QUATTRO COORDINATE DELLA RIFORMA DELLE SUPERIORI
1) IL CONFRONTO CON LA “RIFORMA GENTILE” DEL 1923
La pedagogia gentiliana non considerava i soggetti empirici, bensì l’atto dello Spirito, nel quale
trovano giustificazione il maestro e il discepolo, l’educatore e l’educando, il rapporto tra i quali
è assorbito nell’unicità dell’atto educativo. Di conseguenza, il maestro quando insegna, insegna
a se stesso identificandosi nello scolaro; e l’alunno non impara dal maestro, ma ricrea
all’interno di se stesso la lezione del maestro. Lo Spirito si realizza nell’arte, nella religione e,
massimamente, nella filosofia. La riforma del ’23 ritiene, dunque, il ginnasio-liceo classico, con
la sua formazione centrata sulle materie letterarie e la filosofia, la scuola superiore principale,
rispetto alla quale tutte le altre non sono che inferiori e parziali imitazioni. Solo i diplomati del
liceo classico avrebbero potuto frequentare tutte le facoltà universitarie.
La prima forma di smantellamento dell’impianto gentiliano fu l’istituzione della scuola media
unica (1963) fondata sul presupposto che “la scuola del preadolescente ha da essere
orientativa”. Poi venne la "liberalizzazione" dell’accesso a tutte le facoltà universitarie, di tutti i
diplomati, qualunque fosse la scuola superiore di provenienza (L.910/69).
Infine, con le sperimentazioni degli anni ’70 muta il concetto stesso di licealità che non si fonda
più sul possesso di specifiche abilità disciplinari, quanto piuttosto sulla correlazione tra le varie
discipline.
L’attuale riforma sposa il criterio di “un denominatore identitario comune all’istruzione liceale
italiana” imperniato su “tre materie chiave: l’italiano, la lingua straniera, la matematica” (cfr:
La Nuova Secondaria Superiore, slides Miur). La scelta di una licealità che non ha come
riferimento esclusivo le materie classiche è erede della propensione ad individuare la cifra
liceale nella capacità di acquisire un metodo “per una comprensione approfondita della realtà”,
e di interpretare il mondo tramite il linguaggio, piuttosto che di padroneggiarlo mediante la
filosofia.
2) LA PARI DIGNITA’ DEI PERCORSI
La nozione è introdotta dal DL 226/2005 (Riforma Moratti): “Il secondo ciclo del sistema
educativo di istruzione e formazione è costituito dal sistema dei licei e dal sistema
dell'istruzione e formazione professionale”. In virtù di questa parità e del titolo V della
Costituzione, la riforma Moratti aveva previsto il passaggio degli istituti tecnici nell’area liceale
(licei tecnologico ed economico) e la creazione di un “secondo canale” dell’istruzione e
formazione professionale affidato alle regioni. La legge 40/2007 (Ministro Fioroni) ha restituito
una identità propria agli istituti tecnici e reso quinquennale e statale tutta l’istruzione
professionale (salvo accordi con le regioni finalizzati al conseguimento di qualifiche e diplomi
professionali di loro competenza).
Nel quadro dell’attuale riassetto del sistema di istruzione, gli istituti tecnici conseguono
indubbiamente una identità forte (11 indirizzi) che li rende competitivi rispetto ai 6 licei. Essi
sono presentati come “presidio della cultura tecnologica”: comprendono un'area generale
comune (non presente nei licei) e aree di indirizzo, di modo che alla fine del quinquennio gli
alunni in uscita dovrebbero essere in grado di “padroneggiare l’uso di strumenti tecnologici”,
nonché di “utilizzare, in contesti di ricerca applicata, procedure e tecniche per trovare soluzioni
innovative e migliorative” (dal Profilo per gli Istituti tecnici). Chiaramente la tecnica è piegata
alla tecnologia in virtù di un disegno complessivo che cerca di connettere la scuola alle
professioni oggi più ricercate: “Il rilancio dell’istruzione tecnica risponde alla crescente
domanda di diplomati in possesso di aggiornate competenze tecniche di livello intermedio” (La
Nuova Secondaria Superiore).
Per quanto concerne i nuovi professionali, essi sono “cerniera” tra il sistema della istruzione e
quello della istruzione e formazione professionale. Non ancora un secondo canale, ma una via
di mezzo che Stato e Regioni dovranno mettere a punto per non deludere tante aspettative.
3) L’AUTONOMIA
L’autonomia scolastica si inquadra nella Legge Bassanini del 15 marzo 1997, n. 59 (“Delega al
Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della
Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”). Scopo della legge era di
riformare la pubblica amministrazione ridefinendo i rapporti tra Stato, Regioni e autonomie
locali, nonché di semplificare e riorganizzare le procedure amministrative introducendo dosi di
decentramento e delegificazione.
La cultura normativa propria della Bassanini è incentrata sulla logica del decentramento, che
implica il trasferimento di alcuni poteri dal centro alla periferia, e sulla nozione di autonomia
funzionale: è l’amministrazione statale che legittima determinati enti ad esercitare funzioni di
carattere generale. L’autonomia scolastica, così come configurata nel Dpr 8 marzo 1999 n.
275, è appunto di tipo funzionale.
La riforma amplia (almeno sulla carta) l’autonomia degli istituti scolastici attribuendo ai licei
una quota dei piani di studio (20% del monte ore complessivo nel primo biennio, 30% nel
secondo biennio e 20% nel quinto anno) con la quale adattare i curricoli alle esigenze
dell’offerta formativa e potenziare, entro certi limiti, l’organico di diritto.
All’autonomia, tecnici e professionali affiancano la flessibilità (intesa come possibilità di
articolare in opzioni le aree di indirizzo). Tecnici: fino al 30% dell’orario annuale nel secondo
biennio e al 35% nell’ultimo anno. Professionali: fino al 35% nel secondo biennio e al 40%
nell’ultimo anno. Una quota di flessibilità, pari al 25% dell’orario annuale, è prevista anche nel
primo biennio per realizzare percorsi in regime di sussidiarietà nelle Regioni per il rilascio delle
qualifiche e dei diplomi professionali
La condizione posta è che l’uso delle quote non determini esuberi di personale.
Altro spunto di novità: risulta più marcata la possibilità delle scuole di distinguere l’unità
didattica oraria (UDO) dal tempo di presenza in aula degli alunni (TPA). La riforma fissa i tetti
massimi del monte-ore annuale obbligatorio e dell’orario settimanale calcolato su UDO di 60’,
lasciando libere le scuole di definire UDO anche più brevi, purché sia garantito il TPA assegnato
al corso di studi.
4) TRADIZIONE E INNOVAZIONE
Si tratta di un’altra cifra della riforma molto esibita nei documenti, secondo i quali i nuovi
istituti tecnici e professionali rappresentano i centri dell’innovazione, mentre i licei combinano
tradizione e innovazione (pochi cambiamenti al classico, maggiori novità negli altri percorsi
liceali).
Sarebbe un peccato che della tradizione (“possibilità di comprensione critica del presente”, dal
Pecup dei licei) si privassero gli alunni che intraprendono percorsi più attinenti alla professione
e al lavoro; così come fossero estranei all’innovazione, intesa non solo come innovazione
tecnologica, ma anche e soprattutto come innovazione metodologica (collegamento con il
mondo del lavoro e della cultura superiore) i ragazzi liceali.
In ultima istanza, il lato più tradizionale della riforma sembra essere l’esplicitazione del nesso
tra conoscenze e competenze come maturazione delle seconde mediante una buona
assimilazione delle prime: le indicazioni nazionali avranno il compito di rinsaldare questo
legame fornendo nuclei disciplinari essenziali e coerenti.
Mentre il lato più innovativo è rappresentato dall’introduzione del Comitato tecnico-scientifico
negli istituti tecnici e professionali, composto da docenti e da esperti del mondo del lavoro,
delle professioni e della ricerca scientifica e tecnologica, con l’obiettivo di rafforzare il raccordo
tra gli obiettivi educativi della scuola, le esigenze del territorio e i fabbisogni professionali
espressi dal mondo produttivo. Un modello analogo e con le medesime attribuzioni – il
Comitato scientifico – è previsto anche per i licei.