Biodiversità e filiere produttive zootecniche - Ceris-CNR

DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
VII CONVEGNO NAZIONALE BIODIVERSITÀ
‘Biodiversità e filiere produttive zootecniche’
Catania, 31 marzo 2005
Donato Matassino
(1) (2)
, Caterina Incoronato(1) (2) e Mariaconsiglia Occidente (1) (2)
Sommario
1. Introduzione. 2. ‘Poiesi biotecnologica’ e ‘biodiversità’. 3. ‘Bioregione’ o ‘Bioterritorio’. 4.
Prodotto Tradizionale Tipizzato Etichettato (PTTE). 5. Genomica . 5.1. Genoma umano.
5.1.1. Organizzazione del genoma umano. 5.1.1.1. DNA ‘esonico’ e ‘intronico’. 5.1.1.2. Alcuni
componenti il DNA ripetitivo. 5.1.1.3. DNA di ‘natura incerta’. 5.2. Epigenetica. 5.3.
Integrazione fra ‘genomica funzionale’ e ‘proteomica’. 6. Conclusioni. 7. Opere citate.
(1) Cattedra di Zootecnica generale e Miglioramento genetico - Dipartimento di Scienze biologiche e ambientali- Università degli Studi
del
Sannio – via Porta Arsa, 11 – 82100 Benevento – Italia - Tel.: +39 0824 305147; email: [email protected]
(2) ConSDABI - National Focal Point italiano della FAO (NFP.I - FAO) per la tutela del germoplasma animale in via di estinzione
nell’ambito della Strategia Globale FAO per la gestione della risorsa genetica animale (GS-AnGR, Global Strategy for the
Management of Farm Animal Genetic Resources) – Centro di Genomica e di Proteomica per la Qualità e per l’Eccellenza
Alimentare - Contrada Piano Cappelle - 82100 Benevento – Italia - Tel.: +39 0824 334300; Tf.: +39 0824 334046; email:
[email protected]; Internet: www.consdabi.org
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1. Introduzione
Ritengo che prima di riferire sull’argomento specifico siano utili alcune riflessioni
generali.
Un pensiero, che mi permea ogni volta che devo esprimermi su argomenti di notevole
valenza scientifica, coincide con quello pronunciato in primis, se non erro, da S. Bonaventura
(1217÷1274) e fatto, poi, proprio da Cusano (1440): trattare un argomento sulla base della propria
‘docta ignorantia’; essa non conduce all’incredulità e all’indifferenza ma a una continua
sollecitazione dell’encefalo affinché questa ‘dotta ignoranza’ possa costituire il principio di ogni
mera conoscenza umana; o meglio, come ebbi a dire un ventennio or sono (D. Matassino, 1984),
quale autodefinizione dei limiti della mia conoscenza scientifica e non come antiscienza. Questa
conoscenza, dal Cusano, viene designata con il termine ‘congettura’ e viene identificata come
un’asserzione positiva che partecipa, attraverso l’alterità, alla vita come tale. Questa alterità non
esclude la possibilità di ricercare la verità. E’ noto in matematica che ‘congettura’ è ‘una
proposizione dimostrata vera in taluni casi, della quale non si sia riusciti a dimostrare la falsità
in nessun caso e che perciò si presume vera in ogni caso’. Ritenendo acquisita questa
interpretazione di tipo matematico, si deduce facilmente che la ‘produzione animale’, e tutto ciò
che a essa è connesso, è una componente significativa del sistema ‘agro-alimentare-ambientale’.
Se non erro, il sofismo platonico può essere espresso nel senso che il ‘divenire’ è generato
dall’antitesi del ‘non essere’ all’ ‘essere’ e il ‘non essere’ si risolve nell’ ‘essere altro’. Secondo
Platone (circa 400 anni a.C.) la scienza autentica, in contrapposizione all’ ‘opinione’
dell’esperienza sensibile, è la conoscenza delle idee e dei rapporti reciproci che le collegano in un
sistema ordinato.
Oggi, ritengo che si è di fronte a una continua ‘cascata di certezze documentate’ e a un
‘fiume carsico di evidenze scientifiche’. Condividendo il pensiero del filosofo Schopenhauer
(1788÷1860), ognuno di noi confonde i limiti del suo campo visivo per i confini del mondo;
atteggiamento cui tutti siamo tentati di indulgere e, quindi, di tenere noi stessi misura di ogni
cosa, cioè erigere il ‘solipsismo smisurato’ (‘super ego’ degli psicologi) a comportamento di vita.
Non molto dissimile è quanto esprime T.S. Eliot, poeta e critico anglo-americano del secolo
scorso, quando scrive che “l’umiltà è la virtú piú difficile da conquistare perché niente è piú
arduo a morire della volontà di pensare bene di se stessi, sempre e comunque”.
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La non consapevolezza dei limiti cognitivi e degli effetti nefasti derivanti sul progresso
della conoscenza è una ‘proprietà culturale’ o una ‘dote falsa’ dell’essere umano. Questo concetto
è stato ampiamente espresso da Socrate (circa 2.400 anni fa). Dice C. Bernard (XIX secolo) “Ciò
che sappiamo è il principale ostacolo a ciò che non sappiamo ancora”. Anche se la “La cultura è
il frutto della libertà che distingue l’uomo da ogni altro essere vivente” (F. Facchini, 2002),
spesso questa incommensurabile facoltà non viene utilizzata in modo consono nell’approfondire le
cause degli infiniti eventi biologici e culturali che caratterizzano il ‘continuum’ temporale e
spaziale della vita di un essere vivente. La progettualità dell’uomo viene spesso orientata verso
comportamenti di tipo scientista (assoluto) anziché di tipo virtuoso e di saggezza; questi ultimi
sono gli unici in grado di favorire l’estrinsecazione dell’apporto umano nel promuovere una
innovazione e un progresso collimante con uno ‘sviluppo solidale e sostenibile’.
Senza entrare nella mai non sopita diatriba (dossograficamente a partire da Aristotele)
della ‘presunta neutralità morale della scienza pura’, si sottolinea che questa neutralità costituisce
il vero problema della discordia culturale. Non si può disconoscere che l’‘imperativo etico’ della
scienza è la ricerca della ‘verità’ in modo disinteressato; questa ricerca non sempre è in armonia,
cioè in sintonia, con i continui cambiamenti degli interessi socio-economico-politici della mosaica
organizzazione umana presente sul pianeta Terra.
Secondo J. Monod (1971), l’uomo deve cercare continuamente la verità per se stessa, a
prescindere dalle conseguenze della dinamica della conoscenza; questa tesi si concretizza
nell’‘etica della conoscenza’, espressione coniata dallo stesso Monod. Indubbiamente, qualsiasi
‘verità’ scientifica determina poi, nella sua applicazione (trasferimento operativo), effetti utili per
alcuni gruppi sociali e non per altri, quindi, extrema ratio, la verità scientifica non sarebbe mai
neutrale. La stessa assiologia o scienza dei valori della conoscenza scientifica, sfociando in una
scala di valori gerarchici, è oggetto di ampio dibattito in una società antropica fortemente
diversificata nell’attribuzione dei valori etici.
All’attualità, l’etica della conoscenza non è ancora un patrimonio comune dell’umanità, per
cui, come sottolinea R. Ciampa (2004), prevale l’ etica della coesione che per centinaia di migliaia
di anni ha considerato il singolo umano identificabile con il suo ‘gruppo’ o con la sua ‘tribú’.
Questo comportamento potrebbe aver determinato una deriva genetica nel selezionare
‘naturalmente’ varie categorie innate dell’encefalo umano? La risposta non è semplice e si presta
a notevoli e forti diversificazioni legate ai valori che vengono attribuiti assiologicamente ai
concetti, a esempio, di: disinteresse, universalismo, sincerità, generosità, comunalismo, localismo.
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D’accordo con R.K. Merton (1981), si può dire che la scienza di per sé è un continuum di
accumulo di conoscenza, una palestra di altissimo livello di dibattito culturale, un unicum di
formazione democratica dell’uomo.
Parafrasando C. Marchese (circa 60 anni or sono), che si riferiva all’università, l’etica
della conoscenza deve essere “sicuramente la piú alta palestra intellettuale della gioventù (‘in
primis’) dove sorgono lenti e impetuosi i problemi dello spirito, dove gli animi sono piú intenti a
conoscere e a riconoscere quelle che resteranno, forse, le verità fondamentali della esistenza
individuale”.
Per evitare guasti irreversibili l’operatività deve essere realizzata non dimenticando
considerazioni di carattere ‘etico’ (bioetica; V.R. Potter, 1971), valutando saggiamente e
consapevolmente la moralità, la legittimità e l’opportunità di qualsiasi intervento tecnico. Il
concetto di ‘alterità’ deve sempre essere presente nell’imprenditore, nel senso di “responsabilità
morale verso soggettività a venire” (H. Jonas, 1979).
La bioetica permetterebbe di superare o meglio di ridurre lo iato fra antropocentrismo e
biocentrismo, in quanto induce la scienza a una forte riflessione ontologica ed epistemica
dell’uomo. Secondo me, l’Accademia è tenuta a orientare l’Homo sapiens sempre piú verso una
massima conoscenza del ‘locale’ in una visione concettuale di ‘universatilità; concetto, questo,
ampiamente noto al ‘tantrismo buddismo induismo’ (600 ÷ 650 a.C.) che si concretizza
nell’impostazione sistemica rappresentabile da un ‘mandala’.
‘Universatilità’, ‘omnicomprensività’ e ‘totalità’ sono nomi diversi che indicano un’unica
realtà: il TAO (TAO originariamente significa la ‘via’), identificabile con il procedere
dell’Universo e con l’ordine della natura (Chuang-tzu, XXII, 160; 300÷200 a.C.). Secondo i
Taoisti la felicità umana si raggiunge quando gli uomini seguono l’ordine naturale, senza
modificare l’armonia dell’Universo. Ciò non significa ‘inazione’, ma il riconoscimento che
‘l’uomo non è misura di tutte le cose’ . La vita è vissuta bene quando l’uomo è in perfetta armonia
con l’Universo e la sua azione si identifica con quella dell’Universo che fluisce attraverso l’uomo
stesso.
L’uomo, cosí operando, attua una scelta comportamentale basata sull’integrazione e
sull’empatia con gli altri protagonisti del ‘bios’ presenti sul pianeta Terra e utili per soddisfare le
sue esigenze di vita terrestre, comprese quelle metabolomiche; empatia largamente identificabile
con il pleròma (S. Paolo).
Questo percorso comportamentale deve indurre a superare il trend oggi imperante: il
‘solipsismo umano’. Grazie al progresso scientifico, frutto del sacrificio del ricercatore, il concetto
di “fine delle certezze” (I. Prigogine, 1997) si sta evolvendo in quello di responsabilità (J.
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Postmore, 1974; B.J. Przewony, 1999), complessità (I. Prigogine, 1991; E. Morin, 1993) e
ragionevolezza. Da una mera ‘certezza scientifica’ si passa a una ‘rilevanza etica’ della scoperta e
a un superamento dell’ ‘integrità totale del ‘bios –natura’ della ‘purezza primigenia’ e dell’
‘armonia originale’.
Partendo da queste premesse, diventa spontaneo ritenere che qualsiasi essere vivente, nella
fattispecie di interesse zootecnico, è sempre un passo piú avanti di quelle che sono le conoscenze
dell’uomo su di esso; infatti, la sua complessità è chiaramente deducibile dal considerarlo ‘un
sistema biologico, aperto, dinamico, vincolato, neghentropico’, cioè un vero e proprio ‘sistema
cibernetico’, quale risultato delle complesse modalità di trattamento di tutte le informazioni
‘interne’ ed ‘esterne’; trattasi quindi, di un vero e proprio individuo ‘epigenetico’, caratterizzato
da una grande variabilità di ‘capacità al costruttivismo’ (Matassino, 2004b).
Nell’organizzazione della comunità di uomini ai diversi livelli organizzativi, dal villaggio o
dal quartiere per giungere, attraverso le varie tappe di aggregazione, a quello globale cioè al
pianeta Terra, è in atto un profondo cambiamento etico, sociale e biologico. Alcuni fattori
influenzanti questo cambiamento sono:
(a) aumento demografico
(b) incremento dell’attesa media di vita dell’uomo
(c) aumento della produzione di alimenti di origine animale per l’uomo
(d) sviluppo socio-economico dei paesi a sviluppo limitato.
2. ‘Poiesi biotecnologica’ e ‘biodiversità’
Una ‘filiera produttiva’
deve inserirsi operativamente in un contesto concettuale:
l’impostazione sistemica, unica in grado di risolvere la poliedrica e complessa problematica a essa
collegata (L. Von Bertalanffy, 1940; 1971; D. Matassino, 1984; T.M. Bettini, 1988).
Sia la ‘riproducibilità’ sia la ‘produttività’ costituiscono il momento “olistico” di un
complesso di fenomeni biologici e non, da conoscere nella loro origine e nel loro piano di
organizzazione. La manifestazione quanti-qualitativa di una espressione fenotipica, in chiave
sistemica, è funzione di diversi piani organizzativi sintetizzabili come segue: submolecolare,
molecolare, cellulare, tissutale, organico, organismico, biocenotico ed ecosistemico. Ogni piano
è caratterizzato da norme proprie e da norme di vita di relazione con altri piani.
Qualunque filiera produttiva basata sull’utilizzazione dell’animale in produzione
zootecnica ha le sue fondamenta sulla relazione tra ‘biologia’ e ‘poiesi tecnologica’. Questo nesso
ha origini che si perdono nella notte dei tempi.
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Il processo di domesticazione di animali e/o di piante è da considerare lo strumento
principe basilare per la ‘poiesi biotecnologica’. Questa, dovendo soddisfare esigenze ‘nutrizionali’
ed ‘extranutrizionali’ dell’uomo, variabili nel tempo e nello spazio, affonda le sue radici
nell’incommensurabile terreno identificabile con la ‘biodiversità’.
La ‘biodiversità’ è stata definita dalla Commissione Europea Agricoltura (DG AGRI, 1999)
come “…..la variabilità della vita e dei suoi processi includente tutte le forme di vita, dalla
singola cellula agli organismi piú complessi, a tutti i processi, ai percorsi e ai cicli che collegano
gli organismi viventi alle popolazioni, agli ecosistemi e ai paesaggi”.
L’espressione ‘biodiversità’ venne proposta per la prima volta in occasione del ‘Forum
Nazionale sulla BioDiversità’ svoltosi a Washington nel 1986 ed è attribuita a W.G. Rosen. Il
termine deriva dalla contrazione in una sola parola dell’espressione ‘diversità biologica’. Il
successo del termine è dovuto in particolare all’opera di O.Wilson e M.P. Peter intitolata
‘Biodiversity’, pubblicata nel 1988.
La ‘biodiversità’ non è la semplice somma del numero di specie che popolano il pianeta
Terra, ma è un indice di ‘covariazione’; ovvero, tutte le specie che popolano un determinato
ecosistema, sempre ‘dinamico’ nel tempo, si influenzano reciprocamente, risentono dell’effetto
dei fattori abiotici e rappresentano anche il frutto di trasferimenti ‘naturali’ di segmenti di DNA
codificanti o polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i sottoposti a ‘verifiche combinatorie’ di
lunga durata (ConSDABI, 2002; D. Matassino, 2004a).
La sovrapposizione concettuale tra ‘risorsa genetica’ e ‘diversità biologica’ o ‘biodiversità’
è piuttosto recente e si riferisce alla variabilità misurata entro e tra le specie in termini di
variazione tra i suddetti segmenti e le sequenze di aminoacidi (proteine). Con l’introduzione del
concetto di ‘diversità genetica’ si completa quello che a livello teorico viene definito il ‘trittico
della diversità biologica’:
(a) ‘diversità intraspecifica’
(b) ‘diversità interspecifica’
(c) ‘diversità ecologica’.
La principale causa di ‘biodiversità’ risiede nell’eterogeneità dei sistemi viventi;
l’eterogenità è la norma (M. Ageno, 1986) e, in biologia, vengono selezionati negativamente i
meccanismi che tendono a limitare la variabilità genetica; ogni essere vivente possiede una propria
individualità che viene ‘codificata’ nel proprio ‘genoma’, viene ‘costruita epigeneticamente’ e
viene ‘trasmessa alla posterità’. Riprendendo il trittico della diversità biologica, è possibile
affermare che la ‘biodiversità’ è costituita dall’insieme delle differenze tra gli individui in rapporto
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ai segmenti di DNA codificanti o polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i, alle specie e agli
ecosistemi (V.H. Heywood, 1995).
La ‘biodiversità’, intesa come espressione di una diversità di informazione genetica, può
essere considerata una vera e propria, se non unica, ricchezza reale in quanto è lo strumento
principe che permette alla natura di sincronizzarsi alla velocità dei cambiamenti ambientali; essa è
da considerarsi contemporaneamente anello di congiunzione con il passato e base del divenire
biologico.
L’immensa riserva di arsenale informativo dei sistemi biologici suggerisce che qualsiasi
sistema (dal microrganismo all’ecosistema) va considerato sempre, e solamente, nel contesto della
sua vita di relazione con gli altri sistemi biologici viventi.
A differenza di quanto accade nei sistemi fisici dove le relazioni tra le parti sono mantenute
dall’azione di forze, la coesione tra le componenti della materia vivente è affidata innanzitutto ai
segnali. A esempio, è mediante segnali che le cellule di una coltura batterica o le componenti di un
sistema pluricellulare trasferiscono informazioni l’una all’altra oppure coordinano i processi
interni con quanto avviene all’esterno. Nel corso dell’ ‘evoluzione’ si assiste a una diversificazione
della
coppia
‘segnale-recettore’
(J.T.
Bonner,
1984,
1988)
che
produce
una
compartimentalizzazione e una concentrazione in alcune parti del corpo della cellula con funzione
recettoriale. Se da un lato l’evoluzione filogenetica della coppia ‘segnale-recettore’ rende piú
efficiente la vita di relazione tra gli individui aumentando la ‘diversità interna’ (‘intrasistemica’)
dei sistemi viventi, dall’altra serve a mantenere isolati vari sistemi tra loro incompatibili e in
competizione, aumentando la ‘diversità esterna’ (‘intersistemica’). È sempre grazie alla capacità
relazionale degli esseri viventi che è possibile l’elaborazione epigenetica dell’informazione
racchiusa nel patrimonio genetico.
La diversità biologica è l'unica che può permettere domani di disporre di ‘informazioni
genetiche’ atte a favorire la 'capacità al costruttivismo’ degli esseri viventi in occasione di
cambiamenti, oggi imprevedibili, sia delle condizioni ambientali sia delle esigenze di molecole
‘bioattive’ con funzione ‘nutrizionale’ ed ‘extranutrizionale’ per l’uomo (D. Matassino, 2003).
Partendo da questo presupposto, il miglioramento del ‘benessere fisico, psichico e sociale
dell’uomo’ si realizza solo alla condizione della necessità di conoscere i principi che regolano i
rapporti fra gli esseri viventi. Recentemente, è stato scoperto che nelle popolazioni di batteri
‘comunitari’ si sviluppa rapidamente un notevole grado di diversità grazie al fattore ‘convivenza’.
Tale diversificazione sarebbe responsabile delle migliorate capacità di sopravvivenza delle
popolazioni microbiche.
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L’importanza delle suddette relazioni si rende evidente già a livello dei sistemi biologici
semplici: basti pensare alle complesse interazioni che si instaurano tra i microrganismi che vivono
in comunità (biofilm); infatti, i batteri che vivono in gruppo possono assumere caratteristiche che
non possiedono come singoli individui come, a esempio, la maggiore tolleranza agli antibiotici. Un
esempio è rappresentato dal batterio Pseudomonas Aeruginosa, che, quando è presente in biofilm,
può manifestare una resistenza agli antibiotici fino a 1000 volte piú elevata rispetto al batterio che
vive singolarmente.
Il concetto che la diversità può migliorare il funzionamento di alcuni tipi di comunità è nota
anche come ‘ipotesi dell’assicurazione’ (Insurance Hypothesis), secondo la quale l’aumento di
‘biodiversità’ protegge i cosiddetti ‘ecosistemi’ dai danni prodotti da variazioni dell’ambiente
(R.B. Boles et al., 2004). Tale ipotesi è equivalente al concetto di ‘complementarietà di nicchia’
(‘niche complementary’), per cui esiste una correlazione positiva tra ‘produttività di un
ecosistema’ e ‘biodiversità’ qualora le specie che popolano l’ecosistema utilizzano risorse
differenti in maniera completa. Nell’alpeggio le risorse pabulari vengono utilizzate in maniera
completa da camosci, stambecchi e bovini; infatti, nella distribuzione spaziale altitudinale delle
specie pascolative durante la stagione estiva, il camoscio tende a utilizzare le risorse arbustive in
crescita (germogli), lo stambecco le risorse erbacee e il bovino, a causa della massa corporea,
tende a utilizzare il pascolo erbaceo delle zone pianeggianti. Il bovino, grazie al pascolamento,
favorisce la ricrescita delle risorse erbacee, garantendo una disponibilità di alimenti per la
successiva stagione autunnale (F. Ciani e R. Zanoli, 1994) .
Lo stesso dicasi per il comportamento degli ovini al pascolo appartenenti a tipi genetici
autoctoni (TGA) e/o a tipi genetici autoctoni antichi (TGAA) diversi e/o a razze di cultura.
La differenziazione genetica di una popolazione ha un grande significato di efficienza
‘biologica’ nel senso di:
(a) utilizzazione migliore delle risorse dell’ambiente in cui la popolazione vive
(b) esaltazione della capacità riproduttiva degli individui componenti la ‘comunalità’.
Tutto questo si concretizza, in definitiva, nell’influenzare positivamente la ‘capacità al
costruttivismo’ (‘fitness’) di un organismo nell’ambiente in cui vive (D. Matassino, 1978).
Un esempio naturale, piú che brillante, del processo biologico definito ‘opportunismo evolutivo’
o ‘capacità al costruttivismo’ può essere individuato nel comportamento della ‘famiglia di
segmenti di DNA codificanti o polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i’, che può essere
considerata il risultato dinamico di un vero e proprio processo di ‘conversione genica
democratica’, con funzione principe di ‘rete di mutazione’. Il codice genetico può essere ritenuto il
prototipo di infiniti sistemi di vita fortemente flessibili grazie all’influenza dei fattori epigenetici.
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Ciò deve significare che è necessaria una migliore conoscenza dei fattori che influenzano la
flessibilità del codice genetico, unico e mirabile modello di organizzazione da imitare (D.
Matassino, 1989; 1992).
I TGA e i TGAA animali e vegetali, essendo caratterizzati da una maggiore eterogeneità
genetica, risultano essere, con maggiore probabilità rispetto ai TG (o varietà) ‘migliorati’
dall’uomo, portatori di alleli ‘vantaggiosi’ per un dato locus; tali alleli, se introdotti, mediante
introgressione (1), in TG (o varietà) domestici, possono produrre in essi cambiamenti favorevoli: la
caratteristica fenotipica che si ottiene nel TG (o varietà) ‘nuovo’ è differente da quella che lo
stesso allele produceva nel TGA/TGAA. Oggi, l’introgressione può avvalersi anche dell’ausilio
delle tecniche molecolari; pertanto, si può parlare di una vera e propria ‘Introgressione Assistita da
Marcatori Molecolari’ (IAMM) (MAI, Molecular Assisted Introgression); quest’ultima, unitamente
alla ‘Selezione Assistita dal Molecolare’ (SAM) (MAS, Molecular Assisted Selection) consente di
accelerare la diffusione tra la specie di interesse zootecnico di genotipi responsabili di
caratteristiche qualitative funzionali al benessere dell’uomo; a esempio, abbinando l’incrocio
classico alla tecnica del DNA fingerprinting (impronta del DNA) è possibile individuare in seno
alla progenie, fin dalla nascita, gli individui che hanno ereditato l’allele desiderato (Matassino,
2005a e b).
Qualsiasi germoplasma è portatore di antiche civiltà e di vecchi equilibri biologici.
Il germoplasma autoctono, nella sua multiforme diversificazione, è candidato a svolgere
un ruolo insostituibile, se non primario, nella soluzione dei non semplici problemi connessi alla
nutrizionistica umana (D. Matassino, 1991; D. Matassino et al., 1991).
3. ‘Bioregione’ o ‘Bioterritorio’
Il futuro ruolo delle produzioni agrarie e zootecniche sarà condizionato dalle seguenti
problematiche (C. De Haan et al., 1997):
(a) conoscenza delle tradizioni locali
(b) consumo di alimenti: quantità e/o qualità
(c) conservazione delle risorse naturali di un ‘territorio’ o ‘bioregione’
(d) benessere animale.
La sfida sarà soddisfare le diversificate esigenze umane in nutrienti nell'ottica della
'sostenibilità produttiva’.
L’introgressione consiste nell’ inserimento di un nuovo segmento di DNA codificante polipeptide/i (‘gene’) in una
popolazione mediante l’incrocio tra due popolazioni : (a) la popolazione portatrice del segmento di DNA ‘di
interesse’ ; (b) la popolazione da migliorare; l’incrocio è seguito da reincroci ripetuti con la popolazione che ha
incorporato il segmento di DNA ‘di interesse’ .
(1)
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La soluzione di queste problematiche non potrà che essere differente in funzione della
diversità culturale e biologica presente in un ‘sistema territoriale’ .
‘Un ‘sistema territoriale’, semanticamente, è identificabile con una vera e propria
‘bioregione’; anzi, ritengo che questa ultima espressione sia la piú consona a esprimere
compiutamente il concetto di un ‘sistema complesso’, quale è un ‘bioterritorio’ (D. Matassino,
2005a e b) .
Il ‘bioregionalismo’, quale corrente di pensiero, sorge in California negli anni Settanta del
secolo scorso allo scopo di favorire la corretta gestione (sviluppo sostenibile) di qualsiasi
‘bioregione’ precorrendo la definizione di ‘sviluppo sostenibile’ nel significato proposto dalla
Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo nel 1987.
Per approfondimenti in merito alla problematica dello sviluppo sostenibile si rimanda a:
M. Giaoutzi e P. Njkamp (1993); J. Boyazoglu (1992); (1998); (1999); D. Matassino (2001 a); R.
Costanza (1991).
Nel 1992 alcuni Enti (World Resources Institute, World Conservation Union, FAO,
UNESCO, United Nations) hanno definito la ‘bioregione’ “un modello di gestione sostenibile
delle risorse naturali di un territorio da parte delle comunità locali”.
La ‘bioregione’ può essere costituita da qualsiasi territorio che coincide con un’area
geografica omogenea per caratteristiche orografiche, pedoclimatiche e sociali. Pertanto, essa esula
da qualsiasi concetto di area delimitata da confini politico-amministrativi e può essere oggetto di
un relativo facile monitoraggio temporale delle varie condizioni caratterizzanti il territorio
interessato. In fondo, la ‘bioregione’ può essere rappresentata da un mandala (fig. 1);
l’impostazione sistemica è l’unica che può razionalmente rispondere all’esigenza di conoscenza
spaziale e temporale di una ‘bioregione’.
Data la notevole flessibilità dell’impostazione sistemica, che si concretizza nell’individuare
un concreto territorio e una concreta rilevazione di fattori che lo caratterizzano, si può pensare di
assemblare le diverse forme delle ‘bioregioni’ in un vero e proprio concetto di ‘bioregionalismo’.
E’ opportuno precisare, come è stato sottolineato dagli Enti conianti la ‘bioregione’, che resta non
violabile il concetto di base: “il territorio deve essere gestito dalle comunità antropiche locali”;
queste comunità sono le uniche in grado di individuare e di gestire correttamente (di norma) le
complesse relazioni intercorrenti fra le variabili ambientali e quelle antropiche proprie di
quell’area.
Nell’ambito del ‘bioregionalismo’ è stata prevista anche una propria tassonomia come, per
esempio, le ‘bioregioni conservatrici’ (ecoregioni, parchi naturali, risorse della biosfera) e le
‘bioregioni evolutive’ (rurali, urbane, metropolitane).
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In sintesi, d’accordo con L. Iacoponi (2003), “il bioregionalismo si pone nella doppia
prospettiva globale (planetaria) e locale (regionale) cercando di comprendere le connessioni tra i
fenomeni naturali (energetici, biotopici ed ecologici) e antropici (economici, sociali e culturali)
nella chiave di lettura dell’autonomia organizzativa e delle capacità di scambio”.
D’accordo con C. Nardone (2004), in questo contesto, sempre piú enfasi bisogna dare al
tema dello sviluppo dei ‘sistemi territoriali’; infatti, le élite politiche e istituzionali, la ricerca
scientifica e la cultura sono sempre piú coinvolte nell’individuare una dinamica organizzazione di
vita inserita integralmente nei vari ‘sistemi locali’.
Dice J. Rifkin (2001) “Comunità locali economicamente sostenibili rendono possibile un
benessere materiale assai piú equo……. Dare accesso e potere alle comunità locali contribuisce,
inoltre, a preservare le diversità culturali del consesso umano. L’autosufficienza economica
garantisce la sicurezza materiale di cui gli individui hanno bisogno per mantenere un senso di
coesione sociale e per preservare la propria ricchezza culturale. Questa è l’essenza della politica
di riglobalizzazione dal basso”.
Ciò rende il cittadino, qualunque sia il suo ceto di appartenenza, protagonista del suo
destino. In altre parole, si ha un’induzione di una società attiva [(active society) di A. Etzioni
(1968)] responsabile e padrona di se stessa che sia capace di governare il suo futuro e di delineare
nuove sicurezze. Un’attività di elevato grado qualitativo è elemento necessario per uno sviluppo e
per una forte coesione sociale. Il Consiglio europeo di Lussemburgo (1997) sottolineò
l’importanza di un’economia piú competitiva e piú dinamica da basare fondamentalmente
sull’etica della conoscenza, l’unica quest’ultima in grado di realizzare una crescita economica
sostenibile. Questa strategia conduce a una nuova valorizzazione del capitale ‘umano’; l’unico,
capace di elaborare linee ‘guida’ per il proprio futuro miranti a conciliare lo sviluppo economico e
quello sociale. Questi concetti sono stati ampiamente confermati dal Consiglio europeo di Lisbona
(2000).
Come già
evidenziavo alcuni anni or sono (D. Matassino, 1993; D. Matassino e A.
Cappuccio, 1998), grande e insostituibile sarà il ruolo del sistema educativo nel prevedere
curricula atti a conferire allo studente una formazione tale da facilitare la visione e la convinzione
di una sua continua elaborazione 'culturale' per immettersi con capacità nei dinamici cambiamenti
che sempre piú caratterizzeranno questo terzo millennio. Questa flessibilità 'culturale'
dell'individuo potrà facilitare notevolmente un suo inserimento, dinamico nel tempo e nello spazio,
nel complesso e variabile sistema produttivistico. La maggiore istruzione e una riqualificazione
permanente costituiranno sempre di piú due pilastri fondamentali, se non insostituibili, della
dinamica
salariale e, probabilmente, strumenti di riduzione di forti disuguaglianze sociali.
11
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
Tuttavia, il problema piú spinoso da affrontare è che con l'avanzare dell'età dell'individuo vi è una
naturale riduzione di capacità alla
flessibilità e alla riqualificazione. Pertanto, bisognerà
individuare nuovi percorsi che debbano tener conto che la popolazione umana tende ad aumentare
sia numericamente che nella sua attesa media di vita. Si può affermare che nel processo educativo
il discente deve essere indotto ad acquisire una preparazione culturale (generale e specifica) capace
di esternarsi nel corso dello svolgimento della sua futura attività. Questa attività deve costituire il
risultato di capacità dinamiche di apprendimento critico, di formazione e di estrinsecazione delle
proprie abilità intellettuali. Il discente deve acquisire armonicamente 'sapere' e 'sapere fare' con la
convinta conoscenza di quei processi mentali che facilitano e rendono possibili capire il perché
degli eventi 'culturali' e/o 'biologici' che caratterizzano il divenire degli eventi. Forte deve essere
l'interattività fra struttura del pensiero formale e strutturistica della realtà, in quanto, secondo
Kant, 'l' organizzazione cognitiva di una realtà' altro non è se non un prodotto del pensiero. La
'trinomia' ‘ricerca-didattica-innovazione’, nella sua semanticità, è caratterizzata da una forte
interconnessione che può trovare una logica semplificazione, quindi un approccio credibile e
operativo, solo in una visione sistemica. L'elevazione culturale della persona umana è da
perseguire perché sarà la leva fondamentale dell'individuo per evitare di essere schiacciato da una
eventuale liberalizzazione estremizzata dell'economia, anche se limitata a tempi brevi-medi. E' da
ricordare che con l'aumentare delle conoscenze, grazie al forte impulso in atto nel processo di
informatizzazione, certe distinzioni di carattere economico si avviano a una totale obsolescenza,
come - a esempio - la distinzione fra produzione industriale e servizi.
La multimedialità va fortemente incentivata, specialmente nel settore dell'educazione e della
formazione. Via internet è possibile ordinare tutta una serie di prodotti che possono rispondere
addirittura alle esigenze personalizzate del cliente; prodotti che nel
volgere di pochi giorni
vengono confezionati e consegnati al richiedente. A. Wjckoff, economista dell' Organization for
the Economical Cooperation and Development (OECD) (Organizzazione per la Cooperazione
economica e per lo sviluppo) ritiene che tanti servizi s'identificano sempre di piú con una vera
produzione industriale. Questo studioso, inoltre, prevede che il notevole dinamico aumento di
conoscenze indirizzerà sempre piú capitale verso una intensificazione dei servizi reali per l'uomo.
Lo stesso può dirsi nello specifico del sistema 'produzione animale' (A. Nardone e D. Matassino
1989a e b).
Partendo dal concetto di T. M. Rossi Doria, secondo cui “Non esistono soluzioni uguali per
realtà diverse”, l’innovazione virtuosa deve essere diversificata, la meno omologante, la meno
ripetitiva e la piú legata alla finalizzazione della sostenibilità e del benessere del ‘sistema
territoriale’ (in cui è compreso anche l’uomo). Ciò starebbe a significare che ciascun ‘sistema
12
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territoriale’ o ‘bioregione’ dovrà individuare percorsi ‘virtuosi’ propri e in grado di competere con
un altro ‘sistema’ sulla base della sua offerta di ‘originalità’.
La sostenibilità economica e sociale di una “bioregione” andrebbe opportunamente stimata
per poter esprimere valutazioni, le meno errate, sul potenziale produttivo sia per singola attività
privatistica che per l’intera filiera. In altre parole andrebbe, di volta in volta, stimato il cosiddetto
“valore aggiunto territoriale” (VAT) che potrebbe essere determinato come differenza tra il valore
“prima” e quello “dopo” l’attuazione di determinati interventi (D. Matassino, 2005b).
Parafrasando C. Nardone (2004), alcune ‘precondizioni’ per uno sviluppo sostenibile dal
basso sono:
(a) aprioristicamente non si possono attuare interventi simili (se non uguali) per le
diverse realtà territoriali, per cui bisognerà individuare una soluzione studiata appositamente
(‘tailor mode’) per ogni agroecosistema
(b) indispensabilità di un accordo profondo e armonico tra le istituzioni locali e la
ricerca per l’attuazione di qualsiasi progetto strategico e sinergico, sfociante in una diffusa
domanda di innovazione del sistema totale e capace di far emergere sintonicamente l’idea forza
dell’originalità
(c) profonda e costruttiva analisi delle disuguaglianze territoriali al fine di trarre
elementi semantici per la redazione di un progetto strategico orientato all’eccellenza e
all’originalità dello sviluppo di un determinato territorio.
Queste sintetiche strategie di intervento permetteranno la liberazione delle capacità
imprenditoriali nell’inventare ‘qualità specifiche e originali’ e, per quanto interessa il sistema
rurale, l’attuazione della sua multifunzionalità sostenibile.
La valorizzazione delle potenzialità intrinseche del germoplasma autoctono, integrando
finalità produttive, ambientali ed etiche, si inserisce pienamente nell’emergente concetto di
'ruralità multifunzionale sostenibile’ (P. Depauw, 2001; ConSDABI, 2002; D. Matassino, 2002) .
I ‘territori’ o ‘bioregioni’, in virtú delle proprie diversità, possono contribuire alla
‘diversificazione nutrizionale ed extranutrizionale’ degli alimenti (D. Matassino, 2003; F,
Casabianca e D. Matassino, 2005) .
4. Prodotto Tradizionale Tipizzato Etichettato (PTTE)
In un contesto che propende sempre piú a una presa di coscienza della ‘sicurezza
alimentare’ maggiore attenzione va rivolta alla ‘specificità’ del ‘prodotto tradizionale’, nonché ai
13
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
vantaggi derivanti dalla gestione e dall’applicazione degli strumenti in grado di assicurare ai
consumatori trasparenza e tangibilità lungo qualsiasi punto della filiera agroalimentare.
Per tutti i fenomeni di origine biologica si rende sempre piú utile individuare la base
molecolare per giungere progressivamente al livello agro-ecosistemico.
Già alla fine degli anni ’60 T.M. Bettini intuí l’importanza di considerare le produzioni
animali su base molecolare in un ‘contesto sistemico’ ove il piano organizzativo ‘molecolare’
rappresenta il primo elemento dell’impostazione atomistica di un sistema produttivistico; sulla
base di tale intuizione, egli
propose tra gli insegnamenti universitari ‘complementari’ la
‘zootecnica molecolare’.
La ‘specificità’ di un ‘prodotto tradizionale’
è essenzialmente funzione dei seguenti
fattori:
(a) tipo genetico:
(i)
autoctono (TGA)
(ii) autoctono antico (TGAA)
(iii) cosmopolita
(b) microambiente di allevamento.
Per definire le basi molecolari della specificità di un ‘prodotto tradizionale’ sorge la
necessità della ‘sua tipizzazione’ e di quella del ‘soggetto produttore’ almeno sotto il profilo
genomico, proteomico, lipidomico e metabolomico. Dalla conoscenza dei suddetti aspetti,
unitamente a quella del sistema di tenuta e di alimentazione del ‘soggetto produttore’, può
scaturire l’ottimizzazione dell’ ‘animale allevato ai fini produttivi’. Alla luce di quanto detto, la
scarna dizione ‘prodotto tradizionale’ andrebbe sostituita con una di notevole semanticità per la
ricchezza della struttura sintattica del messaggio che trasmette al consumatore: Prodotto
Tradizionale Tipizzato Etichettato (PTTE) (fig. 2).
L’integrazione fra la genomica [identificazione e caratterizzazione del genoma
(insieme delle informazioni di natura genetica
presenti in un individuo)], la proteomica
[identificazione e caratterizzazione del proteoma (insieme delle proteine presenti in un organismo
in ogni momento del suo ciclo vitale)], la lipidomica [identificazione e caratterizzazione del
lipidoma (insieme dei lipidi e delle loro interazioni presenti in un organismo)] e la metabolomica
(studio di tutte le reti metaboliche cellulari) è fondamentale per l’individuazione di ‘biomarcatori’
molecolari. I ‘biomarcatori’ sono da considerarsi indicatori oggettivi per la definizione della
‘tracciabilità’ e della ‘rintracciabilità’ di un prodotto destinato all’alimentazione; due termini,
apparentemente simili ma di diverso significato, che possono essere definiti come segue:
14
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
(a) ‘tracciabilità’: strumento o processo informativo che permette di seguire il percorso
di un prodotto da monte a valle della sua filiera produttiva (produzione, trasformazione e
commercializzazione)
(b) ‘rintracciabilità’: strumento o processo informativo inverso che permette di seguire
il percorso di un prodotto da valle a monte della sua filiera produttiva.
Questi due concetti sono da considerarsi non analoghi, ma complementari; in concreto, ‘tracciare’
significa stabilire quali informazioni devono essere identificate per evidenziarle con un marchio o
con un’etichetta o con una certificazione; ‘rintracciare’ significa stabilire lo strumento tecnico piú
idoneo a ricostruire queste informazioni o ‘tracce’ che, soddisfacendo anche i parametri di natura
salutistica ben definiti e omogenei a livello comunitario, dovranno contribuire a ridurre il rischio
derivante da pericoli e da emergenze alimentari (D. Matassino, 2004; 2005b).
Un PTTE non significa staticità, ma dinamicità, nel senso di continua innovazione del
processo produttivo per migliorare continuamente la qualità totale
dello stesso grazie agli
sviluppi della ricerca (D. Matassino, 1996; D. Matassino, 2004b) .
L’ottenimento del PTTE prevede un sinergismo d'azione fra tutti gli operatori della filiera
produttiva per la caratterizzazione e la definizione, anche mediante il potenziamento delle
cosiddette biotecniche innovative ‘non invasive’, dei vari momenti della filiera produttiva in modo
da giungere alla ‘qualità totale’; qualità che non può prescindere dal benessere animale.
La tipizzazione genetica individuale rappresenta una tappa fondamentale per la definizione
della qualità totale dei prodotti di origine sia animale che vegetale. La diversità biologica, quale
fonte di diversificazione degli alimenti, può essere misurata a livello fenotipico e genetico. La
variabilità fenotipica, direttamente osservabile e misurabile, viene analizzata prendendo in esame i
caratteri qualitativi e/o fanerotici (colore, pezzatura, presenza di corna, presenza di tettole, ecc.) e
quantitativi (produzione lattea, % proteina nel latte, incremento ponderale giornaliero, ecc.). La
variabilità genetica è stimabile tramite marcatori molecolari. A esempio, l’elevato grado di
polimorfismo che caratterizza i loci microsatelliti rende gli stessi particolarmente adatti ai fini
della stima della variabilità genetica intra- e inter – popolazione, nonché ai fini delle analisi di
‘tracciabilità’ e di ‘rintracciabilità’ dei prodotti lungo una filiera produttiva. Infatti, attraverso
l’identificazione del genotipo ai loci microsatellitari sul prodotto finito è possibile risalire al
soggetto produttore previamente tipizzato per gli stessi loci, verificando l’identità del genotipo
nell’ ‘animale produttore’ e nel ‘prodotto’ da quest’ultimo fornito.
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5. Genomica
La genomica si occupa della identificazione e della caratterizzazione del genoma; quest’ultimo
può essere definito (FAO, 1999) come:
(a) l’intero corredo di materiale genetico presente in ciascuna cellula di un organismo
(b) il corredo cromosomico di una cellula ereditato come unità aploide da un genitore.
La genomica può essere suddivisa in:
(a) strutturale, che permette di decifrare il messaggio del genoma o meglio di definire:
(i)
la sua sequenza
(ii) la sua struttura
(iii) la localizzazione di segmenti di DNA codificanti o polipeptide/i (‘geni’) o
non polipeptide/i sui cromosomi (mappa genica e cromosomica)
(b) funzionale: dalla caratterizzazione dei trascritti (trascrittoma) si individua e si
definisce la funzione probabile dei vari segmenti di DNA codificanti o polipeptide/i (‘geni’) o non
polipeptide/i; la conoscenza della struttura di una sequenza nucleotidica del DNA e della sua
localizzazione cromosomica rimane un aspetto fondamentale ma non esclusivo;
il passo
successivo è quello di conoscerne la funzione che risulta dalle interazioni del genoma di ciascun
individuo con l’ambiente ‘interno’ ed ‘esterno’; tali interazioni fanno sí che, sebbene nella
maggior parte delle cellule il contenuto in DNA e la sua sequenza restino costanti, il ‘repertorio’ di
segmenti di DNA ‘attivi dal punto di vista trascrizionale’ in un dato tipo di cellula e in un dato
momento del ciclo cellulare è ‘limitato’ e ‘specifico’; la genomica funzionale mira a colmare il gap
esistente tra segmenti di DNA codificanti o
polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i ed
epigenetica.
Per una migliore comprensione della complessità della genomica, in senso lato, si ritiene
opportuno fornire, in sintesi, alcuni cenni in merito alle recenti acquisizioni sul genoma umano.
Questa scelta dipende dal fatto che tale
genoma è quello meglio conosciuto. Poiché il
‘funzionamento del DNA’ è da considerarsi di tipo ‘universale’, specialmente per quanto riguarda
gli eucarioti, i meccanismi di genomica ‘strutturale’ e ‘funzionale’, scoperti a oggi nell’uomo,
rappresentano, secondo me, un ‘modello estensibile’ quasi certamente agli animali in produzione
zootecnica, con particolare riguardo a quelli che occupano un gradino piú elevato nella scala
tassonomica.
16
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5.1. Genoma umano
Con il sequenziamento del DNA del genoma umano, a oggi ancora incompleto 2, sono scaturiti
molti piú interrogativi di quelli a cui si pensava di poter trovare una risposta:
(a) dimensioni del genoma in Mbp assolutamente indipendenti dalla complessità di un
organismo: la dimensione del genoma umano, pari a circa 3,3 miliardi di coppie di basi (3.272
Mbp), è simile a quella di molti anfibi, rettili e crostacei (database Ensembl, dicembre 2004)
(b) paradosso del numero dei segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’):
nessuna relazione fra tali segmenti e complessità (22.531 sequenziati nell’uomo, valore che si
discosta di poco dai 19.765 riscontrati nel nematode Caenorhabditis Elegans)
(c) percentuale di DNA (esonico) codificante proteina pari a solo l’1,3
(d) frazione di DNA ‘non codificante’ o ‘regolativo’ da ritenere un vero e proprio
tesoro di informazioni e non DNA ‘spazzatura’ , DNA ‘non funzionale’, DNA ‘ignorante’, DNA
‘parassita’, DNA ‘inutile’ o genoma ‘invisibile’ pari a ben 98,7 % ; la recente denominazione
DNA ‘regolativo’ deriva dall’individuazione di funzioni raggruppabili in ‘strutturali’ ed
‘eurigeniche’; le prime contribuiscono a favorire la stabilità delle origini di replicazione del DNA
e l’organizzazione dei centromeri, nonché l’appaiamento meiotico dei cromosomi; le seconde sono
coinvolte nel coordinamento dell’espressione di segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’)
non vicini, ‘attivatori’ o
‘silenziatori’ dei suddetti segmenti , nonché nella regolazione
dell’espressione di essi nel corso dello sviluppo.
5.1.1. Organizzazione del genoma umano
Solo circa l’1,3 % del DNA codifica polipeptide/i (‘geni’) mentre circa il 98,7 % è non
codificante polipeptide/i.
L’acquisizione di conoscenze in merito alle funzioni del DNA sta evidenziando l’utilità
semantica di una revisione del termine “gene” nel senso di “qualunque segmento di DNA che
2
Aggiornamento a marzo 2005 (database Ensembl) in riferimento alla ‘costruzione Build 35’ dell’International
Human Genome Consortium (IHGC), denominata ‘finished’. Una sequenza si definisce finished allorquando: (a)
almeno il 95 % dell’eucromatina del genoma è stata sequenziata (vengono tralasciati solo quei gap che non sono
sequenziabili con le tecniche disponibili); (b) ogni base è stata sequenziata dalle 8 alle 10 volte; (c) la derminazione
della sequenza è caratterizzata da un tasso di errore al massimo di 1 evento su 10 4 basi. La sequenza ‘Build 35’ è la
versione finished piú aggiornata attualmente disponibile, subentrata alle precedenti versioni; la prima sequenza,
prodotta nel 2001, veniva indicata come draft in quanto era stato sequenziato e assemblato solo il 90 %
dell’eucromatina e ogni base era sequenziata solo 4 volte. La sequenza ‘Build 35’, contenente ancora 341 gap o
“buchi” [33 eterocromatinici (per un totale di circa 198 Mb) e 308 eucromatinici (per un totale di circa 28 Mb)], copre
all’incirca il 99 % del genoma eucromatinico ed è caratterizzata da un tasso di errore di circa 1 evento su 10 5 basi; il
restante 1 % risiede nei 308 gap, il quale, rappresentando regioni cromosomiche contenenti per lo piú duplicazioni
segmentali del DNA, non può essere efficientemente mappato, clonato e, infine, sequenziato con le attuali tecniche
disponibili.
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DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
costituisce una ‘unità di trascrizione’ in RNA”, che riguardi il ‘DNA codificante’ uno o piú
polipeptidi (‘geni’) .
5.1.1.1. DNA ‘esonico’ e ‘intronico’
Lo schema 1 mostra la probabile attività trascrizionale di un segmento di DNA
evidenziando che il flusso dell’informazione genetica non è rappresentato soltanto dalla sequenza
DNA RNApolipeptide, ma può concretizzarsi nella sequenza DNA RNA, dando origine a
molecole di RNA non codificanti polipeptide/i a partire o da introni3 oppure da esoni4 appartenenti
a segmenti di DNA codificanti non polipeptide/i ( J.S. Mattick, 2003).
Data l’esiguità dei segmenti di DNA codificanti uno o piú polipeptidi (1,3%) , gli esoni o
‘unità geniche’ possono essere intesi come segmenti di DNA codificanti polipeptide/i ‘immersi in
un mare di sequenze codificanti non polipeptide/i.
Notevoli sono le potenzialità in termini di regolazione che stanno emergendo per il DNA
‘intronico’, capace di trascrivere ‘RNA attivi’, reversibili e variabili per l’assenza di codici
standard di ‘avvio’ o di ‘arresto’.
L’RNA, a lungo considerato un mero traduttore dell’informazione contenuta nel DNA,
ovvero intermediario della sintesi di proteine, sta evidenziando notevoli potenzialità in termini di
‘prestazioni cellulari’. Un esempio del ‘potere’ sottovalutato dell’RNA dal punto di vista
funzionale è rappresentato dai seguenti RNA: riboswitch5, piccolo RNA nucleare (snRNA, small
nuclear RNA)6, piccolo RNA nuclelare (snoRNA, small nucleolar RNA)7, microRNA8; quest’ultimo
3
Introne: segmento di DNA contenente una ‘sequenza nucleotidica codificante un ‘non polipeptide’; l’introne viene
inizialmente trascritto nell’RNA ‘primario’ o prematuro e, successivamente, rimosso durante il processo di splicing;
pertanto, esso non si ritrova nell’ ‘RNA messaggero maturo’ ma può contribuire alla genesi dell’RNA non codificante
polipeptide/i e/o essere, tra l’altro, convertito in esone (esonizzazione mediata dalle sequenze Alu) .
Esone: segmento di DNA contenente una ‘sequenza nucleotidica o parte di essa codificante’ o polipeptide/i
(‘gene’) o non polipeptide/i; la sequenza esonica viene trascritta nell’RNA primario e, durante il processo di splicing,
viene conservata e ‘cucita’ con gli altri esoni per costituire o l’ RNA messaggero ‘maturo’ destinato a essere tradotto
in polipeptide/i o l’RNA non codificante polipeptide/i .
4
5
Riboswitch: parte di un RNA messaggero costituita da 2 componenti: (a) una in grado di legarsi a una specifica
proteina o composto chimico bersaglio; (b) l’altra codificante un prodotto proteico; il riboswitch si ‘accende’, cioè
produce la proteina solo quando è in presenza del suo bersaglio (autoregolazione).
6
Piccolo RNA nucleare (snRNA, small nuclear RNA): molecola di RNA di 100 ÷300 bp che, associandosi a proteine,
partecipa alla costituzione dello spliceosoma.
7
Piccolo RNA nucleolare (snoRNA, small nucleolar RNA): molecola di RNA che, assemblandosi con proteine
specifiche, partecipa alla costituzione dello editeosoma.
8
MicroRNA: molecola di RNA che agisce con un meccanismo di interferenza a livello trascrizionale e /o post
trascrizionale; l’ effetto ultimo è la regolazione dell’espressione dei segmenti di DNA codificanti polipeptide/i
(‘geni’) attraverso: (a) metilazione del DNA; (b) degradazione dell’mRNA , (c) inibizione della proteinosintesi con
blocco della traduzione del segmento di DNA codificante polipeptide/i (‘gene’); il microRNA si sta dimostrando
18
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
comprende l’RNA corto d’interferenza (siRNA, short interference RNA)9 e il
piccolo RNA
temporaneamente regolato (stRNA, small temporally regulated RNA)10 (C. Dennis, 2002).
L’interferenza dell’RNA interessa sia il regno animale sia quello fungino sia quello vegetale
e potrebbe rappresentare un meccanismo in grado di spiegare molti fenomeni biologici la cui
ereditarietà devia dalle leggi di Mendel. A esempio, l’esistenza di informazioni epigenetiche
extracromosomiche potrebbe spiegare la reversione di alcune mutazioni puntiformi in individui di
Arabidopsis Thaliana sottoposti ad autoimpollinazione (S.J. Lolle et al., 2005): la pianta può
modificare stabilmente mutazioni su entrambi i filamenti dell’elica di DNA. L’elevata frequenza
di reversione11 (10 –2 ÷ 10 –1) porterebbe a escludere l’esistenza di fenomeni di ‘retromutazione’12
(possibile ma rara), facendo ipotizzare che il ripristino del ‘genotipo selvatico’ possa essere
mediato da molecole di RNA a doppia elica in grado di replicarsi e di trasmettersi alle successive
generazioni; tale RNA può essere utilizzato dall’organismo come una sorta di libreria di copie
(‘back up’di emergenza’) di segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’); la riserva di tali
segmenti
verrebbe impiegata per correggere mutazioni sfavorevoli in un determinato
microambiente e quindi rappresenterebbe un sistema per accrescere la ‘capacità al costruttivismo’
degli organismi. La complessità dell’effetto funzionale degli RNA ‘attivi’ è resa ancora piú
accentuata se si considera la possibilità d’integrazione dell’‘RNA senso’ 13 con il suo ‘antisenso’ 14.
Questa integrazione, unitamente alle funzioni svolte dal siRNA e dal microRNA, può portare alla
formazione dei cosiddetti ‘censori del genoma’, che permetterebbero, un domani, di potere
‘accendere’ o ‘spegnere’, secondo la volontà dell’uomo, un qualunque segmento di DNA
dotato di un funzionamento fortemente variabile, elastico e di grande ruolo nell’informazione epigenetica e nella
differenziazione funzionale all’interno del genoma.
RNA corto d’interferenza (siRNA, short interference RNA): molecola di RNA (~22 nucleotidi) che associandosi a
proteine contribuisce a formare un ‘complesso di silenziamento’; quest’ultimo, legandosi all’ mRNA prodotto dal
segmento di DNA codificante polipeptide/i (‘gene’) che viene silenziato, lo degrada, impedendone la sua traduzione.
9
10
Piccolo RNA temporaneamente regolato (stRNA, small temporally regulated RNA): molecola di RNA (~22
nucleotidi) non perfettamente omologa al proprio bersaglio; essa media, pertanto, un meccanismo di interferenza con
un raggio d’azione più ampio di quello mediato dall’ siRNA che si concretizza nella inibizione della proteinosintesi
piuttosto che nella degradazione del messaggero.
11
La frequenza di reversione (eventi di reversione per cromosoma e per generazione) è stata calcolata sulla base del
numero osservato di individui che ripristinavano il fenotipo selvatico, nonché del numero osservato di genotipi
selvatici .
12
Retromutazione: trattasi di una mutazione che annulla, in parte, l’effetto apportato da una precedente mutazione.
13
RNA senso: RNA primario contenente una regione codificante (sequenza di codoni contigui) destinata a essere
tradotta in proteina.
14
RNA antisenso: sequenza di RNA complementare a tutta o a una parte di una molecola di mRNA alla quale si
associa bloccandone la traduzione.
19
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
codificante polipeptide/i (‘gene’). Alla luce delle nuove conoscenze sulle funzioni dell’RNA è
stato introdotto il termine ‘RNAoma’, che include “tutte le specie di RNA cellulari che assumono
un ruolo ‘funzionale’ nella cellula”.
La complessità del genoma è accresciuta dall’esistenza di segmenti di DNA codificanti
polipeptide/i (‘geni’) composti da patchwork (frammenti cuciti insieme) derivati da eventi di
ricombinazione multipla; a esempio il DNA delle immunoglobuline può essere considerato una
libreria di sequenze nucleotidiche del DNA che codificano per domini di legame che possono
formare, aggregandosi, una proteina funzionale. Uno studio consistente nel confronto di 13.731
segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’) dell’uomo con i corrispondenti segmenti dello
scimpanzé ha evidenziato che il piú alto numero di mutazioni ‘non sinonime’ interessa quelle
sequenze nucleotidiche del sistema immunitario e ciò potrebbe essere indice di una lunga e
continua ‘concorrenza evolutiva’ tra il sistema immunitario e gli organismi patogeni.
Analogamente, mutazioni significative sono state trovate a carico di segmenti di DNA codificanti
polipeptide/i (‘geni’)’ implicati nella soppressione dei fattori tumorali e nei meccanismi di morte
cellulare che regolano la spermatogenesi; e in questo caso, il successo ‘evolutivo’ potrebbe essere
il risultato della concorrenza tra i ‘geni egoisti’ delle cellule germinali che tendono a limitare
l’‘apoptosi’ e l’organismo adulto che, invece, tende a utilizzare questo meccanismo per eliminare
le cellule ‘con errore’.
Il meccanismo cellulare di regolazione dello ‘splicing alternativo’ contribuisce a rendere
piú versatile e piú sofisticato il genoma umano. Lo ‘splicing alternativo’ conferirebbe a una cellula
la possibilità di produrre una ‘proteina diversa’ da ‘quella prodotta da un’altra cellula’
consentendo di fornire una possibile spiegazione della grande diversita’ esistente tra gli organismi
viventi dotati di un corredo genico abbastanza simile {[ uomo = 22.531 segmenti di DNA
codificanti polipeptide/i (‘geni’) ]; [topo = 22.159 segmenti di DNA codificanti polipeptide/i
(‘geni’)]}. Lo ‘splicing alternativo’ consente a organismi e loro parti di svolgere funzioni diverse
con un numero di segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’) ridotto. A esempio, grazie
allo ‘splicing alternativo’, all’uomo è concesso produrre anche 100.000 proteine o loro isoforme
senza bisogno di avere a disposizione i corrispettivi segmenti di DNA codificanti.
Vi sarebbe una forte relazione positiva fra complessità di un organismo e indice di ‘splicing
alternativo’. Negli organismi complessi lo ‘splicing alternativo ’ dei trascritti primari (pre –
mRNA) tende a coinvolgere un apparato di base fortemente conservativo (dal lievito all’uomo) . A
oggi, tale livello è costituito da ‘5 piccole molecole di RNA nucleare’ [snRNA, small nuclear RNA
(U1, U2, U4, U5, U6)] che, con l’ausilio di non meno di 150 proteine, costituiscono una struttura
chiamata ‘spliceosoma’. Lo ‘spliceosoma’ indurrebbe l’ ‘evoluzione’ e la ‘proliferazione’ degli
20
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
stessi ‘RNA intronici’ nonché lo sviluppo di una rete di ‘informazioni regolatrici’ tra RNA e
proteine traducibili in informazioni genetiche aggiuntive nella cellula. In Drosophila melanogaster
(moscerino della frutta), lo ‘splicing alternativo’ regola il processo di determinazione del sesso;
quando è espresso il segmento di DNA codificante l’enzima ‘sex- letal’ coinvolto nello splicing
del fattore di trascrizione Specifico Letale Maschile II (SLM II ) (MSLII, Male Specific Letal II)
si verifica il salto dell’esone (SLM II ) con l’inattivazione del fattore di trascrizione; quest’ultimo,
non potendo esplicare la funzione di ‘compensazione di dosaggio’ o ‘disattivazione di uno dei due
cromosomi X’ nei maschi durante lo sviluppo embrionale,
è responsabile della sintesi di un
mRNA maturo funzionante a favore della differenziazione pro femminile; viceversa, quando non è
espresso il segmento di DNA codificante
l’enzima ‘sex- letal’, si verifica la conservazione
dell’esone (SLM II ) con l’attivazione del fattore di trascrizione che, invece,
esplicando la
funzione di ‘compensazione di dosaggio’ comporta come effetto finale la produzione di un
‘mRNA funzionante’ a favore della differenziazione pro-maschile.
Nell’ambito dei Primati, da cui deriverebbe l’uomo, lo ‘splicing alternativo’ ha portato a
ottenere esoni diversi, il che fornirebbe una spiegazione della diversità tra uomo e topo. In modo
particolare, gli ‘esoni specifici dei Primati’ deriverebbero da elementi denominati Alu
(retrotrasposoni). La famiglia Alu è la piú numerosa tra gli elementi trasponibili presenti nel
genoma umano. L’Alu sarebbe in grado di trasformare l’introne che lo ospita in una sequenza
significativa o semantica di una data informazione genetica, cioe’ in un esone (‘esonizzazione
dell’introne’). Si stima che nel genoma umano oltre 500.000 Alu siano introni e che di questi oltre
25.000 potrebbero diventare veri e propri esoni. Le sequenze Alu, unitamente allo splicing
alternativo, potrebbero costituire l’elemento discriminante nel tempo tra uomo e scimpanzé (pur
condividendo questi ultimi oltre il 95 % del genoma) in quanto responsabili di una maggiore
eterogeneità proteica soprattutto a livello dell’encefalo che si estrinseca nelle numerose differenze
di funzionamento dell’encefalo stesso fra le due specie. Le differenze di funzionamento, tra
l’altro, sarebbero dovute fondamentalmente, alla quantità , al tipo di corteccia cerebrale (neo
cortex) e al numero di neuroni presenti; si stima che il numero di neuroni corticali passi dai 30
milioni del topo ai 3 miliardi dello scimpanzè (filogeneticamente piú vicino all’uomo) a ben 14
miliardi dell’uomo odierno (4 volte di piú dello scimpanzé). Un contributo alla complessità della
funzionalità dell’encefalo umano è fornito, anche, dalla struttura delle membrane dei neuroni
costituite per oltre il 60% da lipidi e fra questi i glicerofosfolipidi; questi ultimi sono
particolarmente ricchi in acidi grassi polinsaturi a catena lunga (AGP–LC) (LC-PUFA, long chain
polyunsaturated fatty acids) quali l’ acido arachidonico (proveniente dalla serie 6) e l’acido
docosaesaenoico (proveniente dalla serie 3). Grazie, anche, alla ricchezza in glicerofosfolipidi
21
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
del suo cervello, l’uomo, mammifero placentare (organo importantissimo durante la fase
dell’embriogenesi e dello sviluppo fetale), a oggi, costituisce il massimo dell’evoluzione degli
esseri viventi. Secondo le ipotesi piú accreditate, i primi ominidi sarebbero comparsi in Africa e
gli australopitechi (comparsi circa 6 milioni di anni fa) sarebbero i nostri progenitori. Con la
comparsa dell’Homo erectus (circa 4-6 milioni di anni fa) e dell’Homo habilis (oltre un milione di
anni fa), si ha un primo salto di quantità e di qualità dell’encefalo: un incremento di oltre il 60 %
del suo volume e un trend favorevole allo sviluppo delle aree piú rostrali. Contemporaneamente, si
è rilevato che l’ Homo habilis, rispetto agli australopitechi, era onnivoro, cioè ingeriva anche
alimenti di origine animale contenenti AGP-LC preformati. Si ipotizza, dunque, che un particolare
ruolo ha svolto la maggiore ingestione dell’acido docosaesaenoico come effetto di processi
migratori dell’Homo erectus. Infatti, questi , passando dall’ambiente della savana a quello
dell’intero pianeta Terra, molto piú vario e piú ricco di fonti alimentari diversificate, come gli
animali acquatici, le cui carni sono ricche in AGP-LP derivati dalla serie 3, ha aumentato
notevolmente la cosiddetta sua ‘cilindrata’ encefalica: dai circa 500 cc degli ultimi australopitechi
agli attuali 1.300÷1.500 cc dell’Homo sapiens sapiens. Non è questa la sede per un’ulteriore enfasi
sullo sviluppo e sull’evoluzione dell’encefalo. Pertanto, sulla scorta dei precedenti fugaci accenni,
si ritiene che gli innumerevoli microsistemi produttivi, favorendo il sorgere e l’evoluzione della
diversità genetica, debbano essere sempre di piú oggetto di ricerca per individuare e per
valorizzare le fonti di quelle ‘biomolecole’ utilizzabili per il continuo miglioramento del benessere
dell’uomo .Concludendo, ai fini di una migliore convivenza umana sul pianeta Terra , si ritiene che
sia necessario individuare innovative strategie nella gestione dei sistemi produttivi in genere e di
quelli animali in particolare; soluzioni che si dovrebbero concretizzare in una profonda e
globalizzante revisione degli ordinamenti colturali al fine di favorire una maggiore produzione di
alimenti da destinare all’alimentazione degli animali in produzione zootecnica occorrenti per un
riequilibrio delle proteine necessarie a soddisfare le esigenze dell’uomo; esigenze che vanno
considerate alla luce dell’importanza determinante che gli alimenti di origine animale, tra l’altro,
anche hanno svolto nell’evoluzione dell’encefalo umano (D. Matassino, 2005c).
5.1.1.2. Alcuni componenti il DNA ripetitivo
Il DNA ripetitivo è rappresentato da sequenze nucleotidiche o ‘monomeri’ il cui numero di
ripetizioni può variare. Lo schema II mostra alcuni principali componenti il DNA ripetitivo.
Le sequenze ripetitive si distinguono in: sparse o intersperse
15
e in tandem16. I meccanismi
molecolari che ne garantiscono la genesi sono rappresentati da:
15
Sequenze ripetitive sparse o intersperse distribuite a ‘random’ nel genoma.
22
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
(a) Trasposizione di Sequenze Mobili (TSM) (TP, Transposition Process,)
(b) Scambio Cromatidico Ineguale (SCI) (UCO, Unequal Crossing Over)
Le ‘duplicazioni segmentali’ coinvolgono segmenti del DNA di 1.000 ÷ 200.000 bp che
vengono duplicati in una o piú posizioni. Trattasi di duplicazioni non in tandem, lasciando
ipotizzare che è da escludere il meccanismo di crossing over ineguale nella loro genesi; tuttavia, a
oggi, non è ancora ben nota la loro origine; esse si dividono in:
(a) inter-cromosomiali: i segmenti di DNA duplicati si localizzano su cromosomi ‘non
omologhi’; a esempio: un segmento di 9,5 Kb del locus xq28 [locus dell’adrenoleucodistrofia
(ALD), malattia metabolica caratterizzata da progressiva demielinizzazione cerebrale e atrofia
delle ghiandole surrenali] è duplicato in prossimità delle regioni centromeriche dei cromosomi 2,
10, 16 e 22
(b) intra-cromosomiali: i segmenti di DNA duplicati si localizzano all’interno dello
stesso cromosoma (diverso o stesso braccio se esistente); a esempio: tre ripetizioni di 200 Kb sono
separate da un tratto di 5 Mb sul cromosoma 17.
La distribuzione delle ‘duplicazioni segmentali’ e il rapporto tra duplicazioni intracromosomiali e quelle inter-cromosomiali variano ampiamente all’interno del genoma; il caso piú
estremo è rappresentato dal cromosoma Y che possiede un contenuto di ‘sequenze duplicate’
(alcune delle quali di dimensione pari a circa 1,45 Mb con una identità di sequenza del 99,97 %)
superiore al 25 % della sua lunghezza totale. Le ‘duplicazioni segmentali’ rappresentano una
caratteristica importante del genoma umano e la loro struttura insolita le predispone a eventi di
delezione o di riarrangiamento che comportano, conseguentemente, variazioni fenotipiche.
La TSM, consistendo nello spostamento di un segmento di DNA da un sito a un altro del
genoma (trasposone o segmento di DNA ‘ballerino’), genera segmenti duplicati
localizzati
casualmente su cromosomi non omologhi. La TSM può essere:
(a) indiretta (o retrotrasposizione): il DNA traspone con l’intermediazione di molecole
di RNA, che retrotrascritte in DNA complementare (cDNA), ne consentono l’integrazione
(b) diretta: il DNA traspone come tale senza l’intermediazione di molecole di RNA.
Pertanto, si distinguono due grandi famiglie di trasposoni:
(a) retrotrasposoni17.
Sequenze ripetitive in tandem16: ripetizioni consecutive ‘testa-coda.
Retrotrasposone: esistono 4 forme di retrotrasposone: LINE (Long Interspersed Nuclear Element) = sequenza
lunga nucleare interspersa; SINE (Short Interspersed Nuclear Element) = sequenza breve nucleare interspersa; LTR
(Long Terminal Repeat) = retrotrasposone; pseudogene ‘non convenzionale’ o retropseudogene (si rimanda alla nota
19)
16
17
23
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(b) DNA trasposoni18
L’SCI è un meccanismo responsabile di riarrangiamenti di segmenti di DNA in seguito
all’appaiamento ‘errato’ tra tali segmenti di due cromosomi omologhi; questi segmenti sono
omologhi per struttura (segmenti identici) ma non occupano la stessa posizione su loci
corrispondenti; l’appaiamento errato è favorito, probabilmente, dalla presenza di una preesistente
duplicazione. Si ritiene, che l’SCI sia il meccanismo piú attivo nel generare cambiamenti nel
numero di segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’) per duplicazione di segmenti di
DNA a singoli o a piú ‘geni’.
Lo pseudogene19, considerato finora una vera e propria sorta di ‘fossile molecolare’, in
quanto inteso quale relitto distrutto da una mutazione e abbandonato dall’evoluzione, origina, con
particolare riguardo a quello ‘convenzionale’, da un meccanismo SCI;
a oggi, esso sta
evidenziando un’ attività funzionale che, sinteticamente, si concretizza:
(a) nel controllare tramite l’RNA attivo da essi prodotto l’espressione del ‘segmento di
DNA codificante polipeptide/i (‘gene vero’ ) di cui imita la sequenza; nel topo è stato evidenziato
che questo ‘gene vero’ smette di funzionare se contemporaneamente il suo pseudogene diventa
funzionalmente inattivo
(b) nell’attività di riparazione (funzione di back up o recupero) del ‘segmento di DNA
codificante polipeptide/i ( ‘gene vero’ ).
La ‘duplicazione di segmenti di DNA’ rappresenta uno dei meccanismi piú importanti per
l’evoluzione delle famiglie di segmenti di DNA codificanti
polipeptide/i o delle cosiddette
‘famiglie geniche’ . Un esempio di sviluppo delle predette famiglie dovuto a meccanismi di
duplicazione è rappresentato nel topo dai segmenti di DNA codificanti la -globina, che derivano
da eventi di duplicazione di un unico segmento , mediante ‘crossing over ineguale’, in 5 segmenti
di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni funzionali’) ‘e 2 pseudogeni; tutti localizzati sotto forma di
cluster sul cromosoma 7 (Jahn et al., 1980).
DNA trasposone: segmento mobile o cosiddetto ‘ballerino’ in grado di trasporre da un sito all’altro attraverso
appositi ‘intermedi a DNA’.
18
Pseudogene: copia di un segmento di DNA codificante polipeptide/i (cosiddetto ‘gene funzionale’ ) che, a causa di
una mutazione, perde la sua funzione originaria; lo pseudogene si classifica in: (a) ‘non processato o non maturato
o convenzionale’ quando: (i) è localizzato sullo stesso cromosoma del ‘gene funzionale’; (ii) origina da un evento di
duplicazione genetica; (iii) è in grado di accumulare mutazioni senza recare danno all’organismo; (b) ‘processato o
maturato o non convenzionale o retropseudogene’, quando: (i) è localizzato su un cromosoma differente da quello in
cui è contenuto il segmento di DNA codificante polipeptide/i o ‘gene funzionale’; (ii) origina da un evento di
retrotrasposizione; (iii) presenta un’elevata omologia con il trascritto con il quale condivide le caratteristiche
strutturali di sequenza.
19
24
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Il meccanismo SCI, verificandosi con una successione lineare,
genera, tra l’altro,
ripetizioni di ‘monomeri’ in tandem localizzate su uno dei due cromosomi omologhi coinvolti
quali a esempio: macro20, micro21 e minisatelliti22, nonché satelliti α23, β24, e γ25 .
5.1.1.3. DNA di ‘natura incerta’
A tale categoria di DNA, detto anche DNA ‘spaziatore’ viene ascritta quella parte del DNA
non ancora caratterizzata. Essa è rappresentata, in particolare, da sequenze ‘spaziatrici’, che, cioè,
separano i singoli segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i ma, può
anche essere interno a una sequenza di segmenti di DNA codificanti polipeptide/i. Questa frazione
del genoma è la piú variabile sia in termini di lunghezza che di composizione in basi. Tuttavia, a
oggi, rimane sconosciuta la funzione svolta all’interno del genoma. Per molto tempo, si è pensato
che questa frazione di DNA fosse esclusivamente un ‘fardello genetico’ o ‘profetico’ che
procurava all’organismo uno ‘spreco energetico’ per la sua sintesi. In realtà, questa concezione
urta violentemente contro il dato di fatto che la selezione naturale sembrerebbe non esercitare
alcun effetto nei suoi confronti. Dunque, questa cospicua frazione del genoma di ‘natura incerta’
è stata denominata anche selfish (‘DNA egoista’), intendendo che la sua esistenza è finalizzata
all’esistenza stessa, ovvero la sua funzione sarebbe tout court quella di esistere all’interno del
‘marasma genomico’.
5.2. Epigenetica
Il fenotipo di una cellula e/o di un individuo deriva dalla combinazione di due tipi di
informazione: ‘genetica’ ed ‘epigenetica’.
Le varie forme attive di RNA conferirebbero all’informazione ereditabile una dotazione o
un’arsenale di informazioni ‘epigenetiche’ quindi di veri e propri ‘marcatori epigenetici’.
20
Macrosatellite : sequenza di DNA (centinaia di kilobasi di ripetizioni nucleotidiche) ripetuta in tandem .
21
Microsatellite: breve sequenza di DNA (5 o 6 nucleotidi) ripetuta in tandem e distribuita uniformemente nel
genoma degli eucarioti.
22
Minisatellite: sequenza di DNA (10 ÷ 100 nucleotidi) ripetuta in tandem ma distribuita non uniformemente nel
genoma degli eucarioti.
23
24
25
α satellite o ‘DNA alphoide’ :sequenza ripetuta con localizzazione pericentromerica .
β satellite: sequenza ripetuta presente nei bracci corti dei cromosomi acrocentrici e nella costrizione secondaria del
cromosoma.
γ satellite: ripetizione in tandem isolata per la prima volta sul cromosoma 8 e identificata poi sul cromosoma X.
25
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Le recenti acquisizioni scientifiche evidenziano in modo sempre piú incontrovertibile
l’importanza dell’epigenetica, che può essere definita: ‘modificazioni temporanee o permanenti
dell’attività dei segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’) dovute all’effetto dei fattori
ambientali (variazioni quali- quantitative dell’ espressione dei ‘geni’)’.
La flessibilità, la dinamicità del genoma, nonché la presenza di un sistema di risposte
‘attive’ e non di informazioni ‘passive’ testimonianano la fondatezza del neolamarckismo, teoria
ripresa da E. Jablonka e M.J. Lamb (1995), secondo cui alle variazioni ereditarie propriamente
‘genetiche’ e ‘mendeliane’ si affiancano variazioni ereditarie ‘epigenetiche’ e ‘non mendeliane’
Un esempio in natura in cui la componente epigenetica svolge un ruolo principe è il
polifenismo. Si parla di polifenismo quando la variabilità è ‘agenetica’ e può essere a distribuzione
o discreta o continua, che, a sua volta, può essere o gaussiana o bi o plurimodale. Lo studio dei
sistemi polifenici può contribuire
ad accrescere
le conoscenze in merito agli effetti delle
interazioni ‘genoma-ambiente’ sui processi di sviluppo degli organismi. In natura il polifenismo è
particolarmente presente negli insetti organizzati in apposite ‘società’ (api, formiche, termiti, ecc.).
Questo polifenismo non dipende da differenze nella sequenza nucleotidica del DNA , ma
dall’espressione differenziale di gruppi di segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’)
coinvolti nello sviluppo larvale.
La comunità delle api, un’organizzazione sociale tra le piú ammirevoli, si basa sulla
suddivisione in tre caste: ape ‘regina’, ape ‘operaia’ e ‘fuco’, che sebbene esplichino funzioni ben
differenziate, si aiutano e si integrano a vicenda per la sopravvivenza della comunità. L’ ape
‘regina’ svolge la funzione unica di deporre le uova per la conservazione della specie; l’ ape
‘operaia’, definita anche ‘femmina imperfetta’ in quanto possiede l’apparato riproduttore completo
in tutte le sue parti ma atrofizzato, ha funzione ‘nutrice’, essendo l’unica abilitata fenotipicamente
alla secrezione della ‘pappa reale’; il ‘fuco’ feconda la regina per la perpetuazione della specie, ma
è privo di autonomia; pertanto, esso viene assistito e alimentato dalle operaie. Il ‘fuco’ , dopo
l’accoppiamento, che ha luogo sempre in volo (‘volo nuziale), muore per inedia a causa della
mancata somministrazione di alimenti da parte delle ‘operaie’.
In chiave di ‘genomica funzionale’, il fenomeno della differenziazione in
‘regine’ o
‘operaie’sarebbe da attribuire all’‘accensione’ o allo ‘spegnimento’ di particolari gruppi di
segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’) durante lo sviluppo larvale nelle due ‘caste’ di
api. In particolare i risultati principali (J.D. Evans e D.E. Wheeler, 2000) evidenziano che:
(a) fino al secondo stadio larvale
i profili di espressione dei segmenti di DNA
codificanti o polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i sono simili nelle larve destinate a diventare
‘regine’ e in quelle destinate a diventare ‘operaie’; le uniche differenze si evidenziano a carico dei
26
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
segmenti di DNA codificanti enzimi coinvolti nella disattivazione degli ormoni steroidei, con
valori di attività di espressione piú elevati nelle larve destinate a diventare ‘operaie’
(b) a partire dal terzo stadio larvale le differenze di espressione dei segmenti di DNA
codificanti o polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i tra ‘regine’ e ‘operaie’ interesserebbero un
numero maggiore di segmenti di DNA codificanti o polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i, con
particolare riguardo a quelli coinvolti nell’accumulo di sostanze nutritive (aminoacidi)
e nel
metabolismo
(c) durante l’ultimo stadio larvale la ‘regina’, in coincidenza con il maggiore tasso di
accrescimento, presenta, rispetto alle ‘operaie’, livelli di espressione piú elevati per un gruppo di
segmenti di DNA codificanti proteine cuticolari.
In generale, le larve destinate a diventare ‘regine’ sembrerebbero attivare un insieme di
segmenti di DNA codificante polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i distinto, legati alla ‘casta’,
mentre le api destinate a diventare ‘operaie’ continuerebbero a esprimere quei segmenti tipici
della fase giovanile di larva. Tali differenze di espressione dei segmenti di DNA codificanti
polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i sarebbero dovute all’alimentazione (determinismo
trofogenetico delle caste): le future operaie sono nutrite, con la ‘pappa reale’ solo nei primi 2
giorni di vita, mentre la futura regina è sempre alimentata con ‘pappa reale’.
Importanti meccanismi epigenetici di regolazione dell’attività trascrizionale dei segmenti
di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’) risiedono nella:
(a) metilazione del DNA, che comporta una inibizione dell’attività trascrizionale di un
segmento di DNA [‘spegnimento’ dell’attività del segmento di DNA codificante polipeptide/i
(‘gene’) ]
(b) acetilazione delle proteine istoniche, la quale rende i segmenti di DNA a esse
associate accessibili agli enzimi deputati alla trascrizione [‘accensione’ dell’attività del segmento
di DNA codificante polipeptide/i (‘gene’)].
Con il meccanismo di metilazione il DNA non viene modificato nella sequenza delle sue
basi ma nella sua espressione in rapporto a influenze ambientali; in taluni casi i sistemi
epigenetici sarebbero capaci di trasmettere ‘l’informazione affluente dall’ambiente alle
generazioni successive senza che questa sia erasa
Tali meccanismi epigenetici sono responsabili dell’esistenza di:
(a) segmenti di DNA codificanti polipeptide/i che si esprimono in ‘tutti i tessuti’
(‘geni housekeeping o costitutivi’ ); tali segmenti sono sempre ipometilati e iperacetilati
27
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
(b) segmenti di DNA codificanti polipeptide/i che si esprimono solo in ‘alcuni tessuti’
( ‘geni differenzialmente espressi’) ; tali segmenti sono ipermetilati e ipoacetilati nel tessuto in
cui non si esprimono e ipometilati e iperacetilati nel tessuto in cui si esprimono.
L’esistenza dei suddetti ‘nuovi livelli’ di informazione distinti da segmenti di DNA codificanti
polipeptide/i (‘geni’) è strettamente connessa ad alcune espressioni fenotipiche che interessano, tra
l’altro, anche le specie di interesse zootecnico. Un esempio è rappresentato dall’espressione
fenotipica ‘callipige’ (callipige’ (aòs = bello e ’ = natica) nell’ovino; trattasi di una
espressione fenotipica la cui trasmissione ereditaria fa eccezione alle leggi mendeliane e che
viene denominata ‘superdominanza polare’ nel senso che quest’ultima si manifesta solo in
soggetti eterozigoti che hanno ereditato l’allele ‘mutato’ dal padre.
Fondamentalmente, il comportamento non conforme alla genetica mendeliana di tale
espressione fenotipica può essere considerato il risultato dei seguenti tre eventi biologici (Bidwell
et al., 2004):
(a) una mutazione in una regione del DNA non codificante (‘intergenica’)
appartenente a
un cluster di segmenti di DNA codificanti o polipeptide/i (‘geni’) o ‘non
polipeptidi’, sottoposto a imprinting, localizzato all’estremità distale del cromosoma 18
(b) l’imprinting parentale: fenomeno di natura epigenetica per cui alleli con sequenza
identica si esprimono in modo diverso a seconda del genitore da cui derivano; effetto
dell’imprinting è la ‘disattivazione’ o lo ‘spegnimento’ del segmento di DNA materno, per cui la
mutazione presente sul cromosoma ereditato dalla madre non si esprime; ciò spiegherebbe sia
perché il fenotipo callipige si manifesta solo se ereditato dal padre saltando una generazione
quando trasmesso dalla madre, sia la riattivazione dell’allele ereditato dalla madre durante il
passaggio attraverso la linea germinale paterna; in sostanza, è all’imprinting che si attribuisce
l’evento di polarità della mutazione; errori nell’imprinting spiegherebbero la presenza di circa il
5% di soggetti, i quali, pur presentando un allele mutato di origine paterna, sono fenotipicamente
normali
(c) RNA attivi, con funzione di censura, codificati da segmenti di DNA codificante
polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i posti sul cromosoma materno; questi ultimi hanno come
effetto la ‘disattivazione’ o lo
‘spegnimento’ dell’allele mutato ereditato dal padre negli
omozigoti per l’allele mutato; ciò spiegherebbe l’effetto di superdominanza.
5.3. Integrazione fra ‘genomica funzionale ’ e ‘proteomica’
L’approccio classico allo studio dei fenomeni biologici è sempre stato quello di studiare e
di affrontare le problematiche in maniera indipendente: studio del singolo segmento di DNA
28
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
codificante o ‘polipeptide/i’ (‘gene’) o ‘non polipeptid/i’ e studio
del singolo ‘polipeptide’; in
realtà, il comportamento di queste macromolecole è collegato e integrato a quello di numerosi altri
fattori nel contesto di reti biologiche; esse vanno quindi studiate come componenti insostituibili
di una vera e propria ‘rete di informazione’.
L’approccio integrato ‘genoma – proteoma’ rappresenta un valido strumento per la
tipizzazione della ‘biodiversità’, consentendo la identificazione e la caratterizzazione di
biomarcatori molecolari di ‘unicità’ genetica (a livello di singolo individuo) e di ‘specificità’ (a
livello di prodotto); questi biomarcatori sono alla base della conoscenza di effetti diversificati che
possono interessare la qualità ‘nutrizionale’ ed ‘extranutrizionale’ degli alimenti, nonché il livello
di sicurezza alimentare degli stessi.
La genomica funzionale, avvalendosi della tecnica del DNA microarray o DNA microchip
26
[matrice di segmenti di DNA codificanti o polipeptide/i
(‘geni’) o non polipeptide/i che
consente di indagare simultaneamente, in una data specie, il profilo di espressione (attività) di un
‘repertorio’ completo di tali segmenti di DNA], contribuisce all’individuazione della specificità
‘nutrizionale’ e/o ‘extranutrizionale’ di ‘biomolecole’ presenti nei vari alimenti.
Dal confronto dei profili di espressione dei segmenti di DNA codificanti o polipeptide/i
(‘geni’) o ‘non polipeptide/i
entro la ‘matrice’ e tra le ‘matrici’, è possibile individuare
TG/TGAA o gruppi di soggetti entro il TGA/TGAA portatori di genotipi e /o aplotipi favorevoli
per quanto attiene alle caratteristiche produttive, oppure individuare particolari condizioni
ambientali che influenzano positivamente l’espressione di
segmenti di DNA coinvolti nel
determinismo delle caratteristiche quanti-qualitative della materia prima di origine animale. In
questo modo è anche possibile individuare TGA/TGAA o gruppi di soggetti caratterizzati da una
maggiore eterogeneità genetica quindi portatori, di alleli ‘vantaggiosi’ per un dato locus.
Le principali motivazioni biologiche della necessità di integrare la ‘genomica’ con la
‘proteomica’ sono (D. Matassino e M. Occidente, 2003; D. Matassino et al., 2005) :
(a) da un unico segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ (‘gene’) si può generare
un elevato numero di forme proteiche con differente funzione metabolica (anche di breve durata);
pertanto, l’assioma ‘un gene – una proteina’ non è sempre valido
(b) da un segmento di DNA codificante ‘polipeptide/i’ (‘gene’) è possibile determinare
la relativa sequenza aminoacidica, ma non la struttura terziaria e quaternaria, né le modificazioni
post-traduzionali e quindi, in ultima analisi, la funzione.
26
Tale tecnica si basa sull’ibridazione di sequenze oligonucleotidiche distribuite su una piccola superficie solida con
una soluzione di segmenti di DNA marcati con fluorocromi; la fluorescenza emessa dall’ibridazione è indicatrice
.
della presenza di segmenti di DNA funzionalmente espresso (‘acceso’) o ‘attivi dal punto di vista trascrizionale’
29
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
Una promettente applicazione dell’integrazione ‘genomica’ e ‘proteomica’, nel caso di proteine
non presenti in banca dati, potrà essere quella di procedere alla caratterizzazione della struttura
primaria della proteina per l’identificazione della corrispondente regione codificante presente sul
DNA [‘dalla proteina al segmento di DNA codificante (‘gene’ )]; tale identificazione prevede:
(a) costruzione
di
primer
nucleotidici
specifici
sulla
base
della
sequenza
amminoacidica determinata
(b) ibridazione dei primer con sonde di DNA (DNA microarray)
(c) amplificazione mediante reazione a catena della polimerasi della regione
codificante identificata
(d) clonaggio e sequenziamento del segmento di DNA codificante il polipeptide
La possibilità di identificare una proteina attraverso la ricostruzione della sequenza
nucleotidica che la codifica conferma la necessità di integrazione tra ‘genomica’ e ‘proteomica’,
le quali possono ormai essere considerate i pilastri delle future strategie del miglioramento
genetico; tali strategie dovranno sempre piú concretizzarsi in linee di ricerca identificabili in una
visione di vero e proprio sviluppo della ‘biologia dei sistemi’. Trattasi quindi di un nuovo
approccio mirante a caratterizzare i sistemi biologici dinamicamente nel tempo e nello spazio con
l’obiettivo di individuare marcatori molecolari utili ai fini del miglioramento delle caratteristiche
produttive degli animali di interesse zootecnico e quindi della qualità alimentare.
La conoscenza e l’utilizzo del DNA ‘regolativo’, che si esprime sia attraverso varie forme
di ‘RNA’ non tradotto in proteina, sia attraverso ‘RNA’ tradotto in proteina, potrebbero
consentire in un futuro, di ottenere un alimento con un contenuto quali-quantitativo ottimale di
biomolecole ‘nutrizionali’ e/o ‘extranutrizionali’. In un quadro d’insieme si può dire che
probabilmente, se non certamente, l’attuale impostazione del miglioramento genetico degli
animali di interesse zootecnico subirà profonde innovazioni, se non sconvolgimenti, sotto l’aspetto
‘dottrinale’ e ‘operativo’ specialmente alla luce delle continue scoperte sul funzionamento
dell’RNA.
6. Conclusioni
1. Uno sviluppo rurale integrale e integrato è e deve essere considerato il risultato di un
intervento globale.
2. Una forte interdipendenza fra ambiente e sviluppo ecosostenibile dovrà essere sempre piú
realizzata.
3. Qualsiasi essere vivente, nella fattispecie di interesse zootecnico, è sempre un passo piú
avanti di quelle che sono le conoscenze dell’uomo su di esso; qualunque essere vivente, in
30
DM 413. VII Conv. Naz. Biodiversità. CT, 30.III-2.IV.05
‘chiave cibernetica’ (sistemica) può essere definito ‘un sistema biologico, aperto, dinamico,
vincolato, neghentropico’.
4.
Tutti i tipi genetici autoctoni, specialmente antichi, sono fortemente da rivalutare per il
loro grande e insostituibile contributo in qualità di ‘traduttori’ di ‘biomolecole’ in quanto
capaci di trasformare le molecole presenti nel foraggio, non adatte all'utilizzazione diretta da
parte dell'uomo, in molecole ‘biodisponibili’ per l’uomo stesso nel latte e nella carne e loro
derivati .
5.
In questo contesto sempre piú enfasi bisogna dare ai ‘sistemi territoriali’ o ‘bioregionali’e
al loro sviluppo (fig.1).
6.
Un Prodotto Tradizionale Tipizzato Etichettato (PTTE) riveste un ruolo fondamentale per
la sostenibilità salutistica e sanitaria sia per l’uomo che per il territorio, con riflessi positivi
anche sulla sostenibilità economica (fig.2).
7.
Un PTTE, per il suo contenuto in biomolecole ‘nutrizionali’ ed ‘ extranutrizionali’,
contribuisce al raggiungimento di un dinamico stato di benessere fisico, psichico e sociale
dell’uomo (human welfare state e wellbeing) (fig. 3).
8.
Ai fini salutistici dell' uomo, il quadrinomio: “area geografica o ‘bioregione’ tipo
genetico autoctono - ‘prodotto tradizionale tipizzato etichettato’ - benessere uomo” (fig. 4)
deve assurgere a sempre maggiore importanza.
9.
E’ necessario stabilire un approccio integrato ai sistemi di allevamento a sostegno dello
sviluppo sostenibile; tale approccio considera la zootecnia sia come “sistema produttivo sia
come “sistema di attività umana”.
10. Cio’ che era stato interpretato come ‘DNA spazzatura’ (‘genoma invisibile’) solo perché
non se ne capiva la funzione, potrebbe rivelarsi la vera base della ‘complessità’ dell’essere
vivente.
11. Il non riconoscere l’importanza degli introni potrebbe finire con il rivelarsi uno dei piú
grandi errori nella storia della biologia molecolare.
12. Le recenti acquisizioni scientifiche evidenziano in modo sempre piú incontrovertibile
l’importanza dell’epigenetica; per tale motivo è necessario caratterizzare la ‘specificità’ di un
PTTE attraverso l’approccio della proteomica in senso ‘lato’ e della genomica funzionale, che
consentono di analizzare le variazioni dell’attività di espressione dei segmenti di DNA
codificanti o polipeptide/i (‘geni’) o non polipeptide/i in relazione ai fattori ambientali.
13. La genomica, la proteomica e la lipidomica permettono
di individuare specifici
biomarcatori di ‘tracciabilità’ e di ‘rintracciabilità’.
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14. Un PTTE, fra l’altro, deve soddisfare l’ ‘etica di produzione’, che si concretizza nel
benessere animale opportunamente certificato.
15. Le élite politiche e istituzionali, la ricerca scientifica e la cultura sono sempre piú
coinvolte nell’individuare una dinamica organizzazione di vita inserita integralmente nei vari
‘sistemi locali’.
16. Risultano indispensabili l’ integrazione e la cooperazione tra scienza, politica, economia
ed etica.
17. Viviamo in una società il cui programma principe è la soddisfazione di tutti i desideri con
una corsa frenetica verso la saturazione che può significare 'pienezza' anche del pensiero. Lo
strumento principe per ridurre, se non evitare, questa 'pienezza' del pensiero è la 'palestra' di
formazione e sviluppo delle idee: la scuola di ogni ordine e grado. Solo in essa è possibile far
sviluppare le forme nobili della inquietudine del pensiero di cui era pervaso Sant'Agostino
('inquietum cor nostrum').
18. Parafrasando San Bernardo (1139), che si rivolgeva ai monaci benedettini di Saint Bertin,
si può affermare che “Il nostro progresso non consiste nel presumere di essere arrivati, ma
nel tendere continuamente alla meta”.
19. Mi piace concludere con una espressione ripresa da Science: “La vita è un miracolo……..,
aspettando di essere scoperta” (fig. 5).
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