. Questa logica, in cui lo Stato interverrebbe post factum, è impedita e
prevenuta nella moderna struttura della società civile. In sintesi, scrive ancora la Fabiani
sulla lotta per il riconoscimento: “è difficile da essa dedurre una teoria normativa del
conflitto sociale, perché: 1) l’esito è distruttivo; 2) fa riferimento a un contesto
socioeconomico premoderno”. Apprendiamo, dunque, come l’essere riconosciuto sia
una forma di testimonianza includente l’altro, con un procedere stabilizzato e reso
iterabile grazie alla sua intima condizione giuridico-positiva; certamente interviene una
modificazione interna alla coscienza stessa, la quale non è più solo auto-affermativa e
nella quale si mostra fenomelogicamente un tessuto sillogistico. Porre se stesso, da parte
dell’Io coscienziale, non potrà più prescindere dalla presa di consapevolezza circa
l’esistenza di un altro Io, un altro da sé, uguale e contrapposto, che limita ed al tempo
stesso attesta con la propria architettura interna ed esterna, la sussistenza del primo. La
Fabiani mostra icasticamente questo incontro di due dynamis teoretiche e pratiche con la
rappresentazione di una serie di uguaglianze, articolate in un sillogismo, che in sintesi
possiamo qui annotare come: Io=Io; Io≠Io; Altro=Altro; Altro≠Altro; tali termini delle
uguaglianze si incrociano a formare una struttura sillogistico-chiasmica (cfr. p.79),
frantumando la loro indipendenza. “L’alterazione della tautologia Io=Io produce allora il
Selbst, l’autentica soggettività” ed ancora “Io=Altro” (p.80).
A questo punto l’autrice introduce una piccola digressione che allontana il lettore dal
tema del riconoscimento; tuttavia, tale parentesi risulta necessaria per comprendere
meglio il concetto hegeliano della miseria nella società moderna, e per leggere dunque
più propriamente cosa egli intenda col termine ‘plebe’. Il problema fondamentale della
moderna economia politica (che, come abbiamo già notato, non è disconosciuta
totalmente da Hegel) è l’introduzione di elementi di potente reificazione in contesti già
pienamente intersoggettivi, come quelli appunto della rete di relazioni che si danno nella
società civile. L’elemento reificante tipico è quello del denaro (cfr. p.85). Come accade
per il linguaggio, luogo privilegiato dello spirito, ciò che il singolo fa per sé cambia
forma e qui, però, diviene semplicemente una cosa. Il singolo scambia certamente per se
stesso e nel farlo incontra i bisogni anche degli altri; tuttavia, l’interconnessione con gli
stessi non appare come un valore ma come, appunto, una cosa; ciò non garantisce,
dunque, che il valore del singolo sia riprodotto e per questo crolla la struttura
sillogistico-chiasmica di cui sopra e viene meno il pieno essere riconosciuti. Su di un
piano più prettamente economico, Hegel rilegge la teoria della mano-invisibile come
geneticamente orientata al pericolo di una eccessiva deregolamentazione ed assenza
dello Stato, non come autorità astratta e normativa, ma come fattore di ‘rimedio’ alla
naturale tendenza del mercato a favorire il self interest. Dunque, se già qui opera una
forma ‘attenuata’ di riconoscimento, un che di parziale, accade per giunta che “alcuni
gruppi ne sono esclusi ex-ante poiché sono esclusi dal mercato e dalla produzione della
ricchezza sociale” (p.87). C’è uno sfondamento per il quale il riconoscimento non è più
nel circuito produttivo, ma in quello della circolazione della merce. Questo è il locus
specifico dell’intervento statale, che però deve essere invisibile; la genesi dell’aporia
della plebe sta proprio in questa sua assenza, tanto che giustamente l’autrice parla di
forclusione e non di esclusione. La plebe è in questo contesto incapace di proporre e
difendere discorsivamente le proprie rivendicazioni ed istanze. Segue poi un breve e ben
fatto cenno al costituirsi dello Stato hegeliano, nelle sue partizioni interne.
Possiamo già intuire, allora, perché l’aporia plebe si inserisca a quest’altezza del
discorso. L’autrice dedica l’intero secondo capitolo intitolato: “Il problema della plebe
nella Filosofia del diritto”. Come già accennato, qui la forma del riconoscimento tra l’Io
a l’Altro decade in una forma impropria che si configura come un infinito astratto o
cattiva infinità (schlecht Unendliche) la stessa che si abbatte nel sistema dei bisogni, nel
quale il moltiplicarsi degli stessi e dei mezzi per soddisfarli li rende di volta in volta
sempre più astratti. Siamo alla logica dell’intelletto (Verstand), in cui non si sazia mai la
‘fame’ di universali, infinitamente posti e mai raggiunti. E, quindi, l’intersoggettività
che si pensava fosse la cifra di questo sistema si mostra fragile, tanto che il filosofo
tedesco parla di sistema dell’atomistica (Enciclopedia, §523); si afferma un universale
estrinseco e inconciliabile col particolare e si determina quello che Hegel, in un
famosissimo ed eloquente passaggio, definisce così: “La società civile in queste
opposizioni e nella loro complicazione offre spettacolo in pari modo della dissolutezza,
della miseria [des Elends] e della corruzione fisica ed etica comune ad entrambe”
(Lineamenti, §185). È poi corretto, nell’alveo di questa debole trama di un
riconoscimento mutuo ed eguale, affermare che la genesi stessa della povertà (che poi
diviene plebe) si determina perché le relazioni sociali sono scisse tra un piano etico, in
cui il soggetto è cittadino pienamente riconosciuto e tutelato, e un soggetto membro
della ‘comunità mercantile’ improntata al soddisfacimento dei bisogni e all’allocazione
delle merci. È chiaro come la coscienza, che è già passata attraverso il risveglio di sé,
come spirito nell’antropologia, venga qui umiliata in quanto devoluta alla mera
immagine di maschera economica; personae le cui funzioni si riducono a cose e non a
uomini. Questa rappresentazione (Vorstellung), dunque, non ha la capacità
epistemologica di riuscire a pacificare in sé le “convulsioni (Zuckungen) a cui è
sottoposto il mercato interno” (p.124) perché è proprio essa che genera una necessaria
divisione e specializzazione del lavoro, con conseguente disuguaglianza nella
distribuzione delle risorse. Questo processo conduce necessariamente, come già
ricordato da Hegel a Jena, alla sostituzione della macchina all’uomo; si origina una
“disoccupazione tecnologica” come argomenta Fabiani. La capacità di produrre di più e
in minor tempo determina chiaramente una sovrapproduzione che non riesce ad essere
assorbita a causa di maggiore produzione di beni di lusso (dei quali c’è maggiore
domanda) rispetto al potere di acquisto dei salari che diminuisce (cfr. p.122). Questa
disoccupazione fa parte dell’ontologia stessa del modello economico, non è sanabile,
perché si manifesta come un vero e proprio difetto conoscitivo-formativo dei non
lavoratori, che non si può correggere grazie alle regole interne al mercato concepite da
Smith.
La plebe, quindi, resiste come monito del fallimento della perfetta integrazione tra
politico ed economico; eccede le dinamiche della società civile, che la vede nascere
come ammasso informe e non come un intero consapevole, riversandola inesorabilmente
all’interno del vero e proprio mondo delle istituzioni statali. Le soluzioni che Hegel
individua sono dei palliativi: la carità non è mediata dal lavoro come si legge nelle
Vorlesung e dunque rompe il vincolo etico della società civile; la creazione di maggiore
lavoro riproduce ciclicamente le crisi di sovrapproduzione e sproporzione di cui sopra;
la colonizzazione di nuove terre, infine, sposta come si può intuire ad infinitum il
problema del non riconoscimento. In realtà, sembra di capire dal testo della Fabiani, la
soluzione dovrebbe provenire dal basso, dalla plebe stessa, che deve emanciparsi,
piuttosto che dall’alto del potere politico ed im-positivo dello Stato; essa non si erge a
classe sociale, partito politico o gruppo organizzato, e rappresenta ‘solo’ una ribellione;
l’avverbio solo esprime tutta la irriducibile drammaticità di questa Gesinnung. Molto
stimolante, risulta anche il parallelismo introdotto dalla Fabiani col dettato
fenomenologico, in particolare con il sesto capitolo dell’opera: dal mondo reificato del
denaro (avversato con veemenza) sorge il linguaggio della disgregatezza, quel
linguaggio di chi adula la ricchezza pur sapendola ignobile; eppure la plebe, anche se
costituita da uomini della disgregatezza, non ha linguaggio, è solo antideologica ma in
senso pratico (p.139). Illuminante è pure l’interpretazione che la Fabiani dà del tema del
lavoro in Hegel, sulla scorta della potente suggestione fornita dall’antropologia della
figura del Signore-Servo; per l’autrice il lavoro non ha un carattere definitivamente
liberatorio che vada oltre il carattere personale e pre-moderno di quel riconoscimento
specifico. In realtà, il soggetto si vedrà impegnato da ulteriori e forse peggiori stadi di
alienazione dai quali si libererà con uno sforzo spirituale ben più compiuto, nel campo
della cultura artistica, religiosa e filosofica (composizione presente nel sistema
hegeliano). Questa interpretazione mi trova concorde, la liberazione infatti deve essere
interna, ma anche esterna; possiamo poi convenire sul fatto che quella apportata dal
lavoro può essere sottratta al singolo, emarginandolo dal mondo produttivo, mentre
quella culturale è e resterà patrimonio inviolabile del soggetto, per altro autodispiegantesi proprio in quanto condiviso.
Questo testo, denso, articolato e non approcciabile con superficialità desta nel
sottoscritto molteplici considerazioni:
a) Se, al posto della plebe interna allo Stato, spostassimo lo sguardo a quelle masse mute
o comunque inascoltate (che è diverso) le quali premono sui confini degli Stati
occidentali? Esse sono afone, destabilizzanti e non sono organizzate, eppure sono la falla
dei nostri sistemi basati sullo Stato di diritto. Cosa dire, invece, di quella povertà di
ritorno che investe i nostri stessi paesi? Siamo sicuri che la plebe sia scomparsa? Oppure
dobbiamo rilevare il fenomeno del suo ritorno, magari non come masse di individui
sudici accalcati nelle periferie del mondo industriale, ma come, ad esempio, persone che
vedono il diritto all’istruzione, e quindi a quel più pieno e definitivo venir riconosciuti,
come sempre più lontano e ad appannaggio solo di pochi? Una nuova fenomenologia del
lusso, a questo ci dobbiamo arrendere? Hegel è stato lungimirante e ben ha fatto la
Fabiani ad individuare un tema apparentemente satellite eppure così decisivo oggi;
b) mi perplime, tuttavia, l’esito totalmente distruttivo della lotta per il riconoscimento;
non possiamo ovviamente invocarla come il ferro e il sangue dei dimenticati, però mi
sembra che, al netto degli eccessi, dell’incapacità epistemologica e lessicale, e della
veemenza del numero, ci siano stati nella storia esiti buoni di tale lotta. Si pensi ai
risultati più importanti delle fasi costituenti della Rivoluzione francese, per restare a fatti
che Hegel di certo conosceva senza proiettarlo in maniera inopportuna troppo nel futuro.
Le sollecitazioni delle fasce popolari francesi, infatti, pur se mal rappresentane, hanno
comunque fatto irruzione in quei consessi, determinando degli esiti (sui quali si può
discutere) che sono diversi da quelli che si sarebbero originati soltanto dall’incontro tra
illuministi di qualunque ceto e “borghesi”. Hegel sembra ignorare tale aspetto, anche se
gli esiti migliori di quel momento storico li abbiamo visti più tardi della sua scomparsa,
considerando che egli poté raccogliere solo il frutto avvelenato (dal suo punto di vista)
dell’avventura napoleonica;
c) l’autrice rende molto eloquentemente la doppia dinamica tra coscienza interna e farsi
e dirsi del cittadino, prescindendo la quale è impossibile accedere al pensiero etico e
teoretico di Hegel senza tacciarlo di accuse di “statolatria”. Essa sceglie molto bene le
opere del filosofo, le interseca in maniera molto ortodossa, fornendo per altro,
nell’appendice del testo, un’accurata e ragionata rassegna dei temi e degli autori nella
più recente letteratura critica. In particolare, mi pare appropriata l’integrazione degli
scritti a carattere antropologico con i Lineamenti, ma anche l’incursione del linguaggio
del concetto (diverso da quello dell’intelletto-astratto) e della progressione logica che si
può rintracciare in Hegel, così come è presente sia nell’Enciclopedia ma ancor prima ne
La Scienza della logica;
d) la Fabiani sceglie con pertinenza il termine aporia perché la plebe è molto più che
una contraddizione logica; è la figlia rinnegata della (e dalla) modernità eppure è lì in
tutta la sua sconvolgente “in-com-possibilità” ad essere fatta oggetto di sintesi. Sulla
natura di questa aporia è giusto continuare ad interrogarsi, oltre che sulla straordinaria
sua presenza nella sistematica hegeliana, la quale è così posta sotto scacco, ma forse non
a caso. Carla Maria Fabiani è anche una insegnate di liceo, sono perciò sicuro che
trasmetterà un’immagine meno monolitica del pensiero hegeliano, così come i fatti da
lei esposti sembrano suggerire in maniera coerentemente argomentata. Un filosofo
sempre attuale, troppo spesso etichettato anche dagli addetti ai lavori.
Daniele Iannotti